PLACIDO RIZZOTTO

La sera del 10 marzo 1948 Placido Rizzotto, partigiano e sindacalista socialista, 34 anni, fu sequestrato da un gruppo di persone guidato dal giovane mafioso Luciano Leggio detto Liggio. Lo circondarono in strada a Corleone, lo caricarono sulla 1100 di Liggio, lo portarono in una fattoria di Contrada Malvello, lo picchiarono a sangue e gli fracassarono il cranio. Poi buttarono il suo corpo in una foiba di Rocca Busambra. Presi dalla furia del pestaggio, non si erano accorti che all’assassinio aveva assistito un piccolo pastore, Giuseppe Letizia, 12 anni. Che tornò a casa sconvolto dalla scena. Il padre scambiò i suoi vani tentativi di raccontare quello che aveva visto per un delirio febbrile e lo portò il 13 marzo all’ambulatorio del dottor Michele Navarra, che dichiarò che il ragazzino non aveva nulla, ma capì molto bene il suo racconto: Navarra era il padrino di Corleone e Liggio era affiliato alla sua cosca. Gli fece, “per sbaglio”, un’iniezione d’aria. Letale, stando al rapporto del dottor Ignazio Dall’Aira, che ne constatò la morte il giorno dopo, per “tossicosi”. Chi indagò sul delitto Rizzotto non potè però contare sulla testimonianza di Dall’Aira, che improvvisamente partì per l’Australia e non tornò più in Italia. Chi indagò sul delitto era il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e non fu l’unica biografia o vicenda storica importante a incrociare l’assassinio di Placido Rizzotto. Dalla Chiesa fu ucciso in un attentato a Palermo nel 1982, perché voleva fare con Cosa Nostra quello che gli era riuscito con le Brigate Rosse. Il posto di Placido Rizzotto alla guida della Camera del Lavoro di Corleone fu preso dal comunista Pio La Torre, anch’egli ucciso dalla mafia nel 1982. Mentre il giovane Luciano Liggio fece una grande “carriera” nella mafia: fece uccidere Navarra, diventando il capo del clan dei corleonesi. Poi, insieme ai “compari” Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano e Totò Riina, si “prese” Cosa Nostra. Ma riavvolgiamo il nastro degli avvenimenti al 1914, anno di nascita di Placido Rizzotto. Il piccolo Placido da subito non ebbe vita facile, perché, nato povero, a sette anni rimase orfano di madre e a otto gli toccò assistere alla scena del padre portato via dai carabinieri, ingiustamente accusato di associazione a delinquere. Con queste premesse il fronte della seconda guerra mondiale dovette sembrargli contesto non così terribile. Infatti in guerra si distinse, arrivando sui monti della Carnia come caporale e diventando prima caporal maggiore e poi sergente. Dopo l’armistizio, Rizzotto passò con i partigiani, unendosi alle Brigate Garibaldi come socialista. La sua resistenza continuò anche quando tornò in Sicilia, dove venne eletto presidente dell’associazione combattenti e reduci, l’Anpi di Palermo e della Camera del lavoro di Corleone. In quegli anni, dal 1944 al 1950, furono tanti i sindacalisti, i militanti dei partiti di sinistra e i contadini uccisi per mano mafiosa e mandante spesso ignoto. Assassinati per la terra. Tutto era iniziato il 19 ottobre 1944, quando il ministro dell’Agricoltura del governo Badoglio, il comunista Pietro Gullo, firmò un decreto in cui si stabiliva che le terre incolte o mal coltivate dagli agrari, dai latifondisti, venissero assegnate alle cooperative di contadini. Una legge valida nel resto d’Italia, un po’ meno in Sicilia. Quello stesso giorno a Palermo, mentre il decreto Gullo entrava in vigore, un plotone del 139° Reggimento fanteria della Divisione “Sabaudia” sparò sulla folla che protestava per la mancanza di pane: 24 morti e ben 158 feriti, tra cui donne e bambini. In Sicilia i contadini si trovarono fra due fuochi: da una parte la nobiltà e il baronato latifondista, che avevano nella mafia il custode dello status quo, ovvero delle loro proprietà. Dall’altra polizia e carabinieri. Cosa succedeva? Che i mafiosi si opponevano con violenza all’applicazione della legge Gullo. E quando i contadini riuscivano comunque a occupare un pezzo di terra, arrivavano le forze dell’ordine ad arrestarli per “invasione di terre”, perché per essere assegnate dovevano essere dichiarate ufficialmente “incolte”. Contadini, sindacalisti e militanti erano fra il martello della lupara e l’incudine delle manette. Ha scritto Marcello Sorgi su La Stampa: Mentre il movente “politico” o “mafioso” degli assassinii dei contadini difficilmente veniva riconosciuto, la natura “politica” di sovvertimento dell’ordine pubblico delle occupazioni era utilizzata per prolungare la carcerazione preventiva degli arrestati: aggravando, con l’assenza dei capifamiglia, la condizione dei loro parenti. Così, quando non erano le lupare a tuonare (vedi la strage di Portella della Ginestra), la battaglia simbolica per l’occupazione delle terre generava presto interminabili contese giudiziarie, con giovani e squattrinati avvocati di sinistra impegnati a difendere i contadini nelle aule di giustizia, dove gli agrari avevano al loro fianco gli avvocatoni monarchici, liberali e democristiani, membri a tutti gli effetti del potere dominante. Ho memoria personale e familiare di quelle vicende perché mio padre Nino Sorgi, penalista, in quel fatale ’48 in cui le vittime della lotta per la terra cominciavano a moltiplicarsi a decine, a soli 26 anni con i colleghi Antonino Varvaro e Francesco Taormina fondò il “comitato di solidarietà”, che doveva assistere gli arrestati per le occupazioni e rappresentare le parti civili, cioè l’accusa, contro i mafiosi accusati di omicidio e per conto delle famiglie degli ammazzati. Corleone nell’immediato dopoguerra era un grosso borgo agricolo in cui la mafia la faceva da sempre da padrona. La vita di uno come Placido Rizzotto era combattere ogni giorno contro la violenza e le minacce. All’alba, insieme a quei pochi compaesani che avevano resistito alle intimidazioni, andava a dorso di mulo sulle alture circostanti e piantava una bandiera rossa, in modo che dalla piazza principale del paese si vedesse che anche quel giorno sindacalisti e contadini avevano conquistato un altro pezzo di terra. Fra la strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) e le elezioni del 18 aprile 1948, la strategia della tensione su scala sicula fa sì che molti, spaventati dalla catena di morti ammazzati, inizino ad abbandonare la lotta per le terre. Il “Lavoro”, settimanale della Cgil: prima pagina del 7 aprile 1948 Molti, ma non Placido Rizzotto. Che faceva valere anche fisicamente …

