La rassegna settimanale dei concorsi negli enti locali

Gazzetta Ufficiale 4° Serie Speciale – Concorsi ed Esami n. 90 del 24.11.2017: COMUNE DI CAMPONOGARA CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura a tempo indeterminato, part-time – ventotto ore settimanali, di un posto di istruttore tecnico (geometra) – settore uso ed assetto del territorio – categoria C – posizione economica C1. (17E08920). COMUNE DI CAROVIGNO AVVISO (scad. 9 dicembre 2017) Avviso pubblico per la manifestazione di interesse da parte di idonei collocati in vigenti graduatorie di concorsi pubblici a tempo indeterminato espletati da altri enti, per la copertura di otto posti di vari profili professionali. (17E08910). COMUNE DI CATTOLICA CONCORSO (scad. 30 novembre 2017) Procedura selettiva finalizzata al conferimento di un incarico dirigenziale a tempo determinato su posizione extradotazionale denominato «Progetti speciali» ex articolo 110, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000. (17E08879). COMUNE DI CORSICO CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per l’assunzione a tempo indeterminato ed a tempo pieno di un assistente sociale – categoria D1. (17E08944). COMUNE DI DIAMANTE CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Procedura per l’assunzione di una unita’ di caposquadra esterno – categoria B3, posizione economica B3 ex C.C.N.L., a tempo indeterminato part-time 30%. (17E08906). COMUNE DI GENOVA CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Modifica e riapertura dei termini del concorso pubblico, per esami, per l’assunzione a tempo pieno ed indeterminato di un funzionario servizi socio educativo culturali categoria D, posizione economica D1. (17E08886). COMUNE DI MANTOVA CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di conservatore a tempo pieno e determinato (dodici mesi), categoria D, posizione economica 1, del C.C.N.L. di lavoro regioni ed autonomie locali con riserva ai volontari delle FF.AA. ai sensi degli articoli 1014, comma 4 e 678, comma 9 del decreto legislativo n. 66/2010. (17E08884). COMUNE DI MANTOVA CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Selezione pubblica, per esami, per la formazione di una graduatoria per assunzioni a tempo determinato di maestra di scuola materna, categoria C, posizione economica iniziale, da assegnare al settore servizi educativi e pubblica istruzione, con riserva, ai sensi degli articoli 1014, comma 4 e 678, comma 9 del decreto legislativo n. 66/2010 e s.m.i. (17E08885). COMUNE DI MAPELLO CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto a tempo pieno e indeterminato di istruttore tecnico, categoria C – area tecnica. (17E08883). COMUNE DI MATTINATA CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di istruttore amministrativo categoria C1 – con rapporto di lavoro a tempo indeterminato a tempo pieno (trentasei ore settimanali) da assegnare al Settore segreteria – affari generali (protocollo-urp-servizi demografici). (17E08945). COMUNE DI MONTECCHIO MAGGIORE CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di istruttore – area economico finanziaria – categoria C, posizione economica 1 nel Settore 2° – Servizio tributi. (17E08878). COMUNE DI MONTELUPONE CONCORSO Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto con profilo professionale di istruttore direttivo – settore finanziario part-time 50% – categoria D a tempo indeterminato. (17E08908). COMUNE DI MONZA CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura a tempo indeterminato e pieno, di un posto di educatrice/educatore della prima infanzia – categoria C, C.C.N.L. di lavoro comparto regioni e autonomie locali. (17E08925). COMUNE DI NOLE CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Selezione pubblica, per titoli ed esami, per la copertura a tempo pieno ed indeterminato di un posto di istruttore amministrativo – categoria C – posizione economica C1. (17E08881). COMUNE DI NOVA MILANESE CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto a tempo indeterminato e parziale – venticinque ore settimanali – di collaboratore amministrativo – categoria B3 del C.C.N.L. comparto regioni ed autonomie locali, interamente riservato alle categorie protette – disabili – settore AA.GG. e legali. (17E08923). COMUNE DI PORCIA CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per soli esami, per la copertura di un posto di collaboratore amministrativo – categoria B – posizione economica B.1 – (C.C.R.L. del personale degli EE.LL. del Friuli-Venezia Giulia – area non dirigenti), a tempo pieno ed indeterminato da assegnare al servizio welfare e affari sociali. (17E08919). COMUNE DI SAN DAMIANO D’ASTI CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per la copertura a tempo indeterminato e parziale 50% (diciotto ore settimanali) di un posto di istruttore contabile – categoria C – Settore imposte e tasse. (17E08880). COMUNE DI SAN VINCENZO CONCORSO (scad. 30 novembre 2017) Selezione pubblica per l’assunzione con contratto di formazione e lavoro di una unita’ di istruttore tecnico geometra – categoria C, posizione economica C1 – durata di mesi dodici – presso l’Area 3 Servizi finanziari e lavori pubblici. (17E08891). COMUNE DI TARANTO CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Selezione pubblica per l’assunzione a tempo pieno e determinato fino al 31 dicembre 2019 – salvo eventuali proroghe concesse dal Ministero – di tre unita’ profilo professionale istruttore amministrativo, categoria C per la realizzazione del programma operativo nazionale inclusione FSE2014-2020, CCI n. 2014IT05SFOP001. (17E08888). COMUNE DI TARANTO CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Selezione pubblica per l’assunzione a tempo pieno e determinato fino al 31 dicembre 2019 – salvo eventuali proroghe concesse dal Ministero – di quindici unita’ profilo professionale assistente sociale, categoria di accesso D/1 per la realizzazione del programma operativo nazionale inclusione FSE2014-2020, CCI n. 2014IT05SFOP001. (17E08889). COMUNE DI TARANTO CONCORSO (scad. 27 dicembre 2017) Selezione pubblica per l’assunzione a tempo pieno e determinato fino al 31 dicembre 2019 – salvo eventuali proroghe concesse dal Ministero – di due unita’ profilo professionale di istruttore informatico amministrativo, categoria C/1 per la realizzazione del programma operativo nazionale inclusione FSE2014-2020, CCI n. 2014IT05SFOP001. (17E08890). COMUNE DI VICENZA CONCORSO (scad. 8 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di istruttore direttivo tecnico a tempo pieno ed indeterminato (categoria giuridica D1 dell’ordinamento professionale) interamente riservato ai soggetti appartenenti alle categorie protette di cui all’articolo 18, comma 2, della legge 12 marzo 1999 n. 68. (17E08905). NUOVO CIRCONDARIO IMOLESE CONCORSO (scad. …

