L’INCIDENZA DELLA POLITICA DEL “FRONTE”

Quello che è forse possibile presumere è che la secessione non provocò una crisi di grave portata nel partito. Al XXVI congresso, al teatro Astoria (Roma, dicembre ’47), i voti congressuali validi erano complessivamente 786.768. Perché il congresso precedente aveva stabilito il divieto delle frazioni permanenti del partito, i congressi provinciali non si svolsero su mozioni separate. In sede di congresso nazionale si ebbero due votazioni: una su una mozione che approvava l’iniziativa presa dal comitato centrale per la formazione del Fronte democratico popolare, che raccolse la quasi unanimità dei voti, mentre soltanto 4387 voti andavano a una mozione di “destra“, presentata da Lombardo e Russo. Una seconda votazione si ebbe, invece, sul problema della tattica elettorale che vide divisi i delegati fra un ordine del giorno favorevole alla presentazione di liste uniche di Fronte e un ordine del giorno propugnante la presentazione di liste socialiste autonome. Prevalse la posizione favorevole alle liste uniche, con 525.332 voti, contro 257.088 voti. Una ulteriore piccola secessione si ebbe ai primi del febbraio ’48, quando Lombardo abbandonò le fila del partito; tale secessione non poteva avere che un’incidenza marginale. Tra il XXVI e il XXVII congresso (Genova, luglio 1948) si collocò la sconfitta del Fronte popolare, le cui conseguenze negative ricaddero sui socialisti, i quali videro ridursi la loro rappresentanza a soli 42 deputati. Nel congresso di Genova, che si svolse di nuovo su votazioni per mozioni, il numero degli iscritti risultava sensibilmente diminuito, rispetto al numero degli iscritti al congresso precedente, essendo scesi da 786.768 voti a 531.031 voti. Le ipotesi che si possono formulare per spiegare le ragioni di un così sensibile calo della forza rappresentata sono due: la prima e che la presentazione di liste di Fronte con i comunisti abbia determinato una crisi organizzativa del partito in coincidenza con la sua crisi elettorale; la seconda ipotesi è che il numero degli iscritti presenti nel congresso dell’Astoria, prima delle elezioni, fosse un dato fittizio, non verificabile in quanto il congresso non si era svolto su mozioni di corrente, per il quale quindi non era stato possibile un confronto reale degli iscritti con il congresso in cui era avvenuta la scissione. Secondo questa ipotesi bisognerebbe giungere al, la conclusione che la secessione del ’47 avesse determinato una forte crisi organizzativa del partito, non manifesta nei dati forniti prima dal segretario del partito e poi in sede di votazione nel XXVI congresso. È difficile accettare un’ipotesi piuttosto che un’altra: in quanto la secessione, come abbiamo visto, non aveva trascinato con sé tutti gli aderenti alla corrente autonomista, parte dei quali sarebbero rimasti fedeli al partito anche negli anni a venire, e parte invece era destinata ad abbandonare il partito negli anni ’48-’49. Per questa ragione ci sembra più probabile che la crisi organizzativa si fosse verificata dopo l’approvazione della tattica del Fronte unito con i comunisti, senza palesarsi in forme clamorose di secessione, ma con l’esodo silenzioso dei militanti. Tale esodo, infatti, sembra possibile che sia continuato anche dopo il congresso del 1948; in quanto al congresso successivo di Firenze, maggio 1949, prima ancora che si verificasse l’ultima scissione del partito, capeggiata da Romita, i voti validi congressuali erano scesi ancora, raggiungendo il numero di 430.258. DOPO LA SCONFITTA DEL FRONTE Al congresso di Genova del ’48 prevalse la corrente autonomista di Riscossa Socialista guidata da Jacometti e Lombardi, che raccolse la maggioranza relativa con 227.609 voti (pari al 42%), sulla mozione di sinistra, che ebbe 161.556 voti (pari al 31,5%), e sulla mozione di destra Autonomia Socialista che raccolse 141.866 voti (pari al 26,5%). Nel congresso di Firenze del 1949 la sinistra otteneva la maggioranza con 220.600 voti (51% dei suffragi espressi), mentre 168.525 voti andavano alla mozione Partito di Classe, presentata da Jacometti e Lombardi; 41.133 voti andavano alla mozione Per il Socialismo. Nel confronto dei voti congressuali delle mozioni fra i due congressi, sembra chiaro che i 100.000 aderenti in meno al partito fossero gli aderenti che dopo le elezioni del 18 aprile erano rimasti nel partito ed avevano votato per la mozione di destra, che a Genova otteneva 141.000 voti e a Firenze ne otteneva invece solo 41.000. Questi militanti avevano abbandonato il partito, con ogni probabilità subito dopo il congresso di Genova. Dal confronto fra i due congressi risulta anche che la mozione autonomistica di centro perde circa 60.000 voti, che vanno a favore della mozione della sinistra, permettendole di riprendere il controllo delle leve del partito. Sia esatta la prima ipotesi formulata (la secessione ha inciso in maniera rilevante sulla struttura del PSI) oppure sia esatta la seconda ipotesi (la secessione ha inciso solo in parte sulla struttura organizzativa, mentre l’esodo degli aderenti è dovuto alla tattica del fronte), certo è che il Partito socialista vede in poco più di due anni, dal gennaio del 1947 al maggio del 1949, pressoché dimezzati i suoi effettivi. Infatti dagli 860.000 iscritti del congresso di Firenze del 1946 si è scesi ai 430.000 del congresso di Firenze del 1949. Dei 430.000 iscritti in meno, 250.000 sono quelli mancanti al congresso della scissione di Palazzo Barberini; gli altri sono quelli allontanatisi dal partito a seguito della scelta del Fronte popolare, e negli anni successivi. Nell’impossibilità di verificare le cause effettive della crisi organizzativa del partito, ciò che ci sembra più probabile è un’ipotesi intermedia fra quelle due formulate, un’ipotesi che individui nel corso delle due cause, la scissione del ’47 e la scelta della tattica elettorale e politica del Fronte, l’origine della crisi politica e organizzativa che riduceva il Partito socialista dalla posizione di più forte partito di massa italiano del dopoguerra alle dimensioni di un movimento di scarso peso politico e di pressoché nulla efficienza organizzativa. In questa situazione tutto il discorso di Morandi, al congresso del 1946, aveva dovuto essere dimenticato, né i problemi dell’organizzazione che si presentavano alla fine del ciclo della scissione e della sconfitta elettorale potevano ormai essere posti negli stessi termini di allora. Si trattava, nel ’46, di dare una definizione organizzativa dell’esperienza …