PINO CAMILLERI

Pino Camilleri (Naro, 20 giugno 1918 – Naro, 28 giugno 1946) è stato un politico italiano, sindaco socialista di Naro (AG) ucciso dalla mafia. Il 28 giugno 1946, a soli 27 anni, già riconosciuto come capo contadino in una vasta zona a cavallo tra le province di Caltanissetta e Agrigento, fu colpito dalla lupara mentre cavalcava da Riesi (CL) verso il feudo Deliella, aspramente conteso tra gabelloti e contadini. Anche a Naro, nel periodo immediatamente successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, furono frequenti le contese tra gabellotti e contadini. Spesso tali scontri coinvolgevano interi nuclei familiari, innescando inevitabilmente assurde faide che potevano durare anche decenni. Molti innocenti divennero bersaglio di vendette trasversali. E’ in questo contesto che bisogna inserire la breve e tragica storia di Pino Camilleri. Esponente del partito socialista, Camilleri era nato il 20 giugno del 1918. Giovane universitario, ormai prossimo alla laurea in giurisprudenza, aveva abbracciato la causa di quel movimento sindacale e politico che a Naro aveva mosso i primi passi con i movimenti dei fasci siciliani e le numerose cooperative e casse rurali. Era sorta una rete di solidarismo sociale che improvvisamente si eclissò negli anni del fascismo, per riapparire con la ripresa della vita democratica. Pino Camilleri si distinse per la salda preparazione e per le sue coraggiose battaglie. Il suo partito lo portò a conquistare la poltrona di sindaco nelle prime elezioni amministrative del dopoguerra. Il 25 agosto del 1945 su richiesta del Comitato di liberazione di Naro ebbe trasformato l’incarico di sindaco in quello di commissario prefettizio. Era divenuto cioè un vero “Capo popolo” e molto probabilmente sarebbe stato candidato alle elezioni politiche per l’Assemblea Costituente. In questo frangente però accadde anche che suo fratello Calogero aveva ottenuto in affitto un feudo a Naro. Alla sua porta bussarono alcuni braccianti, mandati direttamente da una famiglia mafiosa, con l’intento di essere assunti nel feudo. Calogero Camilleri respinse quelle imposizioni e le minacce che ne erano seguite. Entrò, inevitabilmente, in contrasto con la mafia locale. Anche il sindaco divenne un bersaglio. Il 28 giugno 1946 Pino Camilleri venne trovato assassinato con alcuni colpi di lupara. Gli tesero un agguato mentre si recava a cavallo da Riesi al feudo di Deliella (che era oggetto di un’aspra contesa tra contadini e gabellotti). Le indagini seguirono sia la pista della vendetta trasversale, che quella del delitto politico. In entrambi i casi comunque era certo che i mandanti fossero stati i capi mafia delle cosche locali. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LORENZO PANEPINTO

Non si può dire che fu la giustizia a trionfare quel 7 aprile 1914, nell’aula del Tribunale di Catania dove si era riunita la Corte d’Assise. Infatti, dopo un dibattimento durato appena 11 giorni, venne letta una sentenza, che lasciò con l’amaro in bocca i contadini di S. Stefano Quisquina. «Avendo i giurati dato risposta negativa alle domande se l’imputato abbia ucciso Lorenzo Panepinto ed abbia tentato di uccidere Antonio Picone e Ignazio Reina – disse il presidente, cavalier Sgroi – l’imputato Giuseppe Anzalone deve essere dichiarato assolto per non aver commesso i fatti a lui attribuiti e pertanto si ordina la di lui scarcerazione». Una sentenza “scandalosa”, che lasciò impunito l’assassinio di uno dei più amati dirigenti socialisti del movimento contadino isolano. Ma, per certi versi, una sentenza obbligata. Il vero scandalo, infatti, era accaduto qualche ora prima, quando la parte civile si era ritirata ina-spettatamente dal processo. A darne comunicazione era stato l’avv. Luigi Macchi. «Poiché non esclusa la possibilità di un equivoco di identificazione, per mandato delle nostre costituenti, ci ritiriamo dalla causa», disse il legale, che era un noto esponente del socialismo catanese. Con lui, si erano ritirati anche gli altri avvocati di parte civile, Gaspare Nicotri e Francesco Alessi, componenti della direzione regionale del Partito Socialista. Incredibilmente, la motivazione del ritiro stava tutta in quella «possibilità di equivoco di identificazione», esclusa con fermezza dalla teste Provvidenza Rumore, che aveva visto in faccia l’assassino e che, coraggiosamente, confermò la circostanza davanti alla Corte. Tra l’altro, nemmeno gli avvocati difensori erano riusciti a smontarne la testimonianza con circostanze oggettive. Essi, infatti, poterono solamente fare delle insinuazioni sulla sua condotta morale, che lo stesso codice di procedura penale di allora vietava. Le udienze processuali si erano aperte il 28 marzo 1914, con la lettura dei capi d’accusa contro Giuseppe Anzalone, 26 anni, originario di Lercara Friddi, campiere dell’ex feudo “Melia” di cui erano gabelloti i fratelli Petta. Grazie alla testimonianza della Rumore e di tanti contadini stefanesi, tutto lasciava presagire che si potesse arrivare almeno alla condanna di uno degli esecutori materiali del delitto. Allora perché quella scelta di ritirarsi, avallata dalla moglie e dei figli del Panepinto? È lecito pensare che intervennero fatti nuovi. Probabilmente, pressioni e minacce talmente forti, da indurre i familiari della vittima e i loro avvocati a ritirarsi. Il processo, infatti, si era svolto a Catania per legittima suspicione chiesta dagli avvocati di parte civile per ben due volte. E fu concessa con la motivazione che l’Anzalone era “figlioccio” del Ministro di Grazia e Giustizia on. Camillo Finocchiaro Aprile, anche lui di Lercara Friddi. Ma dietro il killer dovevano esserci i mandanti. Alcuni di essi erano stati individuati e denunciati dalla polizia e dai carabinieri di S. Stefano Quisquina, tanto che il 2 giugno 1911 il prefetto di Agrigento aveva scritto al Ministero degli interni, comunicandone i nomi: Rosario Ferlita, Domenico Ferlita, Giuseppe Ferlita, Ignazio Scolaro e Giovanni Battista Scolaro, tutti grossi gabelloti degli ex feudi di S. Stefano Quisquina. Ma, tre anni dopo, il processo venne istruito solo a carico dell’Anzalone, perché tutti gli individui denunciati come mandanti furono prosciolti in sede istruttoria. Il delitto Panepinto rimase, dunque, senza colpevoli. Il coraggioso maestro elementare di questo paese dell’agrigentino, uno dei più noti dirigenti contadini fin dal tempo dei Fasci, era stato assassinato la sera del 16 maggio 1911, con due colpi di fucile al petto. Gli spararono davanti la porta della sua abitazione, in via Madre Chiesa n. 21, vicina alla centralissima piazza principale, a quell’ora frequentata da molta gente, mentre stava conversando con le signorine Cannella. Era accompagnato da due amici il cav. Picone e il signor Ignazio Reina che rimasero feriti nell’agguato. Panepinto lasciò la moglie Maria Sala e tre piccoli figli nella più completa povertà. a cura di Dino Paternostro – La Sicilia LA SCHEDA (d.p.) Lorenzo Panepinto nacque a S. Stefano Quisquina il 4 gennaio 1865, da Federico ed Angela Susinno. Fu maestro elementare e si dilettò pure di pittura. La sua vera passione era, però, la politica, che cominciò a praticare dal 1889, quando fu eletto consigliere comunale nel gruppo dei democratici mazziniani, che mise in minoranza il gruppo dei liberali-moderati fino ad allora al potere. La vecchia maggioranza reagì rabbiosamente, riuscendo a far sciogliere il consiglio comunale ed insediando il regio commissario Roncourt, la cui condotta partigiana non riuscì ad impedire una seconda sconfitta dei conservatori nelle elezioni dell’agosto 1890. IIgoverno del marchese Di Rudinì commissariò nuovamente il comune e Panepinto si dimise per protesta, dedicandosi all’insegnamento e alla pittura. Poi si sposò e partì per Napoli, ma al ritorno, nel 1893, la Sicilia era in subbuglio per il movimento dei Fasci. Fondò, quindi, il Fascio di S. Stefano, che pochi mesi dopo venne sciolto dal governo Crispi, come tutti gli altri Fasci dell’isola. Per rappresaglia politica fu licenziato dal comune dal posto di maestro elementare, ma non si scoraggiò e continuò i suoi studi pedagogici e di metologia didattica, pubblicando due interessanti volumi nel 1897. Nei primi del ‘900, alla ripresa degli scioperi agricoli, Panepinto fu di nuovo in prima linea, al fianco di dirigenti socialisti come il corleonese Bernardino Verro e il prizzese Nicola Alongi, insieme ai quali avrebbe messo a punto un cambiamento di strategia politica, puntando a dare ai contadini gli strumenti delle cooperative agricole e delle Casse Agrarie, per emarginare i gabelloti dei feudi. Tra il 1907 e il 1908 fu in America, ma ritornò nuovamente al suo paese. A circa 10 anni dalla morte di Panepinto, nell’ottobre 1920, i socialisti di S. Stefano riuscirono a conquistare il municipio, eleggendo sindaco il mitico Peppe Cammarata, suo amico e collaboratore, che ne continuò la battaglia. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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CARMELO BATTAGLIA