IL PARTITO SOCIALISTA NEGLI ANNI DELL’AUTONOMIA

Dal congresso di Venezia al congresso di Napoli La valutazione critica dell’efficienza della politica “unitaria” a risolvere il problema dell’inserimento delle masse popolari nella direzione dello Stato; e, insieme, l’acquisizione del nesso inscindibile di socialismo con democrazia e libertà, sollecitata dall’esplodere della crisi dello “stalinismo“, sono a fondamento di un graduale quanto spregiudicato approfondimento della politica seguita dal 1949 in poi, e, con essa, della struttura organizzativa che il partito s’era data. Così ad una scelta di fondo tra politica “unitaria” e politica di “autonomia”, corrisponde il ripensamento critico del “centralismo democratico” e della natura autoritaria, burocratica, insita in tale sistema. Dal congresso di Venezia (febbraio 1957), nel quale la volontà “autonomistica” del partito viene deformata nella selezione del gruppo dirigente dal permanere del sistema delle false unanimità, al congresso di Napoli (15-18 gennaio 1959), che vede l’affermazione della corrente autonomista, il PSI percorre la strada della demistificazione del monolitismo di partito, che riceve il più duro colpo dall’esplicito manifestarsi delle sue correnti interne. “Il coraggio che ha comportato il sacrificare l’unanimità in parte fittizia degli ultimi anni alla ricerca della chiarezza ideologica, politica e di metodo – afferma Nenni nella relazione al XXXIII congresso – ha evitato al partito il peggiore dei rischi ai quali era esposto: la prevaricazione del burocratismo sulla libera formazione della volontà politica della massa dei nostri aderenti”. La lotta per l’autonomia passava dunque per la denuncia del burocratismo e del “centralismo democratico“, che dell’autonomia sono la negazione. E Nenni, infatti, proseguiva: “Noi non soffriamo nel nostro partito di elefantiasi burocratica, eppure un eminente studioso come il compagno Dal Prà ha colto in un acuto intervento nella Tribuna precongressuale uno degli aspetti delle nostre difficoltà interne quando ha constatato come si sia creato un diaframma fra gruppo dirigente e realtà politica e come sia necessario che lo spirito burocratico sia combattuto direttamente e frontalmente dallo stesso movimento socialista. In senso generale, la sua tesi che la scelta del congresso di Napoli sia tra socialismo burocratico, attendista e conformista, e socialismo costruttivo è valida per il nostro modo di essere all’interno del partito, per la nostra concezione del partito, non meno per l’indirizzo politico che intendiamo darci”. Troviamo in questa relazione di Nenni la più acuta e spietata contestazione del “centralismo democratico” allorché egli ricorda che “il Partito socialista non è qualcosa di staccato e di sovrapposto alle masse, non è una scuola per agitatori professionali e per uomini politici che manipolano le masse come lo scultore manipola l’argilla, ma è l’espressione della classe lavoratrice organizzata per la sua emancipazione“. Quali erano stati gli effetti del centralismo democratico? “Il partito – proseguiva il segretario del PSI – ha faticato a trovare la propria strada perché andava perdendo l’abitudine alla discussione, perché andava spoliticizzandosi, perché della vita democratica praticava più gli aspetti formali che quelli sostanziali; perché andava assuefacendosi ai miti, il mito delle parole e delle etichette, e alla più prestigiosa di esse nel nostro paese: “sinistra”, e al mito della personalità. “Sono cose alle quali dobbiamo tutti fare attenzione nell’avvenire. Nella organizzazione occorre essere attenti a non sacrificare la democrazia al centralismo trasformando quest’ultimo in supercentralismo. Si finirebbe allora per realizzare, anche nel partito, ciò che Marx diceva della burocrazia, e cioè che essa fa dello Stato la sua proprietà privata”. Il quadro che abbiamo innanzi tracciato del Partito socialista negli anni del centralismo democratico, ed i forti residui che esso ha lasciato nella vita dell’organizzazione, ci sembrano pienamente confermati da questa lucida testimonianza del segretario del PSI. Il passaggio dalla unanimità “al regno o governo della maggioranza” è visto da Nenni nel contesto della acquistata consapevolezza del legame inscindibile tra democrazia e socialismo, susseguente alla presa d’atto della crisi del sistema stalinista nei paesi comunisti. Cosicché, conclude Nenni, “è certo, in ogni caso, che una regola interna di organizzazione la quale ponga fortemente l’accento sulla formazione democratica che intende dare ai quadri ed ai militanti è in perfetta armonia con l’impegno democratico del nostro congresso di Venezia. Essa non ha niente a che vedere col partito cosiddetto d’opinione, ed esige al contrario un partito fortemente e modernamente organizzato al fine di elevare e dilatare la vita democratica di base facendo cadere ogni diaframma tra gruppo dirigente e realtà politica e sciogliendo i nodi burocratici, se ne esistano e dove esistano”. In questi brani della relazione Nenni al congresso di Napoli sono in nuce tutti i problemi della crisi del centralismo democratico e della trasformazione del partito strutturato sulle regole del centralismo, in partito democratico moderno. Tuttavia i temi prospettati da Nenni non vengono ripresi che marginalmente nella discussione congressuale, tutta impegnata sulla tematica della politica di autonomia e portata a disconoscere l’importanza dei problemi della struttura organizzativa, che a quelli della politica di autonomia sono invece strettamente connessi. La stessa risoluzione della maggioranza non fa cenno alle questioni del partito, se non per ritornare sul tema dell’”unità socialista” per auspicarne l’attuazione non più mediante un processo di riunificazione tra i due partiti, come era stato deciso al congresso di Venezia, ma nell’interno del PSI come “unità dei socialisti nel PSI, e quindi confluenza nel PSI di forze e gruppi socialisti, su una piattaforma democratica, classista e internazionalista“. Restano così irrisolti i problemi della trasformazione organizzativa; su tali questioni il dibattito tra le correnti si riduce alla schermaglia tra la “sinistra” che accusa gli “autonomisti” di trasformare il partito di “massa” in partito di “opinione” perseguendo una politica “socialdemocratica” di rottura dell’unità della classe operaia, e gli “autonomisti” che si limitano a confutare tali accuse. Quello di Napoli fu il congresso della piena affermazione della linea nenniana; che sancì la conquista autonomistica del partito e pose le premesse per concretizzare il dialogo, già avviato, tra il PSI e le forze democratiche. Vi furono al congresso tre posizioni: oltre a quella nenniana, che ebbe il 58,30%, ed alla “sinistra” (32,65%), ci fu una mozione di Basso che raccolse l’8,73%. Forti della maggioranza assoluta, gli autonomisti fecero eleggere dal comitato centrale (del quale, per la prima …

