ENRICO FERRI

Enrico Ferri nacque a S. Benedetto Po, in provincia di Mantova, nel 1856, da famiglia di media agiatezza. Compiuti i primi studi nel paese nativo, divenne alunno di Roberto Ardigò al liceo classico “Virgilio” di Mantova e poi di Pietro Ellero alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove si laureò nel 1877 con una tesi su La teorica dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio. Dopo il perfezionamento a Pisa ed a Parigi dove scrisse gli Studi sulla criminalità in Francia dal 1825 al 1878 ottenne la libera docenza e poi la cattedra di diritto penale, materia che insegnò ininterrottamente dal 1884 al 1929 nelle Università di Torino, Bologna, Siena ed infine Roma. Fu fra i fondatori italiani della sociologia criminale, con opere quali Socialismo e criminalità (1883), Sociologia criminale (1892), Socialismo e scienza positiva (1894), nonchè, nel 1919, presidente della Commissione reale per la riforma delle leggi penali, veste nella quale pubblicò un Progetto di codice penale italiano (1921), preceduto da una relazione introduttiva che influenzò largamente la legislazione penale anche di altri paesi. Radicale moderato fu eletto deputato per la prima volta nel 1886. Nel 1893, in occasione del congresso socialista di Reggio Emilia aderì al partito assestandosi su posizioni moderate, che già al congresso di Firenze del 1896 abbandonerà per diventare uno degli ispiratori di un’area di ‘rivoluzionari intransigenti’. Fu direttore dell’”Avanti!” dal 1904 al 1908. Nel febbraio 1911 aderì a Democrazia rurale del socialista mantovano Gatti. Nel marzo 1912, dopo avere votato a favore del decreto di annessione della Libia all’Italia, diede le dimissioni da deputato uscendo dal Partito socialista. Allo scoppio della prima guerra mondiale pur sostenendo la neutralità italiana, non nascose simpatie per l’interventismo democratico. Rieletto nel 1921 nelle liste del Psi per la circoscrizione di Cremona – Mantova, nel 1922 aderì al Psu, ma nei mesi successivi si avvicinò progressivamente al fascismo. Nominato senatore nel marzo del 1929, morì il 12 aprile dello stesso anno. Fonte: Fondazione di studi storici Filippo Turati SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SANDRO PERTINI

Alessandro Pertini nacque a Stella, in provincia di Savona, il 25 settembre 1896 da famiglia benestante (il padre Alberto era proprietario terriero). Quattro i suoi fratelli: Luigi, il primogenito, pittore; Marion sposata a un diplomatico; Giuseppe ufficiale di carriera; Eugenio, scomparso giovanissimo nel campo di concentramento di Flossenbürg, il 25 aprile 1945. Legatissimo alla madre, Maria Muzio, Pertini compì i suoi studi presso il collegio dei salesiani “Don Bosco” di Varazze; poi al liceo “Chiabrera” di Savona. Qui, ebbe come docente di filosofia Adelchi Baratono, socialista massimalista, ma anche collaboratore della Critica Sociale di Filippo Turati, che contribuì a indirizzarlo verso il socialismo e gli ambienti del movimento operaio ligure. Iscrittosi all’Università, Pertini si laureò in giurisprudenza. Nel 1917, venne richiamato come sottotenente di complemento e inviato sul fronte dell’Isonzo e sulla Bainsizza. Sebbene segnalato alle autorità militari come simpatizzante socialista e neutralista, il giovane tenente si distinse per una serie di atti di eroismo e venne proposto per la medaglia d’argento al valor militare per aver guidato, nell’agosto 1917, un assalto al monte Jelenik. Nel primo dopoguerra, Sandro Pertini si avvicinò al PSI. Trasferitosi a Firenze, ospite del fratello Luigi, si iscrisse all’Istituto “Cesare Alfieri” conseguendo la laurea in Scienze politiche nel 1924, con una tesi intitolata “La Cooperazione”. A Firenze, Pertini entrò in contatto con gli ambienti dell’interventismo democratico e socialista e in particolare con Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi. In questo periodo aderì al movimento antifascista “Italia Libera”. Ormai in conflitto irriducibile con il fascismo, che proprio nell’ottobre del 1922 era salito al potere con la marcia su Roma, il giovane avvocato divenne presto il bersaglio di ripetute violenze squadriste. Nel 1924, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti da parte dei fascisti, aderì al Partito socialista unitario. All’indomani del delitto Matteotti, Pertini iniziò un’intensa attività contro il fascismo. Il suo studio di avvocato a Savona venne più volte distrutto; egli stesso fu bastonato in più occasioni dagli squadristi. Il 22 maggio 1925, venne arrestato a Stella per aver distribuito il foglio clandestino Sotto il barbaro dominio fascista. Negli articoli in esso pubblicati e rivendicati da Pertini come propri, venivano poste in rilievo le responsabilità della monarchia per il perdurare del regime fascista e delle sue illegalità. Inoltre, si esprimeva sfiducia nell’operato del Senato del Regno, composto in maggioranza da filofascisti, chiamato a giudicare in Alta Corte di Giustizia l’ eventuale complicità del generale Emilio De Bono nel delitto Matteotti. Accusato di “istigazione all’odio tra le classi sociali” (art. 120 del Codice Zanardelli), oltre che dei reati di stampa clandestina, oltraggio al Senato e lesa prerogativa della irresponsabilità del re per gli atti di governo, Pertini, sia nell’interrogatorio successivo all’arresto, sia di fronte al procuratore del re, sia durante l’udienza pubblica davanti al Tribunale di Savona, rivendicò il proprio operato, assumendosi ogni responsabilità, e si disse deciso, qualunque fosse la condanna inflittagli, a proseguire nella lotta antifascista, per il socialismo e la libertà. Il 3 giugno di quello stesso anno, fu condannato a otto mesi di detenzione e al pagamento di un’ ammenda per i reati di stampa clandestina, oltraggio al Senato e lesa prerogativa regia, ma fu assolto per l’accusa di istigazione all’odio di classe. Liberato dopo il vittorioso appello del suo difensore, Giovambattista Pera, Pertini proseguì nella sua lotta. Il 9 giugno 1925, alla vigilia dell’anniversario del delitto Matteotti, con l’aiuto di alcuni operai, Pertini riuscì ad appendere, sotto la lapide che alla fortezza di Savona ricordava la prigionia di Giuseppe Mazzini, una corona con un nastro rosso e la scritta: “gloria a Giacomo Matteotti”. Le violenze e le bastonature fasciste proseguirono con maggiore violenza. La più grave, nell’estate del 1926, lo costrinse al ricovero in ospedale. Nel novembre 1926, dopo il fallito attentato a Mussolini di Zamboni, Pertini, come molti altri antifascisti in tutta Italia, fu oggetto di nuove violenze da parte dei fascisti e fu costretto ad abbandonare Savona e a rifiugiarsi a Milano. Il 4 dicembre, dopo la proclamazione delle leggi eccezionali, venne assegnato al confino per la durata di cinque anni (il massimo previsto dalla legge). Ormai in clandestinità, rifugiatosi presso l’abitazione milanese di Carlo Rosselli, Pertini ebbe modo di conoscere di persona il “maestro” del socialismo riformista italiano, Filippo Turati. Fu anzi uno degli organizzatori del suo clamoroso espatrio. All’ultimo momento, anche in considerazione dell’avvenuta assegnazione al confino, Pertini venne scelto come accompagnatore di Turati verso l’esilio francese. Per prima cosa, fu deciso di dirigersi verso Savona. Dall’8 all’11 dicembre, Pertini e Turati trovarono rifugio in casa di Italo Oxilia a Quigliano. Nella notte tra l’11 e il 12 dicembre, accompagnati da Ferruccio Parri, Carlo Rosselli e Adriano Olivetti, nonché da Boyancé, Oxilia, Da Bove e dal meccanico Amelio, Turati e Pertini si imbarcarono da uno dei moli di Savona su un motoscafo guidato da Oxilia e Da Bove. Dopo una tempestosa navigazione, raggiunsero, la mattina del 12, la città di Calvi, in Corsica. Mentre gli altri ripartivano per l’Italia nel pomeriggio del giorno successivo, Pertini e Turati rimasero in Francia. In una pagina piena di commozione, Pertini rievocherà l’amarezza di Filippo Turati, consapevole che mai più sarebbe tornato in Italia. Il mattino del 14 dicembre, Parri e Rosselli, scoperti dalla polizia mentre attraccavano con il motoscafo a Marina di Carrara, vennero subito collegati al clamoroso espatrio di Turati. La vicenda sfociò nel processo di Savona, che si concluse il 14 settembre 1927 con la condanna a 10 mesi di reclusione per Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Da Bove e Boyancé; e con quella di Turati e Pertini, in contumacia. Anche Oxilia, in quanto capo della spedizione, subì una dura condanna. Il processo di Savona fu una delle ultime manifestazioni pubbliche della lotta contro il fascismo in Italia. In esilio, Pertini strinse contatti con gli altri antifascisti italiani e partecipò al congresso della Lega dei diritti dell’uomo tenutosi a Marsiglia. Trasferitosi a Parigi e poi a Nizza, si adattò a diversi mestieri per vivere: da lavatore di taxi a manovale e muratore, dal peintre en bâtiment alla comparsa cinematografica. Nel …

