LAVORO E LIBERTA’
di Giorgio Benvenuto e Marco Cianca | Un manifesto per il riscatto, la dignità, la partecipazione | Che cosa è il lavoro? La risposta può sembrare ovvia, persino banale. E invece definire in modo corretto ed esaustivo questo concetto comporta un impegno sociologico, economico, politico, culturale, esistenziale per onorare il quale non basta appellarsi ai classici. E se ci si riflette bene, entrare in questo campo e delimitarlo è forse il compito principale di una forza che si richiami al socialismo liberale. Perché coniugare bisogni e diritti rappresenta la sfida di fondo nella costruzione di una società basata sulla giustizia e sull’uguaglianza. Si tratta di affrontare di petto questioni come lo sfruttamento, la proprietà privata, la formazione del capitale, la partecipazione alla gestione delle aziende, la questione salariale, i redditi, i profitti, i sistemi fiscali e contributivi, la previdenza, la sanità, la sicurezza, i contratti, il ruolo dei sindacati e delle associazioni datoriali, l’alienazione, i tempi e i modi di produzione, l’uso delle tecnologie, il valore delle merci, i consumi, gli stili di vita, la parità di sesso e di genere, lo studio, il merito, la conoscenza, il senso stesso della vita. La pandemia ha mandato all’aria di botto carte che sembravano ormai acquisite per sempre dopo l’ingloriosa fine del comunismo reale e che invece si sono rivelate truccate. Il virus, nella sua planetaria tragicità, è riuscito, sorta di biblica nemesi, a mostrare ciò che le precedenti crisi economiche e finanziarie, come quella del 2008, avevano fatto intravedere senza però riuscire ad innescare il necessario cambiamento. Ora, il re è davvero nudo. Il tentativo socialdemocratico (ricordate il blairismo?), pietosa mimesi di ben altre utopie, di dare un volto umano al capitalismo, dal 1989 ad oggi ha solo contribuito e fornito un alibi al formarsi di monopoli sovranazionali e di gruppi economici capaci di orientare il destino del mondo a loro uso e consumo. Finti riformisti complici, e servi, di colossali potentati. L’allargamento del mercato è stata una truffa conclamata, un’autostrada dei consumi progettata per asfaltare le conquiste dei lavoratori. La colonizzazione delle persone. La vicenda dei vaccini e il predominio delle grandi aziende sanitarie sono esemplari di questo progressivo imbarbarimento del modello economico. I ricchi sono diventati sempre più ricchi e il numero dei poveri ha avuto un aumento esponenziale. Le statistiche sono inequivocabili. Inutile ricordare numeri che fanno vergognare. E in questo abominio, il lavoro è stato ridotto ad un valore sempre più marginale, quasi una vergogna. Mentre Jeff Bezos accumulava miliardi e la logistica di Amazon sopperiva ai divieti del lockdown, ai dipendenti del megagalattico apparato distributivo, così come ai riders, novelli schiavi legati alla catena alimentare, veniva persino proibito di organizzarsi. Le rivendicazioni di più umani trattamenti normativi ed economici sono state presentate come un attacco inaccettabile ad un meccanismo ritenuto perfetto. Zitto e lavora, al resto pensiamo noi. Salariati, vil razza dannata. Poi è arrivata la guerra. A gennaio di quest’anno, un rapporto Oxfam calcolava che “ogni quattro secondi nel mondo muore una persona per fenomeni connotati da elevati livelli di diseguaglianza come mancanza di lavoro, accesso alle cure, fame, crisi climatica e violenza di genere”. Dopo l’invasione dell’Ucraina, fa orrore pensare a quel che sta succedendo. Sì, il mondo è guasto. Anzi, in agonia. E l’unica cura possibile è rimettere al centro il valore del lavoro, la sua etica, la sua valenza democratica, la sua capacità di fratellanza, la sua forza creatrice, la sua esigenza di giustizia e di libertà. Sia ben chiaro: qui non si tratta certo di ripresentare sotto mentite spoglie il progetto palingenetico, e dittatoriale, affidato alla classe operaia, ma di ridiscutere dal nucleo fondativo, il lavoro, appunto, l’intera organizzazione sociale e civile. Il patto per il lavoro lanciato da Giuseppe Di Vittorio aveva questa ambizione. Libertà dal lavoro o libertà nel lavoro? Il quesito di stampo marxista è in realtà un inutile sofisma perché eliminare il lavoro equivarrebbe ad annullare la stessa attività cerebrale. Infatti, anche il solo pensare, come ha chiarito Hannah Arendt in “Vita Activa”, è una forma di lavoro. L’ozio è la faccia voluttuosa del lusso. Il punto vero, la base di partenza, il fondamento di ogni degna costruzione sociale, è la libertà, nel contempo premessa e obiettivo del corretto agire umano. Il lavoro è libertà, e viceversa. Bruno Trentin, la cui cultura azionista ha sempre prevalso sui successivi innesti legati alla militanza del Pci e che si è sublimata in specie nell’ultima fase della sua elaborazione teorica, insisteva sulla priorità dei diritti. Rileggere “La città del lavoro”, gli errori della sinistra e la sostanzialmente incompresa crisi del fordismo, resta un utile esercizio di riflessione. Così come gli scritti di un altro azionista quale Vittorio Foa conservano una valenza di stimolante fascino, a partire da “La Gerusalemme rimandata”: “La politica non è, come si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé”. Ecco il legame tra lavoro e autodeterminazione. Il tema della conoscenza, della diffusione dei saperi e della moltiplicazione delle opportunità si conferma pietra angolare di ogni progetto di liberazione e di uguaglianza. Come diceva Bruno Buozzi non basta resistere un minuto più del padrone ma bisogna avere letto almeno un libro più di lui. Un ammonimento che oggi, nell’epoca della digitalizzazione e degli algoritmi, ha un incredibile potenza profetica. Perché la lodevole iniziativa per le 150 ore si è spenta come una falena? Gli operai vogliono imparare a suonare il clavicembalo? chiese durante le trattative con ironico disprezzo un rappresentante della Confindustria, secondo il quale un metalmeccanico con potenzialità musicali doveva restare per sempre legato alla catena di produzione e riporre le sue aspirazioni nel cassetto dei personali desideri inesaudibili. L’ascensore sociale, animato dall’università di massa e dalle battaglie per il diritto allo studio, si è di nuovo bloccato. Anzi, funziona solo in discesa. Il figlio del notaio continua a fare il notaio, il figlio del poveraccio resta un poveraccio. Ed è più probabile che il primo finisca all’inferno piuttosto che il secondo salga in paradiso- Il dominio della …