1964: QUEL “TINTINNAR DI SCIABOLE” CHE PIEGO’ I SOCIALISTI

di Lanfranco Caminiti Il piano Solo del generale De Lorenzo prevedeva la presa del potere da parte dei carabinieri e l’arresto di comunisti e socialisti L’evolversi della vicenda Consip – «Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi» – e cioè l’intervento diretto dei carabinieri nella vita politica del paese fa ricordare quando avvenne l’ultima volta. «President Segni aware this plan». È una frase contenuta nel telegramma inviato dal Comando generale delle Forze armate USA nell’Europa meridionale al comandante delle Forze armate USA in Europa, Verona, 26 giugno 1964. Un documento declassificato solo da qualche anno. Il Presidente Segni è a cono- scenza di questo piano. Il “piano” era che se la sinistra comunista fosse scesa in piazza, organizzando scioperi e manifestazioni contro una deriva reazionaria, allora loro, i Carabinieri, sarebbero intervenuti e avrebbero assunto il potere per mantenere l’ordine e la democrazia. Della polizia e di altre forze era meglio non fidarsi. Solo i carabinieri erano sicuri. Era il Piano Solo. Un piano che prevedeva l’ «enucleazione» di settecentotrentuno persone – sindacalisti, politici, militanti – da portare in una località protetta della Sardegna, un campo d’addestramento dei carabinieri, scelte sulla base dei dossier del SIFAR, il servizio d’informazione di cui era stato a capo de Lorenzo. Il generale de Lorenzo, comandante dell’Arma, era ossessionato dalla formidabile macchina organizzativa dei comunisti, dalla loro capacità di infiltrarsi e costruire cellule in ogni ganglio dello Stato, dal loro reclutamento, dalla loro propaganda, dalla loro “tattica degli scandali”. Perfino la scuola di partito delle Frattocchie lo mandava ai matti, e cercava di saperne sempre di più. In realtà, le cose non erano proprio in questo modo, i comunisti non erano all’offensiva, anzi. Il segretario della CGIL Novella aveva detto: «Nelle grandi aziende monopoliste la reazione operaia ai licenziamenti e alle riduzioni di orario è debole». Tutto era cominciato nel dicembre del 1963, quando si era formato il primo governo di centro- sinistra, presidente del Consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni. Democristiani e socialisti hanno stretto un’alleanza di governo. «l’Avanti» titola: “Da oggi ognuno è più libero”. Ci sono grandi aspettative, la scuola, la sanità, l’urbanistica, la programmazione economica, le “riforme di struttura”. I socialisti spingono sul tasto riformista e i democristiani su quello moderato. Nella Dc prende consistenza un coagulo conservatore e a guidarlo c’è proprio il presidente della Repubblica, Segni, che pure a Moro doveva tanto, anche l’elezione alla presidenza. Il 26 giugno del 1964, Moro rassegna le dimissioni. Segni vorrebbe affidare il governo a un esponente del la destra DC ( Scelba, Pella o Leone) o a una personalità tecnica come Merzagora; Moro, intanto, cerca di convincere i quattro partiti della coalizione a pronunciarsi compatti sul suo nome, in modo da obbligare Segni a conferirgli l’incarico. Sul Corriere della Sera appare questo editoriale: «Abbiamo bisogno d’un governo d’emergenza per una situazione d’emergenza». Ma non ci sono alternative e a nessuno passa per l’anticamera del cervello di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Il pallino con l’incarico di formare il nuovo governo torna a Moro. Seguono tre settimane di trattative difficili tra socialisti e democristiani. Sono le tre settimane che poi Nenni definirà quelle del periodo del “tintinnar di sciabole”. All’apertura della crisi di governo, i comunisti denunciano che «gruppi apertamente reazionari approfittano delle attuali difficoltà per rivolgere un attacco contro le istituzioni democratiche e repubblicane, e in questo modo preparare le condizioni dell’avvento di un regime autoritario». Segue invito alla più grande vigilanza per e forze democratiche, le masse popolari e le organizzazioni della classe operaia. Il 3 luglio, una mobilitazione nazionale raduna a piazza San Giovanni circa centomila persone, convenute per ascoltare Giorgio Amendola e Palmiro Togliatti. E Togliatti dice: «In Italia la via per qualunque in- voluzione reazionaria è sbarrata; chi volesse attentare alla nostra libertà sappia che non ci sono speranze». La manifestazione, inquadrata da un servizio d’ordine di circa tremila militanti del PCI, si svolge tranquillamente e non dà luogo a nessun incidente. Il 18 luglio l’accordo è faticosamente raggiunto. Moro è di nuovo presidente del Consiglio. È un notevole passo indietro sui programmi del precedente governo. Riccardo Lombardi lascia la direzione dell’ «Avanti» e il socialista lombardiano Antonio Giolitti, autore del piano di programmazione economica, rifiuta di partecipare al nuovo governo. Il centro- sinistra è rientrato all’ordine. Del “Piano Solo” si persero le tracce, ma qualche anno dopo, nel 1967, fu giornalisticamente “svelato” su «l’Espresso» da Scalfari e Jannuzzi. Un generale dei carabinieri, de Lorenzo, che ordisce contro quella repubblica che dovrebbe custodire. Perché a quello sono “destinati” i carabinieri: «nei secoli fedele», a chi obbedire, a chi essere fedele? All’istituzione, all’ordinamento sociale, e se è la repubblica alla repubblica. Così, quasi non riesci a credere che dei carabinieri fabbrichino con le proprie mani “una bomba” da mettere nelle mani di un giudice perché la faccia esplodere contro la presidenza del Consiglio. Ora, con tutto il rispetto per il maggiore Scafarto, è lecito chiedersi: a chi era fedele? A chi ubbidiva, tacendo? Chi è il “grande vecchio”? Fonte: ildubbio.news