BETTINO CRAXI

1934-1968 – La Formazione – Inizio dell’attività politica LA FORMAZIONE Bettino (diminutivo di Benedetto) Craxi nacque a Milano il 24 febbraio del 1934. Il padre Vittorio era originario di Messina, emigrato a Milano dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, e la madre Maria Ferrari era di S. Angelo Lodigiano. Ebbero altri due figli, Antonio e Rosilde. Negli anni della guerra, mentre Bettino frequentava la scuola elementare al collegio De Amicis di Cantù, il padre aprì uno studio legale e si inserì nella vita politica cittadina. Dopo la distruzione del primo ufficio durante un bombardamento alleato, il secondo studio si trasformò in sede di incontri clandestini fra persone ostili al regime fascista. Vittorio aderì alla Resistenza entrando nell’esecutivo del Partito Socialista, e al termine della guerra fu nominato prima viceprefetto di Milano e successivamente prefetto di 2° classe a Como. Impegnato anche nella vita di partito, Vittorio partecipò alle elezioni politiche del 1948, ma senza successo. Già allora, Bettino svolse un ruolo molto attivo nella campagna elettorale del padre; colse la debolezza del Psi fra i partiti di massa, e la predominanza del Pci tra i partiti del Fronte Democratico Popolare. A diciotto anni, terminato il liceo, Bettino si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano, seguendo la direzione paterna. Sostenne diversi esami, ma non completò mai il percorso di studi. Biografia Contemporaneamente, nel 1952, maturò la decisione di iscriversi al partito, presso la sezione di Lambrate. Furono anni di grande attivismo universitario, con la fondazione del Nucleo universitario socialista entrò nel gruppo Università Nuova, aderente al Cudi (Centro universitario democratico italiano), l’organizzazione studentesca che nei primi anni dell’Unuri (Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana) raggruppava le forze della sinistra frontista. Tenne i primi discorsi in pubblico, organizzò conferenze, dibattiti, proiezioni cinematografiche, ed entrò a far parte del Comitato provinciale del Psi milanese. L’INIZIO DELL’ATTIVITA’ POLITICA Con le associazioni universitarie visitò i paesi del socialismo reale a metà degli anni cinquanta. Nel 1956, in qualità di vicepresidente nazionale dell’Unuri e dirigente della Federazione giovanile socialista, si recò a Pechino e poi, come delegato del Cudi, a Praga. Nella città ceca conobbe Jiri Pelikan, presidente dell’Uie (Unione internazionale degli studenti). A seguito dei fatti di ottobre in Polonia presentò al Direttivo provinciale del Psi, insieme ad altri giovani militanti, una mozione in cui si esprimeva solidarietà nei confronti dei giornalisti di «Po Prostu», quotidiano colpito dalla censura e poi soppresso. L’osservazione diretta del mondo comunista e, soprattutto, la conoscenza personale dei dissidenti ungheresi e polacchi consolidarono in lui la necessità di differenziare la politica del Psi da quella del Pci. L’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) spinse Nenni ad un definitivo ripudio della fallimentare esperienza frontista. Per Craxi era giunto il momento dell’irrevocabile distacco dalla politica filocomunista in favore di una svolta del tutto autonoma del Psi. Con il gruppo di giovani che condivideva questa linea, Craxi fondò «Energie nuove». Da Milano ebbe inizio la battaglia di un gruppetto dei giovani autonomisti: Durante, Cocucci, Turri e Natali. Al nucleo originario se ne unì un altro, composto tra gli altri da Carlo Tognoli, Giorgio Gangi, Luigi Vertemati, i fratelli Baccalini. Al Congresso di fine anno, gli autonomisti conquistarono la maggioranza: Guido Mazzali e Giovanni Mosca divennero rispettivamente segretario e vicesegretario. Sempre nel 1956, alle elezioni amministrative di novembre, Craxi si presentò nella lista del Psi e fu eletto consigliere comunale a S. Angelo Lodigiano, paese natale della madre. Al Congresso di Venezia, dal 6 al 10 febbraio 1957, venne eletto nel Comitato centrale del Psi dagli autonomisti di Nenni. Insieme ai giovani universitari socialisti, Craxi entrò nell’Unione goliardica italiana (Ugi) e svolse un’intensa attività interna e internazionale. Partecipando a meeting e congressi studenteschi in Cina, in Perù, in Africa settentrionale, a Londra e a Parigi sviluppò una rete di relazioni internazionali che mantenne anni dopo anche nel partito. Quando, nel 1958, una coalizione composta da radicali, comunisti e sinistra socialista lo mise in minoranza, dapprima nell’Unuri, poi nell’Ugi, Craxi tornò a dedicarsi prevalentemente alla vita di partito. Fu inviato da Mazzali a Sesto S. Giovanni come responsabile di zona. Nella “Stalingrado d’Italia” il contatto quotidiano con la classe operaia impegnata in lotte sindacali rappresentò una tappa fondamentale della sua formazione. In seguito alle elezioni amministrative del 1960, Craxi entrò nella giunta milanese amministrata da cattolici e socialisti come assessore all’Economato. Riconfermato consigliere nel novembre 1964, proseguì il suo impegno pubblico come assessore alla Beneficenza e Assistenza fino a quando, eletto segretario federale nel 1965, lasciò l’assessorato per dedicarsi al partito. 1968-1983 – L’elezione alla Camera e l’ascesa nel Partito – La nuova identità del PSI L’ELEZIONE ALLA CAMERA E L’ASCESA NEL PARTITO Nelle elezioni politiche del maggio 1968 Craxi fu eletto deputato per la prima volta. Dopo il fallimento dell’unificazione socialista (1969), agli inizi del 1970 Giacomo Mancini divenne segretario nazionale del Psi, affiancato da tre vicesegretari: Codignola (in rappresentanza dei lombardiani), Mosca (per il gruppo di De Martino) e Craxi (per gli autonomisti). Confermato vicepresidente anche dopo il successivo congresso, tenutosi a Genova nel 1972, con De Martino segretario nazionale, Craxi ebbe l’incarico di curare i rapporti internazionali del partito. Nell’ambito dell’Internazionale socialista, come rappresentante del Psi, conobbe i leader dei maggiori partiti socialisti del tempo, da Willy Brandt a François Mitternad, stringendo particolari contatti con i leader dei partiti clandestini dei paesi sotto regime dittatoriale, sia in Europa sia in Sud America. Nella politica nazionale, il problema maggiore del Psi rimaneva la ricerca di un proprio spazio, in contrapposizione tanto alla Dc quanto al Pci. La ricerca di un’affermazione elettorale con la quale si arrivò alle consultazioni politiche del giugno ’76 fu brutalmente disattesa dai deludenti risultati. Il clima del successivo Comitato nazionale, convocato per luglio all’Hotel Midas di Roma, fu da resa dei conti. Si puntò il dito contro la chiusura del partito, contro la presenza di troppe correnti e fazioni in lotta intestina, e la segreteria De Martino fu accusata di non essere adeguata ai tempi. Dopo lunghe trattative e veti incrociati, la convergenza fra manciniani, lombardiani, alcuni demartiniani …

