EUGENIO COLORNI

Eugenio Colorni nasce a Milano il 22 aprile 1909 da genitori ebrei. Il padre Alberto è un imprenditore commerciale di origine mantovana, la madre Clara Pontecorvo è di famiglia pisana (il fisico nucleare Bruno e il regista cinematografico Gillo sono figli di un suo fratello). Nella formazione di adolescente di Eugenio ‑ come racconta egli stesso nella Malattia filosofica ‑ conta molto il rapporto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti maggiori di lui. Enzo in particolare, socialista e sionista convinto, esercita una forte influenza ideale e religiosa, tanto che a quattordici anni Eugenio si avvicina per breve tempo al sionismo. Durante il liceo ‑ frequenta il Manzoni di Milano si appassiona al Breviario di estetica di Benedetto Croce. Nel 1926 si iscrive alla facoltà milanese di Lettere e filosofia: i suoi insegnanti prediletti sono Giuseppe Antonio Borgese e Piero Martinetti, col quale si laurea in filosofia nel 1930 discutendo una tesi su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano (a Leibniz dedicherà in seguito la maggior parte dei suoi studi). Risale agli anni universitari l’amicizia con Guido Piovene, poi giornalista e scrittore, che s’interromperà bruscamente nel 1931 a causa di alcuni articoli antisemiti pubblicati da Piovene su “L’Ambrosiano”. In quel periodo partecipa all’attività dei Gruppi goliardici per la libertà di Lelio Basso e Rodolfo Morandi. Nel 1928, con lo pseudonimo di G. Rosenberg pubblica su “Pietre”, la rivista di Basso, un articolo sull’estetica di Roberto Ardigò. Nel 1930 si accosta al gruppo milanese di Giustizia e Libertà; collabora in seguito col nucleo giellista torinese, che fa capo prima a Leone Ginzburg e poi a Vittorio Foa. Nel 1931 compie un viaggio di studi a Berlino: oltre a incontrare Benedetto Croce e discutere con lui, conosce la giovane ebrea berlinese Ursula Hirschmann, che sposerà nel 1935 e dalla quale avrà tre figlie (Silvia, Renata, Eva). Dal 1931 comincia a scrivere recensioni e articoli per “Il Convegno”, “La Cultura”, “Civiltà moderna”, “Solaria” e la “Rivista di filosofia” di Martinetti. Nel 1932 pubblica L’estetica di Benedetto Croce. Studio critico (Società editrice “La Cultura”, Milano). Nel 1932-33 è lettore d’italiano all’Università di Marburgo; con l’avvento del nazismo torna in Italia. nel 1933, conclusa la tesi di perfezionamento su La filosofia giovanile di Leibniz, vince il concorso per l’insegnamento di storia e filosofia nei licei; dopo una prima assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, nel 1934 ottiene la cattedra di filosofia e pedagogia all’istituto magistrale Carducci di Trieste; qui conosce e frequenta, fra gli altri, Umberto Saba (ritratto poi in Un poeta), Pier Antonio Quarantotti Gambini, Bruno Pincherle e Eugenio Curiel. Nel 1934, nella collana scolastica che Giovanni Gentile dirige per Sansoni, pubblica una traduzione della Monodologia di Leibniz, preceduta da una lunga introduzione: Esposizione antologica del sistema leibniziano. Come scrive Eugenio Garin, “Leibniz lo costringe ad affrontare studi di logica e di matematica, a rimettere in discussione il modo stesso di concepire la scienza, e i rapporti fra scienza e filosofia. […] Ripartì da Kant e dalla problematica kantiana, e meditò sulle conseguenze che la fisica teorica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali”. Quando, come si legge in Un poeta, Umberto Saba gli domanderà “perché fa filosofia?”, Colorni conclude: “Da quel giorno, io non faccio più filosofia”. “In realtà non era la filosofia che rifiutava, ma un orientamento legato a quell’idealismo di cui erano seguaci […] Croce come Gentile e Martinetti” (Garin). Intensifica intanto l’impegno politico e l’attività antifascista. Quando gli arresti del maggio 1935 annientano il gruppo torinese di Giustizia e Libertà, prende contatto con il Centro interno socialista creato a Milano nell’estate del 1934 da Rodolfo Morandi, Lelio Basso, Lucio Luzzato, Bruno Maffi e altri. Nell’aprile del 1937, dopo gli arresti di Luzzato e Morandi, Colorni diventerà uno dei principali dirigenti del Centro. Nell’estate del 1937, in occasione del IX Congresso internazionale di filosofia, incontra a Parigi Carlo Rosselli, Angelo Tasca, Pietro Nenni e altri esponenti della direzione del Psi. Con vari pseudonimi, ma soprattutto con quello di Agostini, nel 1936-37 pubblica importanti articoli su “Politica socialista” e sul “Nuovo Avanti”. L’8 settembre 1938, all’inizio della campagna razziale, è arrestato a Trieste come ebreo e antifascista militante: in ottobre vengono pubblicati contro di lui, sul “Piccolo” di Trieste e sul “Corriere della Sera”, alcuni articoli di particolare livore antisemita. Dopo qualche mese di carcere a Varese, viene condannato a cinque anni di confino. Dal gennaio 1939 all’ottobre 1941 è nell’isola di Ventotene, dove prosegue i suoi studi filosofico-scientifici e discute intensamente con gli amici confinati, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria e Altiero Spinelli: un’eco fedele di quelle discussioni si ritrova nei sette Dialoghi di Commodo, scritti in collaborazione con Spinelli e pubblicati postumi. E’ di questo periodo la sua adesione alle idee federaliste, elaborate soprattutto da Spinelli e Rossi (nel 1944, con una sua prefazione, Colorni pubblicherà a Roma il Manifesto di Ventotene, redatto da Rossi e Spinelli nel 1941). Nell’ottobre del 1941, grazie anche all’intervento di Giovanni Gentile, ottiene di essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza. Nel 1942, insieme con Ludovico Geymonat, elabora il progetto di una rivista di metodologia scientifica. Il 6 maggio 1943 riesce a fuggire a Roma ed entra in clandestinità. Si dedica all’organizzazione del Psiup, nato dalla fusione del Psi col gruppo giovanile del Movimento di unità proletaria. Il 27-28 agosto partecipa a Milano, in casa di Mario Alberto Rollier, alla riunione che dà vita al Movimento federalista europeo. Dopo l’8 settembre svolge a Roma un’intensissima attività nella resistenza: fa parte della direzione del Psiup, è redattore capo dell’”Avanti!” clandestino, s’impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione giovanile socialista e nella creazione della prima brigata partigiana Matteotti. Il 28 maggio 1944, pochi giorni prima della liberazione di Roma, viene fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della banda Koch: tenta di fuggire, ma è inseguito in un androne e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all’Ospedale San Giovanni, muore il 30 maggio sotto la falsa identità di Franco Tanzi. a cura di …

