ANNA KULISCIOFF

Anna Kuliscioff, il cui vero nome è Anja Rosenstein, nasce in Crimea, il 9 gennaio tra il 1853 e il 1857, in una famiglia benestante di commercianti ebrei; amante dello studio, a circa 18 anni decide di seguire i corsi di Filosofia presso l’università di Zurigo, una città posta al centro dell’Europa con facoltà universitarie, anche tecniche, aperte alle donne e in cui si respirava una grande libertà di pensiero e dove Anna trova il suo ambiente ideale e dove la sua vita comincia a contrassegnarsi da una continua lotta per le libertà. Costretta a rimpatriare dalla Svizzera per ordine dello zar, aderisce alla cosiddetta “andata verso il popolo”: è il periodo dell’utopia rivoluzionaria, durante il quale la Kuliscioff, come reazione al dispotismo zarista, si convince della necessità dell’uso della violenza nella lotta politica. Ma nel tempo le sue posizioni saranno sempre meno estremiste e sempre più di matrice legalitaria. 1877 – Anna Kuliscioff abbandona definitivamente la Russia, si stabilisce in Svizzera: qui incontra Andrea Costa, stabilendo da subito con lui una totale coincidenza di idee e trasferendosi con lui in Francia. 1878 – Arrestata, viene espulsa dalla Francia, e si trasferisce in Italia, dove pochi mesi dopo è processata anche a Firenze con l’accusa di cospirare con gli anarchici. Nuovo trasferimento in Svizzera. 1880 – la Kuliscioff e Costa rientrano clandestinamente in Italia, dove vengono arrestati nell’aprile dello stesso anno a Milano. Nell’agosto dello stesso anno Anna viene scarcerata e accompagnata al confine svizzero : si stabilisce a Lugano fino all’anno dopo. Rientra in Italia, raggiunge Andrea Costa a Imola e diventa madre di Andreina. Gli anni ‘80 costituiscono per la Kuliscioff un periodo decisivo e nello stesso tempo di transizione, anche affettiva: in questo arco di tempo si tiene lontana dalla scena politica essendo fagocitata dal suo ruolo di madre e dalla sofferenze derivanti dallo stato di salute – aveva contratto la tubercolosi a seguito del periodo in carcere a Firenze – e dalla solitudine provocata dalla crisi del suo rapporto con Costa, rapporto che Anna chiude dolorosamente Sono questi gli anni della sua iscrizione alla Facoltà di Medicina, dei suoi studi, delle conseguenti specializzazioni in ginecologia prima a Torino e poi a Padova. Con la sua tesi scopre l’origine batterica delle febbri puerperali aprendo la strada alla scoperta scientifica delle cause delle morti post partum. Anna Kuliscioff a Milano comincia la sua attività di medico, di “dottora dei poveri” come la chiamano i milanesi, trovando così, non senza difficoltà, un collegamento tra attività professionale e fede politica, fede politica che divide quotidianamente con Filippo Turati, incontrato mentre raccoglie fondi per esuli russi e con il quale, dopo alcuni dubbi, si lega sentimentalmente. Nel 1889 fonda con Turati e Lazzari la Lega Socialista milanese. 27 aprile del 1890: in una sala gremita al Circolo Filosofico milanese, dove diviene la prima donna protagonista al Circolo, tiene una Conferenza sul tema del rapporto uomo-donna. Il tema dell’incontro è Il monopolio dell’uomo. Opinione della Kuliscioff è che solo il lavoro sociale e egualmente retribuito potrà portare la donna alla conquista della libertà, della dignità e del rispetto. 1891: Nasce il “Salotto di Anna Kuliscioff” Trasferitasi con Filippo Turati in un appartamento di Portici Galleria al numero 23, trasforma il salotto di casa in studio e redazione di “Critica sociale”: mucchi di giornali e plichi di libri circondano Anna e Filippo che lavorano insieme e nel salotto c’è un piccolo divano verde dove la Kuliscioff riceve i visitatori ad ogni ora del giorno: personaggi della cultura, della politica milanese, persone più umili e le “sartine” che trovano in Anna un’amica e una confidente. Ma il lavoro nel salotto più famoso di Milano viene bruscamente interrotto l’8 maggio 1898 quando un gruppo armato irrompe ed arresta Anna con l’accusa di reati di opinione e di sovversione. A dicembre viene scarcerata per indulto, mentre il suo compagno Filippo dovrà aspettare un anno. 1901 – il Partito Socialista, per tramite di Turati, presenta al Parlamento la legge Carcano, legge a tutela del lavoro minorile e femminile, elaborata dalla Kuliscioff, legge che sarà approvata . Anna Kuliscioff è convinta dell’importanza di trattare con il ministero di Giolitti e spinge Turati a rompere con gli intransigenti come Salvemini e Labriola, contrari a ogni forma di collaborazione col governo. 1908 – La questione fondamentale su cui ci si deve battere per Anna Kuliscioff: le donne devono avere il lavoro, rendersi indipendenti, ottenere di conseguenza la parità dei diritti, compreso quello del voto. I socialisti invece, nella lotta per il suffragio maschile, temono che allargare la richiesta a favore del voto alle donne, rischi di prolungare all’infinito la risoluzione della questione. La Kuliscioff, ancora più spronata dall’atteggiamento negativo dei socialisti e anche di Turati, e sostenuta dal fatto che altri partiti socialdemocratici europei hanno fatto della questione femminile la propria bandiera, mette tutto il suo impegno perché il partito socialista italiano accolga nel suo programma generale la causa della donna. 1911 – nasce il Comitato Socialista per il suffragio femminile con il contributo ed il sostegno di Anna Kuliscioff. 1912- La Kuliscioff fonda la rivista “La difesa delle lavoratrici” a cui collaborano tutte le migliori penne del socialismo femminile italiano, che, sempre in casa di Anna, direttrice del giornale, stabiliscono con successo un rapporto di comunicazione diretta con le lavoratrici -operaie e contadine – rendendole consapevoli della loro condizione, dei loro diritti, tra cui ovviamente il diritto al voto. 1912 – Il governo dice no alle donne con una legge di Giolitti. Inizia per Anna Kuliscioff un periodo di scoraggiamento ed è allo stesso tempo un periodo di disorientamento anche per gli stessi socialisti e in cui si cominciano a intravedere le prime avvisaglie di un movimento antisocialista e nazionalista a tratti violento, di cui Anna, con la sua sensibilità e lungimiranza, ne percepisce, tutta la portata. 1925 – I fatti e la storia danno ragione ad Anna Kuliscioff, che scompare il 27 dicembre. Il suo funerale – 29 dicembre 1925 – sarà accompagnato dalla violenza per le …