L’AVVIO DEL PROCESSO AUTONOMISTICO

A dieci anni di distanza dal 25 aprile, il XXXI congresso del PSI (Torino, 31 marzo-4 aprile 1955) è costretto a riconoscere il fallimento politico della sinistra italiana. La destra “controlla il governo e l’apparato dello Stato direttamente e a mezzo degli uomini che ha nei partiti della maggioranza. I principali mezzi di formazione dell’opinione pubblica sono nelle sue mani.” Così la relazione della direzione del partito al congresso. E prosegue: “Dieci anni or sono giaceva vinta ed umiliata, ma si potrebbe dire con una espressione di Marx che fosse stata abbattuta, come la borghesia francese nel 1848, soltanto per attingere dalla terra nuove forze. È bastato che la sinistra venisse allontanata dal governo, perché a poco a poco essa ripigliasse il sopravvento. Oggi non le basta più controllare il governo e l’apparato statale, ma addirittura vorrebbe mettere a tacere l’opposizione parlamentare e lo stesso Parlamento, i partiti e i sindacati operai“. Se il piano della destra non è giunto a conclusione, per la sconfitta della legge maggioritaria, ciò è avvenuto perché il PSI ha compiuto un primo passo sulla via della liquidazione del frontismo, presentandosi alle elezioni del 7 giugno con liste proprie ed avanzando, sia pur timidamente, una nuova prospettiva politica in autonomia dal Partito comunista. La situazione generale del Movimento operaio resta tuttavia molto pesante. Aprendo la discussione congressuale Pietro Nenni rileva accoratamente: “A dieci anni dalla Liberazione costa caro tenere alta nella fabbrica, nella campagna, nei pubblici e privati uffici la bandiera della democrazia. Lo sanno le maestranze della FIAT per le quali la semplice elezione della commissione interna e divenuta una prova di forza e di coraggio”. L’inizio dei lavori congressuali coincide infatti con l’esito disastroso delle elezioni interne alla FIAT. È il punto più basso della crisi dell’organizzazione sindacale “unitaria” e di tutto lo schieramento socialista e comunista. Non soltanto la politica “frontista” non è riuscita a dischiudere alcuna prospettiva di potere alla classe lavoratrice italiana, ma l’ha precipitata di sconfitta in sconfitta, fino ad una situazione in cui l’appartenenza alla CGIL, e la tessera comunista e socialista fanno oggetto il lavoratore di pesanti rappresaglie padronali, contro le quali tutta la complessa e macchinosa bardatura del sindacato e dei partiti non oppone nessuna reale difesa. La condizione operaia alla FIAT, come dovunque, è cosi descritta da Nenni: “Gli operai sono spiati, costretti alle loro macchine come automi: si nega loro il diritto di dire, anche negli intervalli di lavoro, una parola che abbia significato di classe; si è introdotto il sistema delle perquisizioni all’ingresso nelle fabbriche per paura di quella potente arma nucleare cui è assurto ogni foglietto di propaganda; gli agenti padronali sorvegliano gli operai oltre la cerchia della fabbrica, nei luoghi di ritrovo o di riunione politica e sindacale; sono ammoniti sin nel seno della loro famiglia da lettere minacciose; sono posti davanti all’alternativa di votare come desidera l’azienda o di perdere il posto di lavoro“. Ma Nenni si rende perfettamente conto che l’arretramento del fronte operaio è dovuto a cause ben precise, che non risiedono esclusivamente nell’offensiva padronale. Esse vanno ascritte alla debolezza politica dell’azione delle sinistre, le quali dopo il successo del 7 giugno non hanno saputo offrire uno sbocco politico alla precisa indicazione delle masse popolari contro il monopolio democristiano del potere e per una politica di rinnovamento del paese. “Né gli operai cadranno nell’errore – prosegue infatti Nenni – di limitarsi a denunciare il terrorismo padronale, che spiega molte cose, e non le spiega tutte, ma risalendo francamente alle cause di ordine politico e di ordine sindacale che hanno accresciuto l’efficienza del terrorismo padronale, prepareranno le condizioni di una pronta e vigorosa ripresa”. Tuttavia l’analisi del gruppo dirigente socialista e dello stesso segretario del partito si arresta a questo punto. Le cause cui vengono fatte risalire le sconfitte operaie sono individuate nella politica di violazione del dettato costituzionale perseguita dalla maggioranza “centrista” e ripetutamente denunziata tanto dai socialisti quanto dai comunisti, come da altri settori del movimento democratico, laici e cattolici. Quel che è del tutto assente è uno sforzo di analisi critica degli errori politici della direzione comunista e socialista del movimento operaio italiano. Manca, in una parola, una considerazione attenta delle ragioni storiche e politiche che hanno condotto alla resurrezione della borghesia capitalistica distrutta dalla guerra, ed al completo isolamento dello schieramento frontista. La relazione introduttiva al XXXI congresso contiene infatti una vasta parte dedicata alla riaffermazione ed all’esaltazione della politica “unitaria” con il PCI. Viene ribadita la comune direttiva di “guidare il movimento popolare alla conquista della Repubblica democratica parlamentare“; viene confermata “la validità delle direttive che hanno ispirato nell’ultimo decennio l’iniziativa e l’azione della classe operaia, ed il cui valore non è soltanto di ordine tattico: è stata confermata nei giorni scorsi dalla IV Conferenza Nazionale del PCI; è pienamente riconosciuta dal nostro partito; fa parte del patrimonio comune della classe operaia“. E tuttavia anche in questa riconferma acritica della validità della politica frontista – niente affatto misurata alla realtà della condizione operaia e della sconfitta politica delle sinistre – si può scorgere un accenno nuovo, come il preludio di un nuovo discorso che si inizia, nella preoccupazione di non negare A passato ma nel contempo di proporre indicazioni nuove per il presente e per l’avvenire. “La politica unitaria di massa non ha soffocato l’autonomo sviluppo dei due partiti”, afferma la relazione. “La repressione – vi si legge subito dopo – rinserra la solidarietà dei lavoratori, e in primo luogo dei socialisti e dei comunisti, nella strenua difesa dei diritti democratici: ogni possibilità interna di apertura politica, ogni schiarita internazionale, restituiscono all’azione politica unitaria elasticità e individualità. “Sono cioè i fattori obiettivi della situazione interna ed internazionale, e non rigidi schemi precostituiti, a determinare il carattere delle lotte e dell’iniziativa politica dei partiti operai, nel solco degli interessi solidali di tutti i lavoratori”. L’unica nota nuova che viene portata dal gruppo dirigente socialista nella rassegna del quadro internazionale riguarda l’affermarsi di forze distensive all’interno stesso del mondo occidentale, in un processo di differenziazione …