Dal dopoguerra a metà degli Anni ‘60 fu una vera e propria «mattanza» di dirigenti del movimento contadino. Uno degli ultimi omicidi fu quello dell’assessore socialista Carmelo Battaglia, ucciso a Tusa il 24 marzo del 1966 Dalla metà degli anni ’40 fino alla metà degli anni ’60, furono consumati in Sicilia una serie di delitti in sequenza ai danni del movimento contadino e dei suoi dirigenti. Delitti “firmati” dalla mafia, dagli agrari e da certa politica complice, guardati benevolmente (e qualche volta incoraggiati) da servizi segreti stranieri. La gran parte di questi delitti ebbe come «teatro» le zone del feudo della provincia di Palermo: il Corleonese, il Partinicese e le Madonie. Si consumò a Portella della Ginestra (tra Piana e S. Giuseppe) la strage del 1° Maggio ’47; Epifanio Li Puma fu assassinato a Petralia il 2 marzo, Placido Rizzotto a Corleone il 10 marzo e Calogero Cangelosi a Camporeale il 1° aprile di quel terribile 1948. Una «lunga strage», durata oltre vent’anni, il cui ultimo capitolo fu scritto il 24 marzo 1966, a Tusa (Messina), dove venne assassinato Carmelo Battaglia, dirigente sindacale e assessore al patrimonio della giunta di sinistra che amministrava il comune. L’omicidio Battaglia, che avvenne a tre anni dall’insediamento della Commissione parlamentare antimafia, svelò l’esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune da questa forma di criminalità organizzata: la provincia “babba” di Messina. Ma era davvero tale quel lembo occidentale della provincia, confinante con le province di Palermo ed Enna, e comprendente buona parte della catena dei Nebrodi? Se si tiene conto che già da tempo si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle zone di mafia, quali estorsioni, abigeati, danneggiamenti ed attentati, bisognerebbe dire di no. «Negli ultimi dieci anni (1956-66), si erano registrati ben 12 omicidi, tutti consumati in un territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio, che fu soprannominato il “triangolo della morte”. Dietro questi delitti vi era la “mafia dei pascoli” e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell’economia allevatoria dei Nebrodi. E l’assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue. Ma, a differenza delle altre vittime, il sindacalista era stato assassinato perché si era apertamente, e legalmente, ribellato all’ordine costituito, promuovendo, nel suo paese, un movimento organizzato di contadini e pastori», scrive Gabriella Scolaro (Il movimento antimafia siciliano dai Fasci dei lavoratori all’omicidio di Carmelo Battaglia, Ed. terrelibere.org, Aprile 2007). Carmelo Battaglia era stato tra i soci fondatori della cooperativa agricola «Risveglio Alesino» di Tusa, costituita nel 1945 per partecipare alle lotte per la terra. Nel 1965, i soci di questa cooperativa e quelli della cooperativa «S. Placido » di Castel di Lucio acquistarono il feudo «Foieri» della baronessa Lipari, esteso 270 ettari. Si dovettero scontrare, però, con il gabelloto Giuseppe Russo, ex vice-sindaco Dc di Sant’Agata di Militello, e col suo sovrastante Biagio Amata, che da tempo gestivano quel feudo e non volevano rassegnarsi all’idea di doverlo lasciare. Pretesero, quindi, che ne fosse ceduta a loro almeno una parte per farvi pascolare i propri animali. «Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa “Risveglio Alesino” e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia», spiega Scolaro. L’assessore socialista – che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini – fu ucciso all’alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo «Foieri». «Gli assassini – racconta ancora Scolaro – non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra». «Uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di far chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso», scrisse il giornalista Felice Chilanti sul giornale «L’Ora» di Palermo del 25 marzo 1965. «Il delitto – secondo Mario Ovazza – ha chiaro il segno dell’odio secolare contro chi è fermo nel perseguimento di pertinaci obiettivi di giustizia e di rigenerazione sociale; della sanguinaria imprecazione contro colui che partecipa più attivamente alla rivolta organizzata dalle masse contro lo sfruttamento e il privilegio…». a cura di Dino Paternostro SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GIUSEPPE SCALIA