ORIDINARIA STORIA DI “AIUTO” AI GIOVANI IN ITALIA

Scrivo queste righe che parla di una mia questione personale, lavorativa, di quelle che danno fastidio alla sinistra al caviale ma che parla anche del trattamento che si riserva ai giovani in questo paese. Ho deciso, assieme ad altri due ragazzi che come me sono in condizione di doversi inventare un lavoro, di mettere insieme le nostre competenze (formazione, organizzazione di eventi, social managment e consulenza per imprese) per formare una cooperativa di tipo C, di quelle tanto reclamizzate dal governo come accessibili ai giovani per creare lavoro buono. Ci rivolgiamo dunque a Leegacoop, la quale ci informa che servono tre soci e questo lo sapevamo, che servono almeno 25 Euro a socio, e questi per fortuna li abbiamo, ma dettaglio, piccolo dettaglio… servono duemila, ripeto Duemila Euro per il notaio. In questi Duemila Euro, da notare, non è inclusa la parcella che è a carico di Legacoop ma solo le tasse, i cosiddetti “bolli“. Ma che paese è quel paese che chiede Duemila Euro a giovani che vogliono crearsi e creare lavoro? Questo è il paese dei figli di, oppure dei giovani che se ne devono andare. Occupatevi di questo politici della “sinistra”, non solo di come spartirvi i seggi. Noi, nella vita reale, abbiamo a che fare con queste cose, magari se vi resta tempo, tra una spartizione e l’altra, fatevi un bagno nel mondo reale. Antonino Martino

ROMA COSI’ NON L’AVEVO MAI VISTA». PASOLINI RACCONTA DI VITTORIO

“Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città. Umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste”. “Salgo da Porta Pia, piano e un poco svogliato. L’atmosfera è com’è ai margini degli avvenimenti pubblici: tempestosa, senza colore e quasi senza suono. Cominciano a fermarsi i primi autobus, le automobili, isteriche, qua e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di clacson. Guardo la gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta lì, a Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedistallo una frotta di motori. Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e molte donne, umili e non giovani.C’è un vento magro di autunno, con una luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande silenzio, che i rumori, attutiti e come laceri del traffico, rendono più strano. Ormai di qua e di là del Corso d’Italia le ali della folla sono fitte: nel centro della strada passano reparti di polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia tra loro e la folla. Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie.Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città. Il Corso d’Italia è in curva, sotto le mura: e la folla che si assiepa ai margini è sconfinata. Un vecchietto si guarda intorno, intimidito, e dice a un suo compagno, che gli è accanto silenzioso: “Vengono spontanei….”. E guarda, umile, la folla degli uguali a lui. Vado ancora un poco avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno spiraglio, mi fermo, sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno dell’estate romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con sotto, appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un giovanotto, un baldo giovanotto della campagna, e, col suo accento greve, avvicinandosi all’albero e guardando in alto pieno di speranza, dice: “Compagno, me dai na mano?”. Uno dei due sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a me ci sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni, operai, qualcuno con la moglie, che se ne sta un po’ in disparte, raccolta, quasi i funerali di Di Vittorio fossero una cosa che riguardasse soprattutto gli uomini. Cominciano in silenzio ad avvicinarsi le corone: una folla che passa attraverso la folla, sterminate l’una e l’altra. Migliaia e migliaia di uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima volta che Roma si presenta sotto questa luce. Rovesciati qui, dal silenzio che ne avvolge le esistenze, che pure sono la parte più grande della città, umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste. Il romano anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquisito questo volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene portato oggi al cimitero. Penso grandissima se questi uomini lo sentono con tanto spontaneo e sconcertante affetto. Penso che certo non c’è bisogno che nessuno glielo dica, che hanno perduto un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata gratitudine. Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomini che sono davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va. Guardo quelle schiene un po’ deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle continue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un’esistenza ridotta ai puro pratico, e spesso solo all’animale, dalla corruzione dei quartieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s’abbassano, vedo dal loro atteggiamento che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi”. «Vie nuove», n. 45, 16 novembre 1957»