Giacomo Mancini

Giacomo Mancini nacque a Cosenza il 21 apr. 1916 da Pietro e da Giuseppina De Matera. Crebbe in una famiglia socialista, dominata dalla figura del padre, deputato del Partito socialista italiano (PSI) e perseguitato dal fascismo. Dopo il diploma liceale fu mandato dal padre a Torino, dove, nel 1938, conseguì la laurea in giurisprudenza. L’armistizio dell’8 sett. 1943 lo sorprese a Novi Ligure dove stava svolgendo il servizio militare: immediatamente decise di recarsi a Roma, e qui si iscrisse all’appena fondato Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP). Nella capitale occupata dai tedeschi si dedicò all’attività di resistenza clandestina con l’incarico, assegnatogli da G. Vassalli, di proselitismo e diffusione della stampa nella zona di Prati-Trionfale. Solo dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944 riuscì a raggiungere la famiglia in Calabria, dove maturò la scelta definitiva per la militanza politica, impegnandosi nelle lotte contadine e guadagnandosi, nel 1946, la nomina a segretario della federazione socialista di Cosenza. Privo della faconda oratoria del padre, manifestò subito uno spiccato pragmatismo, con una particolare attenzione agli aspetti pratici e organizzativi della lotta politica: tratti che lo avrebbero accompagnato nel corso di tutta la sua carriera. Ne derivava che, immerso nelle lotte contadine e venuto a contatto con le terribili condizioni di vita delle plebi del Sud, Mancini. sviluppò una spiccata sensibilità verso la questione meridionale, cui sarebbe rimasto fedele tutta la vita; e ne derivava altresì che, in una zona dove le sezioni socialiste e comuniste erano solitamente situate nei medesimi locali e dove i militanti di entrambi i partiti conducevano l’uno a fianco dell’altro le medesime occupazioni di terre, egli si schierò senza esitazioni a favore della politica unitaria delle sinistre e del patto d’unità d’azione PCI (Partito comunista italiano) – PSIUP. Proprio la questione dell’alleanza con il PCI stava però lacerando irrimediabilmente il PSIUP, fino alla scissione consumata nel gennaio 1947 al congresso di Roma. Qui Mancini si schierò con la sinistra guidata da Pietro Nenni e Lelio Basso: una scelta che gli valse il salto sul proscenio della politica nazionale, con la nomina, a soli trent’anni, nella direzione del partito (dopo la scissione socialdemocratica denominato PSI: Partito socialista italiano). Mancini compensò alcune carenze emerse nell’attività di vertice, data l’inesperienza e la giovane età distinguendosi ancor più come abile organizzatore in periferia, tanto che in Calabria anticipò la fusione che PSI e Partito d’azione (Pd’A) avrebbero realizzato poche settimane dopo sul piano nazionale. Si candidò quindi alla Camera nelle liste del Fronte popolare e fu eletto deputato il 18 apr. 1948. Le elezioni del 1948 ebbero, com’è noto, esito negativo per il Fronte e, all’interno dell’alleanza, disastroso per il PSI. Per il partito iniziò una stagione nuova, caratterizzata, sotto la segreteria di Nenni, dall’intensa opera di rifondazione organizzativa guidata da Rodolfo Morandi, che agì con grande determinazione, ma anche con molta durezza e notevole intransigenza ideologica. Mancini ammirava Morandi, anche per le affinità con un carattere simile al suo, schivo e introverso, sicché partecipò alla sua attività, approvandone tuttavia più gli aspetti pratici che le rigidità ideologiche: la politica italiana era ormai dominata dai grandi partiti di massa e i socialisti non potevano competere con Democrazia cristiana (DC) e PCI senza un’adeguata organizzazione. Anche in Calabria, il tradizionale clientelismo “verticale” fondato sul notabilato e sul rapporto diretto cliente-elettore, veniva soppiantato da un nuovo clientelismo “orizzontale” che operava “per il tramite non più dell’avvocato o del notabile locale, ma di un’organizzazione sostenuta da funzionari e burocrati”. Mancini colse immediatamente la portata di tali innovazioni e adottò “uno stile politico non ideologizzato, ma calibrato volta per volta su obiettivi specifici, perseguiti con caparbia attenzione all’evoluzione dei rapporti di forza”. Dal momento che gli anni Cinquanta furono caratterizzati in Calabria dalla riforma agraria, dall’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e dalla legge speciale “pro-Calabria”, Mancini si impegnò a scrutarne con accanimento l’applicazione, denunciando ritardi, carenze e abusi, segnalando le degenerazioni della spesa pubblica, scrivendo cospicui dossier, poi oggetto di campagne di stampa e interventi parlamentari. Un impegno che gli fruttò la rielezione, nel 1953, e il rapido ritorno negli organi nazionali del partito, il comitato centrale e la direzione. Alla fine del decennio, aveva compreso che in Calabria la lotta contro il latifondo era ormai conclusa: di fronte allo spopolamento delle campagne, dovuto all’emigrazione di massa verso il Nord conseguente al miracolo economico, non aveva più senso mirare alla riforma dei rapporti agrari. Bisognava superare la linea del PCI, che egli giudicava troppo “ruralista”, e fondare un “nuovo meridionalismo”, che puntasse all’industrializzazione e all’inserimento del Sud nei circuiti del moderno sviluppo economico. Era una ricerca di nuove soluzioni politiche che si abbinava con il coevo mutamento di strategia del PSI: nel 1956, infatti, la destalinizzazione e poi l’invasione sovietica dell’Ungheria avevano indotto Nenni a rompere l’alleanza col PCI, provocando tuttavia anche una spaccatura interna al partito. Si schierò subito a favore della scelta autonomista del segretario; anzi, vincendo la sua consueta ritrosia di temperamento, si impegnò in duri scontri in direzione contro gli esponenti della sinistra interna . Al congresso di Venezia del febbraio 1957 la frattura si rivelò tuttavia più grave del previsto, paralizzando di fatto l’azione del partito. Un passaggio decisivo diventavano così le elezioni del 1958, vissute dalle correnti anche come una verifica dei rapporti di forza: in Calabria lo scontro si fece particolarmente aspro tra la sinistra capeggiata da R. Minasi e il gruppo guidato da Mancini che, secondo il giudizio unanime dei prefetti e dei funzionari del PCI, riuscì a porsi come punto di riferimento degli autonomisti di tutta la regione. Il risultato delle elezioni, positivo per il PSI, fu interpretato come un appoggio dell’elettorato alla linea di Nenni; sicché, al successivo congresso di Napoli, nel gennaio 1959, la corrente autonomista prevalse, seppur di poco. Si trattava ora di ampliare e consolidare tale consenso; e un ruolo chiave in questa sfida fu giocato proprio da Mancini che, per l’abilità mostrata come dirigente locale, ottenne l’incarico, cruciale, di responsabile nazionale dell’organizzazione. Si trattava di un compito gravoso: non solo …

