CENSURATO DA “TELEMELONI” IL MONOLOGO SUL 25 APRILE DI ANTONIO SCURATI

Ecco il testo integrale del monologo di Antonio Scurati, incentrato sul tema del 25 aprile, che lo scrittore avrebbe dovuto leggere durante la trasmissione “Che sarà” su Rai3. Intervento che è stato invece annullato. Il testo è stato pubblicato da Repubblica.it “Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sottocasa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro. Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023). SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RAFFAELE CADORNA IL GENERALE DEI PARTIGIANI

I CADORNA NELLA STORIA PATRIA Raffaele Alessandro Cadorna (Milano, 9 febbraio 1815 – Torino, 6 febbraio 1897) è stato un generale e politico italiano. Fu al servizio prima del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia Il figlio Luigi Cadorna (Pallanza, 4 settembre 1850 – Bordighera, 21 dicembre 1928) fu capo di stato maggiore del Regio Esercito nel corso della prima guerra mondiale. Noto per la disfatta di Caporetto, ma non solo. L’omonimo nipote Raffaele Cadorna (Pallanza, 12 settembre 1889 – Verbania, 20 dicembre 1973) è stato un generale, politico e antifascista italiano, comandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza italiana. Decorato dagli Stati Uniti con la Bronze Star Medal. Villa Cadorna a Verbania Pallanza Cambio di nome alla scuola Cadorna a Verbania: Gino Strada è una scelta coraggiosa e giusta. nessuna “cancel culture”. Solo cultura.                            6 FEBBRAIO 2024                                                                                                                                                                     Sul caso del cambio dell’intitolazione della scuola “Cadorna”, intendiamo esprimere piena solidarietà alla coraggiosa scelta degli organi collegiali dell’Istituto scolastico. Intitolare una scuola, palestra di democrazia e luogo di formazione culturale e civica, alla memoria di una persona rappresenta una prima, importante testimonianza su quali siano i riferimenti pedagogici e civici con i quali si intende confrontarsi con studenti e famiglie. In questo senso, l’idea di cambiare il nome dell’Istituto “Cadorna” – attualmente dedicato ad un discusso generale, uomo le cui drastiche e inumane modalità di trattamento dei soldati sono state largamente dimostrate dalla storiografia, e nel primo dopoguerra fervente sostenitore del fascismo – e intitolarlo a Gino Strada, uomo che ha dedicato la sua intera vita impegnandosi per la pace al fianco delle vittime dei conflitti, ci pare quanto mai azzeccata.Viviamo un’epoca di tensioni internazionali crescenti, con venti di guerra che soffiano sempre più forti e minacciano il futuro del quale proprio le studentesse e gli studenti del Cadorna saranno protagonisti: dedicare la loro scuola a chi si è sempre opposto, con parole e azioni concrete e significative, alla follia della guerra è un segnale importante. Indica loro la via da seguire e rappresenta una testimonianza dell’impegno della scuola nel campo della promozione della pace e della risoluzione non violenta dei conflitti. In questo senso, troviamo l’accusa di “cancel culture” sbandierata dalle destre decisamente fuori luogo: è solo cultura. Inoltre, come spiegano altrimenti la scelta dell’Amministrazione Comunale di restaurare proprio il mausoleo dedicato a Cadorna, posto sul lungolago di Pallanza? La volontà di fare memoria non deve prescindere dall’approccio critico né dal giudizio storico: meglio quindi che chi frequenta le attuali “Cadorna”, chiedendosi a chi la sua scuola sia dedicata, conosca la vita di un uomo di pace come Gino Strada, il cui esempio costituisce un riferimento importante per il presente e il futuro. Giacomo Molinari, Segretario Circolo PD di Verbania La famiglia Cadorna interviene sulla intitolazione della scuola       Alle accese polemiche e ai numerosi interventi suscitati dal cambio di intitolazione della Scuola Media di Pallanza (da Luigi Cadorna a Gino Strada) si aggiunge con la seguente nota del colonnello Carlo. Ho letto le considerazioni sulla figura storica di Luigi Cadorna e ho dovuto rilevare come è disceso in basso il partito che fu di Giorgio Napolitano, il Presidente che ha avuto l’onestà intellettuale di condannare i crimini di Porzus e Basovizza. Inoltre, la Storiografia della quale Lei si avvale, è già stata condannata dalla Commissione Parlamentare Mitrokhyn, le cui conclusioni, in quanto tale, hanno il valore di un Tribunale. Infatti, essa è basata sulla manipolazione dei documenti storici, che sono:                                                                                     – la Commissione d’inchiesta su Caporetto. Essa scrive: “nessun testimonio ha portato contro di Lui accuse che possano intaccare la Sua onorabilità di uomo, di cittadino e di soldato…”:- Le lettere Famigliari, in quanto la rappresentazione più intima e vera della Sua personalità: Pag. 128 (il tempo è orribile ed è una cosa penosissima per i soldati nelle trincee….); Pag. 148 (attraversiamo tempi troppo gravi perché io possa tener conto di altre considerazioni, che non siano quelle degli interessi supremi del Paese); Pag. 156 (che spettacoli orrendi! Oh la guerra! E pensare che si potrebbe rimaner tutti tranquilli in pace, se gli uomini non fossero sempre invasi dal prurito di prendersi la roba degli altri!); Pag. 188 (La vita di TUTTI i miei soldati mi è ugualmente preziosa); Pag. 291 (Mussolini è stoffa da dittatore, ma di poco equilibrio e misura; è l’italiano ha equilibrio e misura e non vuole dittature); Pag. 299 (Mussolini sta passando un brutto quarto d’ora…. Vengono fuori le gesta della canaglia che lo circonda). Questi documenti dimostrano la falsità delle Sue argomentazioni e la loro inconsistenza storica. E, poiché parliamo di UNA SCUOLA, è molto grave che essa venga educata attraverso la manipolazione della Storia, che dovrebbe, in quanto MAGISTRA VITAE, costituire la base dell’insegnamento e della formazione dei giovani! Per concludere: Lei attribuisce al Gen. Cadorna l’orrore che è proprio della guerra, dimenticando che essa fu dichiarata dal Governo, senza nemmeno ascoltare il parere di Cadorna.      SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RIFLESSIONI SULL’EURO