IL JOBS ACT UNA REGRESSIONE CULTURALE

“Quando – il 20 maggio 1970 – con la legge 300 fu approvato lo “Statuto dei diritti dei lavoratori”, furono in molti ad affermare che la Costituzione della Repubblica, finalmente, faceva il suo ingresso ed entrava nelle fabbriche, negli uffici, nei luoghi di lavoro. Dalla sua promulgazione erano dovuti trascorrere ben 22 anni, ma, infine, si poteva affermare che i principi fondamentali della Carta, in particolare gli articoli 1, 3 e 4 iniziavano ad avere effettiva applicazione. Lo statuto ha un padre: il socialista Giacomo Brodolini, ministro del Lavoro in un governo di centrosinistra alla fine degli anni sessanta. Fu lui a concepire quell’insieme di norme, con l’apporto di un fine giurista come Gino Giugni, ma, per una grave malattia, non poté assistere all’approvazione della suo ambizioso progetto che fu portato a termine dal suo successore: Carlo Donat Cattin, leader della corrente “Forze Nuove della Democrazia Cristiana”. Se lo Statuto ha un padre, ha però anche degli antenati: in primo luogo Filippo Turati e Giuseppe Di Vittorio. Era1 il 26 giugno del 1920, alla vigilia del fascismo, quando il deputato socialista Filippo Turati presentò nel Parlamento nazionale un programma ispirato alla Confederazione generale del lavoro che conteneva, insieme alla proposta di una partecipazione attiva dei lavoratori alla ricostruzione del Paese, alcune rivendicazioni materiali come le otto ore di orario giornaliero, la previdenza sociale, la parità salariale e normativa tra uomini e donne, il riconoscimento dei contratti collettivi. E vi era anche l’indicazione di uno “Statuto di diritti civili, politici e sindacali”. La proposta incontrò, naturalmente, l’opposizione netta degli industriali, ma anche l’ostilità della direzione massimalista del Partito socialista. A tale proposito va ricordato che anche nel 1970 non tutta la sinistra accolse come un grande successo il varo della legge 300. Il gruppo parlamentare comunista, ad esempio, si astenne perché non completamente soddisfatto del risultato, mentre altri esponenti politici, appartenenti a gruppi di estrema sinistra, considerarono lo Statuto come “dei diritti dei sindacati” e non dei lavoratori. Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil, ritornò sul tema dopo la fine della seconda guerra mondiale e la rinascita del sindacalismo. Erano gli anni della repressione, delle cariche della polizia nei confronti dei cortei sindacali, con morti e feriti tra i manifestanti, gli anni del ministro dell’Interno Mario Scelba che aveva, tra l’altro, disposto la schedatura degli attivisti sindacali. Una fase nella quale gli stessi principi costituzionali erano platealmente violati. Una realtà che indusse Di Vittorio a presentare nel 1952, al terzo congresso della Cgil, un progetto di Statuto volto alla conquista di uno strumento giuridico a presidio dei “diritti civili” del lavoratore, della sua libertà di “sviluppare la propria personalità morale, intellettuale e politica”. Ma i tempi non erano ancora politicamente maturi e non se ne fece nulla. Quei diritti, dopo la ripresa delle lotte sindacali dei metallurgici nei primi anni sessanta, entrarono con forza nelle piattaforme rivendicative dell’autunno caldo, per i contratti del 1969. In particolare i metalmeccanici indicarono tra le priorità non solo l’aumento dei salari, ma un insieme di diritti, tra cui il diritto di assemblea, il diritto di riunirsi in fabbrica, anche durante l’orario di lavoro. Fu così, in quella stagione di forti scioperi, di importanti e partecipate lotte unitarie e conquiste sindacali, che poté finalmente realizzarsi il progetto di Giacomo Brodolini, nonostante la profonda ostilità con la quale era stato accolto dalla Confindustria. Lo Statuto, del resto, è sempre stato considerato, con poche eccezioni, dal ceto imprenditoriale non una conquista di civiltà, una modernizzazione dei rapporti e delle relazioni, ma un impaccio alla gestione unilaterale delle aziende. Questo spiega l’offensiva che contro l’articolo simbolo dello Statuto è stata costruita nel corso degli anni. Prima, attraverso la esplicita sponsorizzazione di iniziative referendarie per l’abolizione dell’articolo 18 che, nelle aziende medie e grandi, obbliga al reintegro il lavoratore licenziato senza valido motivo. In seguito, visto che il voto popolare aveva sconfessato quella pretesa abolizione, con il sostegno, nel 2002, al governo Berlusconi che, prendendo a pretesto le profonde trasformazioni in atto nella società del lavoro italiana, mise sotto tiro l’intero Statuto, con l’obiettivo di smantellare, ridimensionare, togliere senso e significato al ruolo del sindacato e dello stesso mondo del lavoro. Un’offensiva che si infranse contro i tre milioni di lavoratori convocati il 23 marzo di quell’anno a Roma, nel Circo Massimo, dalla Cgil di Sergio Cofferati. Dovevano trascorrere ancora dieci anni e incrociare le conseguenze della più grave crisi economico-finanziaria capitata all’occidente dal ’29 – che ha colpito pesantemente i lavoratori, aumentato le diseguaglianze, accresciuto il disagio sociale e, per effetto della disoccupazione, soprattutto giovanile, indebolito e diviso il sindacato – perché la rivincita delle destre cogliesse un primo importante risultato. Il governo dei tecnici guidato da Monti – culturalmente affine alle politiche liberiste dettate ai paesi europei dalla troika (Commissione Europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale) che con le politiche del rigore e dei sacrifici a senso unico ha concorso a creare nell’Unione europea oltre 25 milioni di disoccupati – utilizzando lo sconcerto del dopo Berlusconi ha ridotto le possibilità di reintegro dei lavoratori licenziati previste dall’articolo 18 dello Statuto e colpito duramente le pensioni. Per questo secondo aspetto con uno spropositato innalzamento dell’età e dei criteri necessari per raggiungere la pensione che ha prodotto il dramma degli esodati: decine di migliaia di lavoratori i quali sono stati costretti per diversi anni a rimanere, contemporaneamente, senza lavoro e senza reddito da pensione. Per motivare questa ricorrente ossessione dei fautori delle teorie liberiste volta a rendere più facili i licenziamenti – pudicamente nascosta sotto la locuzione “per favorire la flessibilità in uscita” – e ricattabili i lavoratori, negli anni sono stati utilizzati diversi argomenti: che in realtà oggi i lavoratori ricorrerebbero assai raramente all’articolo 18; che tutelerebbe solamente quelli con un contratto a tempo indeterminato considerati in qualche modo “garantiti”; che vi sarebbe incertezza circa i tempi di applicazione della norma e le lungaggini ricadrebbero tanto sugli imprenditori che sui lavoratori. La verità è che con la manomissione dell’articolo 18 tutti sanno che …

ANNA KULISCIOFF : Dalla Conferenza “Il monopolio dell’Uomo”