GINO GIUGNI

Luigi Giugni, meglio conosciuto col diminutivo di Gino (Genova, 1º agosto 1927 – Roma, 4 ottobre 2009), è stato un politico e accademico italiano che ha ricoperto un ruolo chiave nella stesura dello Statuto dei lavoratori. Nato nel 1927 a Genova, a diciotto anni nel 1945 si iscrive al Partito Socialista Italiano. Nel 1949 si laureò in giurisprudenza discutendo una tesi intitolata «Dal delitto di coalizione al diritto di sciopero» (relatore Giuliano Vassalli), e, successivamente, si trasferì negli Stati Uniti[2] per proseguire il suo iter di specializzazione. Dopo un breve impiego all’ENI in Italia, inizia la carriera universitaria e la collaborazione col gruppo editoriale Il Mulino e con La Repubblica. Giugni ha esercitato la professione di avvocato ed insegnato diritto del lavoro presso l’Università di Bari e la Università di Roma La Sapienza. Quest’ultima verrà da lui lasciata in seguito all’accoglimento dell’invito formulatogli dall’allora Presidente della LUISS Guido Carli Luigi Abete, di assumere la titolarità della cattedra di Diritto del Lavoro presso la stessa Università di Confindustria. È stato visiting professor nelle Università di Nanterre, Parigi, UCLA (Los Angeles), Buenos Aires e Columbia University di New York. Il suo saggio “Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva” (1960) è stato uno dei primi lavori accademici a dare dignità ed autonomia al diritto sindacale. Giugni è ricordato come il “padre” dello Statuto dei lavoratori. Nel 1969 Giacomo Brodolini istituì una Commissione nazionale con l’incarico di stendere una bozza dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Tale commissione era composta da personaggi di notevole spessore e a capo Brodolini vi mise Giugni, all’epoca solo un professore universitario, seppur già molto noto. Lo Statuto permise di far entrare la Costituzione italiana nelle fabbriche, nel periodo dell’autunno caldo e della nascita della lotta armata. Su quel periodo Giugni sostenne: « Fu un momento eccezionale, forse l’unico nella storia del diritto in Italia: era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di “segretari del Principe”, da tecnici al servizio dell’istituzione, ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale, elaborando una proposta politica del diritto». Giugni è anche stato l’inventore del trattamento di fine rapporto (TFR), riformando il sistema delle liquidazioni dei lavoratori italiani, introducendo una sorta di sistema contributivo. Il 3 maggio 1983, mentre stava camminando a Roma, venne “gambizzato” da una donna. L’attentato fu rivendicato dalle Brigate Rosse, e fu anche il primo di un cambio di strategia da parte di quella organizzazione terroristica. Tale nuova strategia, infatti, consisteva non più nel colpire il “cuore” dello Stato attraverso i suoi poliziotti, magistrati o alti dirigenti politici (strategia rivelatasi perdente), bensì nel prendere di mira i cosiddetti “cervelli” dello Stato (come appunto Giugni, ed in seguito Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi) ossia l’anello di congiunzione tra le istituzioni e il mondo economico. Nel 1983 venne anche eletto senatore nelle liste del Partito Socialista Italiano: fu presidente della Commissione per il lavoro e la sicurezza sociale, e membro della Commissione parlamentare inquirente sulla Loggia Massonica P2. Al termine delle elezioni politiche del 1987 confermò sia il suo seggio a Palazzo Madama sia la presidenza della Commissione Lavoro. Nel 1992 fu candidato alla Presidenza della Repubblica per il PSI. La votazione a favore di Oscar Luigi Scalfaro fu accelerata dalla strage di Capaci. Dal 1993 al 1994 è presidente del PSI e nello stesso arco di tempo divenne Ministro del lavoro e della previdenza sociale del governo Ciampi. Con il Protocollo del luglio 1993 allo Statuto dei Lavoratori, ha scritto assieme a Ciampi un importante aggiornamento della normativa sulle relazioni sindacali. Durante il governo Ciampi venne emanata la legge delega che avrebbe portato alla trasformazione delle casse di previdenza dei liberi professionisti con il D.Lgs. 509/1994. Dopo l’inchiesta Mani Pulite ed il consequenziale disfacimento del PSI aderisce ai Socialisti Italiani di Enrico Boselli, ed alle elezioni politiche italiane del 1994 viene eletto deputato tra le file dei Progressisti. Negli ultimi anni si allontanò dalla politica preferendo l’insegnamento, anche a causa della malattia: già professore ordinario della facoltà di Economia dell’università “La Sapienza” di Roma, si trasferì poi presso la facoltà di Giurisprudenza della LUISS Guido Carli (chiamato dall’allora Presidente della LUISS e di Confindustria Luigi Abete). Giugni muore ad 82 anni, la notte di domenica 4 ottobre 2009, a Roma, al termine di una lunga malattia. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LELIO BASSO