GAETANO SALVEMINI

Gaetano Salvemini, storico, professore universitario a Messina, Pisa, Firenze e Harvard, meridionalista ed antifascista, nacque a Molfetta (Bari), l’8 settembre 1873. Lo zio prete, che gli fece da precettore, tentò di inculcargli idee clericali ed antiunitarie, ma egli mostrò presto inclinazioni democratiche e libertarie. A diciassette anni ottenne l’ammissione all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Nell’ateneo fiorentino ebbe come maestro, fra gli altri, Pasquale Villari, docente di Storia Medioevale e Moderna, dal quale apprese un insegnamento fondamentale, che avrebbe serbato per tutta la vita: la concezione della Storia intesa come scrupolosa ricerca del vero, strettamente congiunta all’impegno civile. A Firenze, dove si laureò in Lettere nel 1896, si legò al gruppo dei giovani socialisti che si riunivano in Via Lungo il Mugnone. In quell’ambiente assorbì le teorie marxiste, che in seguito avrebbe rivisto criticamente, e maturò una precisa ed irreversibile scelta di campo: la difesa degli oppressi e dei diseredati, al di là di ogni ideologia. Nell’ultimo decennio dell’800, l’epoca che vide i tentativi autoritari di Crispi e Pelloux, i processi sommari a carico dei “sovversivi” socialisti, la brutale repressione delle agitazioni operaie e contadine, era una scelta davvero coraggiosa. Nel 1899, a soli ventisei anni, Salvemini pubblicò un’opera destinata a diventare un classico della storiografia sul Medioevo: Magnati e popolani nel Comune di Firenze dal 1280 al 1296. La sua attività scientifica gli valse la cattedra di Storia Medioevale e Moderna all’Università di Messina (1902). Ma il destino gli preparava una tremenda sciagura, che avrebbe annullato la serenità assicurata da una brillante carriera accademica e da un matrimonio felice. Nel terremoto del 1908, che rase al suolo Messina, perse la moglie, i cinque figli ed una sorella. Fu la grande tragedia della vita personale di Gaetano Salvemini. Il dolore provocato da quell’evento tragico non riuscì, tuttavia, a spezzare la sua tempra eccezionale. Continuò nel PSI la sua battaglia politica, incentrata sul tentativo di saldare le rivendicazioni degli operai del Nord con quelle dei braccianti del Sud. Si battè, inoltre, per l’introduzione e per l’esercizio effettivo del suffragio universale, votato dal Parlamento nel maggio 1912. La sua lotta per la moralizzazione della vita pubblica lo portò a criticare aspramente Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio quasi ininterrottamente dal 1903 al 1914, cui affibbiò l’epiteto di “ministro della malavita” per i suoi spregiudicati metodi elettorali. Dalle pagine innovatrici del periodico “La Voce”, si oppose fieramente alla dispendiosa campagna di Libia (1911-1912). Salvemini aveva compreso che all’origine di quell’impresa militare non stava la volontà di soddisfare le reali esigenze del Paese, bisognoso di profonde riforme economiche e sociali, ma una pericolosa collusione fra nazionalismo velleitario ed interessi imprenditoriali. La questione della Libia fu uno dei motivi che lo indussero a lasciare il PSI, giudicato troppo acquiescente nei confronti della politica coloniale giolittiana ed incapace di un serio impegno sulla questione meridionale. Sul settimanale “l’Unità”, da lui stesso fondato nel dicembre 1911, continuò la sua battaglia laica e progressista per il riscatto del Meridione e per una reale svolta democratica. Nel grande travaglio che precedette l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra (maggio 1915), Salvemini fu tra i fautori dell’intervento contro l’Austria e l’imperialismo tedesco. La sua coerenza morale gli impose di arruolarsi volontario sin dal primo anno di guerra. Per lui, come in generale per gli interventisti democratici, la partecipazione al conflitto era necessaria non certo per affermare ed espandere la potenza italiana, ma per scopi molto più nobili: completare l’opera di unificazione nazionale ed avviare un processo di effettiva democratizzazione della vita politica, in Italia ed in Europa. Purtroppo, gli eventi successivi all’armistizio (novembre 1918) delusero le speranze degli idealisti. Il Governo italiano, guidato da Vittorio Emanuele Orlando e dal Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, si comportò al Congresso di Versailles in modo non lineare e difese il “sacro egoismo” nazionale contro il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Alle elezioni politiche del 1919 Salvemini si candidò in una lista di ex combattenti e venne eletto. Da deputato, dissentì presto dalla linea politica del suo gruppo parlamentare e sostenne una vivace polemica contro l’ex compagno socialista Benito Mussolini (il quale lo sfidò anche a duello, mai avvenuto per complicazioni “procedurali”) ed il movimento fascista. Ma era una lotta estremamente difficile, sia per il progressivo sfaldamento della Sinistra (decisiva la scissione comunista nel Congresso di Livorno del gennaio 1921), sia per l’esplosione di un nazionalismo esasperato che si nutriva del mito della “vittoria mutilata”. Dopo l’avvento di Mussolini al potere (ottobre 1922), Salvemini, che da alcuni anni insegnava all’Università di Firenze, continuò ad opporsi al fascismo trionfante. Nel 1923 tenne a Londra una serie di conferenze sulla politica estera italiana, suscitando le ire del Governo e soprattutto dei fascisti fiorentini. I muri di Firenze furono tappezzati di manifesti recanti un eloquente messaggio: “La scimmia di Molfetta non rientrerà in Italia”. Invece Salvemini non soltanto ritornò in patria, ma riprese le sue lezioni all’Università, incurante delle minacce degli studenti fascisti. Negli anni successivi la sua opposizione al regime mussoliniano diventò sempre più dura. Dopo l’assassinio del deputato Giacomo Matteotti (giugno 1924), aderì al P.S.U., il gruppo politico del leader assassinato, ed organizzò una manifestazione di protesta. Animò il periodico clandestino “Non mollare”, fondato con Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi, per tener vivi gli ideali della libertà e della democrazia; si adoperò per mantenere una fitta rete di contatti fra gli intellettuali antifascisti in tutta Italia. Mentre gran parte del mondo accademico italiano s’inchinò al regime (nel marzo del 1925 venne pubblicato quel singolare documento intitolato “Manifesto degli intellettuali fascisti”), Salvemini venne arrestato ed imprigionato. Poco dopo fu scarcerato, ma la situazione rimase drammatica. Conscio del grave pericolo che incombeva non solo sulla sua persona, ma anche su coloro che lo sostenevano, scelse la via dell’esilio e passò clandestinamente la frontiera italo-francese. Fu la grande svolta della sua vita. Mussolini nutriva una sorta di sacro timore nei confronti degli intellettuali e fece di tutto per smorzarne lo spirito d’indipendenza. Il Ministro della Pubblica Istruzione Fedele propose un compromesso che gli avrebbe consentito di mantenere la cattedra universitaria. Ma …

ANNA MATERA

Nella storia del movimento socialista e del movimento di emancipazione della donna merita un posto particolare Anna De Lauro Matera. Nata a Napoli il 9 luglio 1909 da Michele De Lauro e da Elvira Ciancia, consegue il diploma magistrale e a venti anni è vincitrice di concorso con assegnazione di cattedra. Nel 1932 si laurea presso l’istituto Orientale. L’anno successivo segue con tutta la famiglia il padre capostazione nel trasferimento a Foggia. Una città con la quale entra subito in simbiosi, alla quale si legherà molto e che tanto le darà. Nel 1936 è chiamata ad insegnare presso il Liceo classico “Lanza“. Nel luglio del 1938 convola a nozze con Vincenzo Matera, un funzionario della filiale foggiana del Banco di Napoli. «Sul lavoro conquista subito la stima e l’apprezzamento degli alunni e dei colleghi per la didattica innovativa, frutto anche della sua permanenza in Inghilterra, per l’impegno che profonde nell’insegnamento vissuto come missione educativa, per la non comune cultura che esprime, nonché per l’apertura a tematiche extrascolastiche. Caratteristiche che connoteranno il suo impegno educativo che ha formato tante generazioni», spiega Michele Galante, curatore di un saggio pubblicato sulla rivista Sud Est. Anna Matera si avvicina alla politica alla fine del 1943, leggendo i primi giornali liberi e prendendo contatti con esponenti di alcuni partiti. La sua iscrizione al Psi avviene soprattutto per l’impulso e le insistenze del professore Antonio Vivoli, una figura importante del panorama politico e culturale della Foggia di allora. Ma un ruolo non secondario nella sua scelta lo gioca l’incontro con Domenico Fioritto, il vecchio avvocato sannicandrese, già segretario nazionale del Partito socialista prima della dittatura fascista, simbolo del socialismo di Capitanata, tornato di nuovo sulla scena politica. Già nel 1945 viene chiamata nell’Amministrazione diretta da Luigi Sbano a curare i problemi della scuola, compito che assolve con grande determinazione e generosità per fronteggiare la situazione drammatica delle strutture scolastiche che sono allo sfascio o sono ancora occupate dalle truppe alleate. Farà parte, come assessore, anche dell’amministrazione Imperiale. Eletta deputata alle elezioni politiche del 1953, è la prima donna socialista della Puglia ad entrare in parlamento, era anche l’unica parlamentare donna socialista di tutto il Centro Sud. Matera, che era stata eletta nel Comitato centrale del Psi al congresso di Torino del 1955, era stata investita dell’incarico di responsabile nazionale delle donne socialiste. La Matera, che nel dibattito congressuale faceva riferimento all’area di sinistra guidata da Lelio Basso, si soffermò a lungo sui temi della condizione delle donne, ma affrontò anche le questioni legate all’attualità politica, esprimendo riserve sulla linea di Nenni, e in modo particolare sul rapporto con i comunisti, che per la stessa rimaneva un elemento da privilegiare. «Tuttavia la Matera non risparmiò critiche alle posizioni assunte dal Pci, sfoderando una inusitata verve polemica ed evidenziando la contraddizione tra l’affermazione della ‘via italiana al socialismo’ e la persistenza del legame con il regime sovietico», spiega Galante. L’assise congressuale di Venezia consacrò il ruolo di dirigente nazionale della parlamentare foggiana, che fu eletta nel Comitato centrale con un largo consenso, risultando settima con 437.708 voti congressuali dopo Vittorio Foa, Pietro Nenni, Fernando Santi, Silvano Armaroli, Francesco De Martino e Sandro Pertini, precedendo personalità della statura politica di Lelio Basso, Dario Valori, Tullio Vecchietti, Riccardo Lombardi e Giovanni Pieraccini. La stessa Matera fu l’unica donna ad entrare nella Direzione nazionale, composta all’epoca da appena 21 membri. Inoltre ottenne la riconferma dell’incarico di responsabile nazionale della Commissione femminile, coadiuvata da Marisa Passigli. Per effetto di questa funzione rivestita entrò a far parte anche della Presidenza nazionale dell’Unione Donne Italiane (Udi), insieme a Nilde Iotti, Giglia Tedesco, Luciana Viviani, Nora Federici. Conclude il suo impegno parlamentare con le elezioni del 1963, ma prosegue con vigore l’attività politica. Nel 1965 viene nominata nel Consiglio di amministrazione della Cassa per il Mezzogiorno in virtù delle numerose competenze maturate in diversi campi della vita pubblica e l’anno successivo entra anche nel Consiglio di amministrazione del Formez, una diramazione della Casmez che si interessa di formazione e che offre supporto e assistenza alle amministrazioni pubbliche. Oltre che consigliere, viene nominata anche vicepresidente dello stesso istituto, confermata in questo incarico per diversi anni. In questo ambito dedica molta cura alla diffusione sul territorio dei Centri di servizi culturali, considerati strumenti di crescita civile dei lavoratori e di affrancamento da una condizione di subalternità. L’impegno politico elettivo continua nel Consiglio comunale di Foggia anche per il quinquennio 1966-1971, con l’amministrazione di centro-sinistra diretta da Vittorio Salvatori, mentre nel 1967 è nominata componente dell’Ente Fiera di Foggia, dove va ad affiancare il dinamico presidente Gustavo de Meo. Si spegne a Roma il 18 novembre 2003, all’età di 94 anni. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LEONIDA BISSOLATI