Ragioniamo senza pregiudizi Un interessante articolo di Gabriele Guzzi (Limes 2/2024) ci invita ad un ragionamento, dopo una ventina di anni, sui risultati dell’adozione dell’euro come moneta unica da parte di molti paesi europei. So che questo è un argomento quasi sacro ed indiscutibile, ma da esseri razionali, quali crediamo di essere, non dovrebbe essere sacrilego interrogarci su questa santità. Sono note le preoccupazioni di molti governatori di Bankitalia (Baffi in primis) e di molti economisti (Caffè) sull’introduzione dell’euro, non come atto finale della realizzazione dell’unità europea, ma come atto acceleratore di un processo in essere. Possiamo dire che fu un atto volontaristico non supportato dal parere favorevole degli economisti. Il Governatore Fazio, ad esempio, rimarcò che “non esistevano le condizioni, ben presenti nella teoria economica, per l’adozione di una moneta comune” (Fazio – Le conseguenze economiche dell’euro – Cantagalli). Le preoccupazioni vertevano sul fatto che delle tre armi economiche utilizzabili dallo Stato per regolare gli effetti monetari, ovvero: gestione del cambio, determinazione del tasso di interesse e politica fiscale; i primi due erano persi dai singoli paesi e attribuiti ad autorità europee la cui legittimità democratica era tutta da dimostrare, avendo come risultante una moneta senza Stato, di uno Stato senza esercito e senza poteri di una redistribuzione federale. C’era, e c’è, la palese contraddizione tra una moneta unica in presenza di stati in diversissime situazioni economico-finanziarie, senza prevedere quegli aggiustamenti presenti in un paese a conduzione federale, scaricando le contraddizioni sul singolo paese che dispone poi dell’unica arma fiscale per governarsi. Con la moneta unica la nostra economia, abituata a correggere le parità con i “terremoti finanziari” che con la svalutazione ridavano respiro (precario) alle nostre esportazioni, fu irrigidita comportando, senza risultati concreti, ad un rarissimo fenomeno: un più che ventennale avanzo primario connesso ad un indebitamento che si avvia ai 3.000 miliardi di euro. Riporto dall’articolo in commento: “Nel complesso, quindi, l’euro ha favorito quei paesi che meglio si adeguavano all’impostazione ordo-liberale dei trattati. Uno studio del Central for European Policy di Friburgo ha provato a quantificare i benefici per le singole nazioni. La Germania e i Paesi Bassi avrebbero avuto un dividendo dall’euro rispettivamente di 1.893 e 346 miliardi di euro. L’Italia e la Francia avrebbero subito una perdita rispettivamente di 4.325 e 3.591” miliardi di €. La fretta e la sordità (o il non considerare) ai pareri degli economisti, portarono i politici ad affrettarsi ad una decisione storica (e ritenuta liberatoria) che avrebbe potuto essere più ponderata. L’adesione all’euro non fu un errore degli economisti, come spesso si ritiene, ma fatto dai politici “per raggiungere una peraltro indefinita finalità politica su cui ormai è lecito avanzare forti e radicali perplessità”. Cosa ci aspettavamo dalla moneta unica ● Il varo dell’euro auspicava il raggiungimento di diversi obiettivi tra cui: la promozione della crescita economica, la riduzione delle divergenze tra i vari paesi e una importanza internazionale in competizione con il dollaro. Dopo una ventina di anni osserviamo che: ● l’Eurozona è cresciuta molto meno degli USA, è in notevole ritardo nei settori tecnologici (come ci ricorda Draghi nel suo recente intervento a La Hulpe); Andrea Bonanni su Repubblica del 17 aprile così introduce il suo commento sul discorso di Draghi “L’Europa non sta perdendo la sfida economica con le altre potenze globali, Cina e Stati Uniti. L’ha già persa, a causa della propria frammentazione”. ● La divergenza all’interno dell’Eurozona è aumentata; l’Italia è passata da competitrice con l’industria tedesca a subfornitore di quella economia, senza che l’economia tedesca accettasse di aumentare la domanda interna per rendere meno pesante la sua posizione di esportatrice cronicamente mercantilista. ● L’euro, tranne alcune sporadiche proposte dei paesi arabi esportatori di petrolio che lo indicavano come moneta alternativa al dollaro, è oggi molto marginalizzato con la crescita dei paesi BRICS che ormai coinvolgono un terzo della popolazione mondiale ed un quarto dei traffici internazionali. L’euro non ha una potenza militare, non ha un mercato unico dei capitali (vedasi ancora il discorso di Draghi), non ha una unione bancaria, tutti elementi che ne fanno una moneta non competitiva con il dollaro o con la nascente moneta dei BRICS. E’ lecito chiedersi se la scelta fatta venticinque anni fa abbia mantenuto le sue promesse? E quali soluzioni o proposte possono essere avanzate? Che fare? Nelle sue conclusioni Gabriele Guzzi prospetta quattro possibili percorsi per pensare ad un nuovo disegno per l’euro: 1 – Unione fiscale e monetaria, ovvero, praticamente, unificare la politica monetaria e fiscale di tutti i paesi in una unica gestione europea, rendere cioè europeo il nostro debito così come quello di tutti gli altri paesi aderenti all’euro. Opzione quasi impossibile perché non tutti i paesi della UE hanno adottato l’euro come moneta.   2 – Adottare una soluzione tipo il “bancor” proposto da Keynes a Bretton Woods (ma uscendone perdente). Il “bancor” è una moneta non in circolazione perché tutti i paesi mantengono la loro moneta, ma hanno con il bancor un cambio fisso. Tale moneta è usata per i pagamenti tra i paesi partecipanti e il gestore ogni anno rivede i comportamenti di ciascun paese aderente e può dietro a imposizioni, cui i destinatari devono attenersi, rivedere la fissità del cambio; le imposizioni non sono comminate solo a chi ha bilanci con troppe importazioni ma anche a quei paesi che eccedono nelle esportazioni. 3 – Uscita dell’Italia dall’euro, proposta che, stante il nostro debito, sarebbe più che altro un suicidio. 4 – Lasciare le cose come stanno condannando il nostro paese ad un declino economico che, collegato con il declino demografico e culturale, ci porterà all’irrilevanza. Personalmente condivido la proposta numero 2 ma ciò come risposta economica, conscio che, aggiungere questo tema ai vagiti di una Europa in decisa crisi identitaria, non farebbe che aggravare la crisi. Ma una presa di coscienza è comunque doverosa.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e …