Legge elettorale, presto il primo giudizio della Consulta

La campagna elettorale, di fatto, è già iniziata, ma sulla legge che dovrà regolare il voto pende ancora la spada di Damocle della Consulta, chiamata il 12 dicembre a pronunciarsi sul Rosatellum bis. Un passaggio che potrà essere da subito decisivo oppure riservare un secondo round, ma che fin d’ora apre molti interrogativi tra gli stessi giuristi. A differenza di quanto accadde col Porcellum, inviato alla Corte dalla Cassazione, e con l’Italicum, che arrivò alla Consulta perché alcuni tribunali sollevarono dubbio di costituzionalità, questa volta sul Rosatellum i giudici sono chiamati a dirimere un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. A proporlo, i capigruppo Cinquestelle contro la Camera di appartenenza, ritenendo lese le loro prerogative di parlamentari perché la norma è stata approvata con diversi voti di fiducia. A rappresentarli un pool di legali, tra cui Felice Besostri, già in campo contro Porcellum e Italicum. Nella camera di consiglio fissata per le 16 del 12 dicembre, la Corte valuterà anche alcuni ricorsi sull’Italicum. Ma il piatto forte è ovviamente il Rosatellum. E trattandosi di un conflitto, non di una questione di costituzionalità, la Corte, prima di esaminare la norma, dovrà valutare se il ricorso ha tutte le carte in regola per essere ammissibile e se i ricorrenti si qualifichino come poteri dello Stato.Se questo step non dovesse essere superato, la partita si chiuderà e il Rosatellum sarà salvo. Altrimenti, sarà fissata una data d’udienza per discutere i contenuti della legge. In altri conflitti ad alta densità politica, la decisione sull’ammissibilità era scontata. Questa volta no e il tema fa discutere gli esperti. Se ne ha un “assaggio” su Nomos, la rivista coordinata dal costituzionalista Fulco Lanchester, che on line pubblica le anticipazioni del prossimo numero e i contributi di numerosi giuristi e addetti ai lavori – gli stessi che il 5 dicembre ne discuteranno alla Sapienza in un incontro insieme ad Alfredo D’Attorre (Mdp), Lucio Malan (Fi), Ettore Rosato (Pd) e Danilo Toninelli (M5S). Per Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte costituzionale, la posta in gioco investe «l’esercizio della “sovranità popolare”» attraverso i suoi rappresentati e «la ferita inferta dalla legge elettorale alla sovranità del Popolo e alle attribuzioni del Corpo elettorale è di tale entità che non è possibile non dichiarare l’ammissibilità del ricorso». Di tutt’altro avviso il costituzionalista Stefano Ceccanti, che non solo sottolinea come il ricorso «riproponga argomenti già bocciati», ma parla senza mezzi termini di «estroso tentativo di conflitto di attribuzioni», ricordando come i regolamenti parlamentari non prevedono la legge elettorale tra le materie per cui è esclusa la fiducia. Ma Giampiero Buonomo, consigliere del Senato, fa notare che «la maggioranza, su ben due leggi elettorali», Italicum e Rosatellum, «è andata a testa bassa con ripetuti voti di fiducia» e proprio il conflitto tra poteri può essere lo strumento che «sanzioni non tanto e non solo il prodotto della forzatura, ma la forzatura in sé». Resta da chiedersi se imboccare questa strada non possa «in astratto comportare la legittimazione di uno o più parlamentari a sollevare conflitto per qualunque legge» e se questo non trasformi il conflitto da «strumento eccezionale» a «ordinario strumento di lotta politica». È la domanda che si pone il costituzionalista Massimo Villone e se la porranno senz’altro anche i giudici della Corte. Fonte: ilmessaggero.it

Giornata contro la violenza sulle donne: ecco quando è nata e perché

Dal sacrificio delle sorelle Mirabal alle scarpe rosse. Date, personaggi e momenti storici che hanno reso il 25 novembre il giorno in cui il mondo denuncia il femminicidio e gli abusi di genere. Il 25 novembre si celebra la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. In tanti Paesi, tra cui l’Italia, ci saranno manifestazioni, mostre, cortei, sit-in, convegni e installazioni per ricordare le vittime e per affrontare il tema della violenza di genere. Ma da dove ha origine questa ricorrenza? Quali sono i suoi simboli? Chi l’ha istituita? E quando? A volere la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne è stata l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre del 1999. L’intento dell’Onu era quello di sensibilizzare le persone rispetto a questo argomento e dare supporto alle vittime. Ogni anno, a partire dal 2000, in tutto il mondo governi, associazioni e organizzazioni non governative pianificano manifestazioni per ricordare chi ha subito e subisce violenze. Perché è stato scelto il 25 novembre? Quando l’assemblea delle Nazioni Unite ha istituito la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ha scelto questa data in ricordo dell’uccisione delle sorelle Mirabal, avvenuta nel 1960 a Santo Domingo perché si opponevano alla dittatura del regime di Rafael Leónidas Trujillo. In loro memoria, il 25 novembre del 1981 ci fu il primo Incontro Internazionale Femminista delle donne latinoamericane e caraibiche. Da quel momento in poi, il 25 novembre è stato riconosciuto in larga parte del mondo come data per ricordare e denunciare il maltrattamento fisico e psicologico su donne e bambine. La data è stata poi ripresa anche dall’Onu quando ha approvato la risoluzione 54/134 del 17 dicembre del 1999. Chi erano le sorelle Mirabal? Patria, Minerva e María Teresa Mirabal, assieme ai loro mariti, erano delle attiviste del “Movimento 14 giugno”, un gruppo politico clandestino dominicano che si opponeva alla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo. Nate tra il 1924 e il 1935, hanno trovato la morte nello stesso giorno: il 25 novembre. Le tre sorelle, a causa della loro militanza, nel gennaio del 1960 furono arrestate e incarcerate. La loro detenzione, però, durò pochi mesi. Cosa diversa per i loro mariti, che continuarono a rimanere nella prigione Puerta Plata. Il 25 novembre del ’60, Patria, Minerva e María Teresa, mentre stavano andando in auto a far visita ai loro compagni in carcere in compagnia di un autista, furono fermate dalla polizia, condotte in una piantagione di canna da zucchero e uccise a bastonate. Poi, una volta uccise, i militari di Trujillo rimisero i loro corpi in macchina e tentarono di simulare un incidente. All’opinione pubblica, però, fu subito chiaro che le sorelle Mirabal erano state assassinate. In molti cominciarono a ribellarsi. E di lì a poco il regime finì con la morte del dittatore Trujillo. Qual è il colore della Giornata? In tutto il mondo il 25 novembre è celebrato con l’arancione, tanto che si parla anche di Orange Day. Un Women, l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere, lo ha scelto come simbolo di un futuro in cui le donne si saranno liberate della violenza degli uomini. In Italia, però, dove la Giornata si celebra solo dal 2005, spesso all’arancione è preferito il rosso. Le scarpe rosse Soprattutto in Italia, il simbolo della lotta contro la violenza sulle donne sono le scarpe rosse, lasciate abbandonate su tante piazze del nostro Paese per sensibilizzare l’opinione pubblica. Lanciato dall’artista messicana Elina Chauvet attraverso una sua installazione, nominata appunto Zapatos Rojas, è diventato presto uno dei modi più popolari per denunciare i femminicidi. Un’installazione che ha fatto il giro del mondo, toccando alcune delle principali città europee e italiane. Fonte: TG Sky  

LA CRISI DEL “CENTRALISMO DEMOCRATICO”