ARGENTINA ALTOBELLI

Argentina Altobelli è incredibilmente rimasta nell’ombra della storiografia ufficiale, pur essendo stata una protagonista delle prime lotte sociali, una convinta sostenitrice dell’emancipazione femminile, tra i fondatori della prima organizzazione sindacale agricola, della Cassa Nazionale Assicurazioni Sociali (che è poi diventata l’Inps). Con Decreto Luogotenenziale del 19 giugno 1919 viene riconfermata a far parte del Consiglio Superiore della Previdenza e delle assicurazioni in rappresentanza dei lavoratori agricoli, unitamente a Bruno Buozzi e Ernesto Barengo. Argentina Altobelli, una dirigente sindacale di primo piano, non ha avuto i riconoscimenti che ha così ampiamente meritato soprattutto perché si è impegnata a favore di donne e di uomini, contadini, mezzadri, braccianti tenuti ai margini della società, allora, e forse tuttora poco considerati anche nel contesto della “lotta di classe”che cominciava a prendere forma in quegli anni. E’ anche probabile che la “distrazione” degli storiografi “ufficiali” della sinistra italiana sia stata e sia una sorta di vendetta politica contro il riformismo di Argentina Altobelli, che non risparmiò certo critiche e polemiche agli errori e all’arroganza dei massimalisti che cominciavano a egemonizzare il socialismo e il sindacalismo italiani. Fin dal 1918, infatti, Argentina Altobelli contestò fermamente ai socialisti massimalisti (divenuti, di lì a poco, i comunisti della scissione di Livorno), l’antica e pedissequa velleità di imitare la allora recentissima rivoluzione Sovietica. Si oppose, pertanto, all’espropio generalizzato e indiscriminato di terre da distribuire ai contadini, proponendo invece che espropriate fossero le terre incolte, da mettere a frutto affidandole al lavoro collettivo di braccianti e contadini. I massimalisti reagirono tentando di mettere in dubbio le capacità organizzative di Argentina Altobelli e, quindi, il suo titolo a dirigere la Federterra, arrendendosi soltanto all’evidente constatazione per cui, nel 1920, la Federterra organizzava circa 900.000 dei 2.200.00 iscritti alla CGdL. Ma, agli occhi dei massimalisti in procinto di divenire comunisti, Argentina Altobelli fu soprattutto colpevole di non aver aderito all’ondata di scioperi politici, che nel “biennio rosso” 1919-1920, nell’illusione di importare in Italia la allora neonata “Repubblica dei Soviet”, agitò l’industria italiana, culminando nella “storica” (e sindacalmente perdente) occupazione della Fiat. La cultura politica, condita di non poco settarismo, di chi all’epoca criticò e combatté il riformismo di Argentina Altobelli ha ispirato e condizionato molta, troppa parte della storiografia “ufficiale” del movimento operaio italiano. Facendo ad Argentina Altobelli un “torto storico” cui la Fondazione Argentina Altobelli e la Uila, per come possono, intendono riparare, recuperando agli studi e al dibattito sul sindacalismo agricolo, la storia, le idee, le proposte, le battaglie e le sofferenze di una donna, dirigente sindacale e socialista riformista, quale fu Argentina Altobelli. La terza motivazione è legata al personaggio “Argentina Altobelli”, al suo entusiasmo, ancora contagioso, nell’affrontare le traversie della vita, alla tenacia che le consentì di conseguire tanti risultati positivi per i lavoratori. Dalla sua biografia emerge non solo una grande sindacalista, ma anche un esempio di come l’impegno sindacale sia stato vissuto senza nulla togliere al suo ruolo di donna, di moglie e di madre. Argentina Altobelli intuì già all’inizio del secolo scorso due grandi verità, che solo a distanza di molti decenni il movimento operaio avrebbe fatto proprie: innanzitutto che la sinistra politica e sindacale non potevano avanzare sulla strada delle conquiste sociali e politiche se non fosse riuscita a coinvolgere anche le donne e poi che le lotte sindacali non potevano essere fine a se stesse, ma dovevano essere strettamente collegate alla realtà politica, sociale ed economica del momento. È sorprendente trovare nei suoi scritti di inizio secolo la convinzione che il ruolo del sindacato, la tutela positiva dei diritti dei lavoratori sia “un problema complesso che coinvolge moltissimi altri problemi economici, politici, morali”. E che pertanto “il sindacato senza abbandonarsi alla impulsività di scioperi improvvisi e tumultuosi … deve prima pazientemente discutere le condizioni dell’industria e dell’agricoltura”. Insomma incontrando sui libri Argentina Altobelli, apprezzando il suo modo di pensare e di fare il sindacato, condividendo le sue scelte a favore di un sindacalismo laico e riformista, svolto solo nell’interesse dei lavoratori ci è sembrato di incontrare … una di noi, una della Uila» Fonte: Fondazione Argentina Altobelli SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ANTONIO GIOLITTI