“Potrebbe, teoricamente, sembrare che, poiché al giorno d’oggi il privilegio di qualsiasi natura – cardine essenziale di tutti gli istituti sociali, dei diritti civili e politici, dei rapporti fra le varie classi e fra l’uomo e la donna – viene discusso, combattuto e perde terreno dovunque – potrebbe sembrare, dicevo, che da ciò venir dovesse anche  un po’ di giustizia per la donna, la vittima più colpita nei rapporti sociali moderni. Chi osserva spassionatamente i fenomeni sociali moderni deve riconoscere che la condizione sociale della donna, questo elemento così importante della civiltà, è uno dei fenomeni più tristi in mezzo alle istituzioni moderne, è un residuo di un mondo intellettuale e morale che va scomparendo dovunque. Non è con una breve chiacchierata che potrei indagare le cause di codesto fenomeno, cause molto complesse, che richiederebbero lunghi e profondi studi ed interi volumi. Qualunque fosse quindi l’origine dell’inferiorità sociale della donna, origine fisiologica, economica, etica, o fosse puramente un prodotto del prevalere brutale della forza, il fatto sta che ora si tratta di una questione di dominio, si tratta del privilegio di tutto il sesso maschile, privilegio e dominio che sono un vero anacronismo in un’epoca, in cui la donna ha progredito sotto tutti i rapporti e morali e intellettuali. Il monopolio dell’uomo è troppo vasto per poterne trattare tutte le manifestazioni: in famiglia, nei diritti civili e politici e nel campo della lotta per l’esistenza, sia materiale sia intellettuale. Mi limiterò principalmente al monopolio dell’uomo nel campo della lotta per l’esistenza, dove la donna ha sempre avuto una parte notevole, ma sempre anche subordinata a quella dell’uomo. Il desiderio sempre più manifesto della donna di rendersi economicamente indipendente è un fenomeno particolare dei tempi recenti; poiché la vita moderna spinge dovunque la donna al lavoro, per necessità economiche nella grande maggioranza delle classi lavoratrici e delle classi medie, e per ragioni morali nella piccola minoranza delle classi dominanti. In America c’è voluto un mezzo secolo di lavoro femminile nell’industria, nell’istruzione pubblica, nelle professioni libere, nessuna esclusa, perché le donne americane ottenessero, non il diritto al voto deliberativo, che si è ottenuto in uno solo degli Stati Uniti, ma soltanto il diritto al voto consultivo nei corpi politici, nelle commissioni legislative e nelle assemblee generali. Non sono che sette anni che la legislatura del Kentuky sentiva due donne, la Benet e la Hoggart, patrocinare i diritti del loro sesso. Le donne avvocatesse di se medesime suscitarono, naturalmente, grande curiosità sia fra i deputati sia fra il pubblico accorso numerosissimo alla Camera. Gli scettici ed i maligni furono disarmati e vinti dall’eloquenza e dall’erudizione giuridica della Miss Hoggart; e lo stesso giorno fu presentato un bill (disegno di legge), che conferiva alle donne il diritto all’amministrazione dei loro beni ed alle madri un’autorità sui figli eguale a quella del padre. Questo fatto, che troverebbe in Francia, in Inghilterra ed altrove molti riscontri, che qui ometto per amore di brevità, non è che un esempio isolato inteso a dimostrare, come le leggi giuridiche sono la conseguenza di abitudini e costumi sociali, e non altro che la sanzione dei rapporti sociali già esistenti, allo stesso modo che le leggi cosmiche e biologiche non sono che la sintesi dei fenomeni osservati. Non voglio però cadere nell’assoluto e non negherò che, se oggi, per una specie di miracolo, i legislatori uomini concedessero alle donne i diritti civili e politici, questo fatto eserciterebbe un’immensa influenza sul loro sviluppo intellettuale e morale, poiché è legge biologica che le funzioni nuove creano, a poco a poco, organi loro adatti. Fra le donne sarebbe avvenuto su per giù lo stesso fenomeno che si osserva nella gran massa degli operai, uomini poco atti ancora alla vita civile e politica. Eppure, dopo pochi anni di partecipazione diretta degli operai alla vita politica, vediamo come dal loro balbettare quasi infantile si sviluppano oratori poderosi, forniti di cognizioni serie e di studi profondi sulle questioni vitali che agitano la loro classe. Ma ormai nessuna persona intelligente e di buon senso crede più ai miracoli; e le leggi vigenti, che riguardano le donne, subiranno la stessa evoluzione di tutte le altre leggi. Perché, direi colle parole dello Spencer, che “a misura che la cooperazione volontaria modifica sempre più il carattere del tipo sociale, il principio tacitamente ammesso dell’eguaglianza dei diritti per tutti diventa condizione fondamentale della legge.” Le donne, quindi, cooperando a titolo eguale degli uomini al lavoro sociale sotto qualsiasi aspetto, renderanno impossibili le leggi attuali, che le mettono in condizione d’inferiorità fra i minorenni e fra gli incapaci per imbecillità o pazzia quanto ai diritti politici, e assegnano loro un posto così inferiore in famiglia quanto ai diritti civili. Certo è che, finché la donna non potrà bastare a se stessa e per vivere dovrà dipendere dall’uomo, la legge, che la considera come proprietà del marito, dovendo la moglie seguirlo dovunque, rimarrà in tutto il suo vigore; e se quell’articolo, così oltraggioso alla dignità umana della donna, venisse anche abolito, quest’abolizione non rimarrebbe che lettera morta, data la dipendenza economica, in cui si trova la grande maggioranza delle donne. Anna Kuliscioff «Anna Kuliscioff IL MONOPOLIO DELL’UOMO.pdf»