Il XXX congresso (Milano, 8-12 gennaio 1953) che vede il PSI definire i termini della politica di alternativa socialista, con l’obiettivo della lotta contro la legge maggioritaria, segna anche l’avvio, ancora incerto e contraddittorio ma irreversibile, di un processo politico che è destinato nel volgere di pochi anni a restituire al PSI il suo ruolo autonomo nello schieramento politico italiano. La conseguenza della svolta del PSI è la necessita di un adeguamento della struttura organizzativa del partito e dei suoi rapporti con gli organismi unitari di massa agli obiettivi de sua politica. Nel suo intervento XXX congresso, Fernando Santi imposta in termini nuovi a posizione sindacale del PSI, confermando che nel partito il processo di revisione degli schemi leninisti-stalinisti ha già raggiunto uno stadio avanzato. “Compito del sindacato – afferma Santi – è quello di promuovere il miglioramento graduale e costante delle condizioni economiche, civili, culturali e professionali dei lavoratori“. Questa definizione dei compiti del sindacato è in chiave ostentatamente “riformistica“, e si colloca in antitesi alla concezione strumentale del sindacato come “cinghia di trasmissione” della politica del partito (il PCI) allora dominante nella Confederazione del Lavoro. L’affermazione di Santi non è fine a se medesima: essa è il punto di partenza per tracciare un quadro generale della concezione autonomistica degli obiettivi e delle forme di lotta del movimento operaio in coerenza con l’impegno di lotta contro la legge maggioritaria, che palesa la preoccupazione di Santi e degli autonomisti di dare alla politica di alternativa socialista un significato che non sia esclusivamente tattico, ma di presentarla nel contesto di una visione organica, autonoma, dei problemi della società e dello Stato. “Per esercitare questa sua funzione – continua Santi nel suo intervento – che è funzione di progresso sociale, la classe lavoratrice deve disporre di un movimento organizzato, libero e forte che deve essere adeguatamente rappresentato in tutte le istanze della vita del paese e particolarmente laddove si fanno le leggi“. In questa prospettiva, che è quella della lotta per la conquista dall’”interno” dello Stato, antitetica alla concezione leninista-stalinista della conquista dall’”esterno“, si pone il problema dei rapporti tra lo Stato e le masse lavoratrici. “In realtà – afferma Santi – vi è un solo modo efficace e democratico di inserire le masse nello Stato: quello indicato dal movimento operaio in una posizione attiva d’iniziativa e di autonomia, tendente a trasformare gradualmente lo Stato, nell’attuale momento storico, attraverso la realizzazione della Costituzione per quanto riguarda particolarmente i diritti dei lavoratori e i princìpi sociali enunciati. Questa posizione democratica è stata scelta da gran tempo dal movimento operaio nel nostro paese”, osserva Santi. E, con un chiaro riferimento alla tradizione turatiana, egli precisa: “Fin da quando esso si divise dalla frazione dell’anarchismo che voleva la conquista dall’esterno, abbiamo scelto la strada democratica perché voleva dire e vuol dire difendere l’unita nazionale… e voleva dire non creare la prospettiva greca… Nonostante tutte le difficoltà in campo nazionale ed internazionale, noi pensiamo che dobbiamo camminare su questa strada: difendere la democrazia politica perché essa si sostanzi della democrazia economica e sociale“. Capovolgendo l’impostazione morandiana, Santi definisce dunque una prospettiva della lotta socialista fondata sulla possibilità della costruzione graduale, democratica del socialismo dall’interno dello Stato, non condizionata alla modificazione dei rapporti di forza internazionali: e sintetizza questa posizione con la formula dell’austro-marxismo (“sostanziare la democrazia politica con la democrazia economica e sociale“) che Morandi aveva definito la “forma più raffinata dell’opportunismo socialdemocratico”. Il rifiuto della teoria della pauperizzazione è espresso, conseguentemente, con l’affermazione della necessità di “un movimento sindacale libero e forte che abbia possibilità di battersi per migliorare la capacità di consumo delle grandi masse popolari” per cui “l’elemento fondamentale della sua lotta è l’unità d’azione con i lavoratori appartenenti a tutte le organizzazioni o a nessuna organizzazione. L’unità d’azione è il risultato di una politica, di una giusta politica rivendicativa a favore di tutti i lavoratori, da realizzarsi con i giusti mezzi accettati dalla maggioranza dei lavoratori“. Con il che Santi rilancia la funzione rivendicativa del sindacato, come elemento di “progresso sociale“; e su di essa basa la politica di unità d’azione con i lavoratori, escludendo implicitamente ogni strumentalismo e ogni politicizzazione della lotta sindacale. Il significato di queste affermazioni risalta ancor più a confronto con quelle del morandiano Vincenzo Gatto, vice di Morandi nella responsabilità del lavoro di massa, il quale dichiarava che “la lotta di massa non è soltanto la lotta sindacale anche se questa e la più tipica, ma è lotta di massa quella che conducono su basi unitarie i vari movimenti di rinascita e parimenti azione di massa quella che conducono le donne per la loro emancipazione dallo sfruttamento, dal pregiudizio, dalla schiavitù, dalla miseria lo sono ancora le lotte per risolvere il problema della drammatica situazione della gioventù, la cooperazione in generale è azione di massa la lotta per migliori condizioni dei contadini nelle montagne e dei coltivatori diretti. Tutte lotte che nella loro logica concorrono sempre a risolversi nella lotta delle lotte, come e stata definita la lotta per la pace, la più nobile delle lotte di massa”. Il contrasto che emerge tra le due posizioni e contrasto di fondo tra autonomisti e morandiani. Ma è importante osservare che nell’intervento di Gatto non manca il riconoscimento della necessità e possibilità di una caratterizzazione dell’azione socialista nel sindacato, a ragione della pressione della base sindacale e di quel settore di dirigenti socialisti della CGIL che vedono nell’iniziativa sindacale socialista la condizione per rimuovere la confederazione dalla situazione di immobilismo e di crisi cui l’ha condotta la politica del PCI. Già quest’iniziativa s’è manifestata in sede del III congresso della CGIL tenutosi a Napoli alla fine del ’52 nel quale il contributo dei socialisti diretto alla revisione della politica sindacale della confederazione, per adeguarla alla nuova realtà sociale del paese, è risultato abbastanza vivace. Il congresso della CGIL ha costituito inoltre l’occasione per la riorganizzazione della corrente sindacale sciolta due anni prima. La ricostituzione della corrente, per la nuova situazione che s’è creata, non è più circoscrivibile all’episodio …