Antonio Giolitti, antifascista e partigiano, ha svolto un ruolo centrale nella storia italiana del dopoguerra nella sua triplice figura di dirigente politico, di governante e di intellettuale della sinistra. Deputato alla Costituente e nelle due prime legislature repubblicane per il PCI, nel 1957 ha aderito al PSI, partito per il quale è stato deputato dal 1958 al 1979. Sostenitore del centrosinistra, fautore di una politica come costruzione di una società progressivamente migliore e strenuo ideologo di una programmazione del sistema economico mutuata dalle teorie di Keynes e della scuola di Cambridge, è stato ministro del Bilancio nel I gabinetto Moro, del Bilancio e della Programmazione economica nel III gabinetto Rumor e nel governo Colombo, di nuovo del Bilancio nel IV e V gabinetto Rumor. Commissario CEE (1977-85), eletto senatore come indipendente nelle liste del PCI nel 1987, nel 1992 si è ritirato dalla politica attiva. Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2006). Nipote dello statista liberale Giovanni Giolitti, quasi destinato alla politica per tradizione familiare, nel 1937 si è laureato in Diritto civile presso l’Università La Sapienza di Roma, trasferendosi due anni dopo a Torino per lavorare nella fabbrica di lime dello zio Federico e stringendo amicizia con intellettuali quali L. Geymonat, C. Pavese, N. Bobbio e G. Einaudi. In questi anni Giolitti ha iniziato a interessarsi alla politica, frequentando a Roma il gruppo di Giustizia e libertà ed entrando in contatto nel 1940 con il gruppo dei giovani comunisti, tra cui A. Trombadori, A. Amendola e P. Ingrao. Parallelamente alla sua attività politica, G. ha costruito una solida collaborazione con la casa editrice Einaudi, che nel 1943 aveva aperto la sua sede a Roma e per la quale aveva già tradotto opere dal tedesco. Nei mesi precedenti la caduta del fascismo ha iniziato ad assumere un ruolo militante nel PCI, e dopo l’8 settembre, con P. Colajanni, ha organizzato le prime bande partigiane tra Barge, Cavour e il Monte Bracco. Tornato a Roma nel 1945, Togliatti lo ha incaricato del “rapporto con gli intellettuali” nell’ambito dell’ufficio propaganda della direzione del partito; eletto membro dell’Assemblea costituente nel 1946, è stato deputato del PCI dal 1948 al 1957, quando, in forte polemica con la dirigenza del partito, se ne è dimesso dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, approdando tra le fila del Partito socialista per il quale è stato deputato dal 1958 al 1979. Sostenitore del centrosinistra, profondamente impegnato nel dibattito politico e culturale di quegli anni, è stato ministro del Bilancio nel I gabinetto Moro (dicembre 1963 – luglio 1964), del Bilancio e della Programmazione economica nel III gabinetto Rumor e nel governo Colombo (marzo 1970 – febbraio 1972), di nuovo del Bilancio nel IV e V gabinetto Rumor (luglio 1973 – novembre 1974), trovandosi a fronteggiare complesse congiunture economiche che lo hanno visto elaborare un approccio di tipo “socialdemocratico” nella volontà di definire un metodo democratico atto a garantire una coesione egualitaria della società. Nel 1977, sentendosi emarginato all’interno del Psi e interessato dalla possibilità di lavorare per la Comunità Europea, ha accettato l’incarico per due mandati come commissario europeo per la Politica Regionale, ruolo ricoperto fino al 1985, non cessando di interessarsi alla vita politica italiana ed esprimendo critiche verso la deriva partitocratica del PSI che lo avrebbero portato a rompere con questa formazione politica. Nel 1987 è stato eletto senatore nel gruppo misto con il PCI; nel 1992, a fine mandato si è ritirato definitivamente dalla vita politica. Affiancandola al suo lavoro di pubblicista (vanno citate, tra le altre, le sue collaborazioni con le testate “Rinascita”, “Mondo Operaio”, “Tempi Moderni”, “Astrolabio”, “L’Espresso”, “Il Calendario del Popolo”, “Lettera Internazionale”), di traduttore e di consulente editoriale (si ricordi, ad es., la cura di collane Einaudi quali la “Serie di politica economica”), G. ha definito la propria linea politica in saggi quali Riforme e rivoluzione (1958) e Un socialismo possibile (1967), lavoro che documenta il clima di riflessioni tra utopia e pratica politica proprie del socialismo europeo. Nel 1992 ha pubblicato il volume autobiografico Lettere a Marta: ricordi e riflessioni. Una serrata disamina del ruolo ricoperto da G. nella storia italiana del dopoguerra è stata pubblicata nel 2012 a cura di G. Amato sotto il titolo Antonio Giolitti. Una riflessione storica. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CESARE BATTISTI

Trento 5 febbraio 1875 – Trento 12 luglio 1916. Geografo, giornalista, politico socialista. Irredentista. Ufficiale nell’esercito italiano durante la Prima guerra mondiale. Giustiziato dagli austriaci con l’accusa di alto tradimento. Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Ultimo di otto figli (il padre, era un agiato commerciante), espresse già al liceo di Trento, città allora parte dell’Impero austro-ungarico, il proprio fervore irredentistico. Nel 1893 si iscrisse all’Istituto di studi superiori di Firenze, dove conobbe fra gli altri Gaetano Salvemini ed Ernesta Bittanti, che sarebbe diventata la compagna della vita (si sposarono nel capoluogo toscano nel 1899). A Firenze ebbe anche il suo primo incontro con il socialismo, un incontro mediato con i valori civili, etici e politici del Risorgimento. Dopo una breve parentesi a Torino, con le prime esperienze di politica attiva, tornò a Firenze e nel 1897 si laureò in Lettere e scienze sociali con una tesi sul Trentino (Saggio di geografia fisica e antropogeografia il titolo). Ottenne poi un diploma di perfezionamento, e nel 1899 fondò sempre a Firenze la rivista La cultura geografica, che uscì per dieci numeri. Gli interventi ai convegni e le prime pubblicazioni gli procurarono la stima di geografi illustri, tanto che sembrava avviato alla carriera accademica. Preferì però tornare nella città natale e da quel momento in poi focalizzò le sue attenzioni sul Trentino. Scrisse e pubblicò, oltre a guide delle valli alpine, indagini economiche e sociologiche del territorio dall’impianto rigoroso e frutto di moderni criteri di ricerca. Nel 1895 fu tra i promotori di una Società degli studenti trentini, con una forte connotazione irredentistica. Verso la fine di quell’anno apparve a Vienna un nuovo giornale, L’Avvenire – Organo per la sezione italiana del partito sociale-democratico in Austria, cui aveva dato vita un gruppo di socialisti trentini. Solo sul primo numero, Battisti firmò tre articoli. Promosse quindi il trasferimento del settimanale da Vienna a Rovereto, cosa che accadde nel 1896, e nel 1899 assunse la direzione della testata (diventata nel frattempo L’Avvenire del lavoratore), che mantenne fino al 1905. Nel 1898 fondò una rivista, Tridentum, destinata all’«illustrazione storico-fisica del paese», affiancata poi, dal 1903, da una seconda rivista, La Vita trentina, a carattere divulgativo. Fu direttore, sin dal primo numero, uscito il 1° aprile 1900, del quotidiano socialista trentino Il Popolo, e un anno dopo ne divenne il proprietario (nel 1909 il giornale ospitò anche scritti di Benito Mussolini, che in seguito per un certo periodo ne fu, per nomina dello stesso Battisti, redattore capo). Nella sua militanza socialista rimase fondamentale la questione nazionale, senza contraddizioni con l’impostazione internazionalista e classista: «Si può anzi dire che a spingerlo verso il socialismo ebbe parte rilevante la convinzione che la causa dell’autonomia della minoranza italiana nell’impero non sarebbe mai andata avanti senza il presidio di un maturo e forte movimento popolare, libero dagli egoismi e dalle paure della borghesia». Promotore del movimento degli studenti trentini, fu il primo sostenitore di una libera università italiana a Innsbruck, che dopo alterne vicende, divieti e tumulti, vide infine la luce, in forma di facoltà italiana di Giurisprudenza, nel 1904. L’inaugurazione fu caratterizzata da scontri di piazza che provocarono un morto, numerosi feriti e un’ondata di arresti tra gli italiani: 138, compreso lo stesso Battisti. Nel 1911, candidato socialista a Trento, venne eletto nel Parlamento di Vienna e, poco prima dello scoppio della guerra, deputato del Trentino nella dieta del Tirolo. Da parlamentare, chiese l’istituzione di una università italiana a Trieste e intervenne contro la politica di repressione operata sulle minoranze italiane e contro il militarismo austriaco. Nel 1913 collaborò con lo Stato maggiore dell’esercito italiano compilando una dettagliata guida del Trentino (che sarebbe tornata utile allo scoppio delle ostilità con l’Austria). L’8 agosto 1914, pochi giorni dopo l’inizio del conflitto in Europa, firmò con altri un appello a Vittorio Emanuele III perché l’Italia entrasse in guerra contro l’Austria. Il 12 agosto con la moglie e i tre figli lasciò l’Austria per l’Italia, stabilendosi a Milano. Nei mesi successivi continuò la sua campagna interventista, su posizioni vicine a quelle di Gaetano Salvemini e Leonida Bissolati, con discorsi e interventi in numerose città. Con l’ingresso in guerra dell’Italia si arruolò volontario negli alpini come soldato semplice. Prime azioni nelle zone del Tonale, dell’Adamello e del monte Baldo, venne promosso sottotenente e poco dopo tenente. Diede quindi il suo contributo di studioso del territorio trentino al comando della I armata, poi ottenne di tornare in prima linea. Al comando di una compagnia del battaglione Vicenza prese parte alla cosiddetta battaglia degli altipiani, iniziata con la massiccia offensiva austriaca del maggio 1916. Il 10 luglio gli fu dato ordine di riconquistare con i suoi uomini il monte Corno, una cima del massiccio del Pasubio, dove doveva essere poi raggiunto da due battaglioni di fanteria. Il battaglione Vicenza riuscì a impadronirsi della cima, ma i rinforzi non riuscirono ad arrivare in tempo. Dopo una notte di combattimenti in cui molti alpini persero la vita. Cesare Battisti fu catturato dagli austriaci insieme al sottotenente Fabio Filzi e ad altri commilitoni. Riconosciuti da un Brunetto Franceschini, italiano della Val di Non che militava nell’esercito austriaco, i due furono condotti in carcere a Trento. Passarono per le strade della città incatenati su due carrette, percossi e oltraggiati dalla folla lungo il cammino. La mattina del 12 luglio Cesare Battisti comparve davanti alla corte marziale istituita al castello del Buonconsiglio. Nel corso del breve processo non rinnegò il suo operato, respinse l’accusa di tradimento, si considerò un soldato catturato durante un’azione di guerra. «Ammetto di aver svolto, sia anteriormente che posteriormente allo scoppio della guerra con l’Italia, in tutti i modi – a voce, in iscritto, con stampati – la più intensa propaganda per la causa d’Italia e per l’annessione a quest’ultima dei territori italiani dell’Austria; ammetto d’essermi arruolato come volontario nell’esercito italiano, di esservi stato nominato sottotenente e tenente, di aver combattuto contro l’Austria e d’essere stato fatto prigioniero con le armi alla mano. Rilievo che ho agito perseguendo il mio ideale politico che consisteva …