Nato a Cremona nel 1857 e morto a Roma nel 1920, uomo politico. Iniziò proprio nella sua città, dopo essersi nel 1877 laureato in legge a Bologna a dedicarsi all’attività politica nelle file della democrazia radicale. nel 1880 divenne consigliere comunale, nel 1882 assessore all’istruzione. Inizia a collaborare alla rivista “Il Preludio” di Turati e Ghisleri; con entrambi stretta un’amicizia, con loro entra in contatto con le tristi condizioni dei contadini e dei braccianti della sua terra; ed è una partecipazione che lo spinge verso le idee socialiste. Stringe così rapporti con la lega socialista milanese partecipando poi nel 1892 a Genova al congresso di fondazione del Partito Socialista Italiano. Collabora alla rivista turatiana “Critica Sociale”, poi nel 1896 partecipa alla fondazione dell’”Avanti!” e ne diventa il direttore, fino al 1903. Contemporaneamente nel 1897 era diventato deputato. Con ottime doti politiche, contribuisce a indirizzare il partito socialista verso l’alleanza con i gruppi dell’estrema sinistra (radicali e repubblicani) per la difesa delle libertà costituzionali. Nei sanguinosi tumulti del maggio ’98 (eccidio di Bava Beccaris, seguito dallo stato d’assedio) benchè i dirigenti del partito e dell’Avanti fossero estranei all’organizzazione dei tumulti e operassero anzi per contenerli, il governo e gran parte della stampa sia filogovernativa e liberale sia cattolica moderata sostennero la tesi opposta, indicando all’opinione pubblica che i tumulti erano stati organizzati da associazioni sovversive di sinistra. Con questi appoggi politici, dei media e della stessa timorata popolazione il governo diede l’avvio a una netta svolta autoritaria, e ad una “legale” durissima repressione che portarono all’arresto migliaia di persone subito condannate a dure pene. La polizia invase anche la sede dell’”Avanti” arrestando i vari collaboratori e lo stesso Bissolati, che finì in carcere per due mesi. Ma la Camera poi non autorizzò a procedere (tanto più che in quei giorni maledetti, Bissolati non era presente a Milano). Nel clima repressivo, molti leader socialisti dovettero riparare all’estero. Anche Bissolati preferì o fu costretto a un breve esilio, mentre il giornale in qualche modo continuò le sue pubblicazioni sotto la direzione temporanea di Enrico Ferri. Il 1900 segna un importante mutamento della politica interna italiana. Dopo l’uccisione del re Umberto I, con l’attentato dell’anarchico Gaetano Bresci, sale sul trono il giovane Vittorio Emanuele III, decisamente meno conservatore e soprattutto meno autoritario di suo padre, condizione questa che porta il nuovo governo ad avere un’impronta più liberale, quando a prendere le redini di governo è Giolitti. Favorevole all’appoggio ai governi liberali, troviamo Bissolati uno dei leader della corrente riformista, mentre all’interno del partito socialista si verificano i primi contrasti e le prime scissioni. Nel 1903 lascia la direzione dell’”Avanti”, Enrico Ferri è confermato direttore. La guerra coloniale in Libia, e il XII congresso nazionale del PSI nell’ ottobre 1911 a Modena, mettono in evidenza la frattura irreversibile fra i riformisti di sinistra e la destra riformista di Bissolati e Ivanoe Bonomi, che continua a sostenere Giolitti in contrasto con le direttive di partito. Quindi sostenitrice dell’impresa libica e favorevoli a una partecipazione al governo. Ormai approdato a posizioni di democrazia riformatrice e di collaborazione con la borghesia incompatibili con gli orientamenti rivoluzionari prevalenti nel socialismo italiano di quegli anni, Bissolati nel 1912 viene espulso dal partito socialista. L’incompatibilità viene rimarcata anche da un gesto che assume un chiaro valore politico; il Re uscito illeso da un attentato il 14 marzo 1912, Bissolati con alcuni suoi deputati si erano recati al Quirinale per congratularsi con il re per lo scampato pericolo. Un gesto che suscita polemiche da parte dell’ala rivoluzionaria del PSI, che coglie l’occasione per chiedere – il 7 luglio al XIII congresso di Reggio Emilia, l’espulsione dal partito di Bissolati e altri suoi colleghi (Bonomi, Cabrini ecc.) Per dovere di cronaca, la mozione di espulsione a nome della corrente rivoluzionaria, poi approvata con una maggioranza limitata, fu presentata da Benito Mussolini, che oltre per il gesto del 14 marzo, li accusa di voler favorire la politica del governo; e riafferma l’importanza del partito come guida del movimento rivoluzionario dei lavoratori. Il 1° dicembre, proprio perchè gradito all’ala rivoluzionaria, Mussolini assumerà la direzione dell’Avanti, fino allora di tenedenza riformista. Come maggiore esponente dell’ala riformista Bissolati diede allora vita al Partito socialista riformista, che pur ottenendo un buon successo alle elezioni del ‘1913 non fece molta strada. Allo scoppio del prima guerra mondiale (1914) fu uno dei capi dell’interventismo democratico. Arruolatosi come volontario in un reggimento di alpini, nel giugno del 1916 lo troviano ministro nel governo Boselli e in quello di Orlando nel 1917. Ovvio dire che fu, dopo Caporetto, un sostenitore della necessità di continuare la lotta a oltranza, finchè non fosse stato raggiunto l’obiettivo principale, la dissoluzione dell’impero austro-ungarico. Tuttavia pochi giorni dopo la fine del conflitto, il 27 dicembre del 1918, per avere il governo – in vista della conferenza di pace convocata a Parigi- accettato la rinuncia a Fiume e Zara, in segno di protesta Bissolati si dimette. Nella sua linea politica, Bissolati era pronto a rinunciare ai compensi territoriali in Alto Adige, in Dalmazia e nel Dodecanneso previste dal Patto di Londra, per chiedere invece Fiume e Zara. Uscito di scena, da questo momento Bissolati nel suo ultimo anno di vita avrà un ruolo marginale nella vita pubblica. Anche perchè, grazie alle divisioni esistenti fra i dirigenti del PSI, la scena la sta occupando tutta Benito Mussolini, che tre mesi dopo, il 23 marzo 1919, in un circolo di piazza San Sepolcro a Milano, costituisce il movimento dei Fasci Italiani. Che cosa singolare, inizialmente è incentrato a parte un generico operaismo, e alla non rinuncia del Tirolo e della Dalmazia proprio – come Bissolati- sulla rivendicazione di Fiume. L’anno dopo, nel 1920, Leonida Bissolati moriva a Roma. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare …

BRUNO BUOZZI

Bruno Buozzi nacque a Pontelagoscuro (Ferrara) il 31 gennaio 1881 da Orlando e Maddalena Gusti. Nel primi anni del 1900 si trasferì a Milano, dove divenne operaio meccanico, si iscrisse al partito socialista e al sindacato degli operai meccanici e metallurgici, del cui consiglio direttivo entrò preso a far parte. Nel 1911 fu eletto segretario generale della Federazione italiana operai metallurgici (F.I.O.M.), carica che conservò ininterrottamente sino al 1926. Nell’aprile del 1912 fu eletto membro del consiglio direttivo della Confederazione generale del lavoro (C.G.d.L.), ed anche questo ufficio gli fu riconfermato ad ogni successivo rinnovamento. Quando Buozzi assunse il segretariato generale della F.I.O.M., l’organizzazione era in crisi, in seguito alle lotte di corrente. Il conflitto fra sindacalisti e socialisti attraversò un momento decisivo nella primavera del 1912, quando a Torino gli operai dell’industria automobilistica, rifiutando un accordo stipulato tra la F.I.O.M. e il consorzio degli industriali dell’automobile, scioperarono per sessantaquattro giorni sotto la guida di organizzatori di parte sindacalista. L’anno seguente, tuttavia, la F.I.O.M. diretta da Buozzi dimostrò di aver riconquistato e aumentato il proprio prestigio riuscendo, dopo un nuovo sciopero di tre mesi, a stipulare un accordo con valore di contratto collettivo, che prevedeva, fra l’altro, la riduzione di tre ore dell’orario settimanale di lavoro. Scoppiata la guerra in Europa, Buozzi prese posizione a favore della neutralità “assoluta”, pur dichiarando la sua simpatia per le potenze dell’intesa; partecipò alle manifestazioni contro l’intervento a Torino nel maggio 1915 e diede l’adesione della F.I.O.M. alle conferenze di Zimmerwald e di Kiental. Durante i moti di Torino del 22-26 agosto 1917 si adoperò affinché la rivolta popolare non degenerasse in un’insurrezione senza alcun possibile sbocco politico. Egli aderiva alla formula del Partito socialista italiano (P.S.I.) “né aderire né sabotare“, accettandone tuttavia l’interpretazione comune alla maggior parte dei dirigenti sindacali e alla corrente moderata del partito capeggiata da Filippo Turati, che ammetteva e ricercava la collaborazione col governo ai fini della difesa civile. Buozzi entrò, quindi, a far parte dei comitati di mobilitazione industriale del Piemonte e della Lombardia in rappresentanza della F.I.O.M. Questa sua attività gli attirò aspre critiche da parte della sinistra socialista, critiche dalle quali egli si difese sostenendo che, nelle condizioni di limitata libertà sindacale e di sospensione del diritto di sciopero create dalla militarizzazione delle industrie belliche, l’unica sede nella quale si potessero difendere efficacemente gli interessi degli operai erano i comitati di mobilitazione industriale, che fungevano da tribunali arbitrali nelle vertenze del lavoro. Opposte critiche gli furono rivolte da parte degli ufficiali dell’esercito presidenti dei comitati, che giudicavano incompatibile la sua qualità di membro dei comitati con l’attività di organizzatore del movimento operaio che egli seguitava a svolgere. Il contrasto intorno alla partecipazione ai comitati culminò negli ultimi mesi di guerra in un conflitto aperto tra la direzione del P.S.I., nella quale prevalevano i massimalisti, e la C.G.d.L. diretta da riformisti. Il consiglio nazionale della C.G.d.L. deliberò il 9 maggio 1918 di richiedere al governo l’inclusione di rappresentanti della confederazione nella Commissione per lo studio dei problemi del dopoguerra. La richiesta fu accolta; ma la direzione del P.S.I., dopo che il governo aveva già accettato i nomi proposti dalla C.G.d.L., tra i quali figurava quello di Buozzi, richiamò gli iscritti al partito all’osservanza delle deliberazioni congressuali che vietavano di collaborare col governo. Nel consiglio nazionale della C.G.d.L., chiamato a deliberare sulla vertenza il 25 luglio 1918, prevalse un ordine del giorno contrario alla partecipazione. In conseguenza di questo voto si aprì nella C.G.d.L. una crisi che si concluse con le dimissioni del segretario generale Rinaldo Rigola, il quale fu sostituito da Ludovico D’Aragona, mentre Buozzi fu chiamato a far parte del comitato esecutivo. Il conflitto fu risolto in una riunione comune tra gli organi dirigenti del partito e della confederazione tenuta a Roma il 29 settembre 1918, nella quale si riconfermò l’autonomia di entrambi gli organismi nel proprio ambito e si convenne che gli scioperi e le agitazioni nazionali di carattere politico sarebbero stati proclamati e diretti dalla direzione del partito, mentre sarebbe spettato alla confederazione proclamare e dirigere quelli di carattere economico. Il nome di Buozzi è legato specialmente alle grandi lotte sindacali del dopoguerra. Negli ultimi giorni della guerra (31 ottobre-4 novembre 1918) si svolse a Roma il VII Congresso nazionale della F.I.O.M. Tra le rivendicazioni proposte di Buozzi al congresso, e da questo approvate, la più importante era la giornata di lavoro di otto ore: questa conquista, raggiunta con l’accordo del 20 febbraio 1919 tra la F.I.O.M. e l’associazione degli industriali meccanici e siderurgici, fu successivamente estesa alle altre categorie di lavoratori. Più dura fu la lotta per il conseguimento dell’accordo sui minimi salariali che fu concluso solo nel settembre 1919. La crescita della grande industria, accelerata dalla guerra, con la conseguente formazione di una classe operaia più omogenea e l’esperienza delle lotte del biennio postbellico portarono al prevalere di una concezione più moderna della struttura del sindacato: Buozzi era favorevole all’organizzazione del sindacato “per industria“, che superava la vecchia organizzazione “per mestiere” retaggio di mentalità corporativa e di operaismo, e sostenne questa tesi nel primo congresso post-bellico della C.G.d.L. (V della serie, Livorno 26 febbraio-3 marzo 1921), che la accolse adottando il principio del sindacato unitario di tutti i dipendenti da ogni singola industria, operai, tecnici ed impiegati. Al di là del terreno strettamente sindacale andava la rivendicazione del controllo operaio. Il “programma di immediate riforme per il dopoguerra” approvato dal consiglio direttivo della C.G.d.L. il 25-28 novembre 1918 rivendicava, fra l’altro, il “diritto di controllo da parte della rappresentanza degli operai nella gestione della fabbrica”. Buozzi, che nel ricordato congresso della F.I.O.M. si era espresso in termini ancora incerti su questa questione, si trovò poi al centro di essa, quando la conquista del controllo operaio divenne l’obiettivo immediato del movimento che culminò nell’occupazione delle fabbriche. Gli inizi della lotta erano stati strettamente salariali e rivendicativi. Con un memoriale presentato agli industriali il 18 giugno 1920 la F.I.O.M. richiese, infatti, un aumento salariale del 40%, le ferie pagate, l’aumento dell’indennità di licenziamento …