SCORTE AI MINIMI TERMINI E RAFFINAZIONE IMPOTENTE DIETRO L’IMPENNATA DELLA BENZINA

di Salvatore Carollo – Steffetta Quotidiana | Le riflessioni controcorrente In questa riflessione contro corrente, con il consueto stile dissacratore, Salvatore Carollo spiega come mai la benzina “sembra proiettata a toccare picchi mai visti nella storia moderna del petrolio”. Da un lato, “le scorte commerciali mondiali di benzina presso i sistemi di raffinazione sono ai minimi livelli degli ultimi 10 anni” ed è impensabile che possano essere ricostituite in tempi utili per la campagna estiva. Dall’altro, la crisi del sistema di raffinazione italiano espone il fianco a problemi di approvvigionamento che vanno oltre i confini nazionali e hanno un impatto non solo sui prezzi della benzina, ma anche su quelli a monte di Brent e Wti. L’estate sta arrivando e la benzina sta salendo. Sembra il titolo di una canzone, ma purtroppo non lo è. È invece la fotografia di un’altra crisi annunciata e ricercata in tutti i modi possibili dai paesi industrializzati, con in testa la “verde” Europa e la “non curante” Italia. Prendiamo alcuni dati certi pubblicati dalle principali fonti di informazione mondiali (Aie, Opec, Eia). La domanda mondiale di petrolio (o meglio di prodotti finiti) si aggira leggermente al di sopra di 100 milioni di barili/giorno. Per soddisfare questa domanda occorre produrre petrolio greggio al ritmo di almeno 100 milioni di barili/giorno. E questo, in qualche modo sta succedendo. Non stiamo affrontando una crisi di offerta di petrolio (inteso come materia prima) a livello mondiale. Il problema che abbiamo davanti è che nessuno di noi usa il petrolio per i propri consumi. Nelle macchine mettiamo benzina o gasolio e negli aerei mettiamo jet fuel. Sembra una affermazione banale, lapalissiana, ma, purtroppo, i grandi analisti del mercato petrolifero sembrano ignorare questa elementare verità e parlano dei grandi sistemi e delle dinamiche geopolitiche che influenzano o potrebbero influenzare la produzione della materia prima chiamata petrolio greggio. Discussioni assolutamente brillanti ed interessanti, ma che non spiegano perché la benzina sta andando alle stelle e sembra proiettata a toccare picchi mai visti nella storia moderna del petrolio. Ripeto, in una situazione in cui c’è ampia disponibilità di petrolio greggio e non si può derivare l’aumento del prezzo della benzina da uno shortage di petrolio. Se mai è il contrario. L’alto prezzo dei prodotti spinge in alto quello del petrolio greggio. È come se avessimo una diga con un lago pieno d’acqua, ma senza una sufficiente capacità di trasporto dell’acqua per farla arrivare in città. Avremmo eccesso di acqua a monte e siccità a valle. Invocare la mancanza di pioggia a causa dei cambiamenti climatici sarebbe solo ridicolo. Le scorte commerciali mondiali di benzina presso i sistemi di raffinazione sono ai minimi livelli degli ultimi 10 anni e non c’è nessuna prospettiva che possano essere ricostituite in tempi utili per la campagna estiva. Bisognerebbe disporre di una capacità di raffinazione che semplicemente non c’è (più). I dati più recenti ci informano che la capacità di raffinazione mondiale disponibile si aggira fra 83 e 85 milioni di barili/giorno, evidenziando uno shortage rispetto alla domanda globale di prodotti fra 15 e 17 milioni di barili/giorno. In particolare, i paesi Ocse hanno perso 2 milioni di barili/giorno di capacità nel corso degli ultimi cinque anni. Ciò vuol dire che il petrolio che viene trasformato in prodotti finiti è soltanto 83-85 milioni di barili/giorno. Il resto rimane allo stato di materia grezza nelle scorte sparse in giro per il mondo. Le scorte galleggianti o viaggianti su navi petroliere sono altissime. Altro che disquisire sugli effetti della crisi in Medio Oriente o sui pensieri reconditi dei paesi Opec. La richiesta da parte di molti politici e governati rivolta all’Opec ed all’Arabia Saudita di aumentare la produzione di greggio, è fuorviante, solo un modo di deviare l’attenzione della pubblica opinione dalle loro precise responsabilità. Disporre di capacità di raffinazione in cui trasformare il petrolio greggio nei prodotti finiti che servono al proprio mercato nazionale non è e non può essere una responsabilità dei paesi produttori, ma è una scelta strategica ed economica di ogni singolo paese. L’Italia è stata per decenni il principale paese raffinatore d’Europa ed esportatore di benzina e gasolio verso i mercati redditizi del Nord Europa e del Nord America. Eravamo uno dei quattro hub petroliferi del mondo, insieme a Rotterdam, Houston e Singapore. Eravamo decisivi nel determinare il prezzo dei prodotti petroliferi e potevamo garantirci i rifornimenti al più basso prezzo possibile. Ai fautori dell’Italia hub del gas suggerisco di studiare questo periodo storico in cui l’Italia sapeva cosa e come fare per essere un hub di qualcosa. Tutto questo ormai è storia. Il nostro sistema di raffinazione è in crisi profonda. Non si registrano più investimenti significativi (a parte la manutenzione minima degli impianti esistenti) per garantire l’adeguamento alle nuove richieste di qualità dei mercati più redditizi. Ma di questo nessuno vuole parlare. Ci si attacca alle statistiche in cui si mostra l’esistenza di un’ampia disponibilità di impianti senza informazioni sulla loro vetusta età e prospettiva di durata. La situazione contingente che garantisce margini di raffinazione altissimi (a causa della mancanza di prodotti sui mercati mondiali) allontana nel tempo il momento della chiusura di molti degli impianti esistenti. Eppure, stiamo vedendo che si procede a ridurre la capacità esistente in modo surrettizio, chiamando la chiusura in modo diverso, ovvero come trasformazione in bio-raffineria. In realtà, si fermano tutti gli impianti di una raffineria, lasciando operativi solo uno o due impianti minori per processare delle biomasse. Non si dice però che questa “trasformazione” ha finora comportato la scomparsa di 15 milioni di tonnellate di capacità a fronte degli 1,5 milioni di tonnellate di bio-raffineria rimasti, con una riduzione netta di 13,5 milioni di tonnellate, perse per sempre. Impianti di altissima tecnologia, fermatisi a causa di incidenti, non sono stati più riattivati, come l’impianto Est di Sannazzaro che, fermatosi il 1° dicembre 2016, non è stato ancora riattivato. Non solo, ma nell’ultima presentazione del piano strategico, il 14 marzo scorso, il Ceo Eni, Claudio Descalzi, ha detto che sta pensando a “riconvertire la raffineria …

“MADE IN ITALY” MA SANNO QUELLO CHE FANNO ?