CLAUDIO TREVES

Claudio Treves nacque a Torino il 24 marzo 1869. Giovane studente partecipò alle esperienze politiche del radicalismo torinese e, nel 1888, aderì prima al Fascio radicale universitario, poi all’Unione operaia indipendente più direttamente influenzata dalla Lega socialista fondata a Milano da Turati. Nel 1892 si laureò in giurisprudenza e fece il suo ingresso nella milizia socialista. Membro del comitato direttivo della federazione regionale piemontese del Psi, nel 1894, in seguito all’applicazione delle leggi eccezionali, fu condannato a due mesi di confino. Per alcuni anni viaggiò all’estero, prima due anni a Berlino, poi a Parigi e poi ancora in Svizzera, Olanda, Belgio e Scandinavia, inviando vivaci corrispondenze da questi paesi all’”Avanti!”. Collaborò, inoltre, a vari giornali e periodici, tra i quali “Per l’idea”, “Grido del popolo”, che diresse dal 1896 al 1898, ed ancora “Critica Sociale”, “Lotta”, “Lotta di classe”, “Rassegna popolare del socialismo”, “Riscatto” ed, infine, “Università popolare” della quale fu membro del consiglio milanese dell’omonima istituzione fino al 1915. Nel 1899, trasferitosi a Milano, iniziò a dirigere il quotidiano “Il Tempo”, che divenne l’organo della democrazia e del socialismo riformista italiano. Stretto collaboratore di Turati, nel 1906 fu eletto deputato a Milano. Dopo il congresso di Milano del 1910 venne nominato direttore dell’ “Avanti!”, carica che lasciò nel 1912 prima a Bacci e poi a Mussolini. In seguito alla scissione tra massimalisti e riformisti, nel 1922 con Turati e Matteotti diede vita al Psu e fu nominato direttore dell’organo del nuovo partito, “La Giustizia”, soppresso nel 1925. Nel novembre 1926 scelse la via dell’esilio, emigrando in Svizzera e poi in Francia, dove fu tra i collaboratori più assidui del quindicinale del Psli, “Rinascita socialista” e, dall’aprile 1927, direttore de “La Libertà”, organo della concentrazione antifascista. Nel 1930 fu sostenitore dell’unificazione del Psli e della corrente fusionista del partito socialista massimalista. Sempre attento all’evoluzione del socialismo europeo, partecipò al congresso laburista del 1930, al congresso internazionale sindacale di Madrid del giugno 1931 e al congresso dell’Internazionale socialista di Vienna del luglio 1931. Morì a Parigi l’11 giugno 1933 e nel 1948 le sue ceneri furono traslate a Milano. Fonte: Fondazione Filippo Turati SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ALDO ANIASI