PIETRO NENNI

Pietro Nenni nasce a Faenza il 9 febbraio 1891 da Giuseppe e Angela Castellani. I genitori sono al servizio dei conti Ginnasi. Nel 1896 muore il padre. Nel 1898 a Faenza Nenni assiste ad una carica della cavalleria contro lavoratori e soprattutto donne che hanno assaltato i forn i. Sono i giorni dei moti della fame. Nel 1900, per interessamento della contessa Ginnasi, che vorrebbe farlo diventare prete, è accolto nell’orfanotrofio laico “Maschi Opera Pia Cattani”. E’ uno scolaro ribelle dopo il regicidio scrive nei corridoi della scuola “Viva Bresci”, inneggiando all’uccisione di Umberto I. Nel 1908 è assunto come scrivano in una fabbrica faentina di ceramiche, ma viene subito licenziato per aver preso parte ad uno sciopero. Contemporaneamente è espulso dall’orfanotrofio. Il 5 aprile sul “Popolo di Faenza” appare il suo primo articolo. Altri ne appaiono sul settimanale repubblicano “Il Lamone”. Si iscrive al Partito Repubblicano, partecipa a numerose manifestazioni e conosce i primi giorni di prigione. Nel 1909 promuove scioperi politici in Lunigiana fra i cavatori di marmo. E’ fra i promotori dello sciopero generale di protesta per la fucilazione in Spagna del rivoluzionario Francisco Ferrer Guandia. Dirige il settimanale “Il pensiero romagnolo” e collabora a “La lotta di classe”, diretto dal socialista Benito Mussolini. Nel 1911, sposa Carmen Emiliani. Giolitti annuncia la decisione di occupare la Libia e come conseguenza viene proclamato lo sciopero generale. Nenni, che durante le manifestazioni a Forlì è stato ferito da tre sciabolate, è arrestato e condannato a un anno e quindici giorni. In carcere ha come compagno Mussolini, anch’egli condannato per i moti contro la guerra in Libia. Il 26 dicembre nasce la prima figlia Giuliana. Il 9 aprile del 1913 a Jesi nasce la seconda figlia Eva, chiamata Vany. Nenni tra il 1912-13 si trova nelle Marche tra Jesi, Ancona e Pesaro e svolge una intensa attività di giornalista, nel dicembre del ’13 è nominato direttore del “Lucifero”. Diventa segretario della Federazione giovanile repubblicana. Nel 1914 Nenni, con l’anarchico Malatesta, è uno dei promotori delle manifestazioni a carattere insurrezionale che riguardano la Romagna e le Marche e note come la “Settimana Rossa”. Arrestato e condannato sarà liberato alla fine dell’anno per l’amnistia concessa per la nascita di Maria di Savoia. Nel marzo del 1915 l’Italia entra in guerra. Nenni è per l’intervento e parte volontario. La sua decisione matura in carcere ed è espressa nell’articolo del 6 settembre 1914 dal titolo “Vogliamo la guerra perchè odiamo la guerra” apparso sul Lucifero grazie alla complicità di un secondino. Per il rifiuto di prestare giuramento al Re, viene spedito in carcere, richiede l’intervento del ministro repubblicano Barzilai per essere inviato al fronte. Viene ammesso al corso ufficiali e supera l’esame finale con una ottima votazione, ma “le informazioni sfavorevolissime intorno ai prcedenti politici del sergente Pietro Nenni hanno vietato al Ministero di far luogo alla nomina ad Ufficiale”. Il 31 ottobre del 1915, ad Ancona, nel corso dell’offensiva delle truppe italiane per conquistare Gorizia, nasce la terzogenita alla quale Nenni darà il nome augurale di Vittoria. Nell’autunno del 1916 un barile di polvere da sparo esplode vicino all’osservatorio di Nenni. All’ospedale di Udine è curato per un forte trauma e poi inviato a casa in convalescenza. Nel 1917, durante la convalescenza, assume la direzione del “Giornale del Mattino” di Bologna, che riprenderà dopo la guerra, fina al giugno 1919. Dopo la rotta di Caporetto chiede di tornare in prima linea. Il 1919 è un anno di crisi ideale e politica nel corso della quale matura la sua adesione al movimento socialista. Nel 1920 Nenni inizia per “Il Secolo”, l’attività di inviato speciale all’estero. Molto importante è il viaggio a seguito della missione in Caucasia guidata dal Senatore Ettore Conti, con finalità commerciali e politiche, che permette a Nenni di entrare in contatto con il mondo sovietico. In questo anno lascerà definitivamente il partito repubblicano. Il 23 marzo del 1921, una squadra fascista devasta la sede dell’Avanti!, Nenni accorre alla sede del giornale per dare manforte alla sua difesa. Conosce Serrati che dopo pochi giorni gli chiede di andare a Parigi come corrispondente dell’Avanti in prova per sei mesi a 1800 franchi mensili “comprese per ora le piccole spese di tram, posta, ecc.”. Il 19 aprile appare per la prima volta la sua firma sul quotidiano socialista sotto l’articolo “La bancarotta dell’interventismo di sinistra”. A Parigi si iscrive al PSI. Il 1 dicembre del 1921 nasce la quarta figlia Luciana. Nel 1922 incontra a Cannes Mussolini e avverrà l’ultimo colloquio tra i due amici ormai su posizioni opposte. A maggio è nominato redattore capo dell’ Avanti! che difende ai primi d’agosto da una nuova aggressione fascista. Nell’ottobre, mentre Mussolini si prepara alla marcia su Roma, i socialisti si dividono: i riformisti di Turati, Treves e Matteotti escono dal PSI e danno vita al PSU. Il 26 ottobre una delegazione socialista composta da Serrati, direttore dell’Avanti!, Maffi, Romita e Garuccio, si reca a Mosca dove concorda un progetto di fusione tra il PSI e il Pcd’I. Il nuovo partito dovrebbe chiamarsi Partito comunista unificato d’Italia. Negli organi dirigenti la maggioranza sarebbe comunista e l’Avanti! diretto da Gramsci. Per Nenni questa è la liquidazione del partito. Costituisce con Arturo Vella un Comitato di difesa socialista per “l’autonomia socialista”. Nasce da ciò un violento contrasto con Serrati che da Mosca ordina di sbarazzarsi di Nenni. Ma nè la Direzione, nè l’Avanti! obbediscono: in realtà il partito è contro la fusione. Nel 1923 al rientro da Mosca Serrati, che viene arrestato destituisce Nenni che il 2 marzo viene convocato dal Questore di Milano, che a nome di Mussolini, gli intima di cessare la campagna denigratoria contro il Prefetto di Milano, Lusignoli; Nenni rifiuta e viene arrestato. In aprile si tiene il congresso del PSI a Milano e le tesi autonomistiche di Nenni prevalgono su quelle fusioniste di Serrati. Nenni assume la direzione dell’Avanti!. Il 6 aprile del 1924 in un clima di violenza e illegalità si tengono le elezioni con la nuova legge maggioritaria, la “legge …