Era il 18 novembre del 1945 quando a Cattolica Eraclea, piccolo centro dell’Agrigentino, fu ferito a morte in un attentato il sindacalista socialista Giuseppe Scalia, tra i fondatori della cooperativa agricola La Proletaria. Scalia passeggiava davanti alla sede della Camera del Lavoro in compagnia del vice-sindaco socialista Aurelio Bentivegna. Contro i due furono lanciate bombe a mano da un gruppo di sicari mafiosi. Non furono aperte neanche le indagini. Finita la guerra, Scalia si era posto con altri contadini alla testa del movimento bracciantile. La sua azione fu convinta e coraggiosa, per questo venne scelto per la carica di segretario della Camera del Lavoro locale. Nei mesi in cui ricoprì questo incarico crebbe la stima di tutti verso la sua persona e la sua intelligenza politica. Contemporaneamente crebbe l’odio della mafia locale e degli agrari che cercavano di conservare i propri privilegi. Nonostante le minacce di morte e il clima di paura che dominava in quegli anni nelle campagne, Scalia perseverò nel suo impegno, spesso recandosi nei centri vicini per sostenere le lotte dei contadini di Siculiana, Montallegro e Sciacca. Il nome di Giuseppe Scalia compare nel primo elenco ufficiale delle vittime della mafia redatto dalla commissione parlamentare sul fenomeno mafioso in Sicilia nel 1967. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

NICOLA ALONGI

Fu un contadino socialista, autodidatta, cresciuto alla scuola politico-sindacale di Verro. Assassinato dalla feroce mafia del suo paese nel 1920. «So di essere un morto in licenza», diceva ai suoi compagni giorni prima di essere ucciso… Chi si ricorda oggi di Nicolò Alongi da Prizzi, assassinato dalla mafia del feudo quasi 100 anni fa? Anche a Prizzi, quasi nessuno ormai. L’ultima volta che quest’eroico dirigente del movimento contadino della zona del Corleonese fu ricordato ufficialmente è ormai una data lontana nel tempo: 14 anni fa, nel 1997. Allora l’amministrazione comunale di centrosinistra, guidata dal sindaco Mimmo Cannariato, fece le cose in grande. Commissionò la biografia di Nicolò Alongi allo storico palermitano Giuseppe Carlo Marino, che produsse un volume di circa 200 pagine (“Vita politica e martirio di Nicola Alongi, contadino socialista”, Edizioni Novecento, 1997), nel quale ricostruì con dovizia di particolari l’attività di questo contadino socialista, autodidatta, cresciuto alla scuola politico-sindacale del corleonese Bernardino Verro, inquadrandola nel contesto del “biennio rosso” contadino (1919-20) della Sicilia. Quell’amministrazione comunale commissionò anche la realizzazione di un busto bronzeo di Alongi, con l’idea di collocarlo in un luogo adeguato. Ma l’anno successivo, scaduto il mandato di Cannariato, a vincere le elezioni comunali fu il centrodestra. E cominciò il lungo “calvario” per il busto del dirigente contadino prizzese. Per mesi fu “dimenticato” in un’anonima stanza del comune, fino a quando la protesta dei familiari, costrinse i nuovi amministratori a sistemarlo all’ingresso del municipio. Poi più niente. Nicola Alongi fu assassinato la sera del 29 febbraio 1920, mentre si stava recando nella sede della “Lega di Miglioramento”, in via Umberto I, per tenervi una riunione. Era quasi arrivato a destinazione, quando una fucilata, seguita immediatamente da altre due, lo colpì al fianco e al petto, facendolo stramazzare per terra. Alcuni soci della Lega, arrivati subito dopo gli spari, lo trasportarono immediatamente nella casa di Nicolò Provenzano e chiamarono un medico, il quale non poté che constatarne la morte. Alongi aveva appena compiuto 57 anni. Com’era usuale in quegli anni, le indagini per individuare esecutori e mandanti del delitto non approdarono a nulla. Nell’immediato, tanto per far volare gli stracci, furono arrestati i Gabelloti Gristina, D’Angelo, Mancuso, Costa e Pecoraro, indicati come mandanti dell’omicidio di Alongi, e i campieri Luigi Campagna e Matteo Vallone, sospettati di essere stati gli esecutori materiali. Ma ben presto tutti tornarono in libertà. Si tratta di cognomi “pesanti” di cui ancora oggi a Prizzi non si parla volentieri. E se ne parla ancora meno, dopo una casuale scoperta del giornalista de “L’Ora” Marcello Cimino, che nel 1971, ricostruendo le origini del Partito comunista in Sicilia, venne a conoscenza del nome di almeno uno dei mandanti dell’omicidio Alongi: don “Sisì” Silvestre Gristina, all’epoca influente capomafia di Prizzi. Don “Sisì” morì accoltellato a Palermo la sera del 23 gennaio 1921, ma non fu un regolamento di conti all’interno di Cosa Nostra siciliana. Ad ucciderlo furono alcuni compagni di Giovanni Orcel, capo degli operai metalmeccanici della Cgil di Palermo, assassinato dalla mafia la sera del 14 ottobre 1920. Questi avevano saputo che era stato lui ad ordinare gli omicidi sia di Orcel che di Alongi, avevano constatato l’incapacità e la scarsa volontà della polizia e della magistratura dell’epoca di venire a capo dei due terribili fatti di sangue, e allora decisero di vendicare i due compagni con un atto di “disperata giustizia proletaria”, scrive il prof. Marino. Probabilmente, tutto questo a Prizzi lo si sapeva da tempo. Per questo, solo raramente in 87 anni si è squarciato il velo del silenzio sull’omicidio Alongi e sulle successive tragiche vicende. “So che si congiura contro di me, che si vuole attentare alla mia vita – disse Nicolò Alongi ai suoi compagni palermitani qualche settimana prima di essere ucciso – non so se domani potrò tornare ad abbracciarvi, ma sono sicuro che altri sorgerà a sventolare la bandiera che mi si vuole strappare di mano”. E, qualche settimana dopo, durante la commemorazione alla Camera, il deputato socialista Vincenzo Vacirca accusò il governo dell’epoca di dare alla mafia “la sensazione e la coscienza” che “si può uccidere i socialisti perché la polizia e la giustizia sono cieche. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