Lelio Basso nasce a Varazze, in provincia di Savona, il 25 dicembre 1903. Trascorre l’infanzia tra il paese natale e Ventimiglia. Il padre Ugo, insegnante di idee liberali, gli trasmette l’interesse per la politica che Basso segue, ancora bambino, nell’Italia giolittiana e nazionalista, tra l’avventura coloniale in Libia e lo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1916 si trasferisce a Milano con la famiglia. Qui frequenta il Liceo-ginnasio “Berchet” dove trova un ambiente ricco di stimoli intellettuali. Tra i suoi compagni, Mario Damiani e Vittorio Albasini, poi processati dal Tribunale speciale; Antonello Gerbi, nipote del leader socialista Claudio Treves; Luigi Gedda, futuro esponente politico cattolico. Il suo insegnante di storia è Ugo Guido Mondolfo, allora stretto collaboratore del leader socialista Filippo Turati , che lo introduce alla lettura di Marx. Si avvicina così alle idee socialiste ed entra in contrasto con il padre. Nel 1919, non ancora sedicenne, per garantirsi l’indipendenza economica trova impiego come stenodattilografo e poi come corrispondente presso un’azienda. Agli stimoli del nuovo ambiente scolastico si aggiungono quelli della città. A Milano Basso prende consapevolezza degli effetti traumatici del primo conflitto mondiale e scopre le lotte di massa, operaie e socialiste. Frequenta la Camera del lavoro e i circoli politici dove giunge l’eco della rivoluzione sovietica e dove ferve il dibattito. Gli studi universitari ( 1921-1925 ) Nel 1921 Basso si iscrive alla Facoltà di Legge di Pavia e prende la sua prima tessera socialista aderendo al gruppo studentesco del Partito. Su questa scelta di campo, maturata nel corso degli anni e fatta quando lo squadrismo fascista imperversa nel paese, tornerà poi in uno scritto autobiografico. Sono anni molto duri, Basso si divide tra lo studio, il lavoro e l’impegno politico. Un impegno che si traduce in primo luogo in una vivace attività pubblicistica: nel 1923 scrive i suoi primi articoli per la rivista socialista Critica sociale e negli anni successivi firma, con lo pseudonimo di Prometeo Filodemo, numerosi interventi sui giornali socialisti e di democrazia laica: l’Avanti!, Il Caffè, La Libertà, il Quarto Stato di Carlo Rosselli e Pietro Nenni. Con i suoi scritti Basso partecipa al dibattito interno al movimento socialista, attraversato allora da una profonda crisi di idee e di prospettive, ma guarda anche oltre, introducendo elementi di novità: l’attenzione al tema della democrazia, che lo porta a collaborare con La Rivoluzione liberale (nel 1924 entra nel Comitato direttivo) e a stringere amicizia con Piero Gobetti; la riflessione sulle tematiche religiose, che lo avvicina ai gruppi neoprotestanti e lo induce a collaborare tra il 1925 e il 1926 a Conscientia, la rivista diretta da Giuseppe Gangale. Dopo il delitto Matteotti, nel 1924, viene eletto presidente del Gruppo goliardico per la libertà di Milano e nel 1925 si laurea in Legge con una tesi su La concezione della libertà in Marx. Dopo la discussione della tesi, subisce un’aggressione fascista. Nello stesso anno supera gli esami da procuratore e inizia la professione di avvocato. La lotta antifascista ( 1926-1940 ) Alla fine del 1926 il regime fascista chiude definitivamente ogni spazio di intervento alle opposizioni e assume le caratteristiche di un regime totalitario. Lelio Basso partecipa alla lotta antifascista e nel 1927 entra nella Giovane Italia, un’organizzazione clandestina di ispirazione repubblicana. All’inizio dell’anno successivo assume la direzione della rivista Pietre – nata in ambienti studenteschi come strumento di collegamento tra gruppi antifascisti di diverse città – e nella notte tra il 12 e il 13 aprile viene arrestato con tutta la redazione a seguito dell’attentato al re alla Fiera di Milano. L’accusa di complicità nell’attentato cade nel corso dell’istruttoria, ma gli vengono comunque inflitti cinque anni di confino (poi ridotti a tre) all’isola di Ponza. In regime di segregazione, Basso si getta nello studio: prepara una seconda laurea in Filosofia (che conseguirà nel 1931 con una tesi sul teologo Rudolf Otto) e legge “circa duemila volumi di letteratura, di storia, di politica, di filosofia, di religione, di economia”. Tornato a Milano nell’aprile 1931 riprende l’attività professionale ma si rifiuta di iscriversi al partito fascista e al sindacato fascista avvocati e procuratori; viene così messo sotto stretta sorveglianza dalla polizia di Mussolini. Ciò nonostante si dedica alla ricostruzione delle file socialiste, con l’aiuto degli ex compagni di confino, e nel 1934 partecipa alla costituzione del Centro interno, l’organizzazione clandestina dei socialisti. Il suo è un contributo anche teorico, in cui propone una nuova idea di partito tesa a superare sia la vecchia esperienza socialista, sia quella comunista. Il Partito socialista immaginato da Basso si rivolge alle nuove generazioni “assetate di concretezza” e punta a una stretta collaborazione con il movimento di Giustizia e Libertà, da pochi anni fondato a Parigi. Intanto, nel 1932 aveva sposato Lisli Carini, anche lei laureata in legge, con cui inizia un’intensa condivisione di interessi che dura per tutta la vita; dal matrimonio nascono Piero, Anna e Carlo. Nel 1938, dopo l’arresto dei principali esponenti socialisti (Morandi, Luzzatto e Colorni) guida con Eugenio Curiel il Centro interno. Nell’estate del 1939 viene nuovamente arrestato, rilasciato e ancora rinchiuso, nel 1940, nel campo di concentramento di Colfiorito (Perugia) e poi trasferito al confino sull’Appennino marchigiano, a Piobbico. La guerra ( 1940-1945 ) L’Italia entra in guerra nel giugno 1940 e gli avvenimenti si susseguono incalzanti e drammatici. Tra il 1941 e il 1942 Basso riprende i collegamenti con i gruppi socialisti clandestini in un contesto difficile: mancano punti di riferimento organizzativi, la repressione fascista si intensifica. Basso vuole costituire un partito socialista nuovo: classista e unitario, rivoluzionario e intransigente. Nel gennaio 1943 fonda a Milano, con altri esponenti antifascisti, il Movimento di unità proletaria, che agisce in collegamento con il gruppo romano di Unità proletaria. Partecipa alle prime riunioni del Comitato delle opposizioni di Milano e, a seguito di un incontro a Roma con i dirigenti del ricostituito Psi, concerta un accordo di fusione che viene ratificato tra il 23 e il 25 agosto 1943. Viene eletto nella direzione del nuovo partito, che assume il nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup), ma …

GIACOMO BRODOLINI

Giacomo Brodolini nacque a Recanati il 19 luglio 1920. da Armando e da Doretta Federici. Conseguita nel 1939 la licenza liceale a Bologna, nel 1940 fu chiamato alle armi e, come ufficiale di complemento, partecipò alle campagne di Grecia e di Albania. Rimpatriato, fu inviato in Sardegna ove rimase fino all’8 sett. 1943. In Sardegna stabilì i primi contatti con Emilio Lussu ed altri esponenti dei Partito d’azione. Nel giugno 1946 si laureò in lettere presso l’università di Bologna, con una tesi sull’attore e patriota Gustavo Modena. Militante dei Partito d’azione, ne divenne noto dirigente nelle Marche. Allo scioglimento del partito, aderì -con Lussu, Riccardo Lombardi e gran parte dei militanti azionisti – al Partito socialista italiano nel quale lavorò come funzionario, specializzandosi nelle tematiche sindacali. Divenne segretario provinciale del PSI di Ancona e membro del comitato centrale dal 1948. Alla fine del 1950 fu chiamato a Roma, dietro suggerimento di Rodolfo Morandi a dirigere la Federazione dei lavoratori edili (FILLEA) della Confederazione generale italiana del lavoro. Nel comitato direttivo della CGIL dal 1951 e nell’esecutivo dal 1952, rimase segretario generale della FILLEA fino al 1955 (come parlamentare svolse diversi interventi in questi anni sulla questione delle abitazioni), allorché venne nominato vicesegretario della CGIL (con Di Vittorio segretario generale e F. Santi segretario aggiunto), restando nel vertice confederale fino al 1960. Nel 1953 era stato eletto per la prima volta alla Camera dei deputati nella circoscrizione di Ancona-Pesaro-Macerata-Ascoli Piceno (avrebbe ricoperto il seggio per tre legislature, fino al 1968, anno in cui fu eletto al Senato). Brodolini venne quindi a trovarsi sin dalla fine degli anni Quaranta al centro del dibattito politico su movimento sindacale, riforme e democrazia, che impegnò i militanti e i dirigenti della CGIL (soprattutto a partire dal Piano dei lavoro), apportandovi un contributo specifico che egli derivava in gran parte dalla tradizione azionista – particolarmente priva di valenze ideologiche e attenta alle complessive questioni della democrazia e dello sviluppo economico – e dall’elaborazione di Lombardi e, soprattutto, di Morandi. Nella sua concezione, che egli avrebbe arricchito nel corso di uno scontro sociale destinato a modificare fortemente la società italiana (e che lo vide dirigente di rilievo), il movimento dei lavoratori avrebbe assunto un ruolo decisivo nella trasformazione delle strutture produttive e nell’assetto democratico della nazione, a condizione di riconquistare la propria unità (anche attraverso lo sviluppo della democrazia nel rapporto del sindacato con i lavoratori) e di farsi carico – pur senza rinunciare alla propria autonomia e senza porsi in modo subalterno ai modelli di produzione progettati e attuati dal capitale – di una complessiva strategia di sviluppo (a ciò era legato sostanzialmente l’interesse dei B. per la programmazione ed il centrosinistra). D’altronde, senza un forte movimento dei lavoratori, sosteneva il B., non vi sarebbe stata possibilità di attuare un serio programma di riforme. Tutta l’attività dei B. – sindacalista, dirigente socialista e ministro – è interpretabile come serie di articolazioni tattiche di questa linea. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando la CGIL subiva la sconfitta e l’emarginazione, l’attenzione dei B. fu rivolta a contenere lo scontro con le altre organizzazioni sindacali e, anzi, egli si fece banditore dell’unità d’azione; nel contempo caldeggiò “una politica di lotta e di contrattazione anche aziendale che rivendic[asse] il diritto di negoziare tutte le condizioni della prestazione lavorativa” (1950, in Forbice, p. XXIX). Come vicesegretario della CGIL, assertore dell’unità e dell’autonornia sindacale, sul finire degli anni Cinquanta fu tra i protagonisti di questo mutamento anche di immagine che la Confederazione subì con la sempre più marcata crisi del collateralismo politico (fu lui, ad esempio, a redigere il documento – approvato anche da Di Vittorio e pubblicato il 27 ott. 1956 – con il quale la segreteria della CGIL, differenziando la sua posizione da quella del partito comunista, criticava, fin dai primi giorni della rivolta di Budapest, l’intervento militare sovietico in Ungheria). Tornato all’attività di partito nel 1960 (sulle posizioni della corrente autonomista guidata da Francesco De Martino), divenne membro della direzione dei PSI nel marzo 1961 e guidò la sezione centrale di massa, dedicandosi soprattutto al rafforzamento della corrente sindacale socialista. Particolarmente attento alle possibilità che si offrivano con l’apertura a sinistra della Democrazia cristiana ed il varo del centrosinistra, e sostenitore attivo dell’esperimento, dal dicembre 1963 al 1966 ricoprì la carica di vicesegretario del partito, incarico confermatogli anche dopo l’unificazione PSI-PSDI, fino al 1968, allorché, il 12 dicembre, fu nominato ministro per il Lavoro e la Previdenza Sociale nel secondo governo Rumor (che restò in carica fino al 5 ag. 1969), aprendo così la sua ultima e più intensa stagione politica. Dal 1965, comunque, pur confermando la validità della nuova coalizione governativa e sostenendo la polemica con la minoranza lombardiana e con il Partito socialista italiano di unità proletaria, Brodolini aveva espresso giudizi sempre più critici sui ritardi del centrosinistra nel portare avanti quel rinnovamento della società e dello Stato per il quale era nato, fino a motivare egli stesso i voti socialisti di astensione del 1968. La breve ma intensissima stagione dei dicastero del B. si caratterizzò innanzitutto per la funzione inedita che il ministero assunse proprio all’apertura di un’eccezionale stagione di lotte operaie. Brodolini rifiutò infatti di svolgere il semplice ruolo, tradizionale del ministero dei Lavoro, di mediatore tra contrapposti interessi, impegnandosi invece nella promozione di una legislazione favorevole ai sindacati ed al movimento dei lavoratori, oltre che nella felice soluzione di varie vertenze. Tra le iniziative che il ministro B. promosse, vanno ricordati i provvedimenti riformatori del collocamento (soprattutto bracciantile) che abolivano il sistema del caporalato nel mercato in piazza della manodopera e la prima organica riforma previdenziale (che prevedeva per la prima volta la “pensione sociale” per gli anziani che non avessero versato contributi), la messa in canti, ere della soluzione del problema mutualistico; svolse inoltre un ruolo fondamentale nella vertenza per la parificazione del sistema retributivo contrattuale su tutto il territorio nazionale e per l’avvio di una legislazione che ridefinisse, ampliandoli, il ruolo e la rappresentatività delle organizzazioni sindacali. La vertenza contro …