Di Valdo Spini: Carlo e Nello Rosselli. Testimoni di Giustizia e Libertà

In memoriam. Nell’80° anniversario del loro sacrificio. Recensione a cura di  Maria G. Vitali-Volant Carlo e Nello Rosselli/ Giustizia e Libertà/ Per questo morirono/ Per questo vivono (Piero Calamandrei) « Compagni, fratelli italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla radio di Barcellona per portarvi il saluto delle migliaia di antifascisti italiani esuli che si battono nelle file dell’armata rivoluzionaria […] Giornalmente arrivano volontari italiani : dalla Francia, dal Belgio, dalla Svizzera, dalle lontane Americhe. Dovunque sono comunità italiane, si formano comitati per la Spagna proletaria. Anche dall’Italia oppressa partono i volontari… » (Carlo Rosselli, Oggi in Spagna, domani in Italia, 13 novembre 1936). Cosi’ si esprimeva l’intellettuale, l’economista, l’uomo politico antifascista Carlo Rosselli che si trovava nella Repubblica autonoma di Catalogna per organizzare la Colonna italiana. Rosselli partecipa al conflitto, viene ferito nella battaglia di Monte Pelato. Sempre da Barcellona, Rosselli scrive alla moglie Marion a Parigi : « Un mondo nuovo nasce, anche per noi, e il privilegio di poterne aiutare in qualche modo l’affermazione è grande… ». Il comandante Di Giustizia e Libertà Carlo Rosselli pero’ deve lasciare il teatro della guerra all’inizio del 1937 e tornare in Francia – dove era esule con la famiglia – perché la sua flebite non gli permette di restare. Carlo Rosselli comprende che la partecipazione degli italiani alla guerra di Spagna è fondamentale per combattere il fascismo e Mussolini, quindi : « Lancia una ennesima proposta di unità di tutte le formazioni antifasciste, onde simbolicamente realizzare la vecchia idea di riunire tutti gli antifascisti in una stessa colonna. All’Uopo dichiarerà che tutte le formazioni italiane, ovunque combattano, appartengono alla legione italiana unica di tutti i combattenti antifascisti italiani, che combatte oggi in Spagna e domani in Italia… », questo dice un informatore al soldo del fascismo il 19 gennaio 1937 da Parigi. Poi ci fu la vittoria repubblicana di Guadalajara dell’8 marzo e il battaglione Garibaldi schierato contro le camicie nere in uno scontro fra compatrioti. Mussolini segue ansiosamente la battaglia e l’11 marzo è la disfatta per i fascisti italiani : « Male armati, impreparati, privi di coesione e mal guidati da pochi ufficiali inesperti… » (Luigi Barzini, al Duce, 18 marzo 1937). Il 19 marzo il settimanale Giustizia e Libertà dimostra come si possa sconfiggere il fascismo anche attraverso la battaglia politico-propagandistica condotta da Carlo Rosselli con argomentazioni sferzanti sulla politica estera del regime. Lo stesso giorno il giornale pubblica un foglio con immagini eloquenti della rotta fascista. Il numero del 16 aprile pubblica un articolo di Curzio (Carlo Rosselli) con l’analisi delle missive ai familiari da circa trecento legionari catturati a Guadalajara da cui emerge un profilo di legionario molto lontano dalla tracotante propaganda di regime : giovani lavoratori poveri, per lo più meridionali, arruolati per necessità economiche, non responsabili della lotta contro la causa del popolo di Spagna, perché sprovvisti della conoscenza del fronte e di quello che li aspettava. Cosi’ commenta Rosselli con pietà verso queste vittime dell’oppressione fascista e delle manipolazioni del regime contro la guerra civile spagnola. Rosselli invia le lettere alle famiglie dei prigionieri e esaspera il regime con la sua controinformazione dettata soprattutto dai sentimenti di fraternità e compassione del vero patriota italiano. Questo episodio fondamentale ci svela la natura dell’uomo Rosselli, dell’umanista, del politico che tutto divide da Mussolini e dagli uomini del suo “entourage” : alti funzionari, figure istituzionali della polizia, dei ministeri e di altri organismi terroristici utili alle trame del regime. Fra tutti spicca il Ministero degli Affari Esteri diretto dal vanesio e pericoloso Galeazzo Ciano, dai suoi più stretti collaboratori, e poi L’OVRA, il SIM e altri. Una vera moltitudine di spie, anche uomini molto vicini ai Rosselli e purtroppo infiltrati in ogni piega del tessuto di sorveglianza e di informazione degli esuli. Inoltre uno stuolo di doppiogiochisti, infiltrati, carrieristi venali : squallidi personaggi di cui, a ragione, tira un ritratto fine e profondo la penna fiorentina di Vasco Pratolini nel trittico « Una storia italiana » ma soprattutto in Allegoria e derisione, scritto dopo Lo scialo. In quest’opera tardiva emergono la vacuità e la leggerezza criminali, la banalità del Male in anticipo sulle riflessioni di Hannah Arendt. A questi uomini senza qualità alla ricerca di una verità ideologica e un senso laddove vigeva solo bieco calcolo, povertà di idee e di visione storica e politica si oppone la figura esemplare di Carlo Rosselli e degli altri antifascisti : Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Nitti, Salvemini, Lussu, Garosci, Nenni, Gramsci etc. Una galassia di personalità politiche e di intellettuali che costituiva l’intelligentsia italiana dell’epoca. Per intelligenza, cultura e censo la famiglia Rosselli, la loro madre Amelia Pincherle – drammaturga e femminista ante litteram – Alberto Moravia, cugino primo dei fratelli Rosselli, i Nathan, le grandi famiglie ebree e di industriali del centro Italia, erano gli ostacoli da abbattere sull’altare della gelosia e dell’invidia di classe delle gerarchie fasciste e del loro capo. Carlo Rosselli era il nemico più pericoloso di Mussolini, a causa della sua cultura, anche politica, delle sue conoscenze, del coraggio, della sua eleganza naturale, del suo entusiasmo e dell’ attaccamento profondo che portava all’Italia di cui avrebbe voluto, e potuto, assumere il governo e la rinascita. Rosselli faceva paura anche per le sue amicizie internazionali, per i suoi legami familiari e culturali con altre intelligenze in Europa e negli Stati Uniti. Cosmopolita e curioso del mondo, Carlo Rosselli era l’antitesi, lo specchio di un’antica favola, l’uomo e il mito da distruggere. Carlo Rosselli è il teorico del Socialismo liberale (opera scritta durante il confino a Lipari, stampato a Parigi nel 1930), un socialista che fonda il movimento di Giustizia e Libertà e si impegna a Parigi e in Italia con i suoi gruppi clandestini nella lotta contro la dittatura fascista. Carlo e suo fratello – lo storico allievo e amico di Salvemini – Nello (Sabatino) Rosselli, vengono assassinati brutalmente – pistola e pugnali – a Bagnoles sur l’Orne dai fascisti dell’organizzazione francese La Cagoule il 9 giugno del 1937. Si apre il Caso …

Sovranità popolare e legge elettorale “rosatellum”