BERNARDINO VERRO

Doveva essere davvero un ribelle temerario questo Bernardino Verro da Corleone se, nel 1892, all’età di 26 anni, osò definire “usurpatori e sfruttatori del popolo” gli amministratori comunali, che l’avevano assunto come impiegato. Sicuramente un sovversivo, un “disobbediente”, un “cani ca nun canusci patruni”, per dirla tutta. E la risposta dei “padroni” del municipio – che poi erano i più ricchi proprietari terrieri di questo grosso centro agricolo a 60 chilometri da Palermo e, alcuni, anche componenti della famigerata associazione segreta dei “fratuzzi” (come allora si chiamavano i mafiosi) – non si fece attendere: lo licenziarono immediatamente. La rappresaglia politica, però, non scoraggiò affatto Verro, che, insieme a Calogero Milone, Biagio Gennaro, Francesco Puccio, Liborio Termini, Angelo Provenzano e Francesco Streva, costituì il circolo repubblicano-socialista “La Nuova Età”, con l’obiettivo di battersi per il rinnovamento sociale e politico di Corleone. Un pugno nello stomaco per i notabili del paese, che con rabbia dovettero prendere atto del “brutto” carattere del giovane Verro, sempre più vicino alla nascente ideologia socialista. E, quando in Sicilia spuntarono come funghi i fasci contadini, uno dei primi a nascere – l’8 settembre 1892 – fu quello di Corleone, presieduto proprio da Bernardino Verro. “Il nostro fascio – dichiarò con orgoglio al giornalista Adolfo Rossi, in un’intervista per “La Tribuna” di Roma dell’autunno 1893 – conta circa seimila soci tra maschi e femmine, ma ormai si può dire che, meno i signori, ne fa parte tutto il paese, tant’è vero che non facciamo più distinzione fra soci e non soci. Le nostre donne hanno capito così bene i vantaggi dell’unione tra i poveri, che oramai insegnano il socialismo ai loro bambini”. L’unione tra i poveri: era questo il messaggio semplice e rivoluzionario dei fasci. Verro e gli altri “apostoli” del socialismo isolano lo spiegavano così ai contadini: “Se voi prendete una verga sola la spezzate facilmente, se ne prendete due le spezzate con maggiore difficoltà. Ma se fate un fascio di verghe è impossibile spezzarle. Così, se il lavoratore è solo può essere piegato dal padrone, se invece si unisce in un fascio, in un’organizzazione, diventa invincibile”. Fame e miseria, volontà di scrollarsi di dosso secoli di schiavitù feudale e speranza di riscatto sociale costituirono la molla che spinse enormi masse di senza terra e di senza lavoro ad unirsi, a rivendicare patti agrari più giusti e condizioni di vita più umane. Alla loro testa si misero intellettuali e professionisti, che ne assicurarono la direzione: Bernardino Verro a Corleone, Nicolò Barbato a Piana dei Greci, Giacomo Montalto a Trapani, Lorenzo Panepinto a S. Stefano di Quisquina, Giuseppe De Felice Giuffrida a Catania. Un fenomeno rilevante, che mise in crisi il blocco agrario, in un contesto in cui l’intero Stato italiano era investito da una profonda crisi economica ed era incerto sulla strada da seguire per far fronte all’irrompere sulla scena sociale del movimento socialista e del movimento cattolico. Verro, da “modesto travet del ruolo esecutivo di gruppo C – scrive lo storico Francesco Renda – divenne, nell’arco di pochi mesi, una potenza politica, che tratta da pari a pari coi maggiori esponenti politici dell’isola”. E il 31 luglio 1893, al congresso dei fasci che si celebra a Corleone, ormai “capitale contadina”, ottiene l’approvazione dei “Patti di Corleone”, che rappresentano il primo contratto sindacale scritto dell’Italia capitalistica. La loro forza non stava tanto nei contenuti (proponeva l’applicazione generalizzata della mezzadria, depurata dagli orpelli angarici, imposti negli ultimi anni dai padroni), ma nell’idea semplice e rivoluzionaria che i contadini non dovevano più trattare da soli con i padroni, ma come organizzazione. Assumendo come piattaforma rivendicativa “I Patti”, in autunno si svilupparono imponenti scioperi contadini, conclusi quasi ovunque con successo. Ma nei primi di gennaio del 1894 i Fasci siciliani furono sciolti d’autorità e repressi nel sangue dal governo Crispi. Verro e gli altri capi socialisti furono arrestati, processati dai tribunali militari e condannati a 16-18 anni di galera. Scarcerato qualche anno dopo per l’intervenuta amnistia, Verro continuò con decisione la sua attività politico-sindacale a favore dei contadini, organizzando gli scioperi dei primi anni del ‘900. Nel 1906 a Corleone nacque la cooperativa “Unione agricola”, che diventò lo strumento per attuare le “affittanze collettive”, un sistema, cioè, per sottrarre i contadini alla intermediazione parassitaria dei gabellati mafiosi e contrattare uniti e direttamente con i proprietari l’affitto degli ex feudi. Fu lo stesso Verro a descrivere in maniera incisiva le nuove condizioni create dalle affittanze collettive. “Codesti antichi gabellati mafiosi – dichiarò egli il 31 gennaio 1911 – finchè erano stati i soli a pretendere in affitto gli ex feudi, avevano potuto imporre ai proprietari e ai contadini le condizioni più favorevoli ai loro interessi, mentre invece col sorgere della cooperativa agricola e coi relativi scioperi i contadini erano venuti a trovarsi di fronte ad una concorrenza formidabile, in quanto che la cooperativa offriva ai proprietari delle terre estagli più elevati di quelli imposti dai gabellati mafiosi. Da qui l’odio profondo di costoro, che venivano lesi nei loro interressi…”. Un odio che già aveva decretato la morte di due militanti socialisti: il bracciante agricolo Luciano Nicoletti, assassinato dalla mafia il 14 ottobre 1905, e il medico Andrea Orlando, freddato il 13 gennaio dell’anno successivo. Ma la mafia di Corleone aveva un motivo in più per odiare Verro: lo considerava un “traditore”. Nell’aprile del 1893, infatti, il capo dei contadini corleonesi aveva aderito all’organizzazione dei “fratuzzi” con tanto di cerimonia di iniziazione, che lui stesso descrisse in un memoriale. L’aveva fatto in un momento particolare, quando il cerchio degli agrari gli si stava stringendo pericolosamente attorno, con l’intento di assassinarlo. Avvicinato da Calogero Gagliano, che gli promise la protezione della mafia contro gli agrari, Verro giocò la partita azzardata di far parte dell’organizzazione per provare a neutralizzarla. Ma ben presto si rese conto dell’impossibilità di conciliare gli interessi del movimento contadino con quelli dei gabellati mafiosi. Già durante il grande sciopero del settembre 1893, i “fratuzzi” si mobilitarono per boicottarlo, fornendo agli agrari la manodopera necessaria per la coltivazione delle terre …