Nato a Palmanova (Udine) il 31 maggio 1921, deceduto a Milano il 27 agosto 2005, presidente della FIAP, ex sindaco di Milano ed ex parlamentare socialista, Medaglia d’argento al valor militare. Studente, era sfollato a Lodi quando, nelle settimane successive all’armistizio del 1943, si portò in Valsesia con una ventina di giovani lodigiani e codognesi, che avrebbero dato vita al distaccamento “Fanfulla” (poi battaglione), della XV Brigata d’assalto Garibaldi. Il giovane – che anagrammando, in modo imperfetto, il suo vero nome si faceva chiamare Iso Danali – entrò in contatto con il Comando di Cino Moscatelli e, nella primavera del 1944, passò nell’Ossola, diventando comandante della 2a Divisione Garibaldi “Redi”. In sessant’anni Aniasi non ha mai mancato una celebrazione del 25 aprile a Milano, forse anche per rifarsi del fatto che, nel 1945, in quel giorno stava ancora combattendo con i suoi partigiani contro i tedeschi che volevano attraversare il Ticino. Da socialista “nenniano” entrò nel 1951 nel consiglio comunale di Milano. Nello stesso periodo succedette a Ferruccio Parri nella presidenza – che ha mantenuto sino alla morte – della Federazione Italiana Associazioni Partigiane. Iso a Milano sarebbe rimasto, per cominciare un’altra intensa storia, in una città semidistrutta. Aniasi, socialista, prima nel Psiup e poi nel Psdi e poi socialista nenniano. Consigliere comunale lo divenne nel 1951, assessore fu nel 1954. Infine fu eletto sindaco nel 1967 a capo di una amministrazione di centrosinistra. Che divenne di sinistra, dopo lo straordinario risultato elettorale del Pci nel 1975, ma anche grazie alla sua coraggiosa tenacia: Aniasi voleva i comunisti in giunta. Sindaco Aniasi rimase fino al 1976. Lasciò per entrare in parlamento, cedendo il posto al giovane ex assessore ai lavori pubblici, Carlo Tognoli. Lasciò avendo attraversato un periodo drammatico e tempestoso della storia milanese, tra il Sessantotto operaio e studentesco e il terrorismo. Fu il sindaco di piazza Fontana, fu sindaco di una città ferita che reagì composta e seppe rispondere con dignità. Fu anche merito di Iso quell’unità forte tra i partiti democratici (l’arco costituzionale), che s’intende facilmente leggendo le pagine politiche di quell’epoca. Anche con posizioni coraggiose e «istituzionalmente» anomale. Si trovò spesso a polemizzare con gli eccessi della polizia contro gli studenti. In modo originale sostenne, nel conflitto arabo palestinese, il movimento Sinistra per Israele e in consiglio comunale non ebbe mai timore, magari provocando scontri con i suoi stessi alleati, di sostenere il diritto di Israele di «vivere in pace e in sicurezza all’interno di confini garantiti e sicuri». Parlamentare, passò ministro, prima con Cossiga, poi con Forlani e Spadolini, ministro alla sanità e ministro agli affari regionali. Siamo nei primi anni ottanta quando da Milano cominciava a brillare su Roma la stella di Craxi. Ma Aniasi non avvertì mai grande sintonia con Bettino (che pure aveva a lungo militato nel consiglio comunale milanese): cresceva Craxi e Iso, poco alla volta, sembrò ritrarsi dalla politica attiva, per dedicarsi alla memoria partigiana. Si era schierato prima con Mancini, poi al congresso del Midas con Lombardi e Signorile, infine con De Michelis, favorendo l’elezione a segretario di Craxi. Per Aniasi apparve presto una partita chiusa. Prima che giungesse lo scandalo di Tangentopoli. Aniasi era un socialista unitario, un sindaco di bell’aspetto, autorevole, capace di rappresentare la città e il suo popolo. D’altra parte, buoni o cattivi, furono quelli gli anni più intensi di Milano: la strategia della tensione la colpì, mai come allora si visse però così intensamente di democrazia, di partecipazione, di valori (nell’insegnamento della Resistenza). Milano era una città ferita, ma era anche una città che di fronte a una rivoluzione strutturale (si manifestavano i primi segnali della caduta del lavoro industriale) tentava di reagire progettando il proprio futuro con straordinaria ricchezza di voci e di ideali. Una città che tentava di vivere collettivamente i proprio dolori, le proprie crisi, ma anche il proprio sviluppo, sottratto – per un momento – all’interesse privato e alla speculazione. Questo era riformismo autentico. Aniasi sembrò il regista, conquistando alleati e competenze, e chi viveva a Milano ci viveva con un senso d’appartenenza e di identità. Aniasi è stato un sindaco che ha servito il socialismo e l’Italia, «un simbolo del socialismo riformista, il rappresentante più compiuto di una sinistra alimentata da una radicata cultura di governo». a cura di Oreste Pivetta   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CAMILLO PRAMPOLINI

Camillo Prampolini nacque a Reggio Emilia il 27 aprile 1859, di famiglia abbastanza agiata e molto civile. Il padre era impiegato municipale; la madre veniva da una casata facoltosa. Più alto del livello economico era quello morale e intellettuale. Gente di principi rigidamente conservatori, ma per convinzione e non per interesse; fervidamente patrioti… Pur vivendo in una famiglia molto religiosa (nota di L.B.), a circa 13 anni già dubitava delle verità religiose. Col crescere della ragione, gli calava la fede, continuando però nelle pratiche di culto, per non dar dolore ai suoi e per non urtarsi con loro… A 17 anni, in politica non aveva ancora idee definite, ma piuttosto dei sentimenti o delle abitudini mentali, seguiva le tradizioni famigliari, era monarchico e conservatore per forza d’inerzia…Questa la posizione dello spirito suo quando, giovine di 18 anni, va all’Università di Roma, nella qual città aveva parenti presso i quali viveva ospite, di principi religiosi e conservatori rigidissimi… Si preparava in lui, senza che egli l’avvertisse, una elaborazione interiore. Quella concezione così assoluta, così statica della società, che gli era apparsa sino ad allora perfetta, ordinata in modo definitivo, come un edificio millenario posto su incrollabili colonne, si scuote. Ha una conoscenza, da principio assai vaga, delle idee di Darwin.… Ciò che lo aveva colpito come una rivelazione che avea scosso irreparabilmente la sua fede conservatrice, era stata, nel 1879, una proposizione, enunciata dal Filimusi-Guelfi, che il diritto di proprietà escludeva il diritto al lavoro. Ciò significava dunque, che chi non possedeva, poteva anche esser destinato a morir di fame! E questo era l’ “ordine” nel quale egli fino ad allora aveva così ciecamente creduto? Tale il primo germe, messogli nell’animo, che maturerà poco più tardi. Frattanto, a Bologna, durante il terzo corso di università, fa il servizio militare come volontario d’un anno in fanteria. Fisicamente quella vita gli piaceva e gli giovava; disciplinarmente, la sopportava con uno spirito in cui già albeggiavano concetti di collettività, ed eran già saldi dei principi egualitari, e d’antiprivilegio….Non ebbe mai una punizione, e alternava alle occupazioni militari letture febbrili di libri nuovi a quei tempi, come i romanzi di Zolà, e di libri vecchi…come la Bibbia, che(cosa da notare) lo interessava moltissimo….Ma la passione allo studio, o almeno la curiosità che lo spinge alla ricerca e alla lettura di libri di scienze sociali, si acuisce nel quarto anno di università, in quell’ambiente di Bologna di allora, dove il Sergi insegnava sociologia (e Prampolini era uno dei pochi frequentatori del corso) e Enrico ferri, giovanissimo docente, divulgava Lombroso e Ardigò….Giunto il tempo di fare la tesi di laurea, egli si sente maturato nella mente un insieme di concetti attorno al punto a lui fondamentale, rimastogli come in chiodo fisso nella testa: la teoria del diritto di proprietà che nega il diritto al lavoro, udita all’Università di Roma dal Filomusi-Guelfi. Su di essa la sua mente, la sua anima aveva meditato e lavorato in quegli anni di “incubazione socialista”. Quella teoria, svolta dal Filomusi, era quella dei filosofi ed economisti borghesi. Il diritto al lavoro non esiste, perché negherebbe, se ammesso, il diritto di proprietà. Questo diritto di proprietà è un vero jus utendi et abutendi,. Se il proprietario avesse l’obbligo di dar lavoro , non sarebbe più proprietario. E’ quel che il Beccaria chiamò “terribile e forse non necessario diritto”. Generalmente i conservatori non hanno coscienza della terribilità di questo diritto e della sua ingiustizia; o anche se l’hanno, affermano la necessità di esso, per la esistenza dell’ordine sociale. Ma è chiaro che questo iniquo “diritto” fondamentale è quello da cui sgorgano tutte le altre iniquità. Dunque, bisogna abolire la proprietà privata! Il sillogismo dei conservatori era questo: “il diritto di proprietà è la base della società civile. Senza di esso non vi è società possibile, non vi è ordine”. Ma ammettere il diritto al lavoro significherebbe negare il diritto di proprietà: dunque il diritto al lavoro non è ammissibile; non esiste, né potrà esistere mai”. Il sillogismo del giovine – che già da tempo andava sviluppandosi in lui, e che sarà il nucleo della sua tesi di laurea – procede in senso inverso. “Poiché negar il diritto al lavoro significa negare il diritto alla vita pei non possidenti, ciò repugna a quel sentimento della giustizia che ebbe le sue maggiori manifestazioni nel movimento e nei principii del Cristianesimo, e in quelli della Rivoluzione francese, e che diventa sempre più vivo e diffuso nella coscienza dei popoli moderni. Dunque il diritto di proprietà è inumano ed iniquo, contrasta con gli interessi e con la volontà delle masse, e perciò deve fatalmente cadere”. A questo punto si fa strada nel suo pensiero il concetto spenceriano della società come organismo. Nessuna forma di società può reggersi, se tra il suo assetto generale, e la forma dei vari elementi che la compongono, non vi è una corrispondenza e una reciproca armonia… E’ in questo momento che la febbre della nuova fede, che era stata in incubazione per circa due anni, divampa. Egli ne è invaso e inebriato, e come trasformato. Per preparare la sua tesi di laurea, ricercò le opere degli economisti borghesi più in voga, e particolarmente degli scrittori che verso la metà dell’Ottocento erano scesi in campo contro il diritto al lavoro, al tempo del famoso esperimento degli ateliers nationaux in Francia. Essi sostenevano, e dimostravano, che ammettere tale diritto equivaleva a negare il diritto di proprietà. Ed era vero! Ma – ecco il bivio al quale la sua coscienza giovanile si trovò e si decise – egli scelse senza esitare, fra i due diritti: e optò per il lavoro. La sua tesi di laurea (1881) fu – com’egli lo definisce – un centone di più che 100 fitte pagine di protocollo, in cui cominciando… da Adamo, sosteneva che nessun assetto sociale può esistere quando urta violentemente contro il “senso di giustizia” dei suoi componenti: onde la società moderna perdeva la sua ragion d’essere ed era fatalmente destinata a tramontare, precisamente perché fondandosi sulla proprietà …