SILVESTRO FIORE

Silvestro Fiore nasce a Foggia il 7 settembre 1864 da una famiglia molto povera, il padre è un terrazzano ed è anch’egli un terrazzano. Per meglio comprendere le sue origini, il contesto in cui vive e dal quale cerca di riscattare la sua condizione e quella degli altri sarebbe opportuno leggere cosa raccontano della vita del terrazzano gli scritti di Geramo Sanchelli (1861) e Antonio Lo Re (“Capitanata triste” – 1902) riportati anche su questo sito (Tradizioni e curiosità – Il terrazzano). Fra l’altro, questi scritti aprono e chiudono, quasi completamente, il periodo vissuto dallo stesso Fiore, e rispolverano “la memoria della condizione sub-umana di tanti uomini e di tante donne con la schiera numerosa dei loro figli. Qui è da ricercare – scrive il Sen. Michele Pistillo – l’asprezza delle lotte dei lavoratori per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro. Di qui nasce lo scontro di classe, che in varie forme e a vario grado si sviluppa ai primi del secolo da poco trascorso e che farà della nostra la regione degli eccidi proletari. Condizione sub-umana che non è sola del terrazzano, ma è molto diffusa, perchè investe altre categorie più o meno similari come i braccianti veri e propri, i piccoli versurieri, e no, come gli addetti a piccole e misere arti, mestieri e commerci. Foggia ne porta ancora il ricordo negli scomparsi Borgo Caprari e Borgo Scopari (attualmente piazzetta intestata alle spalle del Banco di Napoli) , e nelle attauli Via Bracciale (sta per bracciante), Via dei Carpentieri e Via dei Conciatori. E’ ancora da “Silvestro Fiore da terrazzano a capolega dei contadini di Foggia” del Sen. Pistillo, che riprendo alcuni elementi per delineare la cornice in cui si incastona l’evento tragico del delitto. “Al censimento del 1901 la popolazione di Foggia è di 53.134 unità, con una popolazione sparsa di appena lo 0,25%. E’ in senso assoluto la più bassa dell’intiera provincia. La popolazione è concentrata nel centro abitato, assediata da una superficie agraria immensa, di oltre 40 mila ettari. Il 69% di questa superficie è coltivata a cereali, il 2% da vigneti, l’1% da oliveti, il 28% a pascolo. Il 60% del territorio è costituito dalle grandi proprietà con una media di 1200 ettari. Il 5% da proprietà con una media di circa 120 ettari; il 25% con proprietà di circa 50 ettari. E’ da questa struttura proprietaria, nella quale domina la grande proprietà terriera, con una rendita che viene utilizzata spesso lontano da Foggia (a Napoli, a Roma), che nasce la figura del terrazzano, nè bracciante, nè contadino, ma legato, con lunghi periodi di disoccupazione, alla terra, seguendo i cicli e i ritmi delle stagioni, giorno per giorno, senza alcuna certezza per il domani”. “Sotto l’influenza delle idealità socialiste, mentre in provincia di Foggia e in tutta la Puglia sono già attivi e presenti con la loro propaganda e l’organizzazione di leghe, Camere del lavoro, cooperative, Domenico Fioritto, Leone Mucci, Canio Musacchio, Giuseppe De Falco, Raffaele Pastore, Euclide Trematore, Matteo Ferrara, Antonio Misceo e numerosi altri, Silvestro Fiore tra la fine dell’800 (che si era chiuso con le cannonate contro i lavoratori di Milano di Bava Beccaris) e gli inizi del ‘900 avvia la sua opera di organizzazione sindacale e di dirigente socialista”. “Nell’agosto del 1901 egli organizza uno “sciopero di campagnuoli”, che dura due settimane, durante il quale Silvestro Fiore viene arrestato assieme ad altri dirigenti della lega. A lui si deve, in primo luogo, l’organizzazione del primo congresso dei contadini pugliesi, che si svolse a Foggia nell’aprile del 1902. Da questo congresso nasce la Camera del Lavoro di Foggia che ha in Silvestro Fiore uno dei maggiori e più combattivi rappresentanti. Nel volgere di poco tempo l’organizzazione contadina di Foggia diventa una delle più numerose e combattive. Nel 1902 la Camera del Lavoro di Foggia è costituita da diverse leghe ben organizzate e dirette: contadini, muratori, mugnai e panettieri, calzolai, metallurgici, falegnami. La più forte è quella dei contadini con 2.400 aderenti. Quella delle contadine ha 1.500 socie. I contadini hanno il forno cooperativo ove si lavorano da 8 a 10 quintali di pane al giorno. Tutto il movimento è diretto da socialisti”. Nella terra degli “eccidi cronici” il nuovo secolo si apre con una sequela spaventosa: – Candela, 8 settembre 1902, otto morti, numerosi feriti, più di cento arresti. Il brigadiere dei carabinieri Centami, che diresse la carneficina, o che comunque non seppe evitarla, sarà premiato dal Governo Giolitti con una medaglia d’onore e trasferito ad Ancona: – Cerignola 16 maggio 1904, tre morti; – San Marco in Lamis, 8 marzo 1905, quattro morti. Anche a Foggia il 18 aprile 1905 avverrà un eccidio durante uno sciopero dei ferrovieri (sul sito: 18 aprile 1905 – L’eccidio di Foggia): cinque morti, decine di feriti ed arresti. Silvestro Fiore è fra gli arrestati e viene perseguitato fin quando non si decide di eliminarlo dalla scena L’ASSASSINIO Vi erano dissapori fra Silvestro Fiore e un gruppo di cosiddetti anarchici, fra cui alcuni fuorusciti dalla Lega dei contadini capeggiati da tale Carretta, peraltro non più rieletto negli ultimi organismi della Lega. L’ultimo attacco il Fiore lo aveva ricevuto su il “Libertario”, organo del partito anarchico, domenica 20 settembre 1909, e appena ne ebbe notizia, la sera del successivo sabato, andò a trovare il Carretta, a casa sua, per dare e avere spiegazioni circa le accuse fattegli. L’incontro, senza esito, fu rinviato al giorno successivo. Il Carretta, che sembra aver detto alla famiglia uscendo di casa “Pranzate pure, non mi aspettate”, unitamente ad alcuni compagni, e il Fiore con due aderenti alla Lega contadini si incontrarono lungo il corso principale e si appartarono per ragionare. All’improvviso il Carretta, che risultò essere prevenuto, estrasse un coltello, la cui lama era lunga ben 22 centimetri, e vibrò un terribile colpo al petto del Fiore. Il Fiore ricevuto il forte impatto del colpo, pur difendendosi con il bastone, perse l’equilibrio e cadde, al che il Carretta gli fu addosso e lo crivellò di pugnalate. Anche …

ODDINO MORGARI

Oddino Morgari nacque a Torino il 16 novembre 1865 da Paolo Emilio e da Clementina Lomazzi: una famiglia di artisti, di estrazione piccolo borghese. Da giovane si avvicinò alle idee mazziniane, un’adesione che nel clima politico dell’Italia liberale gli valse nel 1885 l’espulsione dall’Istituto geografico militare, dove stava svolgendo il servizio militare. Si recò dunque a Parigi e in seguito a Marsiglia, dove nel 1890 diresse un circolo mazziniano. La sua formazione politica conobbe una svolta nel 1891, quando incontrò a Torino il futuro dirigente socialista (e amico di Filippo Turati) Claudio Treves, col quale si avvicinò al socialismo, tanto che, quando nel novembre 1892 venne creata nel capoluogo piemontese la sezione locale dell’appena fondato Partito socialista dei lavoratori italiani, ne divenne il segretario. Iniziava così una milizia che sarebbe durata tutta la vita e cominciavano anche le collaborazioni giornalistiche con gli interventi su La Parola del Popolo, supplemento de Il Grido del Popolo. Sul movimento proletario organizzato si stavano però per abbattere i fulmini della repressione di Francesco Crispi e Morgari non ne fu immune. Già nell’agosto 1893 fu arrestato nel corso di una manifestazione e condannato a dieci giorni di detenzione, mentre nel 1894, sottoposto a processo insieme a Treves per un suo articolo (considerato «sovversivo») sul Grido, fu condannato a tre mesi di confino ad Aosta. Caduto Crispi e ripristinate – almeno momentaneamente – le principali libertà civili e politiche, Morgari poté tornare alla sua attività di dirigente politico e pubblicista. In questo periodo mise a punto la propria visione del socialismo di natura positivista, fondata sulla fiducia in un moto lineare di sviluppo verso un nuovo ordine sociale: il socialismo sarebbe giunto grazie a una spontanea spinta evolutiva, mediante i progressivi successi delle forze proletarie e l’espansione delle loro organizzazioni. Intanto rivelava le sue doti di propagandista, impegnandosi nella duplice attività di pubblicista e di conferenziere, con periodici giri a tutte le latitudini della penisola, dove sapeva rivolgersi alle masse popolari con parole semplici e persuasive. Grazie alla raggiunta notorietà, nel 1897 fu eletto deputato del Partito socialista italiano (PSI) a Torino, avviando così una lunga carriera parlamentare, che si protrasse ininterrottamente dalla XX (1897- 1900) alla XXVI legislatura (1921-24). Con la crisi di fine secolo sul partito si abbatté una nuova tempesta. Giunto a Milano nel maggio 1898, nei giorni della rivolta popolare e della brutale repressione, Morgari fu arrestato con l’accusa di aver incitato all’odio di classe. Sottoposto a processo presso la corte marziale, fu però assolto per insufficienza di prove e tornò alla sua attività di parlamentare e di propagandista, che svolse anche sulle pagine del Sempre avanti!, periodico per gli umili e i pratici, il settimanale da lui fondato nel febbraio 1900. Scosso dalle drammatiche vicende milanesi del 1898 e sulla scorta delle già acquisite convinzioni gradualiste, appoggiò l’alleanza elettorale del PSI con le forze radicali-democratiche per le elezioni politiche del 1900 e accolse con favore la svolta liberale guidata da Giovanni Giolitti nel 1901. Ciò nondimeno non aderì mai a posizioni che all’epoca venivano definite ‘ministerialiste’. Pur condividendo l’occasionale voto favorevole del gruppo parlamentare socialista verso singoli provvedimenti del governo, denunciò infatti instancabilmente il trasformismo di Giolitti e i metodi spregiudicati dei deputati giolittiani, soprattutto al Sud. Tanto che nel 1902 svolse un giro di conferenze proprio nel Meridione e pubblicò poi un pamphlet dal titolo Un lupo in mitria. Requisitoria contro sua eccellenza rev.ma monsignore dottor don Gaetano D’Alessandro vescovo e parroco di Cefalù in Sicilia (Corigliano Calabro 1905), un vero e proprio libro- inchiesta nel quale, anticipando i toni di lì a poco usati da Gaetano Salvemini su Critica sociale, lanciava un’accorata nonché documentata denuncia contro la mafia e invocava il suffragio universale maschile come l’unico strumento che – a suo giudizio – avrebbe posto dei limiti alla corruttela dei notabili e consentito l’ascesa delle masse popolari. Intanto nel 1906 fu eletto segretario della Camera del lavoro di Torino, dove accrebbe ulteriormente la sua popolarità, anche perché con grande pragmatismo condusse la lotta per le dieci ore di lavoro. Fu proprio questa peculiare combinazione di duttilità politica e rigore morale a porre le basi per una nuova, e forse più importante, svolta nella sua vita di militante. Nel PSI ferveva infatti lo scontro tra i riformisti di Turati e le correnti intransigenti di Arturo Labriola e Costantino Lazzari, i quali, grazie all’appoggio del carismatico direttore dell’Avanti! Enrico Ferri, nel 1904 avevano conquistato la guida del partito, con una maggioranza però ristretta e fragile, perché Ferri, resosi ben presto conto di non poter manovrare come sperava i suoi temporanei alleati, se ne stava distaccando. Morgari, da tempo angustiato per le fratture politicoideologiche che laceravano il partito, nonché interprete delle analoghe preoccupazioni della base, cui apparivano spesso incomprensibili le divisioni del vertice, si mise all’opera per sanare tali spaccature. Nacque così una nuova corrente, definita ‘integralista’, che vide in Morgari il promotore e il protagonista, con lo scopo di favorire la convergenza tra Ferri e i riformisti di Turati e Leonida Bissolati. L’operazione riuscì e al congresso del PSI del 1906 la vittoria arrise proprio alla corrente integralista, sulla quale confluirono i voti dei riformisti, intenzionati con tale atto ad emarginare la sinistra rivoluzionaria e a porre le basi per la piena riconquista del partito. Benché la piattaforma integralista fosse in realtà molto vaga e generica, tale successo valse a Morgari l’ascesa ai vertici della politica nazionale. Si trasferì quindi a Roma e venne poco tempo dopo nominato capo del gruppo parlamentare socialista alla Camera. Dal febbraio al settembre 1908, in seguito alle dimissioni di Ferri, assunse anche la direzione dell’Avanti!, che avrebbe lasciato a Bissolati dopo il congresso di Firenze del 1908, quando i riformisti riconquistarono la maggioranza del partito. Morgari si dedicò all’incarico parlamentare e a quello giornalistico con un impegno notevolissimo, associato però – come testimoniano le lettere del suo archivio personale – a una crescente insofferenza verso lo spirito di compromesso, che riteneva eccessivo, di molti deputati socialisti. La sua intransigenza emerse in modo particolare nel …