TRISTANO CODIGNOLA

Nacque ad Assisi nel 1913 da Ernesto, il grande pedagogista (di origine genovese), allora docente nelle scuole secondarie, e da Maria Melli, di famiglia ebraica, laica, sorella del notissimo pittore. Il padre si trasferì a Pisa nel 1916 e poi passò a Firenze, dove era divenuto dal 1923 titolare della cattedra di pedagogia presso l’Istituto Superiore d i Magistero. Idealista convinto, Ernesto collaborò con Gentile per l’approvazione e la promozione della radicale riforma scolastica del 1923, ma, quando man mano la scuola cadde sotto il controllo autoritario dei fascisti e dei clericali (Concordato del 1929), abbandonò il filosofo siciliano, pubblicò la rivista Civiltà Moderna, in contrapposizione alla Civiltà Cattolica, sostenitrice del fascismo e del clericalismo, fondò la casa editrice La Nuova Italia, che era tutto un programma nella stessa denominazione. Durante gli studi universitari di giurisprudenza (1931 – 1935), Tristano, attraverso Calogero e Capitini, che frequentavano l’ambiente della casa editrice paterna, conobbe il liberalsocialismo, che divenne la sua fede politica per tutta la vita. I suoi maestri furono Croce, ma soprattutto Salvemini e Rosselli, che lievitarono e rafforzarono il suo temperamento portato all’azione intransigente, coraggiosa, tenace, rendendolo sempre capace di ricominciare, su basi di coerenza e di intransigenza morale, per difendere i valori di fondo della sua scelta etico – politica. Tra il 1936 e il 1937 insieme ad Agnoletti, Francovich, Ramat, Luporini, Furno costituì il gruppo liberalsocialista fiorentino, collegandolo con quelli di altre città. Nel 1940 partecipò al convegno di Assisi di liberalsocialisti e giellisti, per la creazione di un ’Movimento di rinnovamento politico e sociale italiano’. Il 6 gennaio 1942 casa Codignola fu perquisita e Tristano fu arrestato con gli amici del gruppo fiorentino e poi condannato a tre anni di confino. Aderente del Partito d’Azione dalle origini, Tristano partecipò nell’agosto 1943 alla fondazione a Milano del Movimento Federalista Italiano. Fu dirigente della Resistenza fiorentina, ma deplorò l’uccisione di Giovanni Gentile, che doveva essere chiamato di fronte ad un solenne tribunale dell’Italia libera a render conto delle sue corresponsabilità. Protagonista della vita politica del Partito d’Azione, diede un contributo decisivo per l’avvento della Repubblica; fu eletto deputato alla Costituente, impegnandosi con altri compagni come ad es. Calamandrei e Valiani per immettere nella carta costituzionale valori giellisti e liberalsocialisti, benchè cogliesse già allora il peso massiccio dei partiti di massa (PCI-DC-PSIUP) e delle loro segreterie nella vita istituzionale (vedi l’elezione del presidente della Repubblica De Nicola, che era stato monarchico). Non accettò la decisione della confluenza del Partito d’Azione nel PSI, portata avanti da Lombardi, Foa, Lussu e costituì con Garosci, Calamandrei, Traquandi, Marion Cave Rosselli (la moglie di Carlo) il ”Movimento d’Azione Socialista Giustizia e Libertà”, di cui scrisse il ’Manifesto’ nell’ottobre del 1947. Nel 1948 insieme al gruppo di ”Europa Socialista”, che aveva come esponente più importante Ignazio Silone, e a quello di Ivan Matteo Lombardo, uscito dal PSI per la sua subalternità al PCI, Codignola fondò l’”Unione dei Socialisti”, che partecipò alle elezioni dell’aprile del 1948 con il PSLI di Saragat nella comune lista”Unità Socialista”. Nel 1949 uscì dal PSI anche Romita, fondando il ‘Movimento Socialista Autonomo’. Tra il 4 e l’8 dicembre 1949 si tenne a Firenze un memorabile Congresso di riunificazione dei vari movimenti, che diedero vita al PSU (Partito Socialista Unificato). Come ha detto efficacemente Alessandro Roveri ” giungevano a convivenza organizzativa le tradizioni e i percorsi che, nelle loro diverse, tormentate vicissitudini passate, rappresentavano l’aristocrazia della sinistra italiana democratica e progressista, quella che non aveva accettato compromessi né subito ricatti, e della quale purtroppo il paese, prima ancora che i convitati di pietra del PSLI, non si dimostrò degno: il liberalsocialismo, l’europeismo socialista, la tradizione di Turati e di Anna Kuliscioff, l’umanesimo laico, l’autonomismo socialista, Giustizia e Libertà. E non era per caso che sulla parete di fondo della sala comunale del congresso campeggiasse un grande ritratto di Carlo Rosselli.” Il congresso ebbe un respiro europeo nella presenza di delegati socialisti dei vai europei e nel tono del dibattito e il PSU fu accolto, a differenza del PSLI di Saragat, nell’organizzazione internazionale socialista. Ha detto Agnoletti ”Il PSU è stato forse la formazione più ’liberalsocialista’ della storia dei tanti organismi nati e scomparsi del dopoguerra.” Segretario fu Ignazio Silone, con la appassionata collaborazione di Tristano. Ma la pressione dell’Internazionale Socialista, che aveva escluso il PSI filo – comunista – stalinista e premeva per l’unificazione delle forze socialiste democratiche e la vittoria delle tesi fusioniste con il PSLI portate avanti da Romita (che divenne segretario) al Congresso di Torino del PSU del 27-30 gennaio 1951, con Silone e Codignola in minoranza, portarono alla nascita il 1 maggio del Partito Socialista Sezione Italiana dell’Internazionale Socialista (cambiato al Congresso di Bologna del 3-7 gennaio 1952 in PSDI). Molte federazioni del PSU, come quelle di Torino, Venezia, Firenze, vicine alle posizioni Codignola-Silone, non accettarono l’accordo Romita – Saragat e presentarono alle amministrative liste proprie in opposizione a quelle del PSLI. Al Congresso di Bologna, le tesi di Codignola per un socialismo autonomo dal PCI e dalla DC ebbero la maggioranza, ma furono boicottate e poi capovolte nel Congresso di Genova dell’ottobre 1952, dove fu approvata la sostanziale subalternità alla DC ed alla proposta elettorale maggioritaria (la famosa legge-truffa). Per la sua battaglia di oppositore il 23 dicembre 1952 Codignola fu espulso dal PSDI e Calamandrei lasciò lo stesso partito per solidarietà con l’amico. Dice ancora Roveri ”Vero Sisifo del socialismo, Codignola fondò il 5 gennaio 1953 il quindicinale ‘Nuova Repubblica’; poi a Vicenza, il 1 febbraio 1953, diede vita al ‘Movimento di Autonomia Socialista’ e si mise a viaggiare per tutta l’Italia per vedere di organizzare la resistenza contro la legge- truffa.” Nell’aprile Ferruccio Parri, in segno di protesta per lo scioglimento del Senato e della prossima vicenda elettorale maggioritaria, lasciò il Partito Repubblicano Italiano e insieme a Codignola fondo il movimento di ‘Unità Popolare’, che presentò candidati in tutte le circoscrizioni in cui potè avere forza per farlo. Fu una vicenda politico – elettorale tumultuosa, ma esaltante per tutti quelli che vi aderirono e, …