ANTONIO GREPPI

In Antonio Greppi il suo socialismo cristiano metteva doppiamente l’uomo al centro delle sue attenzioni e delle sue cure. Mi riferisco al socialismo inteso come aiuto ai meno abbienti e come emancipazione dei lavoratori per l’affermazione dei loro diritti – come conquista di una società più libera e più giusta attraverso la formazione e l’educazione del popolo alle idee socialiste con la democrazia, senza violenza e senza prevaricazioni – come fiducia nella libertà accompagnata dalla tolleranza verso chi sbaglia. Questi sono i principi che ispirano Antonio Greppi e lo orientano verso l’impegno politico e sociale e anche in quello professionale. Dopo gli studi egli, già con l’animo socialista, si era avvicinato a Filippo Turati, ad Anna Kuliscioff, a Claudio Treves, a Giacomo Matteotti, stimolato anche dagli insegnamenti liceali del professor Ugo Guido Mondolfo che a quei maestri era molto legato. Nella direzione del Partito socialista unitario di Matteotti, Greppi era rappresentante dei giovani e collaboratore degli organi di stampa socialisti. Nel 1923 viene nominato direttore de ‘La libertà‘, settimanale della gioventù del PSU, con una redazione della quale fa parte tra gli altri Giuseppe Faravelli che sarà uno dei ‘leader’ del centro socialista interno (clandestino) organizzazione antifascista e, nel secondo dopoguerra, direttore della Critica Sociale dopo Ugo Guido Mondolfo. Come scriverà sulla ‘Critica Sociale’ nel 1946 (‘Il socialismo alla conquista dell’uomo‘) il fine dell’umanità può essere ritrovato solo nella …”realtà di ogni singola creatura, unità pensante, cosciente, sensibile … e la missione del socialismo …” si trova dove è presente l’uomo con le sue elementari aspirazioni, i suoi scrupoli morali, la sua ansia di sapere e il suo anelito alla verità. E questa, aggiunge, “… è l’incantevole magia del socialismo …” dove il proletariato è Tantalo che deve essere liberato dai suoi ceppi. Il socialismo, nella sua azione di stimolo e di sviluppo delle capacità intellettive e morali delle masse popolari, “… crea le condizioni e le premesse più favorevoli alla rivelazione religiosa …”. È il punto di incontro tra il socialismo umanitario e il cristianesimo, secondo la visione di Greppi. Anche sotto il profilo professionale, sull’esempio dell’avvocato socialista Enrico Gonzales, vuole fare l’avvocato ‘dei poveri’ e presta la sua collaborazione all’ufficio legale per i poveri dell’Umanitaria. Il suo antifascismo ‘non violento’ lo porta a lavorare nel 1928 con Faravelli, Fernando Santi e altri alla ricostruzione a Milano del Partito socialista e a dirigere nel 1937, sempre in clandestinità, nel capoluogo lombardo, il fronte interno socialista dopo l’arresto di Rodolfo Morandi. Di lì a poco (1938) anch’egli finisce nelle maglie della polizia fascista e poi di fronte al Tribunale Speciale dove si salva per una efficace difesa in cui dà prova di non avere commesso alcun reato (gli addebitavano gli omicidi attribuiti agli antifascisti italiani e l’organizzazione di un attentato a Hitler) e dimostrando il suo passato patriottico nella prima guerra mondiale. Viene arrestato di nuovo nel 1940 e inserito nell’elenco di coloro che sono destinati ai campi di internamento. Ciò lo costringe a espatriare in Svizzera dove si ritrova, tra gli altri, con Faravelli, Emanuele Modigliani, Mondolfo, Morandi, Ignazio Silone, Ezio Vigorelli. Nel 1944 viene ucciso in un’imboscata il figlio Mariolino Greppi militante nella lotta antifascista. È un brutto colpo al cuore di Antonio che chiede di partecipare alla lotta partigiana, nella quale entra in Val d’Ossola nel gennaio 1945, dopo essere già stato indicato dal CLNAI come sindaco di Milano dopo la Liberazione. La sua candidatura è stata caldeggiata, oltreché dai socialisti, da Alfredo Pizzoni (di formazione liberale, ma senza tessere di partito) presidente del CLNAI (e poi del Credito Italiano) galantuomo che conosceva Greppi e lo considerava uomo capace di stare al di sopra delle contrapposizioni strumentali pure esistenti tra le forze politiche del Comitato di Liberazione. Il Sindaco della Liberazione dopo avere assunto l’incarico il 27 aprile lancia un appello perché cessino le uccisioni per vendetta che si registrano alla fine della guerra civile e organizza una squadra di vigili (sapendo che gli appelli non bastano) per prevenire queste forme di giustizia sommaria e individuale. Poi parte il grande lavoro di ricostruzione morale e materiale della città nel quale l’avvocato ‘dei poveri’ ha una parte determinante. Ci sono un milione e mezzo di metri cubi di macerie da rimuovere (nasce la ‘montagnetta’ di S. Siro). I locali sinistrati sono 450.000, quelli completamente distrutti sono 160.000. (…). Greppi interviene a favore dei senza tetto chiedendo a chi ha la possibilità di ospitare di farlo transitoriamente, vincendo gli egoismi. Provvede all’alimentazione della popolazione anche attraverso mense collettive e ristoranti del popolo; rimette in sesto i servizi di assistenza sociale e sanitaria del Comune; fa partire la ricostruzione delle scuole; fa fronte al drammatico problema degli alloggi; procura i combustibili necessari alla cittadinanza e ripristina l’illuminazione pubblica; affida a Mario Borsa il fondo per l’acquisto della penicillina e poco dopo provvede per la streptomicina. Accanto a questo, sia pure con le immaginabili difficoltà, fa riaprire, dove possibile, musei e biblioteche e fa proseguire alacremente i lavori al cantiere della Scala, iniziati poco dopo il bombardamento del 1943. Sono avviati gli studi per il Piano Regolatore. Dopo un anno dalla formazione della giunta CLN il sindaco Greppi viene premiato dai milanesi con un risultato elettorale straordinario che fa del Partito socialista, con il 36% dei voti, il primo partito. Il Piano Regolatore adottato nel 1948 e definitivamente approvato nel 1953, sia pure condizionato dalla necessità di rispettare le convenzioni contratte con i privati prima della guerra, è un risultato importante per dare regole allo sviluppo urbano. Si dà vita, tra l’altro, al quartiere Ottava Triennale, QT8, che giustifica la ripresa, in tempi di difficoltà economiche, dell’attività dell’ente dedicato alle arti decorative e industriali, e diventa il simbolo della possibile simbiosi tra cultura e finalità sociali. L’edificazione del quartiere sperimentale, su idea dell’architetto Piero Bottoni, iniziata nell’autunno del 1946, è il riferimento centrale dell’esposizione al Palazzo dell’Arte che si svolge nell’estate del 1947 e dove il tema della casa – visto in tutti i suoi aspetti, dall’arredo, agli oggetti, al …