La socialdemocrazia nell’angolo e senza alternative

di Paolo Borioni Bisognerà fare a meno degli stereotipi sui tedeschi per comprendere cosa succede alla Spd. La crisi inedita spiegherebbe l’incertezza, non lo sgomento dei vertici del partito. Non serve neppure ribaltare lo stereotipo: «Sono rigidi, non sanno come cavarsela». L’analisi politica non può essere aneddotica da stabilimento balneare riminese. Alla base di tutto, le politiche degli ultimi 15 anni, a cominciare dalle riforme del mercato del lavoro di Schröder, hanno alienato alla Spd quasi metà dell’elettorato. Inutile negarlo: non fossero state riforme socialmente devastanti non si capirebbe come il paese vincitore per eccellenza si trovi strattonato tra protesta sociale e instabilità governativa. Risultato: la Spd è al 20%, e ciò comporta non solo la riflessione in atto nel partito ma una sua ridottissima portata politica. Esso non è, come ai tempi del 40%, un partito cardine alla pari con Angela Merkel ma, per il momento, solo il più grande dei partiti coalizionali. Una navigazione in acque inesplorate, con l’aggiunta che tornare oggi ad essere partner minore della Cdu-Csu significherebbe confermare questa letale discesa di status. Anche perché nel frattempo, come è ovvio, davanti la prospettiva sarebbe quella di ogni odierno governo di grande coalizione imprigionato (a differenza degli anni 1960 di Brandt) nella sola prospettiva di disciplinare le classi medie e operaie nella propria netta sensazione di declino. Alla lunga, come si vede, né i partiti democristiani né la socialdemocrazia se ne giovano, ed oggi infatti, a differenza del 2005, anche questa soluzione avrebbe, al Bundestag e nel paese, margini ridottissimi. Eppure le forze che spingono in quella direzione sono molte. I governi di minoranza sono lontani dalla pratica costituzionale e politica tedesca: se non andiamo errati se ne è verificato solo uno, temporaneamente, ed in un governo regionale di Land. E poi alla presidenza della Repubblica c’è un socialdemocratico, Steinmeier, che è l’incarnazione della «grande coalizione». Egli non considera, semplicemente, altra politica degna che quella del governo, privando la Socialdemocrazia ancora di più di ciò che costituiva il proprio equilibrio ideologico e politico fra critica del sistema a sua gestione. L’altro aspetto riguarda la leadership di Schulz, molto debole e priva di reale stima nel resto della classe dirigente. Nella sostanza, gli si imputa di essere portato anche lui alla Grande Coalizione, semplicemente perché le elezioni tra pochi mesi sarebbero la sua fine come capo del partito. Non è solo una questione di note limitatezze personali, ma del fatto che oggi un leader della Spd non è più la proiezione collettiva di un grande movimento, ed è dunque appeso alle contingenze. Egli così non può affrontarle partendo da una posizione al di sopra di esse, cioè con maggiore forza negoziale. Del resto, due giorni fa anche il gruppo parlamentare del partito ha espresso alla sua presidente Andrea Nahles la paura di perdere il seggio in caso di elezioni imminenti. Anche qui, agli osservatori e lettori italiani è bene far notare come le differenze antropologiche a nostro sfavore sono spesso smentite, e non servono a comprendere le cose. Tutto riconduce appunto al ridimensionamento storico attuale della Spd a partito coalizionale che, peraltro, non ha lavorato ad alternative possibili, non solo di partner di governo (la Linke e i Verdi non sarebbe comunque bastevoli per una maggioranza di sinistra) ma proprio di schema. Un equilibrio meno angusto sarebbe per esempio possibile solo con uno schema «scandinavo» (tecnicamente: parlamentarismo negativo): un governo di minoranza Cdu-Csu tollerato dalla Spd, che accettando o rifiutando singoli provvedimenti potrebbe rigenerarsi intanto ricostruendo profilo e funzione. E ritrovando gradualmente l’essenza della Socialdemocrazia: l’equilibrio fra distinzione (di rappresentanza, di ideologia e di politiche) e compromesso (all’opposizione o al governo è secondario). Un’altra grande coalizione sarebbe invece il peggio per tutti: l’indistinzione che rafforza la nuova destra, in Germania ed in Europa. Fonte: Il Manifesto del 24 nov. 2017  