CARLO E NELLO ROSSELLI

Carlo e Nello (vero nome Sabatino) Rosselli nascono a Roma, rispettivamente il 16 novembre 1899 e il 29 novembre 1900. Il terzo fratello, Aldo, il primogenito, nato nel 1898, morirà durante la Prima guerra mondiale. La madre, Amelia Pincherle, apparteneva a una facoltosa famiglia della borghesia ebraica veneziana ed era scrittrice di teatro e di letteratura. Il padre, Giuseppe Emanuele, proveniva anch’egli da una nota famiglia ebraica fortemente legata alle vicende del Risorgimento nazionale, amica e sostenitrice di Giuseppe Mazzini nel lungo esilio londinese. Proprio in casa del prozio, Pellegrino Rosselli, a Pisa, era morto Mazzini nel 1872. Amelia, dopo la separazione dal marito, si trasferisce a Firenze nel 1903 con i tre figli, della cui educazione si assumerà tutta la responsabilità, trasmettendo loro il forte senso di una moralità austera, ma non per questo arida di affetto; un affetto che rimarrà saldissimo tra la madre e i figli per tutta la vita. Il profondo legame che, per parte sia di madre sia di padre, unisce la famiglia Rosselli al Risorgimento fa sì che profondo sia il sentimento di italianità che anima i tre fratelli; un sentimento che non si confonde né, da un lato, con il nazionalismo, né, dall’altro, con il sionismo, e che, in occasione del primo conflitto mondiale, viene rafforzandosi, essendo Amelia una fervida interventista. Aldo parte volontario nel giugno 1915, e come ufficiale di fanteria trova la morte in combattimento sulle Alpi Carniche nel marzo 1916. Carlo viene chiamato alle armi nel giugno 1917, svolge il servizio militare come ufficiale nell’artiglieria alpina e viene congedato nel febbraio 1920. Nello, pur non partecipando al conflitto, dall’aprile 1918 svolge il servizio militare e si congeda nel novembre 1919 con il grado di sottotenente. Per Carlo e Nello, tornati a Firenze, risulta fondamentale l’incontro con Gaetano Salvemini. Per Carlo, che nelle trincee ha scoperto l’Italia proletaria e che si laurea dapprima, nel 1921, in scienze politiche a Firenze e quindi, nel 1923, in legge a Siena, riveste grande importanza anche l’incontro con Alessandro Levi, filosofo politicamente turatiano, tramite il quale scopre il socialismo. Nello, tornato agli studi, nel 1919 si lega di un affetto filiale a Salvemini, confidandogli la propria scelta di dedicarsi alla ricerca storica; nella primavera del 1920 questi gli affida una tesi sull’ultimo periodo della vita di Mazzini, che gli fa stendere per ben tre volte prima di consentirgli di laurearsi, nel marzo 1923, in filosofia e filologia. Nel novembre di quello stesso anno Carlo inizia a insegnare presso l’Università Bocconi di Milano quale assistente nel corso di economia politica di Luigi Einaudi; nel 1924, grazie all’appoggio di Attilio Cabiati, diviene docente incaricato di istituzioni di economia politica presso la facoltà di Economia di Genova. Nel 1926 Carlo sposerà l’inglese Marion Cave, dalla quale avrà tre figli (tra cui la nota poetessa Amelia Rosselli); nello stesso anno Nello sposerà Maria Todesco, dalla quale avrà quattro figli. Entrambi – e con loro Piero Calamandrei – fanno parte sin dalla fondazione del gruppo che, dal 1920, riunito intorno a Salvemini, costituisce il primo nucleo organizzato dell’antifascismo italiano. Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), Carlo aderisce al Partito socialista unitario (PSU), mentre anche l’impegno politico di Nello si intensifica, e nel novembre 1924 a Livorno, dalla tribuna del quarto Congresso giovanile ebraico, egli lancia un messaggio di lotta e di mobilitazione. Frattanto, dal 1919 a Firenze agisce un fascismo squadristico particolarmente violento e senza scrupoli, che ricorre anche all’assassinio politico; per gli antifascisti non è facile, ed è molto rischioso, trovare le forme per opporvisi. Al fianco di Salvemini, vero leader dell’antifascismo fiorentino in quegli anni difficili, Nello è particolarmente attivo, a partire dal 1920, nel raccogliere intorno allo storico pugliese coloro che desiderano discutere liberamente di argomenti politici, sociali, economici e culturali. Si tratta di un impegno che riscuote un grande consenso, tanto che, nel febbraio 1923, si decide di fondare un Circolo di cultura che inizia la propria attività due mesi dopo. A Firenze, ove si fronteggiano gli squadristi più violenti e antifascisti di grande coraggio, nel giugno 1924 gli interventisti democratici danno vita all’associazione clandestina Italia libera, cui partecipa anche Nello, con un’attività rilevante. Oltre a Calamandrei, vanno ricordati quali membri del gruppo salveminiano Ernesto Rossi, Nello Traquandi e Nello Niccoli, poi tutti aderenti al Partito d’azione; gli ultimi due saranno attivissimi nella cospirazione e nella lotta armata (Niccoli, per es., sarà il comandante del Corpo volontari della libertà della Toscana). Il fascismo, dopo aver superato la crisi provocata dall’assassinio di Matteotti, si appresta a dare l’assalto definitivo al moribondo Stato liberal-sabaudo e intensifica la propria azione aggressiva contro gli oppositori del regime. A Firenze l’offensiva è particolarmente violenta: il 31 dicembre 1924 gli squadristi assaltano le sedi del quotidiano liberal-democratico «Il nuovo giornale» e del Circolo di cultura; quest’ultimo viene sciolto il 5 gennaio 1925. Carlo e Nello sono tra coloro che con più calore sostengono la necessità, vista la situazione, di passare alle vie illegali, un’idea che trova concordi Traquandi, Ernesto Rossi e altri; così, nel gennaio 1925 vede la luce «Non mollare», giornale clandestino e primo foglio dell’antifascismo italiano. Il giornale uscirà fino a ottobre, ma Nello non ne potrà seguire ogni numero poiché Salvemini in marzo lo invia a Berlino per un periodo di studio. Ed è in Germania che Nello apprende dell’arresto di Salvemini, avvenuto l’8 giugno, e del processo cui è sottoposto, nonché dell’irruzione squadristica nella propria casa, che viene devastata perché i Rosselli – cui i fascisti danno la caccia – sono accusati di aver ospitato Salvemini. Così Nello decide di prolungare la permanenza a Berlino e torna a Firenze solo in agosto, quando la situazione è ormai più tranquilla. La calma, tuttavia, dura poco. Infatti, quando «Non mollare», il 20 settembre, pubblica una lettera a Benito Mussolini di Cesare Rossi, già suo capoufficio stampa, in cui questi minaccia di renderne note le responsabilità dirette nella promozione di azioni illegali e squadristiche contro gli oppositori del regime, a Firenze la violenza fascista dilaga con inaudita forza …