Il Governo italiano ha dichiarato il 15 aprile 2024 “LA PRIMA GIORNATA DEL MADE IN ITALY”. Scrive il sito del Ministero delle Imprese e del Made in Italy: <<La Legge Quadro per il Made in Italy mira a sostenere e promuovere, sia a livello nazionale che internazionale, le eccellenze produttive e il patrimonio culturale del nostro Paese. È un impegno verso la valorizzazione del Made in Italy, un marchio che racchiude la qualità, l’innovazione e la tradizione del nostro tessuto imprenditoriale e culturale.>> Il Governo Meloni ha scelto il 15 aprile perché il 15 aprile 1452 nacque LEONARDO da VINCI; quindi quale miglior rappresentante dell’eccellenza e dell’innovazione italiane ? LEONARDO : ITALIANO, CRISTIANO, PADRE; mi viene spontaneo attribuirgli – al maschile – gli attributi di ITALIANA, CRISTIANA, MADRE, espressi vigorosamente dalla Signora Giorgia Meloni al congresso dei partito spagnolo Vox.              Verifichiamo gli attributi.              ITALIANO. Il padre si chiamava PIERO, era notaio ed era italiano; la madre si chiamava CATERINA, forse il nome originale era ЕКАТЕРИНА. Il nonno materno di LEONARDO si chiamava JACOB (ДЖЕЙКОБ) che governò uno dei regni dei CIRCASSI sugli altopiani delle montagne settentrionali del Caucaso.              CATERINA fu rapita, giovanissima, probabilmente dai tartari e fatta schiava, poi rivenduta ai veneziani. Fu condotta fino ad Azov, alla foce del fiume Don, da cui poi fu trasportata, attraverso il Mar Nero, intorno al 1439 a Costantinopoli; qui passò in mano a mercanti veneziani che la trasferirono nella laguna di Venezia l’anno dopo.              A VENEZIA viveva il fiorentino, Donato di Filippo di Salvestro Nati, che aveva al proprio servizio schiave provenienti da terre del Mar Nero, del Levante e da Azov. Nel 1442 rientra a Firenze e porta con sé anche la schiava CATERINA.              Il 2 novembre 1452 il notaio PIERO DA VINCI riceve la signora Ginevra d’Antonio Redditi, moglie di Donato di Filippo di Salvestro Nati, padrona di CATERINA e rogita l’atto di liberazione dalla schiavitù di CATERINA stessa.              Nel rogito notarile Caterina è identificata come “filia Jacobi eius schiava seu serva de partibus Circassie”.              Questa è l’italianità di LEONARDO.              CRISTIANO.              LEONARDO SCRISSE : «E se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli ad essi sensi, come dell’essenza di Dio e dell’anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida, la qual cosa non accade nelle cose certe». E’ lui che esprime il suo antidogmatismo; non occorrono commenti. Questa è la sua antireligiosità. PADRE. Non si sposò. Leonardo, 24 anni, fu arrestato per sodomia e il 9 aprile del 1476 iniziò il processo. Lavorava presso la bottega di Andrea del Verrocchio.  Una denuncia anonima accusava il giovane orafo Jacopo Saltarelli di essere “parte di cose assai miserabili compiute per compiacere le persone che ne fanno richiesta” e si faceva il nome di quattro persone: un sarto di nome Baccino, un certo Bartolomeo di Pasquino, Leonardo Tornabuoni e Leonardo da Vinci. Il Tornabuoni apparteneva ad influente famiglia fiorentina e ciò pesò sulla sentenza che fu di solo ammonimento per tutti. LEONARDO non scrisse mai della sua sessualità e non ebbe figli. Concludo con questa opinione. Non è sbagliato riconoscere LEONARDO come simbolo di eccellenza e di innovazione. E’ sbagliato riconoscere che una persona è normale perché è italiana, cristiana, madre. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL SOCIALISTA CHE NON TROVO’ MAI IL SOCIALISMO