di Paolo Maddalena*   1. “Appartenenza” e “esercizio” della sovranità popolare in Costituzione. E’ noto che la nostra Costituzione repubblicana e democratica affida essenzialmente alla rappresentanza parlamentare il compito fondamentale della funzione legislativa, cioè della massima espressione della sovranità. Il lapidario art. 70 Cost. afferma, infatti, con estrema chiarezza che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Ma non si deve dimenticare che “titolare” della sovranità è il Popolo, al quale la Costituzione riconosce e garantisce anche “l’esercizio” della sovranità stessa. Il secondo comma dell’art. 1 della Costituzione recita, infatti, che la sovranità “appartiene” al Popolo, che la “esercita” nelle forme e nei limiti della Costituzione”, mentre il secondo comma dell’art. 71 Cost. precisa che “il Popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli” e il ben noto primo comma dell’art. 75 prescrive che “è indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”. Dunque, la “sovranità”, non ostante qualche parere contrario (che parla di una distribuzione di sovranità tra il Popolo e il Parlamento), “è unica e indivisibile”, mentre nel diritto positivo dell’Europa continentale vale sicuramente il principio secondo il quale i “Parlamentari” sono “rappresentanti dell’intero popolo o nazione” e proibisce ogni forma di mandato imperativo. In sostanza, il Popolo “esercita” la sua sovranità soprattutto attraverso la “rappresentanza politica”, ma anche attraverso “istituti di democrazia diretta” (si pensi alle leggi di iniziativa popolare, o ai referendum); o mediante la ”partecipazione” di tutti i cittadini “all’organizzazione politica economica e sociale del Paese” (art. 3, comma secondo, della Costituzione). Partecipazione che è rafforzata dal quarto comma dell’art. 118 Cost., il quale precisa ulteriormente che è “favorita” “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (Alberto Lucarelli, Beni comuni. Dalla teoria all’azione politica, Roma, 2011). Insomma “l’appartenenza” della sovranità e il suo “esercizio” spettano soltanto al Popolo, il quale si avvale, a tal fine, di diverse modalità, primo fra le quali, il ricorso all’istituto della rappresentanza parlamentare. Se ne deve trarre la conseguenza che “l’appartenenza” della sovranità al popolo, e il suo “esercizio” nell’interesse del Popolo, sono valori fondamentali e inviolabili, da difendere con tutti i mezzi posti a disposizione dalla stessa Costituzione. Una precisa “tutela” dell’appartenenza della “sovranità al Popolo”, si nota agevolmente nell’art. 72 Cost., il quale, dopo aver disciplinato procedure, per così dire, abbreviate, per la emanazione delle leggi, puntualizza, al quarto comma, che “la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge “in materia costituzionale ed elettorale” e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi”. Come si nota, si tratta di precisi limiti posti alla rappresentanza parlamentare, al fine di assicurare una maggiore tutela della “sovranità popolare”, nelle materie in cui quest’ultima,viene, per così dire, in maggiore esposizione. Ma molte altre, come presto si vedrà, sono le disposizioni che difendono “l’appartenenza” al Popolo della sovranità e, si ripete, il suo “esercizio”, nell’interesse del popolo sovrano. 2.Violazioni formali e sostanziali della Costituzione da parte della legge elettorale detta “rosatellum”. Ciò detto, l’approvazione della legge elettorale “rosatellum”, avvenuta con tre col pi di “fiducia” alla Camera e cinque colpi di “fiducia” al Senato, appare come qualcosa di assolutamente fuori del prevedibile, in quanto, anziché tutelare la “appartenenza” della sovranità al popolo e il suo corretto “esercizio” nell’interesse di questi“, molto visibilmente calpesta e si impadronisce dei “poteri sovrani” del Popolo stesso, platealmente violando norme imperative della nostra Costituzione. La prima plateale violazione costituzionale, con contemporanea invasione dei poteri sovrani del Popolo, è quella dell’art. 72 Cost. Infatti, come si è accennato, il Parlamento (e cioè l’Organo dello Stato comunità che dovrebbe rappresentare e tutelare gli interessi del Popolo) è stato costretto ad approvare una legge elettorale, a causa delle otto “mozioni di fiducia” poste dal governo, in palese contrasto con la tutela della sovranità popolare, considerata, sia sotto l’aspetto dell’appartenenza, sia sotto l’aspetto del suo esercizio. Con questo strumento, non previsto in Costituzione, ma dai Regolamenti parlamentari (generalmente, per consentire di convertire in legge i decreti legge entro sessanta giorni dalla loro emanazione), in realtà è stata coartata la volontà del Parlamento, poiché esso è stato costretto a scegliere tra la eventuale approvazione della legge senza altre conseguenze, o la sua non approvazione produttiva di una “crisi di governo”. In altri termini, il Parlamento è stato posto nell’impossibilità di votare contro la legge elettorale in esame. Ed è da porre in evidenza che il Parlamento, obbedendo al Governo, si è assunto la responsabilità dell’operato, in quanto è stata la maggioranza parlamentare che nella realtà, approvando la legge, ha platealmente violato il citato articolo 72, quarto comma, della Costituzione. Non meno invasivo dei “poteri sovrani” del Popolo è poi il “contenuto” di questa legge. In sostanza è stato tolto al Popolo italiano il potere, fondamentale in democrazia, di scegliere i propri rappresentanti, quei soggetti cioè cui affidare la “rappresentanza politica” degli interessi del Popolo. Infatti, non c’è traccia delle “preferenze” da esprimersi sui candidati da parte degli elettori. Si parla soltanto di una quota maggioritaria di due terzi e di una quota proporzionale di un terzo, per le quali saranno i partiti a proporre i loro “listini bloccati”. Come se ciò non bastasse, si prevede che il voto dato per la quota maggioritaria, votando nei collegi uninominali, vale anche per il voto da ripartire per la quota proporzionale. In altri termini, è vietato il cosiddetto “voto disgiunto”, nel senso di permettere all’elettore di votare un candidato del collegio uninominale facente parte di una certa lista e di poter scegliere per la quota proporzionale anche un candidato appartenente a una lista diversa. Il colmo si raggiunge poi nella previsione che consente di candidarsi in cinque collegi proporzionali diversi, oltre che nel collegio …