ANGELO FILIPPETTI

Nato nel 1866 ad Arona da Cesare e Giulietta Pisoni. Proveniente da una agiata famiglia, si laurea in medicina a Milano e prende ad esercitarvi la professione, risiedendovi dal 1892 fino alla morte. Sposato con Vittoria Usnelli. Sua figlia Giulia sposerà poi Dino Gentili, che nel secondo dopoguerra militerà prima nel Partito d’Azione e poi nel Psi. Ancor studente organizza il Nucleo socialista di Arona ed in seguito, assieme a Silvio Cattaneo e Dino Rondani, il Circolo socialista “Fate largo alla povera gente” di Porta Genova, Porta Ticinese e Porta Ludovica. Presente al ii (1893) Congresso del Psi, durante la repressione crispina sconta una condanna a due mesi di confino. Candidato alle elezioni politiche nel 1895 non riesce eletto, come anche in quelle del 1897, 1900 e 1909. Nel 1899 viene invece eletto nel consiglio comunale di Arona e, con la lista del Blocco popolare, anche in quello di Milano, dove poi è riconfermato sino al 1914. Nel 1903-1904 viene chiamato a far parte della giunta, presieduta da Giovanni Battista Barinetti, come assessore alla beneficenza. Promotore dell’Università popolare (1901) e membro del suo primo consiglio direttivo, entra a far parte anche di quello della Società umanitaria. Nel 1907 dà vita assieme ad altri alla Lega popolare milanese contro l’alcolismo, nel 1912 viene eletto presidente del neo costituito Ordine dei medici della provincia di Milano e dal 1913 al 1920 è presidente della Federazione esperantista italiana. Schierato su posizioni riformiste, dopo la conquista della maggioranza (giugno 1914) del consiglio comunale di Milano diviene assessore anziano nella giunta guidata da Emilio Caldara. Con lo scoppio della prima guerra mondiale passa a posizioni massimaliste e dopo essere stato denunciato nel 1916 per aver gridato frasi “antipatriottiche” durante una manifestazione, nell’agosto 1917 è costretto a dimettersi dalla presidenza dell’Ordine dei medici per il suo irriducibile neutralismo. Dopo la disfatta di Caporetto si adopera a mantenere in piedi la giunta Caldara, dilaniata dalle polemiche fra riformisti e intransigenti, ma quando nel giugno 1918, alla vigilia dell’offensiva austriaca, Turati rivolge un appello alla resistenza e alla concordia nazionale, presenta un ordine del giorno della sezione milanese reclamante l’espulsione del leader riformista. Nel 1919 è tra i promotori della Lega dei medici socialisti, che dal luglio 1920 al marzo 1922 pubblica il quindicinale Sanità proletaria, di cui è direttore. Con le elezioni del novembre 1920 diviene sindaco di Milano. La giunta, composta da intransigenti e riformisti, e ben presto attanagliata da difficoltà finanziarie, rimane però in carica sino all’occupazione di palazzo Marino da parte delle squadre fasciste nell’agosto 1922. Dopo essere stato ancora presente fra le file dei “rivoluzionari intransigenti” al xvii e al xviii Congresso del Psi, svoltisi a Milano nel gennaio e nell’ottobre 1921, con l’avvento della dittatura scompare dalla scena pubblica. Mantenutosi fedele alle sue idee, si ritira dalla vita politica a parte, dal 1927, una sua collaborazione alle iniziative culturali dell’Associazione Nazionale Studi “Problemi del lavoro”. Fonte: Archivio Biografico Movimento Operaio SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