di Giovanni Princigalli* | La bella politica di una generazione che non c’è più Nel 1964, esattamente 60 anni fa, nasceva il Partito Socialista di Unità Proletaria, il PSIUP. Fu fondato dalle due principali correnti della sinistra del PSI: quella morandiana guidata da Tullio Vecchietti e quella più piccola capeggiata da Lelio Basso. La prima era d’ispirazione marxista-leninista, la seconda s’ispirava al marxismo rivoluzionario e libertario di Rosa Luxemburg. Con questo articolo, ripercorrendo la militanza di mio padre Giacomo Princigalli dal PSI al PSIUP e poi al PCI, provo a ricordare ed elogiare una politica disinteressata, fatta tutta per un partito, comunità che era una sorta di seconda famiglia. I “compagni” erano coloro con cui su condivideva il pane: cum – panis. Non voglio addentrarmi nella storia o nelle ragioni della scissione della sinistra socialista che portò alla nascita del PSIUP, che ebbe vita breve. Anche se ormai è opinione diffusa, anche tra diversi ex dirigenti psiuppini oggi anziani e con cui ho parlato (tra cui Barzanti e Pupillo) che quella scissione fu sbagliata. Eppure, questo partito, che fu definito “provvisorio” dal socialista Gaetano Arfé (come il libro sul PSIUP di Aldo Agosti), una funzione importante la ebbe. Infatti, come mi ha ben spiegato un ex-psiuppino di Bari, Emanuele Ceglie, che poi approdò al PSI diventando uno stretto collaboratore di Rino Formica, il PSIUP diede voce a molti giovani che senza quel partito non avrebbero trovato una casa politica in cui militare. Molti, secondo Ceglie, sarebbero finiti nel nulla o nella sinistra extra parlamentare. Per tanti altri fu una palestra in cui farsi le ossa ed apprendere il lavoro della politica o un’alternativa al PSI ormai impegnato nel centro-sinistra, e al PCI, considerato troppo burocratico e monolitico. Basti pensare a tanti nomi che un giorno saranno ai vertici della politica e della cultura in Italia: Giuliano Amato, Fausto Bertinotti, Giuseppe Impastato, Asor Rosa e molti altri ancora. Tra i pugliesi oltre a Ceglie vanno ricordati Biagio Marzo (passato poi al PSI) e i futuri comunisti Peppino Trulli, Peppino Caldarola, Alba Sasso, Giancarlo Aresta, Rosa Da Ponte, e indirettamente Silvia Godelli. Non va dimenticato lo storico Aldo Giannulli, anche lui barese. Costoro, a detta degli stessi Sasso e Caldarola, furono tutti allievi di Giacomo Princigalli. Il PSIUP è spesso ricordato come un partito dogmatico, ma si dimentica invece che tra i lori dirigenti vi erano Foa (ex Partito d’Azione), Libertini e Basso. Mio padre militava nella corrente dei primi due che erano promotori di un socialismo al tempo stesso libertario e movimentista. Mio padre prese la tessera del Psi nel 1947 all’età di 17 anni nella sezione di Santo Spirito, una frazione di Bari, divenendone in seguito segretario. S’iscrisse alla facoltà di chimica dell’ateneo barese. All’epoca il segretario della federazione era Antonio Di Napoli, il quale chiese a mio padre di lasciare gli studi per lavorare a tempo pieno come funzionario del PSI. Mio padre non voleva abbandonare l’università. Allora Di Napoli lo rimproverò: «Tu allora non credi nella costruzione della società socialista?» Mio padre rispose: «Sì, certo che ci credo, ma anche nella società socialista ci sarà bisogno di chimici, no?». Ma Di Napoli fu intransigente «Ma lo sai che vige il primato della politica?» Sicché mio padre abbandonò gli studi per ordine del partito. Sia lui che Di Napoli erano di formazione morandiana. Tanto è vero che, scavando negli archivi della Fondazione Di Vagno a Conversano in provincia di Bari, ho trovato menzione del fatto che ai funerali di Morandi nel 1955, la delegazione barese, composta da Di Napoli, Princigalli, Masciale e Ricapito «(…) ha chiesto ed ottenuto – scrisse Di Napoli all’epoca dei fatti – l’onore di montare la guardia alla cara salma (…) innanzi al suo corpo gelido (…)». Grazie all’aiuto prezioso dello storico Luca Bergonzi, tra le carte dei fondi dell’istituto Gramsci a Roma, sono emersi molti documenti sulla militanza giovanile del PSI e poi del PSIUP di mio padre. Dal canto mio, come accennavo prima, ho trovato molti documenti presso la fondazione Di Vagno. Tra le altre cose, siamo rimasti impressionati nel vedere lo stipendio che mio padre guadagnava nel PSI (di cui divenne vicesegretario della federazione barese) e poi nel PSIUP (di cui fu segretario per la provincia di Bari, oltre che membro del CC e di tre commissioni nazionali). Orbene percepiva un salario equiparato a quello di un operaio specializzato. Negli anni Cinquanta venne nominato membro dell’ufficio politico nazionale dei giovani socialisti, e per questo gli diedero un’integrazione di 10.000 lire al mese. Senza dimenticare che per il PSI fu anche commissario del partito ad Altamura, funzionario della federazione di Latina e della corrente della sinistra interna a Roma. Si lavorava anche durante il week-end e la sera. Per la famiglia c’era poco tempo, a parte quando i compagni venivano invitati a cena a casa, per continuare a parlare di politica o solo per il piacere di stare assieme, e mia madre cucinava anche per loro. Mio fratello Antonio, il primogenito nato nel 1962, conserva dei ricordi di quei tanti compagni socialisti che frequentavano la nostra casa, tra cui il senatore Masciale e il deputato ed amico fraterno di mio padre Tonino Lenoci. Io per motivi anagrafici non posso avere ricordi che risalgono alla militanza socialista e psiuppina di papà. Ho cercato di ricostruire quel mondo fatto di casa e partito, parlando tra gli altri anche con il figlio di Antonio Di Napoli che passò anch’egli dal PSI al PSIUP. Egli mi ha detto che anche in casa loro vi era un via vai di compagni, cene e riunioni, anche perché non sempre potevano permettersi di pagare l’affitto di una sezione. In un documento trovato sempre da Bergonzi, mio padre si lamentava con la direzione nazionale del PSIUP per il mancato versamento della tredicesima per gli impiegati della federazione barese. Spesso i rimborsi delle spese per andare in giro in provincia per fare comizi arrivavano con il contagocce. Il PSI barese si sosteneva grazie ai doni dei deputati, le sottoscrizioni, le tombole …

IL SIGNIFICATO DI QUELL’ALTRO “18 APRILE”

di Franco Astengo | Nella storia d’Italia la data del 18 aprile ha rappresentato per ben due volte l’occasione per segnare una svolta epocale: nella prima occasione, quella del 1948 quando si svolsero le elezioni per la Prima Legislatura Repubblicana con il successo della Democrazia Cristiana e la sconfitta del Fronte Popolare. In un’occasione successiva, quella del 1993, le urne furono aperte per un referendum che (tra altri convocati in quell’occasione) interessava la legge elettorale del Senato. La riforma elettorale era considerata allora, semplicisticamente, la chiave di volta per modificare l’intero assetto del sistema politico scosso dalla caduta del muro di Berlino, dalla stipula del trattato di Maastricht e da Tangentopoli con l’esito della sparizione dei grandi partiti storici a integrazione di massa. In quel momento c’era chi, come il movimento capeggiato da Mario Segni oppure parte del PDS proclamava che l’adozione di un sistema elettorale maggioritario avrebbe semplificato il sistema, resa stabile la governabilità, fatta giustizia della corruzione, reso trasparente il rapporto tra eletti ed elettori. Mai promesse da marinaio come quelle enunciate all’epoca hanno causato una vera e propria distorsione nella capacità pubblica di disporre di una corretta visione politica. L’esito referendario del 18 aprile 1993 significò un punto di vera e propria battuta d’arresto per lo sviluppo democratico del nostro Paese, considerato che dalle elezioni del 1994 in avanti il corpo elettorale non ha mai più avuto la possibilità concreta di scegliere i propri rappresentanti. Si è passati da un sistema misto di collegi uninominali e liste proporzionali bloccate a un sistema proporzionale interamente formato da liste bloccate e, dopo aver tentato addirittura di proporre un sistema che avrebbe fornito la maggioranza assoluta con liste bloccate senza alcuna soglia da raggiungere sul modello della legge fascista Acerbo del 1924, ad un altro sistema misto con collegi uninominali, divieto di voto disgiunto e liste ancora bloccate. In due occasioni la Corte Costituzionale su iniziativa di un pool di avvocati coordinati dall’indimenticabile Felice Besostri e nell’indifferenza totale delle forze politiche dichiarò illegittime le formule elettorali (l’una in uso e l’altra in divenire). Un esito quello dettato dalla Corte assolutamente respinto dagli attori istituzionali del sistema politico che hanno continuato a pensare alla stabilizzazione dei propri “cerchi magici” e al mantenimento di quote di potere anziché riflettere sui temi della partecipazione, del rapporto tra governabilità e rappresentanza e sul mutamento delle forme di intermediazione politica come sarebbe stato e sarebbe (urgentemente) necessario. L’elettorato sembra ormai arreso all’idea del prevalere di una logica di “voto di scambio” di massa elargito sulla spinta di una crescente sfiducia nelle istituzioni. Quasi contemporaneamente fu adottato il sistema dell’elezione diretta per i Comuni e successivamente per le Regioni: altri due temi sui quali sarebbe opportuno riformulare qualche valutazione di merito. Il veicolo della personalizzazione della politica per ottenere la stabilità di governo si è rivelato, infatti, irto di complesse difficoltà dal punto di vista della piena espressione della volontà democratica e portato, soprattutto nel caso delle Regioni, ad un vero e proprio spostamento d’asse nella natura istituzionale e nelle finalità legislative (Regioni) e giuridico – amministrative degli enti. Intanto il sistema politico italiano sta ancora trasformandosi cercando un assetto più o meno stabile nella sua quasi infinita transizione. Dopo una concitata fase di crescita esponenziale dell’astensionismo e di esagerata volatilità elettorale dovuta all’impulso populista che ha attraversato il sistema dei comitati elettorali (difficile definirli come partiti) sta prendendo quota una inedita versione del bipolarismo. Non è più il tempo di “centro – destra” e “centro – sinistra”. L’acuirsi delle grandi contraddizioni in un quadro generale di inasprimento delle contrapposizioni sociali e di difficoltà nell’individuare soggetti di riconoscimento politico, ha spinto verso una radicalità che, da una parte, sta originando un fenomeno emergente di formazione di una destra compiutamente conservatrice tendenzialmente egemone sulle forze populiste sia in senso federale, sia in senso europeista “moderato”; dall’altro canto si rileva una spinta in direzione di una sinistra capace di rappresentare il moderno intreccio tra le fratture sociali post-materialiste e quelle che convergono sugli assi tradizionali di riferimento della sinistra storica. L’interrogativo rimane quello del tipo di sistema istituzionale può meglio accogliere questo tipo di tensione in atto. La difesa della democrazia repubblicana imperniata sulla forma di governo parlamentare e il rifiuto di un ulteriore inoltrarsi nella personalizzazione delle figure monocratiche, appare ancora come possibile punto di riferimento per riuscire ad aggregare l’opposizione costituzionale allo sopo di elaborare una proposta che, in questo quadro così complicato, riequilibri governabilità e rappresentanza senza prestare il fianco ad avventure assimilabili a quelle che, in altri Paesi, hanno portato all’esito delle cosiddette “democrature”. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