UN SIMBOLO, UNA STORIA, UNA MISSIONE

C’era una volta un simbolo che ha accompagnato la storia del Novecento e, in Italia ha sempre contraddistinto le lotte dei lavoratori, le loro conquiste in campo sociale e civile, la difesa della democrazia, sin dalla nascita: con la Resistenza e la Costituzione. Quel simbolo fu adottato, per la prima volta, dal Partito Socialista che, anche grazie ad esso, nel 1919, raggiunse il massimo dei consensi mai raggiunti in Italia. Purtroppo ciò non bastò ad arginare la reazione clerical-fascista, anzi, la scatenò fino al punto che alla fine venne vietato, come quello di ogni altro simbolo di partito, e come la democrazia stessa che, in Italia, venne sepolta da venti anni di dittatura e da tre guerre rovinose, l’ultima delle quali ridusse il nostro Paese in macerie, portandoci ad avere una sovranità limitatissima. Ciò che ci impedì di metterci seduti e di farci dettare la Costituzione da chi, pur liberandola, invase l’Italia, fu la lotta di liberazione: la Resistenza fatta, nella maggior parte dei casi, anche in nome di quel simbolo, da brigate partigiane che pagarono il tributo più alto, in termini di sangue e di morti, per la riconquista della libertà. Quel simbolo, per più di 40 anni, è stato quello della sinistra e dell’opposizione alla continuità di un regime clericale, in cui è perdurata la collusione tra mafie, clientele e corruzione. In nome di quel simbolo, della tradizione e dei valori che esso rappresentava, sono stati varati lo Statuto dei Lavoratori, la scuola media unica, la nazionalizzazione dei servizi essenziali, il divorzio, è stato combattuto il terrorismo, è stata combattuta fino al martirio la mafia, si è difeso il potere d’acquisto dei lavoratori, si sono svolte lotte decisive, in campo nazionale ed internazionale, contro la riduzione della libertà e contro l’umiliazione della giustizia sociale. Ad ammainare per primi quella bandiera furono i socialisti di Craxi, in nome di un socialismo riformista che è penosamente affondato, pur nel suo tentativo, a tratti anche riuscito, di modernizzare sul piano economico e sociale l’Italia, di accreditarsi come partito di governo, nelle corruttele e negli scandali, forse meno eclatanti di quelli odierni, ma sicuramente non meno rovinosi per una intera storia e per una identità condivisa nelle lotte per una democrazia socialmente avanzata. Sarà per l’ironia della sorte, oppure per una vendetta del destino, ma da quando i socialisti hanno abbandonato quel simbolo, sono risultati sempre meno credibili, sempre più minoritari e sempre più dispersi, fino all’insignificanza attuale. Stessa sorte, mutatis mutandis, è accaduta a quello che è stato a lungo il partito che ha esaltato maggiormente quel simbolo, durante gli anni della Resistenza, della stagione Costituente e dell’opposizione democratica all’unico partito legittimato a governare da un mondo bipolare, in cui le sovranità degli stati erano state già decise dopo la guerra a tavolino, una volta per tutte. Quel simbolo, che fu del partito che, più di altri, seppe denunciare sul nascere il degenerare della politica in affarismo autoreferenziale, in cerca anch’esso di potere a tutti i costi, pur non essendo esente da compromessi e da assetti consociativi ed autoreferenziali, è stato anch’esso abbandonato quando quello stesso partito decise di cessare di esistere e di realizzare un connubio definitivo con coloro a cui, da sempre, si era opposto, ma con i quali, aveva pur tuttavia cercato un compromesso di potere, per altro fallito con la morte di Moro. La fine di quel simbolo nel Partito Comunista, ha decretato, di nome e di fatto, la fine del tentativo di realizzare un progetto di riformismo rivoluzionario (così lo chiamava Lombardi che mai avrebbe rinunciato a quel simbolo, pur essendo di estrazione azionista), tale da scardinare alla radice i meccanismi con cui l’Italia è tenuta serva umile ed obbediente, mediate una selezione spietata dei suoi quadri dirigenti, in nome del servilismo verso un sistema endemicamente corrotto ed inefficiente. La sovranità di un grande paese, dalle immense risorse cultuali e civili, infatti può essere limitata fino ad annullarla, solo quando si forma e di promuove una classe dirigente di ignoranti, di corrotti, di ricchi esecutori di ordini stabiliti per impedire che, già sul nascere, emergano forze e risorse nuove, tali da cambiare l’assetto dell’Italia. Quando qualche intellettuale cosciente ed organico, come Pasolini, sfugge a questa tattica preventiva o quando qualche magistrato come Falcone e Borsellino riesce a smascherare il perverso ed endemico livello di collusione raggiunto con le stesse istituzioni dello Stato, allora li si elimina senza alcuno scrupolo, né per loro né per gli eventuali “danni collaterali”. La perversa mutazione antropologica che ha trasformato un popolo non ancora prostrato ed avvilito dal clerical-fascismo in una massa di atomi umani che girano prevalentemente intorno ad identità virtuali, suscitando solo reazioni a catena mediatiche, buone solo per gli uffici di statistica e pubblicitari, per incrementare le loro strategie di vendita e il loro profitto, è coincisa con quella di un partito che, da fiero oppositore ed assertore di una imprescindibile questione morale, è divenuto, miseramente e nei fatti contingenti, uno dei massimi rappresentanti di un trasformismo che affonda squallidamente in una palude di corruttele ed immoralità. Ad opporglisi vi è un movimento, che, pur mettendo al primo posto l’incorruttibilità dei suoi membri, e specialmente dei suoi rappresentanti parlamentari, stenta a mettere in primo piano oltre alla questione morale che è pur sacrosanta, quella sociale, altrettanto decisiva ed indissolubile rispetto ad essa. Il movimento grillino appare infatti piuttosto disarticolato, se non distante, rispetto a questioni come la tutela dei diritti nel campo del lavoro, le lotte sindacali, gli scioperi e, più in generale, ad una alternativa di sistema rispetto agli assetti in cui il turbocapitalismo oggi tende ad affermarsi. C’era dunque una volta un simbolo che rappresentava anni fa tutto questo: la falce e martello, buttata quella, purtroppo, il gorgo in cui antichi e consolidati valori sono stati inghiottiti e “rottamati“, si è fatto sempre più rovinoso e veloce. E’ singolare il fatto che la sua ultima apparizione risalga, sul piano internazionale, ad una visita del Papa in Bolivia, quando gli fu offerto un crocefisso con l’immagine …

GIANNI COPETTI, “Dibattiti sulle lingue le culture in Europa”

Recensione di Remo Linda E’ veramente un “Libro Diverso” questo elegante volume che ci presenta l’infaticabile Gianni COPETTI, noto editore e scrittore, specializzato in questioni europee. Per associazione d’idee, questo libro ci fa pensare alla “Piazza grande”, al centro della città, dalla quale si diramano le vie principali nelle varie direzioni. E, attenti e avidi di scoperte, si vorrebbe percorrerle tutte, magari ascoltando la voce di Lucio DALLA, e il libro del COPETTI ce le mostra, ce le descrive: c’incoraggia a metterci pazientemente all’opera. Per chi sa coglierne l’essenza, la LINGUA, è la base e lo strumento del nostro ragionamento e della possibilità di svolgerlo e ampliarlo comunicando con gli altri e a loro avvicinandoci, per formare la Società degli Umani. In altre parole, essa forma la nostra identità pensante, per costruire la dinamica evolutiva della nostra Logica personale, rendendola intelligibile a noi stessi e permetterci di confrontarla con quella degli altri, per progredire insieme nel mutuo arricchimento etico, spirituale, culturale. E questo non è possibile se ci si rinchiude nel bozzolo di una sola Lingua tuttofare (“Omnibus”), buona sempre per tutti gli usi. Come Storia insegna, quanti malintesi e conflitti, anche sanguinosi, hanno trovato la loro origine nel diverso significato attribuito agli stessi vocaboli e a quelli che dovrebbero esserne i corrispondenti, o gli equivalenti, mentre un’appropriata definizione dei contenuti avrebbe potuto trasformare divergenze in convergenze! Il Multilinguismo è un’esigenza , sempre più imperativa, nel Mondo Globale dei nostri giorni, con India, Cina e altri paesi emergenti, di antica civiltà e avidi di scoprire, conoscere, andare a fondo, ai quali non bisogna dare l’impressione che la Lingua e la Cultura europea si riduca al filone anglosassone, mentre ben altra è la complessità e la ricchezza della Civiltà Europea e delle lingue che nel nostro continente si praticano e, in primo luogo, dell’Italiano, forse la più bella, certo quella, cosi’ com’è restata ancora oggi, di nobiltà culturale più antica. E allora bisogna aprire le Porte e il Dialogo, alle problematiche della Lingua, cosi’ come oggi sono affrrontate, nelle diverse sedi, non ultima quella delle Istituzioni europee di Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo e altre numerose nuove sedi specializzate, con tanti idiomi di ogni ceppo che s’intersecano. Anche, ma non solo a questo scopo, questo “Libro Diverso”, era ed è necessario: è da leggere e meditare. Gianni COPETTI, aiutato dalla consorte Nike LEVI-CASTELLINI COPETTI, per gli aspetti linguistici più tecnici, ci presenta un volume con 26 Capitoli, dove non solo espone le proprie idee e concezioni – nei Capitoli, Settimo, tredicesimo, venticinquesimo – ma raccoglie gli scritti di noti giornalisti, docenti, scrittori, personalità politiche. Oltre all’Autore, figurano, tra gli altri, i nomi (in ordine alafabetico, ciascuno, con uno o più Capitoli del libro) di Gian Luigi BECCARIA, Giorgio BRONZETTI, Andrea CHITI BATELLI, Lucio LEVI, Remo LINDA, Giorgio PAGANO, Romano PRODI, Giorgio RUFFOLO, Roger VANCAMPENHOUT, Dionigio VERGALLO.