FRANCESCO DE MARTINO

“Il Socialismo non deve mai dimenticarsi della sua origine, del suo compito di difendere sempre i più deboli”. In queste parole, pronunciate quando già era anziano sta la “summa” del pensiero politico di Francesco De Martino, padre nobile della Repubblica italiana e figura storica del Socialismo, della sinistra e del movimento operaio. Francesco De Martino nasce a Napoli nel 1907 e, laureatosi in giurisprudenza fa il tirocinio da avvocato nello studio di Enrico De Nicola, già Presidente della Camera ed esponente di spicco dell’Italia liberale. Nello studio di DE NICOLA, De Martino lavora fianco a fianco con Giovanni Leone, altra futura personalità della Repubblica Italiana. Le strade dei due si incontreranno di nuovo nel 1972, in occasione dell’elezione del nuovo Capo dello Stato: Leone, votato dal centrodestra con l’appoggio determinante del Movimento Sociale di Giorgio Almirante è eletto al Quirinale, mentre De Martino raccoglie i voti di tutta la sinistra comunista e socialista. Antifascista storico, De Martino partecipa alle proteste contro il regime e, come molti fra i giovani democratici dell’epoca, chiede una linea meno isolazionista rispetto all’Aventino. Negli anni della dittatura si dedica agli studi universitari con un saggio sulla libertà nel diritto romano. Suona come una dura critica, quest’inno ai diritti dell’individuo, alla dittatura fascista e, soprattutto al nazismo appena arrivato al potere in Germania. Vince la cattedra di diritto romano all’Università di Napoli e inizia la carriera d’insegnamento, un’esperienza che durerà per quarant’anni facendone uno dei massimi esperti di storia del diritto romano. Nozioni e conoscenze che non lo abbandoneranno mai nemmeno nella sua attività di politico che inizia subito dopo la Liberazione. La sua militanza politica attiva inizia nel Partito d’Azione e si basa sul tentativo di coniugare libertà, democrazia e giustizia sociale. Frutto dello studio e dell’impegno, il progetto di cui De Martino si fa portavoce si basa sulla speranza di unire tutta la sinistra, dalle componenti liberaldemocratiche ai comunisti ai quali, pur condividendone l’attività politica e sindacale in materia economica e di allargamento della partecipazione politica nazionale, non risparmi critiche per gli errori e le violenze perpetuate da Stalin in Unione Sovietica. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, mentre Ugo La Malfa e Ferruccio Parri confluiscono nel Partito Repubblicano Italiano, il professore napoletano aderisce al Partito Socialista Italiano, dove ritrova molti ex azionisti suoi antichi compagni di partito come Emilio Lussu e Riccardo Lombardi. Non passa un anno che una nuova scissione divide la sinistra italiana. a Roma nel 1947 Giuseppe Saragat fonda il Partito Socialista Lavoratori Italiani (Psli), poi Partito Socialdemocratico (Psdi) che collabora al governo con i moderati della Dc, del Pri e del Pli. Saragat rompe il Psi in polemica con il gruppo dirigente guidato da Pietro Nenni, accusato di avere legami troppo stretti con il Pci di Togliatti. De Martino rimane nel Psi e il 18 aprile 1948 viene eletto deputato nelle liste del Fronte Democratico Popolare, la lista comune tra comunisti e socialisti presentatisi uniti sotto il simbolo della faccia di Garibaldi su richiesta di Nenni e duramente sconfitti dalla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi. Saragat, presentatosi con una lista comprendente socialdemocratici ed ex azionisti come Piero Calamandrei da nome Unità socialista, ottiene un buon 7 %, massimo storico mai raggiunto dal Psdi. La storia di De Martino segue quella di Nenni e del Psi. Stretto collaboratore del leader socialista ne è vicesegretario e ne condivide la svolta a favore della collaborazione con la Dc di Fanfanie Moro e il Pri di La Malfa ai tempi del centrosinistra degli ’60. Nel I governo Moro del 1963 Nenni è vicepresidente e De Martino lo sostituisce alla segreteria del Psi. Apertura ai comunisti, necessità di riunificare tutta la sinistra, collaborazione con la sinistra Dc e le parti avanzate del pensiero laico. Sono queste le tappe e le ambizioni del segretario De Martino. Gli anni della riunificazione socialista che vedono Psi e Psdi convivere sotto lo steso tetto per tre anni dal 1966 al 1969 lo vedono in prima linea come uno dei due cosegretari (l’altro è il socialdemocratico Tanassi) del Psu, il “partito della bicicletta” per via del simbolo che vedeva affiancati come le ruote di una bicicletta i due simboli dei due partiti socialisti italiani. Non solo politica attiva, ma anche tanta attività teorica e intellettuale. Il pensiero socialista, che De Martino vede come pungolo al Pci, ma indissolubile dalla collaborazione con i comunisti, mentre gli ex socialdemocratici intendono come terza via tra democristiani e socialisti, ma in netta concorrenza con questi ultimi, si manifesta su “Mondo Operaio”, rivista fortemente influenzata e orientata dallo stesso De Martino. Giuseppe Tamburrano, Federico Coen e Francesco Forte rappresentano solo alcuni degli intellettuali che scrivono sulla rivista che è la vera e propria vetrina dell’intelligenza socialista degli anni ’60. Il fallimento della riunificazione, la nuova scissione del 1969 e il ’68 influiscono duramente sul socialismo italiano. De Martino guida il Psi in questi difficili anni e nel 1968 è vicepresidente del Consiglio nei governo RUMOR. Lo rimane fino al 1972 quando, usciti i socialisti dal governo per la svolta di centrodestra rappresentata dal governo Andreotti-Malagodi (Dc-Pli, con l’appoggio esterno del Psdi). I socialisti tornano ben presto al governo con due governi Rumor e De Martino e ancora alla guida del Psi. Nel 1975, con la sua richiesta di “equilibri più avanzati” fa entrare in crisi il governo IV governo Moro, spianando la strada alle elezioni anticipate del 1976 vinte dal Pci che supera il 35% dei voti e non perse dalla Dc di Zac (Benigno Zaccagnini, di Ravenna, eletto alla segreteria nel 1975 dopo la defenestrazione di Fanfani sconfitto sul referendum sul divorzio nel 1974 e sconfitto alle regionali del 1975 che videro la grande avanzata dei comunisti di Berlinguer) che recupera dopo la disfatta dell’anno prima. Il Psi per la prima volta è sotto il 10%. Il 13 luglio 1976 a Roma al “congresso del Midas”, dentro il comitato centrale avviene la “rivolta dei quarantenni” che induce De Martino a dimettersi. Bettino Craxi prende la guida del partito defenestrando la vecchia …