FILIPPO CORRIDONI

Filippo Corridoni, venne avviato al lavoro di fornace dopo le elementari, ma, dotato di vivissima intelligenza, proseguì gli studi, anche grazie ad una borsa di studio presso l’Istituto superiore industriale di Fermo. Nel 1905 a Milano, metropoli in fermento per la nuova fase di rivoluzione industriale, trovò lavoro quale disegnatore tecnico presso l’industria metallurgica “Miani e Silvestri”. Divenne segratario della sezione giovanile del Partito socialista di Porta Venezia e fondò nel marzo 1907 con Maria Rygier, giovane anarchica, il giornale Rompete le Righe, avvicinandosi così sempre più alla corrente sindacalista rivoluzionaria. La natura espressamente antimilitarista del giornale, di cui uscirono circa una decina di numeri. L’intervento contro il giornale dell’onorevole Felice Santini gli fruttò quattro anni di detenzione e la chiusura del giornale. Uscì grazie ad un’amnistia riparando a Nizza dove fece amicizia con Edmondo Rossoni. Quando a Parma incominciarono gli scioperi dei braccianti, lasciò Nizza sotto il nome di Leo Celvisio, a ricordo della rocca di San Leo, fortezza papalina dove venivano rinchiusi soprattutto i detenuti politici. Scrisse sul giornale L’Internazionale, organo della Camera del Lavoro “sindacalista rivoluzionaria” di Parma, poi pubblicato anche a Milano e Bologna, insieme ad altri esponenti del sindacalismo rivoluzionario, che si ritroveranno, almeno in parte, nella nascita dei Fasci d’Azione Internazionalista. La polizia lo identificò a causa di un articolo pubblicato da un giornale socialista, e Corridoni dovette fuggire prima a Milano e poi a Zurigo in Svizzera. Dopo un altro arresto (Corridoni fu arrestato circa trenta volta nella sua pur breve vita), fondò Bandiera Rossa, giornale poco fortunato, passò quindi a collaborare con due testate dirette da Edmondo Rossoni, l’una evoluzione dell’altra: Bandiera Proletaria e Bandiera del Popolo, la cui stessa nomenclatura indica uno spostamento dalle posizioni di lotta di classe a posizioni più mediate in riferimento alla lotta di classe. Sconfitto nel tentativo di innescare principi rivoluzionari nel sindacato, si trasferì a Milano e nel 1911-12 riprese la sua operazione con la classe operaia, tentando di introdurre nel sindacato il metodo organizzativo basato sull’unità produttiva e sul ruolo qualificato dell’addetto. Secondo il suo pensiero, questo metodo, avrebbe portato a nuovi tipi di relazioni industriali, ma nel contempo avrebbe introdotto un principio interclassista dal punto di vista politico. Nonostante tale metodo non avesse fatto proseliti, Corridoni fu riconosciuto come uno dei capi del sindacalismo rivoluzionario di Milano. Nel novembre 1912 Corridoni prese parte a Modena al congresso istitutivo dell’Unione Sindacale Italiana (USI), scissione della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), il sindacato confederale legato fortemente al partito socialista. Tutta una serie di personaggi di spicco passarono all’USI, dai fratelli De Ambris a Giuseppe Di Vittorio. L’USI ebbe numerose adesioni a livello nazionale, in particolare a Genova, dove le camere del lavoro più importanti, come quella di Sestri Ponente, passarono in gran parte dai confederali all’USI. Nell’aprile 1913 nacque a Milano, su inspirazione di Corridoni, l’Unione Sindacale Milanese (USM), autonoma, ma associata all’USI, della quale divenne responsabile. Con la stretta collaborazione dei fratelli De Ambris, egli organizzò una serie di scioperi ed ottenne l’adesione al sindacato USM dei sindacati metallurgici, dei gassisti, dei lavoratori del vestiario, dei tappezzieri di carta e dei decoratori. Furono anni di intensa collaborazione coi De Ambris quelli fra il 1913-14, in cui venne appoggiato nella sua azione dall’allora direttore dell’Avanti, Benito Mussolini. A Milano dove tenne un comizio all’Arena davanti a circa 100.000 operai. Allo stesso comizio presero la parola Mussolini e Gibelli. Al termine della manifestazione, la folla intenzionata a raggiungere piazza del Duomo fu fronteggiata dalla polizia. Ne nacquero scontri nel corso dei quali furono feriti sia Corridoni che Mussolini. Quest’ultimo grazie all’intervento di altri partecipanti tra cui Amilcare De Ambris fu messo in salvo, mentre Corridoni fu nuovamente arrestato. Mentre scontava la pena in carcere nel frattempo in Europa scoppiò la Prima Guerra Mondiale. Intanto il 14 novembre 1914 uscì il primo numero del Popolo d’Italia fondato da Benito Mussolini. Nel contempo, su iniziativa di Mussolini nacquero i Fasci d’Azione Rivoluzionaria, gruppo che rinserrò ed organizzò i ranghi dell’interventismo di sinistra ed evoluzione dei Fasci d’Azione Internazionalista: le personalità sindacaliste rivoluzionarie e di sinistra si accodavano così alla campagna sostenuta dalla borghesia italiana, e diretta dalle colonne del Corriere della Sera, volta ad orientare verso la partecipazione alla guerra le operaie e gli intellettuali. Allo scoppio della prima guerra mondiale Corridoni si presentò volontario per il fronte e poco prima della partenza mandò un saluto a Mussolini, fu inizialmente assegnato ai servizi di retrovia. Ciò nonostante insisté per essere inviato al fronte: ci riuscì e partecipò ai combattimenti sul Carso, dove trovò la morte per ferita d’arma da fuoco in seguito a un assalto alla trincea austriaca. Risultò così profetica la sua affermazione eroica: “Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma, se potrò, cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora!”. Venne decorato alla memoria con medaglia d’argento al valor militare, decorazione che Benito Mussolini fece convertire in medaglia d’oro nel 1925. Lo ricorda un monumento del 1933, opera dello scultore Francesco Ellero, sul Carso goriziano nel luogo dove cadde (Trincea delle Frasche). Nella piazza in stile fascista della sua città natale, Pausula (oggi rinominata Corridonia), si erge ancora la statua bronzea del Corridoni in punto di morte, opera dello scultore Oddo Aliventi, inaugurata da Mussolini durante il Ventennio. Dopo la morte la figura di Filippo Corridoni fu associata al nascente fascismo con il cui leader aveva condiviso nell’ultima fase della sua vita la scelta dell’Interventismo e l’arruolamento volontario in guerra e dai vecchi compagni socialisti coi quali aveva condiviso le battaglie giovanili. L’ascesa di Mussolini nel 1922 lo consegnò nell’immaginario collettivo al Fascismo. Tanto che lo stesso Curzio Malaparte sull’opera svolta da Corridoni commentò: ” I precursori e gli iniziatori del fascismo sono quelli stessi, repubblicani e sindacalisti, che avevano per primi sollevato il popolo contro il socialismo deprimente e rinnegatore ed avevano voluto ed attuato, con Filippo Corridoni, gli scioperi generali del 1912 e del 1913 “. Ma la figura di Filippo …