PERCHE’ OGGI E’ NECESSARIO ESSERE SOCIALISTI

Care compagne e cari compagni,mi rivolgo a voi partendo da una questione che mi sono posto: perché oggi è necessario essere socialisti e cosa dovrebbero fare i socialisti nel loro agire politico per cambiare lo stato di cose presenti?Ho cercato innanzitutto di guardare alla situazione generale internazionale, a quella dell’Europa e più strettamente del nostro paese.Da decenni assistiamo al proliferare di sempre nuove guerre, il più delle volte mosse dalla necessità di accaparramento delle risorse naturali, dagli effetti degli sconvolgimenti climatici e dal dilagare delle differenze economiche tra un nord ed un sud del mondo.Gli organismi internazionali nati dopo la seconda guerra mondiale dimostrano tutta la loro inefficacia nell’arginare questa deriva. Mancano di autorevolezza politica, ma anche di capacità nell’elaborare un’idea di futuro.Dal bipolarismo tra Usa e Urss siamo passati al multipolarismo planetario, i cui protagonisti sono un insieme ristretto di paesi che dettano l’agenda del mondo nel continuo tentativo di dominarsi reciprocamente, minando così i fragili equilibri che reggono la pace e la convivenza tra i popoli.In questo contesto si inserisce la fragilità dell’Europa, un continente vecchio non solo anagraficamente, relegato ad ancella di interessi d’oltreoceano e non ancora in grado di esprimere una propria identità culturale e politica al passo con i tempi che corrono. Nel nostro paese, estremamente debole politicamente, gli effetti della crisi internazionale si amplificano ulteriormente.Il nostro ruolo internazionale è ridotto ai minimi termini mentre la situazione interna è caratterizzata da una crisi economica ormai strutturale, aggravata da una mancanza di visione di lungo respiro da parte di chi ci governa ma anche di chi dovrebbe rappresentare una valida alternativa.Manca in maniera inequivocabile la politica, intesa come cura della polis, ovvero dell’insieme di relazioni che governano una comunità, come strumento per ridurre le diseguaglianze sociali, come soluzione in grado di conciliare welfare e competitività, che metta al centro la Persona assieme alla socializzazione dei saperi, come paradigma per costruire una solida idea di Stato.Chi fa politica nel nostro paese, nella stragrande maggioranza dei casi, risponde il più delle volte ad interessi particolari, personali, di gruppo, di corrente, di riferimento sociale. Non si guarda più all’interesse collettivo, alla crescita armonica delle varie componenti sociali, ma si ci si limita ad amministrare senza guardare troppo lontano: una politica che non è missione bensì ufficio.I partiti, o meglio ciò che ne rimane, non assolvono più al loro compito politico, organizzativo e sociale, ovvero essere linfa per l’agire e lo sviluppo della democrazia, ma, sempre più liquidi, se non evanescenti, risultano non distinguibili, tant’è che ormai gran parte dei cittadini li giudica con l’ormai nota frase “tanto sono tutti uguali”, lasciando così spazio al populismo e all’antipolitica senza partecipazione, che altro non sono che l’anticamera dell’autoritarismo. Alla luce di tutto ciò, essere ed agire politicamente da socialisti rappresenta oggi una questione vitale, per noi e le future generazioni.Ma per essere ed agire in questa direzione è necessario potersi organizzare in una nuova entità che faccia da riferimento serio e concreto ad una chiara identità socialista, plurale e pluralista.Non è reducismo, non sarà la nostalgia ad accompagnarci nel nostro cammino, ma una volontà decisa che sappia guardare ad un mondo in continua evoluzione, tanto ai cambiamenti sociali quanto a quelli climatici con tutto ciò che ne concerne, con l’intenzione a riaffermare soprattutto i principi di libertà e giustizia sociale.Per questo è nato Socialismo XXI.Ma per realizzare questi obiettivi è necessario l’apporto di ognuno di noi, ciascuno secondo le proprie possibilità. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