FERNANDO SANTI

Fernando Santi nacque, il 13 novembre del 1902 alle porte di Parma, a Golese, un paese di braccianti stagionali, di carrettieri e di pochi ferrovieri. La propaganda socialista quando egli nacque vi aveva già da tempo fatto presa e suo padre, ferroviere e socialista, arrivò ad essere assessore. Sua madre, discendente da una famiglia di braccianti, morì quando Fernando, primo di tre figli, aveva solo quattro anni e fu a prezzo di duri sacrifici che il padre poté portarlo fino alla licenza tecnica. Nel 1917, a quindici anni, aderisce al partito socialista, iscrivendosi alla sezione degli “adulti” perché i giovani sono quasi tutti al fronte. Le esperienze fatte a Parma – egli stesso amava ripeterlo -a partire da allora sono tali da segnare profondamente e definitivamente la sua personalità morale e politica e da conferire tratti inconfondibili alla sua milizia socialista. La prima esperienza è la guerra. I giovani soldati hanno i nomi e i volti di amici e compagni e la causa per la quale erano stati mandati a combattere e a morire non era quella della libertà e della giustizia quale egli l’aveva concepita tra i braccianti e carrettieri di Golese. Il 1917 è l’anno di Caporetto, di un evento, cioè, dal quale trae nuova esca e nuova virulenza la polemica interventista e nazionalista contro i socialisti, accusati di antipatriottismo e di disfattismo. L’avversione alla guerra concepita allora lo accompagnerà per tutta la vita, dalla “grande guerra” alle guerre di Mussolini, alla guerra del Vietnam. Parma era negli anni dell’adolescenza di Santi – ed è questa la seconda esperienza – una roccaforte del sindacalismo rivoluzionario, un movimento che credeva nella virtù creatrice della violenza, che aveva calata la propria dottrina nella pratica promuovendo e guidando nel Parmense scioperi di una durata e di una asprezza mai prima toccate, che aveva fatto dell’agitazione contro il nazionalismo e il militarismo la sua bandiera, che si era convertito nella maggioranza dei suoi quadri all’interventismo, fiducioso, questa volta, nella virtù rivoluzionaria della guerra. Il giovane Santi non soltanto sfugge alle suggestioni dell’estremismo, ma dalla diretta conoscenza del fenomeno trae motivi per una vigile diffidenza nei confronti di ogni manifestazione dottrinale e pratica di estremismo e sarà anche questo uno dei tratti caratterizzanti della sua milizia politica e sindacale. La terza esperienza, che ha, questa volta, i segni del positivo è il rapporto ch’egli stabilisce con un gruppo di socialisti di confessione ortodossamente riformista, tra i quali Guido Albertelli, più volte deputato, Giovanni Faraboli, uno dei grandi pionieri del cooperativismo padano, il sindacalista Biagio Riguzzi. Il riformismo di Santi trova qui il suo primo alimento. È un riformismo che sceglie la via, inscindibile dalla democrazia, delle conquiste graduali per ragioni etiche e politiche, ma che tiene fermo il fine – “gradualismo rivoluzionario”, lo definirà egli stesso – che è quello della costruzione di una società socialista. Protagonista di quest’opera è il movimento dei lavoratori nel suo insieme senza guide carismatiche: l’autonomia delle istituzioni di classe e la loro unità sono le condizioni perché il potenziale liberatorio del movimento possa sprigionarsi in tutta la sua potenza creativa. A guerra finita Santi passa dalla sezione adulti a quella dei giovani, viene eletto segretario della Federazione Giovanile parmense e membro del Comitato centrale nazionale, dando allo sviluppo dell’organizzazione un fortissimo impulso. Diventa anche vicesegretario della Camera del Lavoro a fianco di Alberto Simonini, collabora attivamente all’organo locale dei socialisti, L’Idea. Il clima è quello delle aspre lotte sociali e politiche seguite ai lutti e alle miserie della guerra, arroventato e esaltato dal mito della rivoluzione russa. Santi condivide la convinzione che la crisi del sistema capitalistico sia ormai entrata in una fase di irreversibilità e che tocchi al proletariato ricostruire sulle macerie della guerra una società nuova. La sua convinzione, però, non è inquinata da dottrinarismo e ancor meno da fanatismo. Da dirigente sindacale, pur solidarizzando senza riserve con le lotte proletarie e contadine e pur concorrendo a organizzarle e dirigerle, resta immune dalla diffusa “scioperomania” di quegli anni e in sede politica, quando da Mosca arrivano le condizioni cui il partito socialista è tenuto ad adeguarsi per rimanere membro della Terza Internazionale, Santi è tra i pochi giovani che oppongono un fermo rifiuto. Al Congresso della Federazione Giovanile che si tiene a Firenze sul finire del gennaio del 1921, a qualche settimana di distanza dalla scissione già consumata a Livorno, la stragrande maggioranza della Federazione Giovanile Socialista aderisce al partito comunista. Santi con pochi altri in una riunione tenuta a Fiesole dà vita a un piccolo comitato per la ricostituzione della Federazione e ne viene nominato segretario. Nel giro di pochi mesi, a coronamento di un’attività febbrile che lo porta da una regione all’altra d’Italia, i seimila iscritti censiti a Fiesole sulla carta risultano pressoché triplicati. Un comizio tenuto presso Parma nella sua nuova veste, nel quale incitava le future reclute a non sparare sui fratelli e a far propaganda socialista tra i soldati gli valse un primo arresto e una blanda condanna a due mesi con la condizionale. La situazione generale del paese volge però ormai al peggio. La scissione di Livorno spiana la strada alla ripresa dell’offensiva fascista, particolarmente violenta nella valle padana. Anche a Parma le violenze fasciste si susseguono e si intensificano. Nella estate del 1922 Italo Balbo dà inizio alla sua “marcia di fuoco” che parte da Ravenna, dove viene data alle fiamme la sede delle cooperative di Nullo Baldini e prosegue lungo la via Emilia bruciando e devastando, fino ad arrivare a Parma dove nell’Oltretorrente, organizzati dagli “arditi del popolo”, diretti da Guido Picelli, neo-deputato socialista, che cadrà combattendo in terra di Spagna, i popolani innalzano le barricate, resistono con le armi alle squadre fasciste, impongono l’intervento dell’esercito a ristabilire la legalità. Santi partecipa all’azione: furono barricate, egli stesso diceva, erette non per la insurrezione ma a difesa della libertà in un estremo tentativo di stimolare il governo a impegnarsi contro lo squadrismo omicida dandogli la forza della iniziativa popolare. L’esempio di Parma resta però isolato. Il governo …