GIUSEPPE BARBAROSSA

Siamo nel maggio del 1921: è questo il momento più triste per l’avvocato Giuseppe Barbarossa e la sua famiglia; l’avvocato Barbarossa, nato a Canosa nel 1868, socialista, antifascista, già consigliere comunale e assessore alla pubblica istruzione del Comune di Canosa, è costretto a lasciare la città natale per sempre per mettere in salvo la propria vita. Appena qualche giorno prima, infatti, è stata fatta esplodere una carica di dinamite dietro la porta di casa; per fortuna non ci sono state vittime, ma le minacce subite da parte dei fascisti canosini si sono aggravate e sono ormai diventate realtà. L’avvocato Barbarossa lascia Canosa per trasferirsi definitivamente a Napoli. Giuseppe Barbarossa si laurea a Napoli in giurisprudenza e nelle città campana matura le proprie idee politiche aderendo al Partito socialista. Tornato a Canosa, dove esercita la professione di avvocato, si getta nella battaglia politica divenendo consigliere comunale nel 1892 e assessore alla pubblica istruzione nel 1910: a Giuseppe Barbarossa si deve l’istituzione di una scuola tecnica secondaria che sarà intitolata a Giovanni Bovio. I 30 anni dell’attività politica del Barbarossa sono gli anni in cui in Puglia e a Canosa si ha un forte radicamento dell’anarchismo e del sindacalismo rivoluzionario e l’emergere di una figura carismatica che sarà punto di riferimento per tutta l’Italia: Giuseppe Di Vittorio. Giuseppe Barbarossa sarà anche una delle poche figure di intellettuali della nostra città; fonda ben due giornali: “Cronache Ofantine” e “La Gogna”. Gli anni del “biennio rosso” e l’avvento del fascismo a Canosa La parte più interessante del libro, dal punto di vista storico della nostra città, è certamente il biennio 1920-1922; sono gli anni, a livello italiano, del cosiddetto “biennio rosso”, gli anni cioè in cui i partiti di sinistra ed in particolar modo il Partito Socialista, si affermano alle elezioni, conquistando moltissime amministrazioni comunali. E sono gli stessi anni in cui il Partito Fascista fa sentire, anche fisicamente, la sua presenza. Sono due anni tremendi perché la lotta tra socialisti e fascisti a livello nazionale non sarà solo politica ma anche piena di violenze e di durissimi scontri con centinaia di vittime da entrambe le parti: la violenza della Prima Guerra Mondiale che si trascina negli anni a seguire della vita politica italiana. Anche a Canosa nelle elezioni dell’ottobre 1920 per la prima volta vince il Partito Socialista; per la prima volta nella storia della città ad amministrarla non saranno più le famiglie rappresentanti l’aristocrazia terriera, ma saranno gli strati operai della città: amministratori e assessori sono fabbri, falegnami, calzolai; il sindaco è un fotografo, Saverio Violante. Ma l’amministrazione canosina del Partito socialista dura pochi mesi: gli scontri con i fascisti saranno violentissimi; quando dopo scontri violenti i socialisti bruciano le masserie dei fascisti la rappresaglia sarà durissima: il 4 aprile 1921, i fascisti nel corso della notte danno l’assalto alla Camera del Lavoro, della Lega dei contadini e soprattutto assalgono il Municipio. Saverio Violante, il sindaco, sarà costretto a rassegnare le dimissioni anche perché, come in tutta Italia la forza pubblica non reagisce; il suo posto sarà assegnato a un commissario prefettizio, Gabriele De Santis. Questi passaggi, accennati nel libro, e certamente meritevoli di ulteriori approfondimenti storiografici, hanno il pregio di raccontare una parte della storia di Canosa che fa giustizia di una verità sottaciuta e di una versione edulcorata della storia: anche a Canosa gli scontri fisici tra socialisti e fascisti furono molto violenti. Ma l’assalto al municipio non deve essere considerato una mera causalità dovuta agli scontri dei giorni precedenti tra socialisti e fascisti, ma come la concreta attuazione di una precisa strategia politica decisa a livello nazionale. Scrive infatti Giulia Albanese nel suo libro “La marcia su Roma” (Laterza 2005, pag. 22): “Tra il 1920 e il 1921 la lotta fascista per la conquista del potere si configurò principalmente come una contesa per la conquista dell’egemonia locale, a spese soprattutto dei socialisti, e da questa lotta lo squadrismo trasse legittimazione presso le forze moderate. L’obiettivo principale delle squadre fasciste fu, nel caso delle amministrazioni governate dai socialisti, l’occupazione dei palazzi municipali”. Anche la sostituzione del sindaco Violante con la nomina di un commissario prefettizio rientra nella casistica nazionale dell’appoggio dato dalla vecchia classe dirigente allo squadrismo in funzione antisocialista. Scrive ancora la Albanese che il successo della strategia fascista era dovuto anche “grazie al sostanziale appoggio del ministero dell’Interno, che invece di tutelare lo svolgimento di libere elezioni o di salvaguardare le giunte legalmente elette, commissariava i comuni oggetto di attacchi fascisti”. Davvero illuminante allora il libro di Cecilia Valentino che dimostra come non via sia soluzione di continuità tra la microstoria delle realtà locali, come Canosa, e la storia nazionale. Gli avvenimenti canosini rientrano perfettamente nella strategia e nel disegno politico nazionale. Ma la stessa microstoria consente di comprendere più da vicino, toccare quasi con mano la portata degli eventi storici: in una nazione come l’Italia che non ha avuto la Rivoluzione Francese ma ha avuto il Bonapartismo, il “biennio rosso” ha davvero una portata ed un significato rivoluzionario: in una città come Canosa, gli artigiani e i contadini arrivano a conquistare il potere di una città esautorando per la prima volta l’aristocrazia terriera che per secoli ha amministrato la città; è una piccola autentica forma di “rivoluzione”, quasi una “Comune di Parigi”. Perciò si comprendono meglio i motivi per i quali la vecchia classe dirigente italiana, aristocratica e liberale (Giolitti per esemplificare), insieme alle forze dell’ordine e alla Monarchia, sostanzialmente appoggino il movimento fascista, quale partito d’ordine necessario per ristabilire lo “status quo”. In quest’ottica allora leggere l’allontanamento del Barbarossa da Canosa; impedire che i movimenti di popolo socialisti potessero avere l’appoggio della classe intellettuale anche nelle piccole realtà locali. Staccare le teste pensanti dal resto della popolazione. Nel 1929, ad acque ormai chetate, il notaio Gaetano Maddalena, amico fraterno, scriverà una lettera al Barbarossa dicendogli che tutto è pronto per il suo ritorno a Canosa, purché scriva una lettera al consiglio fascista provinciale di Bari. Barbarossa comprende che scrivere la lettera significa fare un atto …