I PARADOSSI DELLA CRESCITA NELL’ERA DEL TURBOCAPITALISMO

di Giorgio Ruffolo | L’organizzazione fordista del lavoro assicurava, al costo di una alienazione disumanizzante, un alto grado di sicurezza del posto di lavoro e facilitava la contrattazione collettiva, rafforzando i sindacati. È proprio questo paradigma sociale che oggi la rivoluzione informatica, sostituendo al modello della standardizzazione quello della differenziazione, ha mandato in pezzi. La vecchia alienazione si è dissolta in un’alienazione di grado superiore. La riduzione della società a mercato comporta una destrutturazione sociale devastante. In un mondo civile il mercato va contenuto in un contesto di relazioni non mercantili, e questo non può che essere prima di tutto rappresentato dalla politica. Oggi viceversa l’equilibrio tra mercato e politica – il vero segreto della superiorità dell’Occidente – si sta rompendo e corrompendo sotto i nostri occhi.Tutti i grandi economisti classici, da Smith a Marx a Keynes, hanno considerato la ricchezza e la sua crescita come un mezzo e non come un fine. Prima di essere economisti erano umanisti. Il segreto della crescita, e il solo modo concreto per perseguire il sogno dell’abbondanza, secondo loro, era il progresso tecnico. Sostanzialmente, si tratta di sostituire le macchine agli uomini: una possibilità che anche gli antichi greci e romani prospettavano, considerandola però o utopistica o dannosa.“Se ogni attrezzo potesse eseguire su ordinazione, o per suo proprio conto, il compito che gli è assegnato, l’architetto non avrebbe più bisogno di manovali, né il padrone di schiavi. Se la spola potesse correre da sola sulla trama, l’industria non avrebbe bisogno di operai” scriveva Aristotele.E l’imperatore Diocleziano comandava all’inventore di un marchingegno che permetteva di sollevare meccanicamente le immani colonne dei suoi templi, di bruciare quel suo progetto, che avrebbe provocato disoccupazione e fame “per i suoi poveri proletari”. Più recentemente l’economista Sismonde de Sismondi configurò l’esito estremo dell’automazione in una metafora settecentesca: il re d’Inghilterra che, girando una manovella, produce tutto quanto è necessario ai suoi sudditi. E si domandava: che ne sarà dei sudditi? Ai nostri tempi, John Maynard Keynes formulò invece una profezia ottimistica. Il progresso tecnico era andato ormai tanto avanti da far prevedere che assai presto gli uomini avrebbero potuto procurarsi tutti i beni necessari alla loro sopravvivenza e al loro comfort con due o tre ore di lavoro al giorno, dedicando il resto al riposo e a cose più serie, come l’amore e la cultura. Breve storia di un secolo In effetti, se c’è un secolo nel quale ci si è più avvicinati a quel sogno, è proprio il nostro, quello di cui abbiamo appena doppiato il capo: il Novecento.Nell’insieme del Novecento la produzione complessiva di beni e servizi nel mondo è cresciuta del 2,9 per cento all’anno e il prodotto pro-capite dell’ 1,4%, rispetto all’1,3 e allo 0,8 % rispettivamente nell’Ottocento; e a cifre molto vicine al niente per cento nella media dei secoli precedenti. Se come indice sintetico della “felicità pubblica” si assumesse quello della durata media dell’esistenza ( per la ricchezza quello del prodotto nazionale è altrettanto grossolano) constateremmo che essa è aumentata da meno di 40 anni nel 1820 a circa 50 nel 1900 e a 77 nell’ultimo decennio del XX secolo nei paesi industriali (60 nei paesi arretrati).Naturalmente, parlare del Novecento come di un periodo omogeneo sarebbe del tutto fuorviante. Il “secolo lungo” che abbiamo alle spalle deve essere diviso, per quanto riguarda lo sviluppo economico e il benessere sociale dei paesi capitalisti più avanzati, in quattro fasi distinte: una prima belle époque di prosperità economica e di aumento generale medio del benessere, dal 1880 al 1914; un’età dei torbidi, di guerre, crisi, disoccupazione, stragi e conflitti sociali e ideologici, fino al 1945; una seconda belle époque di grande prosperità economica di relativa pace mondiale e di parallelo miglioramento del benessere sociale, nonostante l’incombente minaccia della catastrofe nucleare, fino agli anni Settanta; e una quarta fase, che è quella nella quale viviamo, e alla quale non sappiamo ancora dare un nome. Si tratta di una nuova età dei torbidi? O di una rinnovata belle époque?Il quadro che ci si presenta non è né catastrofico, né rassicurante. Certo: non c’è stata alcuna catastrofe, né alcuna depressione paragonabile a quella tragica che segnò gli anni Trenta. Negli anni Settanta l’inflazione e la crisi petrolifera avevano fatto temere che il sistema capitalistico potesse precipitare in una nuova crisi verticale. Ma già verso la fine del decennio l’economia riprendeva il cammino della crescita. Tuttavia, a un ritmo sensibilmente e progressivamente più lento: 5% negli anni Sessanta, 3,6% nei Settanta, 2,8% negli Ottanta, 2% nei primi cinque anni dei Novanta.Inoltre è emerso per la prima volta nella storia lo spettro dei limiti della crescita nel senso della sua sostenibilità ecologica. Infine, mente la crescita ha continuato ad aumentare, si sono fatti sempre più evidenti i segni di un peggioramento della qualità sociale.Molti sono gli indizi di aumento del disagio sociale. Nella prima belle époque era stridente, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, il contrasto tra la relativa soddisfazione della maggioranza della popolazione e l’inquietudine talvolta disperata dei suoi intellettuali. Se si può avanzare una opinione azzardata, oggi si ha la sensazione di una inquietudine delle masse cui fa riscontro un narcisistico e soddisfatto compiacimento degli “intellettuali”. Lo spartiacque degli anni Settanta Comunque sia, è sempre più evidente che il quinquennio 1970-75 ha segnato uno spartiacque, tra una epoca di convergenza della crescita economica e del benessere sociale e una della quale il meno che si possa dire è che la intensità e la direzione delle due grandezze si è fatta incerta.Che cosa salta agli occhi, nel gettare uno sguardo al mondo immediatamente precedente quel quinquennio e a quello immediatamente successivo? Io direi, la “convergenza” e rispettivamente la “divergenza”. Nel primo quinquennio – beninteso, nei paesi del capitalismo avanzato – si assisteva a una felice convergenza delle grandezze più significative della prosperità e del benessere sociale. Procedevano monotonicamente, nello stesso senso e grosso modo allo stesso ritmo, la produzione globale, la produttività, l’occupazione, i profitti, i salari, nella media generale. Tendenze divergenti nei vari settori, …