SALVATORE CARNEVALE

Pertini a Sciara dopo la morte di Salvatore Carnevale (maggio1955). Il 16 maggio 1955 la mafia di Sciara uccise a 31 anni Salvatore Carnevale, socialista, dirigente della Camera del lavoro in quel paesino del Palermitano. A giudicare dalle cronache i funerali, che si svolsero il 17, non ebbero la solennità che l’evento meritava. Non c’era “tutta Sciara”, come con una certa enfasi scrisse l’ “Avanti!”, e l’assente non era solo il sindaco democristiano; tuttavia il corteo era affollato e fitto, i braccianti e i cavatori di pietra in gran numero, in prima fila i compagni socialisti e comunisti. Eppure la feroce intimidazione sembrava aver funzionato. I mafiosi non si erano limitati all’omicidio, avevano saccheggiato le stie dei contadini prelevando lo scarso pollame e avevano banchettato una notte intera, spargendo le piume per le vie del paese. Tra i più il dolore che accascia e la paura sembravano prevalere sulla volontà di riscossa. Solo la madre della vittima, Francesca Serio, sembrò avere una reazione di orgogliosa sfida nei confronti delle forze del male. Depose con le proprie mani sulla cassa la bandiera rossa e gridò: “Per questa bandiera mio figlio è morto, con questa bandiera deve andarsene”. L’atteggiamento comune a gran parte della stampa era minimizzare. I giornali nazionalmente e localmente più diffusi si definivano “indipendenti” e “di informazione”, ma era più esatto chiamarli “padronali” e “governativi” come facevano i socialcomunisti. “Il Messaggero” aveva dato la notizia del ritrovamento del cadavere appaiandola a quella di un delitto comune. “Il Tempo” aveva scritto: “Quantunque le organizzazioni di sinistra insistano nel ritenere l’uccisione del Carnevale un delitto politico, la Polizia è del parere che allo stato degli atti ogni ipotesi è azzardata”. Il “Giornale d’Italia”, al tempo molto diffuso, arrivava addirittura ad escludere categoricamente il movente politico. Il “Corriere della Sera” espressione della borghesia settentrionale ostentava un totale distacco, pubblicando due colonnine in settima pagina con la notizia dell’omicidio nuda e cruda . La stampa isolana aveva fatto di peggio. Il “Giornale di Sicilia”, l’unico ad ampia diffusione nel Palermitano, insisteva sulla catena di delitti avvenuti nella zona, in cui l’uccisione di Carnevale veniva quasi annegata. La “Sicilia del popolo”, espressione della Dc isolana guidata da Scelba, al tempo capo del governo italiano, e Restivo, presidente della Giunta regionale, con un corsivo affidato a un “Signor Q”, parlava di strumentalizzazione: “I socialcomunisti cercavano da tempo un cadavere per farne una vittima. La loro attesa non è andata delusa…”; difendeva come “innocenti” e “galantuomini” i mafiosi locali e piazzava alcune oblique allusioni per sporcare l’immagine di Carnevale e dei suoi compagni. Dopo il funerale, il 18 maggio, la segreteria regionale del Psi, guidata da Raniero Panzieri, organizzò la risposta di massa, resa più difficile dallo svolgimento dei comizi per le imminenti elezioni regionali. Psi e Pci, uniti nel movimento di massa, erano infatti in competizione nella campagna elettorale. Esaurito il tempo del frontismo, tutti i socialisti si ponevano il problema di una svolta a sinistra che prevedesse la loro partecipazione al governo. Dal 1953 fu tempo di incontri e di dialoghi. Morandi a Torino si incontrò con Gonella per discutere un possibile incontro tra socialisti e cattolici in nome delle comuni radici popolari, Nenni si incontrò con Saragat a Pralognan muovendo i primi passi per una possibile unificazione del mondo socialista. Alle elezioni regionali i socialisti andarono con il proprio simbolo e in alleanza con il piccolo movimento di Unità popolare di Parri, dopo aver rifiutato una lista unitaria con il Pci, chiedendo l’apertura a sinistra. In queste condizioni l’aiuto del Pci per una iniziativa di massa non sarebbe mancato, ma non sarebbe stato generoso come in altre circostanze. Panzieri convocò comunque una manifestazione a Sciara per lunedì 23 maggio. Per lo stesso giorno il partito socialista sospese i comizi in tutta la Sicilia, mentre nelle sezioni si sarebbero svolte assemblee. La parola d’ordine dichiarata aveva lo stile un po’ greve di quegli anni: “Nel nome del compagno Salvatore Carnevale, rafforziamo il Partito Socialista e creiamo le condizioni per sconfiggere la reazione agraria e feudale e permettere l’apertura a sinistra”. Vennero assunte anche misure organizzative: fu inviato a Sciara stabilmente un dirigente prestigioso come Gaspare Gambino e si prevedeva che altri lo seguissero a Caccamo e in tutta la zona infestata dalla mafia del feudo. Venerdì 20 dalla Direzione Nazionale arrivò a Palermo Sandro Pertini, deputato ed eroe dell’antifascismo, che l’indomani avrebbe accompagnato Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, in tribunale. La donna, convinta dell’incapacità dell’autorità inquirente locale di rompere l’omertà che circondava il delitto, aveva deciso di rivolgersi con un esposto alla Procura generale della Corte d’Appello. La denuncia, spiegò Pertini all’ “Avanti!”, non era solo un circostanziato memoriale che evidenziava il carattere politico mafioso dell’omicidio, ma anche un atto di coraggio e fiducia, un invito a tutti quelli che sapevano qualcosa ad uscire dalla rete del silenzio. Subito dopo, nello stesso giorno di sabato 21, Pertini era in giro nei paesi del palermitano a comiziare per la campagna elettorale, la sera fu già a Sciara a parlare con i compagni, a consolare, confortare e incoraggiare. Vi sarebbe rimasto fino alla sera di lunedì 23, il grande giorno della manifestazione. I resoconti della manifestazione sono unanimi: nel contesto dato la partecipazione fu davvero grande, duemila compagni, forse di più. Erano arrivati dai paesi vicini, Rocca, Partinico, San Giuseppe Jato, San Cipirrello, Cerda, Aliminusa, Piana dei Greci, Corleone, tutte località ove la pressione mafiosa era fortissima. Vi erano delegazioni anche dai centri maggiori della provincia, Termini, Bagheria, la stessa Palermo. Ad organizzare la partecipazione erano state soprattutto le Sezioni socialiste e le Camere del lavoro e la partecipazione più cospicua era dei muratori (Carnevale lavorava alla cava di pietra ed era dirigente della Filea, il sindacato degli edili). C’erano anche molti comunisti con le loro bandiere, intervenuti da ogni parte della provincia. Alle 17 un lunghissimo corteo si mosse verso Cozzi Sicchi, la contrada dell’assassinio, ove si trovava anche la pietraia ove lavorava Turiddu. Lo guidava Pertini, affiancato da Panzieri, per strade …