SOLO UNA CULTURA LAICA E SOCIALISTA PUO’ FAR SUPERARE LO STATO ATTUALE DI CONFUSIONE

“Sono oltre 20 anni che nel nostro paese la voce socialista non ha più la forza di una presenza sociale, culturale, e politica quale quella che abbiamo conosciuto. Tra le varie conseguenze c’è anche quella per cui dell’esistenza di una storia, di un pensiero socialista si è persa la memoria. Le nuove generazioni dovrebbero essere prese da una strana curiosità storica per – se non condividere – ma almeno conoscere questa storia. E questo è già un problema negativo che molti tendono coscientemente ad alimentare. Ma occorre aggiungere che i non pochi tentativi di correggere questa deriva, non sono stati e non sono tuttora, all’altezza di questa situazione. E tanto per evitare di cercare motivazioni poco convincenti di questa storia, sembra che vada ricordato come sia vero che esistono difficoltà del movimento socialista anche in altri paesi a noi confrontabili, ma non nei termini in cui la possiamo misurare da noi: la situazione italiana mi sembra del tutto anomala. Il fatto è che mentre tutti stanno festeggiando i 28 anni dalla caduta del muro, da noi si dovrebbe commemorare anche i 25 anni dalla chiusura del socialismo, cosa che non mi sembra ne banale e nemmeno rintracciabile in altri paesi. Ma di questo non si parla nemmeno tra noi.” “In effetti i due eventi – pur se non confrontabili sul piano storico – sono molto interconnessi nel senso che mentre dal primo evento si poteva immaginare che si potesse – tra l’altro – porre fine ad un lungo dibattito a sinistra con il riconoscimento sul campo delle ragioni del movimento socialista, in quello stesso momento si pensò bene di trasformare il PSI in un attore politico anticipatore di quei movimenti personali che avrebbero contrassegnato l’organizzazione politica nell’Italia della seconda repubblica, con tutte le logiche conseguenti anche sul piano etico, oltre che democratico, ma che con il socialismo hanno ben poca a che fare. Paradossalmente nel momento in cui i socialisti potevano finalmente dire di aver vinto, pensarono bene di occuparsi d’altro. Tutto questo offrì il destro agli ex comunisti per concludere che se era vero che il comunismo era morto, la socialdemocrazia stava molto male, scambiando – non so con quanta buona fede – il caso Craxi, opportunamente alimentato, ma non certo privo di colpe pesanti, con il movimento socialista. La conclusione logica di stampo liberista, le vediamo oggi al Governo, è il risultato di quelle vicende e della soluzione elaborata secondo il modello, senza storia e senza memoria, in stile “veltroniano”. Il punto di forza di questo modello sta nel fatto di avere sposato la teoria secondo la quale un partito di sinistra potrà andare al governo solo se si espande al centro e a destra. Una specie di canto delle sirena per tutti gli opportunismi, le approssimazione e quant’altro. Un’altra anomalia italiota sulla quale si potrebbe chiosare nel senso che in Italia una sinistra sarà al governo solo quando non sarà più tale. Il colmo dell’ipocrisia sembra si possa rintracciare nelle recenti commemorazioni di Berlinguer, assunto, pur con varie titubanze, come teorico dell’attuale compromesso storico e padre di questa seconda o terza repubblica. Una vittoria che probabilmente ora Berlinguer si guarderebbe bene dal condividere. Con il che noi dovremmo trovare una conferma per quella alternativa di sinistra, sconfitta sul campo ma che, oggi, dovremmo non commemorare, ma riprendere a approfondire. Potremmo concludere che per il bene del Paese siamo disponibili ad assumerci questo ruolo di testimoni gloriosi ma superati di una storia che ci ha lasciato indietro. Un sacrificio pesante, ma in cambio di una valore elevato. Purtroppo non è così perché tra le varie anomalie di questo Paese c’è, da un tempo altrettanto lungo, anche quella di una crisi economica, sociale e democratica che non è quella internazionale, ma è una crisi tutta nostra. Una crisi che ci condanna ad uno sviluppo costantemente inferiore a quello degli altri paesi avanzati, una crisi che non a caso è stata chiamata “un declino”. Una crisi che sappiamo essere complessa e strutturale o, come ormai si riconosce, “culturale”. E anche volendo, non è possibile separare queste due anomalie: l’eliminazione del pensiero socialista e la crisi culturale del Paese. Potremmo intanto verificare se su queste doppie e connesse anomalie siamo in linea generale d’accordo. Come, dunque, uscire da questa situazione è la questione che dovremmo affrontare ma che attualmente non sembra che abbia ancora una linea maestra d’uscita. Forse dovremmo mettere giù alcuni punti e incominciare a scambiarci delle libere riflessioni, costruire tra di noi una specie di Agorà. Ma purtroppo i tempi e le scadenze delle crisi non sono favorevoli ad una ipotesi del genere. Forse potremmo costituire un “sito” Agorà, critico verso tutte le scemenze che circolano e verso quei linguaggi che pensano di compensare la leggerezza del pensiero con la pesantezza delle parole. Tuttavia non credo sia utile spendere le nostre energie per chiosare le vicende politiche quotidiane, sarebbe una forma di autoesclusione senza nessun compenso. Dovremmo pensare di porre noi delle questioni intorno alle quali richiamare l’attenzione e un impegno sempre più diffuso, non come cattedre personali ma come visione di una società che come dice il titolo di oggi è: “più libera, giusta e solidale”. Penso ad esempio alle questioni del costo della politica nella versione classista per cui può essere realizzata in proporzione ai redditi disponibili, alle questioni della informazione che fa il paio con quella precedente, alle questioni della incompatibilità tra una crisi sociale drammatica e un distribuzione della ricchezza ineguale quale quella in atto, ai ritardi ormai storici del nostro sistema produttivo, alla assenza di ogni visione macroeconomica per il nostro Paese, alla mancanza di una seria politica industriale, alla condizione nella quale versa la formazione e la ricerca. Tutto questo certo non per sottovalutare la dimensione internazionale della crisi entro la quale si trova anche il nostro paese. C’è, infine, un compito a cui – sarà per presunzione – solo una cultura laica e socialista può mettere mano, ed è quello di superare lo stato di confusione con cui la cultura …

EVVIVA TORINO!

Le agitazioni di Torino dell’agosto 1917, alle quali è dedicato l’edito­riale sulla prima pagina dell’8 settembre di quell’anno, rivelano il loro senso storico non soltanto in anticipazione degli sviluppi a venire. Esse emergono anche come effetti rappresentativi di quanto già è accaduto o sta accadendo. La Rivoluzione russa di Febbraio ha incarnato il primo esempio di trasformazione della “guerra imperialista” in “lotta di classe”. È la via della pace, della giustizia e delle libertà democratiche che gli zimmerwaldiani addi­tano al mondo con lo scopo di fermare l’immane massacro bellico. Il punto, però, è che la Rivoluzione non potrà sopravvivere e verrà cer­ta­mente soffocata. Sempreché essa non si estenda. Solo una “rivoluzione mondiale” sarebbe in grado di salvaguardare le conquiste democratiche della nuova Russia ed evitare che si consumi il “suicidio dell’Europa” di cui scrive Maksim Gor’kij. In effetti, questo “suicidio dell’Europa” sembra impattarsi sull’onda crescente dell’opposizione proletaria alla guerra. Dapprima questa aleg­gia “solo” in forma di conflitto sociale, poi si abbatte nel 1917 sull’as­set­to statuale della Russia, quindi tracima nel 1918 investendo la Ger­mania guglielmina e l’Austria-Ungheria, mentre le fondamenta del­l’Im­pero ottomano sono anch’esse ormai irreparabilmente lesionate; e la spal­lata finale seguirà nel 1922 per opera di Kemal Atatürk, al quale guarda con attenzione il Mussolini della Marcia su Roma. Dunque, il primo conflitto mondiale partorisce tre rivoluzioni socialdemocratiche, di cui una cancellata dalla prima rivoluzione comunista, e poi una sequenza di “rivoluzioni conservatrici“, tentate o riuscite. Meglio sarebbe stato per tutti se le lancette della storia avessero in­dugiato più a lungo sulla posizione socialdemocratica. Che, invece, questa viene soverchiata dalla “dialettica” tra opposti totalitarismi. E alla fine saranno le “rivoluzioni conservatrici” a formare la vasta schiera – bian­ca, nera e bruna – che, al passo dell’oca, riprenderà la marcia verso una guerra ancor più immane della Grande guerra. Dunque, la catastrofe finale, all’anno zero 1945, discende dal 1917 in modo quasi diretto. Ed è breve, in effetti, la finestra di possibilità storica nella quale, dopo il Febbraio russo, il “suicidio del­l’Eu­ropa” sa­rebbe stato ancora scongiurabile. Ma in quell’estate infuocata del 1917 quanto si potevano già pre­ve­dere gli inauditi sviluppi del “sui­cidio” che verrà? La Commissione Socialista Internazionale (CSI) riunita a Stoccolma si limita a con­sta­tare, con allarmata preoccupazione, il regresso politico pietroburghese e dirama un documento – La rivoluzione russa in pericolo! – aggior­na­to alla metà di agosto, mentre le cose evolvono ormai di gior­no in giorno, di ora in ora. «Il 16 di agosto i ministri borghesi uscirono dal governo e i lavora­tori e i soldati rivoluzionari di Pietroburgo (…) scesero in piazza al grido: “Il potere deve passare al ‘Soviet’”.» Nelle piazze agenti della contro-rivoluzione provocano scontri sanguinosi fornendo al Governo il pretesto «per mobilizzare contro i dimostranti l’artiglieria e truppe fatte venire appositamente dal fronte, per scatenare una carneficina nella classe lavoratrice, per sopprimere le organizzazioni ed i giornali rivoluzionari». Lo scopo finale di tutto ciò, secondo la Commissione di Stoccolma, sarebbe l’instaurazione di una «dittatura del contro-rivoluzionario piccolo-borghese Kerensky» (ADL 8.9.1917). Ma l’ondivago Kerenskij, dopo aver subito per qualche setti­ma­na – nei palazzi, nelle piazze e nelle caserme – l’iniziativa del ge­ne­rale “bianco” Kornilov, non si accorda con questi né instaura una propria ditta­tu­ra contro-rivoluzionaria, ma denuncia il tentato golpe, dando per al­tro l’ordine di liberare i bolscevichi e alimentando così la formazione politico-militare delle “Guardie Rosse” nascenti. Intanto, sul “campo d’onore” dei morti e dei feriti di una guerra apparentemente interminabile, e di una guerra civile incipiente, aleggia la questione che segue: «Proletari! Compagni! Rispondete al quesito dei rivoluzionari russi: “Verrà la guerra uccisa dalla rivoluzione o la rivoluzione dalla guerra?” Dalla risposta che i proletari di tutti i paesi daranno a questo quesito, dipende non solo il destino della rivoluzione russa.» (ADL 8.9.1917). Tutti i massimalisti, di tutte le coloriture, riprendono allora di gran lena a propagandare l’idea di una “rivoluzione mondiale“, idea che appare ora, dopo la caduta dello zarismo, non più totalmente utopistica, e che si offre, anzi, come l’unica strategia idonea alla salvaguardia delle conquiste rivoluzionarie di Pietrogrado. Ma i leni­ni­sti, come risposta alla bruciante interpella­zione degli eventi, nascondono un asso nella manica: la “pace sepa­rata“. E in fondo non era proprio questa la finalità per cui il Kaiser aveva consentito al leader bolscevico esule a Zurigo di rientrare così tempestivamente in pa­tria? E non era per lo stesso scopo che Berlino sosteneva ora Vla­di­mir Il’ič Ul’janov senza troppo lesinare sui mezzi? Una campagna di Verbrüderung in grande stile viene mes­sa in atto dagli stati maggiori degli Imperi Centrali verso i militari russi. Ufficiali e membri dei servizi segreti tedeschi regalano a “Ivan” sigarette, generi ali­men­tari, alcolici e superalcolici in gran copia. Ovunque se ne presenti l’occasione, “fraternizzano” con i soldati russi affinché questi mangino e bevano e fumino e ballino e cantino, ribellandosi ai loro superiori Fonte: L’Avvenire dei Lavoratori