EMILIO CALDARA

“Barbarossa a Palazzo Marino”. Tale fu il grido d’allarme del Corriere della Sera per la vittoria dei socialisti alle elezioni amministrative del giugno 1914. Novant’anni fa, infatti, grazie alla legge maggioritaria vigente per le elezioni locali, la lista socialista guidata da Filippo Turati otteneva 64 degli 80 seggi del Consiglio comunale milanese. Gli altri sedici andarono ai cosiddetti “costituzionalisti”: i liberali e i conservatori. La candidatura, dapprima, fu offerta a Luigi Majno, anziano e autorevole avvocato socialista, il quale, tuttavia, non accettò. Allora, venne proposto Emilio Caldara, avvocato, esperto nelle questioni amministrative, consigliere comunale già nel 1899, fondatore e segretario dell’Associazione dei comuni. La vittoria socialista appariva possibile, dopo il successo che a Milano il Psi aveva riportato alle politiche del ’13. Ma nella campagna elettorale, lo scontro fu duro. Le parole pesanti del Corriere della Sera: “Non si amministrerà per tutti, ma soltanto per il proletariato rigorosamente socialista.” In compenso, Benito Mussolini, ancora direttore dell’Avanti! Proponeva di condannare il Re all’ostracismo dal Comune di Milano: “Si sappia che se S.M. Vittorio Emanuele avesse idea di venire a Milano, troverà il portone di Palazzo Marino solidamente sprangato.” Come ovvio, l’idea mussoliniana fu utilizzata dai conservatori per dipingere i socialisti come faziosi. Emilio Caldara era un profondo conoscitore delle nonne e dei meccanismi comunali e aveva contribuito, con Filippo Turati, Ugo Guido Mondolfo, Alessandro Schiavi, Luigi Veratti, Paolo Pini, a elaborare un programma che venne accolto senza suscitare critiche anche dalla parte massimalista del Psi, notoriamente più preoccupata nel preparare la rivoluzione che nell’amministrare un comune. Gli obbiettivi più rilevanti erano la politica sociale e il rilancio delle opere pubbliche. Per i socialisti, il Comune doveva garantire sussidi ai disoccupati, ma contemporaneamente procurare ps5ti di lavoro. Doveva calmierare i prezzi dei generi di prima necessità e promuovere l’edilizia popolare. Doveva rendere equa l’imposizione tributaria, con l’imposta sulla proprietà “che dalle opere del Comune ha avuto maggiori vantaggi”. Non erano dimenticate le “municipalizzazioni”: già attuata quella dell’energia elettrica, veniva auspicata quella del gas, che però non si fece, e quella dei trasporti pubblici, che si attuò nel 1916. Infine, la beneficenza doveva trasformarsi in assistenza sociale. Durante la guerra, la solidarietà. Il programma dovette subire tuttavia dei cambiamenti, perché alle porte c’era la partecipazione italiana alla guerra. Il Psi, com’è noto, era contro l’ingresso in guerra e Caldara non faceva eccezione. Quando Mussolini, che era stato eletto consigliere comunale, scrisse il suo articolo per la “neutralità attiva” a favore dell’intesa anglo-franco-russa, contro l’Austria e la Germania, si apri un periodo di profonde fratture nella società italiana e all’interno dello stesso Partito. I socialisti della corrente “turatiana” rimasero fedeli alla neutralità, ma non nascosero la loro disponibilità per la difesa dei confini della Patria. Caldara intervenne, nel novembre 1914, per attenuare i provvedimenti disciplinari della direzione del Psi contro Mussolini, che fu espulso e, di lì a poco, diede vita al Popolo d’Italia, ma non si discostò dal neutralismo. Milano divenne l’epicentro delle manifestazioni interventiste, che presero di mira anche il sindaco e la giunta, senza arrivare a particolari forme di violenza. La politica del primo cittadino socialista e della sua amministrazione, dopo l’entrata in guerra, sul piano dell’assistenza fu poi sufficiente da far mutare l’atteggiamento del Corriere e di una parte dell’opposizione. Per esempio, dell’ex sindaco Ettore Ponti. Gli aiuti ai profughi, che arrivavano a Milano, e alle forze armate, furono organizzati da un Comitato di assistenza, che aveva il compito di dare destinazione ai fondi raccolti. Una grande sottoscrizione per i programmi di sistema civile ebbe un successo imprevisto. L’Ufficio per l’assistenza economica, cosiddetto ”Ufficio l”, alle famiglie dei militari era presieduto dal Sindaco stesso. Un altro ufficio (l’”Ufficio II”) per i bambini bisognosi, vide la partecipazione di un gran numero di volontarie e volontari e l’intervento della Società Umanitaria. L ‘”Ufficio III”, per il “collocamento e soccorso dei disoccupati residenti da un anno e ricovero e sussidio a profughi e rimpatriati”, continuò in altra forma l’attività dell’ufficio municipale del lavoro, che era. stato uno dei primi atti della Giunta Caldara, utilizzando la collaborazione di industriali e commercianti, più disponibili di qualche tempo prima nel clima di solidarietà esistente durante la guerra. Vennero create altre sezioni: quella che tutelava gli interessi economici e personali dei militari, con supporto legale gratuito, assistenza morale ai feriti e convalescenti (Addio alle armi di Ernesto Hemingway!); assistenza sanitaria e aiuti ai militari al fronte; assistenza straordinaria ai danneggiati dalla guerra, tra cui i ciechi e gli orfani. Fu un ‘esperienza eccezionale che mise in luce le qualità amministrative, umane e politiche di Caldara e le capacità dei suoi collaboratori (“quasi tutti sconosciuti” al momento dell’elezione) e “incisività del socialismo riformista che si procurò l’apprezzamento di una parte degli avversari e la stima della borghesia produttiva. Dopo la rotta di Caporetto la Giunta diffuse un manifesto, che senza tradire il neutralismo, si schierava a difesa della patria nel momento difficile: “Se è vero che l’invasore conta sullo scoramento del popolo nostro, voi, cittadini della città generosa, in cui più si urtano i contrasti ideali, mostrate che esso ha fatto un calcolo sbagliato, e date esempio ai fratelli d’Italia di calma, di fiducia perché più facilmente il nemico sia ricacciato, più presto rifulga la pace e la giustizia imperi sui popoli.” L’appello venne accolto favorevolmente da tutte le forze politiche cittadine, con l’eccezione dei “rivoluzionari” della sezione milanese del Psi. L’amministrazione socialista non si limitò all’assistenza Se il clima particolare della guerra consentì al “socialismo municipale” di mettere in luce le capacità dei suoi uomini sul terreno della assistenza e di ottenere l’apprezzamento e l’appoggio da settori dell’oppo5izione e dell’establishment, cittadino, l’azione della Giunta Caldara non si fermò a questi risultati. Venne data vita all’ Azienda consorziale dei consumi per “togliere alla speculazione il rifornimento dei generi alimentari di più ampio consumo” (latte, pane, olio, scarpe, vestiti, legna, carbone ecc.) che fu molto gradita dai cittadini di tutte le tendenze, malgrado l’ostilità di una parte degli esercenti. Attuò la municipalizzazione dei tram, approfittando della scadenza, nel …