GIUSEPPE EMANUELE MODIGLIANI

Nacque a Livorno il 28 ottobre 1872, da Flaminio e da Eugenia Garsin, in una famiglia della borghesia ebraica, primogenito di quattro fratelli, l’ultimo dei quali, Amedeo, fu il celebre pittore. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pisa, ebbe come docenti E. Ferri e A. Zerboglio, la cui influenza fu determinante nell’avvicinare Modigliani al socialismo. Tra i fondatori, nel 1894, della sezione livornese del Partito socialista, fu eletto l’anno successivo consigliere comunale della sua città, quindi segretario della Federazione socialista toscana. Laureatosi in giurisprudenza, mise l’attività professionale al servizio della battaglia politica, difendendo nel 1896 i dirigenti della Camera del lavoro di Livorno accusati di incitare all’odio tra le classi. Iniziò a collaborare con la stampa di partito e nel 1898 fu chiamato a Piacenza per dirigere il settimanale socialista La Montagna ma, appena giunto nella città emiliana, fu arrestato. Trasferito a Firenze fu portato davanti al tribunale militare, che lo condannò a nove mesi di carcere. Al VI congresso socialista (Roma, 8-11 settembre 1900) Modigliani, schierato con la corrente riformista di Filippo Turati, presentò un ordine del giorno che dava il via libera ad alleanze locali con altre formazioni di sinistra. A Livorno i socialisti aderirono al blocco popolare che vinse le elezioni ed espresse una giunta di cui Modigliani fece parte come assessore al dazio consumo, ma nel gennaio 1903, delusi dall’esperienza amministrativa, ritirarono il loro sostegno. Contrario a tale scelta il M. si trovò in minoranza e nel 1904 non fu delegato all’VIII congresso nazionale, che vide prevalere la sinistra intransigente e rivoluzionaria. Lo scontro interno al Partito socialista italiano (PSI) assunse a Livorno toni particolarmente aspri sulle pagine dei settimanali L’Azione socialista, diretto da Modigliani ed espressione dei riformisti, e La Parola dei socialisti, voce delle correnti rivoluzionarie. Il riformismo di Modigliani aveva caratteri originali, distinguendosi da quello che egli definiva «piccolo operaio» legato al mondo sindacale o cooperativo. Pur avendo maturato una significativa esperienza sindacale come organizzatore dei «bottigliai» (nel 1901 condusse la categoria alla conquista del contratto collettivo nazionale, il primo sottoscritto in Italia) Modigliani assegnava al partito il primato nella rappresentanza degli interessi generali della classe lavoratrice. Al congresso di Firenze (19-22 settembre 1908), allorché i riformisti tornarono alla guida del partito, Modigliani, pur senza rompere con la corrente d’appartenenza, assunse tuttavia una posizione distinta, trovandosi d’accordo con Gaetano Salvemini su una serie di punti: dalla battaglia per il suffragio universale al rifiuto del riformismo «corporativo», dall’opposizione al sistema giolittiano al rilievo dato alla questione meridionale. L’XI congresso (Milano, 21-25 ottobre 1910), che confermò i riformisti alla guida del PSI, rese però evidenti le divisioni al loro interno tra i seguaci di Turati, la sinistra guidata da Modigliani e la destra di Leonida Bissolati. A scompaginare ulteriormente le file riformiste intervenne la guerra di Libia, che provocò l’uscita di Salvemini dal partito e, con motivazioni opposte, l’espulsione di Bissolati, Ivanoe Bonomi e Angiolo Cabrini decisa dal XIII congresso (Reggio Emilia, 7-10 luglio 1912). In quella sede Modogliani, dissentendo dalla linea prudente di Turati, auspicò un’opposizione più dura contro il governo. Eletto alla Camera il 26 ottobbre 1913 nel collegio di Budrio-Molinella, già nel corso della sua prima legislatura Modigliani emerse come una delle figure di spicco dell’aula, in virtù degli oltre cento interventi svolti e di una perfetta conoscenza del regolamento e delle prerogative parlamentari. La sua voce si levò contro l’impresa libica e quindi contro l’intervento dell’Italia nella guerra mondiale, denunciando le speculazioni affaristiche, gli errori del governo e dei comandi militari e la dura disciplina imposta ai soldati al fronte. Modigliani fu uno dei protagonisti delle iniziative pacifiste del movimento socialista europeo. Il 27 settembre 1914 partecipò alla conferenza socialista italo-svizzera di Lugano, che denunciò la guerra come strumento del capitalismo per conquistare nuovi mercati e opprimere il proletariato. Fu estensore, insieme con Christjan Rakovskij e Leon Trotskij, dell’ordine del giorno approvato dalla conferenza dell’Internazionale socialista di Zimmerwald (5-8 settembre 1915), e alla successiva conferenza di Kienthal (24-30 aprile 1916) condannò il comportamento di quei partiti che avevano fatto prevalere la propria ragion di Stato sulla solidarietà internazionalista. La sua posizione non gli impedì di partecipare alle due conferenze socialiste dei paesi alleati sui problemi della pace, che si tennero a Londra nel 1918. Un passaggio del suo intervento nel quale auspicava «una pace qualunque» fu preso a pretesto dai suoi avversari politici per attaccarlo e per far votare, in sua assenza, dal Consiglio comunale di Livorno, un ordine del giorno che esprimeva «il più profondo disprezzo» verso quanti, invocando, come in Russia, una «pace di servi» deprimevano lo spirito pubblico. Indignato per l’attacco, il 3 maggio 1918 Modigliani si dimise dal Consiglio, ma tornò a farne parte dopo le elezioni del 7 novembre 1920 con le quali i socialisti conquistarono per la prima volta il Comune, confermando il successo ottenuto l’anno prima alle politiche. La lotta contro la guerra aveva accresciuto la popolarità di Modigliani, che tornò alla Camera riportando il maggior numero di voti nel collegio Pisa-Livorno. Di lì a poco il suo ruolo fu però messo in discussione dalla crescente influenza nel Partito socialista dei massimalisti e dei gruppi anarchici. La suggestione degli eventi russi, i moti contro il caro vita, l’occupazione delle fabbriche concorsero a determinare il distacco dal gradualismo di Modigliani di parti importanti del movimento operaio e socialista livornese. All’interno di un partito quasi interamente sedotto dalla prospettiva rivoluzionaria Modigliani si ostinava a battersi per un’aggregazione delle forze progressiste intorno alla formula «Costituente e Repubblica». La sua proposta cadde nel vuoto mentre egli stesso veniva additato da Lenin come uno dei dirigenti riformisti di cui occorreva liberarsi per poter creare in Italia il partito rivoluzionario. Vittima di due aggressioni squadriste – il 20 luglio 1920 a Roma e il 1° maggio 1921 sul treno Pisa-Viareggio – Modigliani fu tra i patrocinatori del patto di pacificazione tra socialisti e fascisti del 3 agosto 1921 e fautore di un’intesa di governo tra il PSI e le forze della borghesia laica e cattolica in funzione antifascista. …