NON SIETE NESSUNO, MA PROPRIO NESSUNO!

Non riesco a capire che interesse personale possono avere persone che spaccano il capello in quattro pur di farsi il proprio gruppuscolo diverso dagli altri. I riferimenti sono molti. Ultimamente va di moda Lombardi, che e stato un grande compagno certamente, ma che alla pari di altri aveva avuto una gioventù molto travagliata, partendo dal Partito Popolare, per arrivare all’amicizia con Gramsci, passando per il Partito d’azione. Da cattolico fervente, grazie alla sua compagna atea Eda Viatto (il Fenicottero rosa), abbracciò la laicità. Incontra il Partito Socialista, contribuendo a rendere visibile e riconoscibile un GRANDE ideale. Nel dopoguerra c’è la sua adesione al PSI, al quale si iscrive nel 1947. Ma vi è la storia di Pietro Nenni, anche lui personaggio “ribelle” che abbraccia la “fede” anarchica e che ha una forte amicizia col socialista Mussolini, che incontra in carcere nel 1910, per aver contestato la guerra di Libia, fino a fondare il “fascio” di Bologna sulla scorta dei moti che partirono nel secolo precedente dai FASCI SICILIANI, espressione SPONTANEA dei socialisti isolani. Ovvio che l’uomo che si è immedesimato col socialismo non poteva seguire Mussolini, nonostante le profferte fattegli nel lungomare di Nizza, ma professò coerentemente il socialismo. E che dire del personaggio inquieto quale fu Sandro Pertini il quale, diversamente dai primi due, proveniva da famiglia agiata, a significare che il nostro ideale va al di là delle classi, ma è sensibile a quella più debole. Egli si è riconosciuto nel grande ideale ed ha abbracciato a tutto tondo il SOCIALISMO nazionale ed internazionale rappresentato in Italia dal Padre Filippo Turati  – e non solo lui –  che dal 1892 lo ha perseguito. Trovandosi spesso sconfessato (1914 – 1921) dai suoi stessi “discepoli” compreso quel famoso Bombacci che finì appeso a testa in giù a piazzale Loreto. Tutto questo mentre il sangue dei socialisti ha coperto le strade del mondo, a cominciare da quello di Matteotti e Di Vagno fino ad Allende, Palme, Rabin, Bettino Craxi e tanti tanti altri, presi di mira financo dalle BRIGATE ROSSE. Dopo la distruzione dell’ultimo dei socialisti italiani e conseguentemente del suo Partito, molti sono stati i “fuoriusciti” che hanno tentato di impossessarsi della nostra storia. L’ultimo di questi, Nencini, dimostrando sempre più le caratteristiche di quel Lazzari (e della II^ Internazionale e mezzo) e che fa da mosca cocchiera al fascio-catto-comunisti. Di conseguenza cari “Compagni“, se non sono altri i motivi che vi frenano, O CI CREDETE VERAMENTE nel socialismo della libertà, o avete altri intendimenti che vi impediscono di dialogare e integrarvi con altri. Dovete, dobbiamo, perché è ovvio che anch’io me ne sento parte, REVISIONARE il nostro sentire interiore, senza se e senza ma. Il momento è TRAGICO, ci troviamo con un Paese allo sfacelo, che dal 1994 non riesce a ritrovare “la diritta via” in mano com’è a maneggioni con pochi scrupoli che lo usano a loro piacimento. Trascuro il terzo ed il quarto potere, perché ne sono conseguenza.  Ma vi pare possibile che quello che resta del corpo elettorale che si ritiene estraneo, debba decidere tra Grillo, Berlusconi e Renzi (col terzo incomodo para-separatista della Lega)? Chi ci impedisce di fare la nostra COSTITUENTE e presentarci orgogliosamente ai confronti elettorali. La raccolta delle firme non dovrebbe essere un problema. Dai, l’avvenire è radioso. BASTA SOLO UN PICCOLO PASSO AVANTI, in direzione unitaria! Giampaolo Mercanzin