TURATI PRIGIONIERO A PALLANZA FU ELETTO DEPUTATO PER PROTESTA

Documento tratto da Il Verbano 1982 A margine delle commemorazioni ufficiali, abbiamo un saggio di dichiarazioni turatiane su temi ancora oggi di attualità. In tutta Italia si commemora Filippo Turati nel cinquantenario della sua morte. Ognuno, come succede in questi casi, cerca di tirarselo dalla sua parte e di accaparrarne la grande carica ideologica e umana.La commemorazione ufficiale sarà tenuta da Craxi che aveva chiesto per questo addirittura il «Teatro della Scala». Per le opposizioni soprattutto comuniste, la cerimonia si svolgerà a Canzo (Como) paese natale del grande socialista riformista nato il 26 novembre 1857 e morto in esilio a Parigi il 29 marzo 1932. Il «curriculum» politico di Turati fu eccezionale: dal giugno 1895 fu eletto continuativamente alla Camera nel V° Collegio di Milano per nove legislature fino alle elezioni del 24 maggio 1924. È per i fatti del 1898 che Turati ha rapporti con la nostra terra: dal Parlamento passò infatti al carcere giudiziario di Milano e poi al Reclusorio di Pallanza dove rimase per 14 mesi fino all’amnistia del giugno 1899. Durante la prigionia di Pallanza Turati venne dichiarato decaduto dalla Camera il 9 luglio 1898 – ma nelle elezioni del 25 marzo 1899 il detenuto, con una candidatura – protesta, veniva rieletto con 4342 voti contro i 669 del Repubblicano Federci. Furono di quegli anni i contrasti fra socialisti massimalisti capeggiati da Enrico FERRI e i socialisti riformisti seguaci di Turati e di Bissolati. E da allora, per alterne vicende, di cui fa parte anche la scissione di Livorno, le due anime del socialismo, quella rivoluzionaria e quella riformista, sono state la «croce e delizia» della nostra democrazia. Ci pare utile offrire ai nostri lettori, come testo per una commemorazione di Turati da parte di una periferia come quella novarese che del socialismo sperimentò fino in fondo lotte, ideali e delusioni, alcuni brani di una franca e illuminante intervista concessa al «Popolo» (giornale dei «popolari») il 1° luglio 1924. Una intervista storica Abbiamo chiesto all’On. Turati se avesse letto la risposta del direttorio fascista alla dichiarazione delle opposizioni e che cosa pensasse della frase che accenna ad una futura «socialdemocrazia popolare ed unitaria». «Penso» ci ha risposto iI deputato unitario «che il direttorio fascista probabilmente qui vede giusto. Non vi è sventura che non abbia un lato benefico «Le vie di Dio sono molte» come voi direste e come scrisse Manzoni, l’estremo male ha in sé rimedi migliori. Sarebbe ingiusto negare al fascismo questo merito esso ha avvicinato milioni di cuori e di intelligenze che si ignoravano o si credevano nemiche, ha dissigillato milioni di pupille, ha spezzato la durezza delle formule intransigenti e settarie e ha rivelato anche ai più refrattari che, di fronte al ritorno alla barbarie, e sinchè l’educazione politica e morale in Italia – massime nei ceti dirigenti – non sia molto più sviluppata, vi sarà un terreno comune non soltanto di difesa, ma anche di azione costruttiva, fra tutte le energie di redenzione democratica veramente sincere e che siano fedeli a se stesse. É notevole che gli stessi massimalisti, la cui nota differenziale fu sempre l’intransigenza -à tout rompre – sono ora cordialmente con noi. Noi potremo dunque fare del cammino assieme, senza perdere nè le nostre caratteristiche fisionomiche nè le nostre peculiari impronte … digitali. Se, almeno, non avremmo al nostro fianco dei pusilli o dei traditori. Libertà religiosa «Eppure osservammo «non è da nascondere, che negli ambienti cattolici si dubita da parecchi che l’attuale collaborazione difensiva (demoliberale popolare, unitaria , ecc) possa avviarsi a divenire, al momento voluto, «una vera col laborazione di governo». Si dubita cioè dell’atteggiamento che, in tale ipotesi, assumerebbero i socialisti, di fronte ai problemi della politica ecclesiastica e religiosa. Fra gli stessi popolari è viva la preoccupazione di un ritorno a posizioni anticlericali vecchio stile delle masse e dei dirigenti socialisti. Ciò turba sinceramente molte coscienze pure e disinteressate, per le quali la libertà religiosa è una esigenza spirituale predominante. Con quale spirito i socialisti (almeno i dirigenti) crede Ella che si accosterebbero a tali problemi? «Senza propormi» ha risposto l’onorevole Turati «di vendere la pelle di un orso che … non è, ancora catturato mi lasci dire che siffatte preoccupazioni – appunto perché l’orso vagola ancora lungi sulla montagna – mi sembrano perlomeno alquanto … premature. Il socialismo, nella sua espressione media e globale, non è nè «anticlericale vecchio stile» (tengo a ripetere testualmente la sua frase) e le ricordo la nostra separazione netta dai massoni – fra i quali pure si trovano, con parecchia zavorra, tanti spiriti nobili e sinceri – nè tanto meno è antireligioso. Certo, siamo ereticissimi del Dio fatto strumento di regno, del Dio messo in organico come generalissimo della «milizia nazionale». La diffidenza o la avversione verso la Chiesa non esiste nelle file socialiste, se non in quanto la Chiesa, qualunque Chiesa, possa erigersi a barbacane del conservatorismo e della plutocrazia, sul terreno della lotta delle classi, abbandonando e consegnando al nemico, in pura perdita anche sua, le masse popolari. La democrazia cristiana è ben altra cosa, e tutte le forze d’avvenire possono e debbono accostarsi e mutuamente aiutarsi, lasciando le dispute teologiche ai canonisti e la filosofia trascendente ai vari Gentile delle cattedre. «Quando alla libertà religiosa, che è libertà assoluta di pensiero e di azione legale, tutte le libertà sono solidali; e ciascuna difende se stessa difendendo le altre». Culto: scuola, famiglia «Ma vi è l’inciampo dei problemi concreti libertà delle manifestazioni religiose e di culto e delle organizzazioni relative; la libertà di insegnamento (esame di ecc.); la integrità dei vincoli familiari (divorzio, ecc.)», «Francamente mi pare che Ella corra troppo le poste. Se non ci accoppano per riconciliarci definitivamente con la Nazione, potremo ritrovarcia discorrerne ancora. Ma sulla libertà, mi pareva di averle già esaurientemente risposto. E la prima delle libertà è quella dell’insegnamento, nel quale noi ripudiamo ogni coercizione o privilegio statale, e difenderemo “sempre (non negando allo Stato quello che è il suo primo dovere: assicurare per suo conto una larga istruzione …