LA SINDROME DEL “CESPUGLIO”

Grandi manovre per consentire al cespuglio che si dichiara PSI di ottenere una qualche attenzione numeraria da parte del PD; L’argomento oggetto di dibattito da oggi a Milano “il merito ed il Bisogno, fa parte di questa speranza“. I socialisti invece sono stati importanti solo quando sono stati autonomi (quindi con una loro identità un loro progetto, un loro programma). Questo lo si ì visto fin dalla nascita del Centro Sinistra, anche se dal ’64 la scissione del PSIUP, agevolata dal PCI e dall’URSS, ne ha ridotto le potenzialità. Con l’avvento di De Martino e con la “cassandra” repubblicana Ugo La Malfa, che parlava dell’ineluttabilità del comunismo, lo spazio e soprattutto lo stimolo ideale, si sopirono a tal punto che ormai i nostri vertici si erano “rassegnati” a confluire nel PCI. Solo il 1976 ed il MIDAS, diedero il colpo di RENI per ritrovare lo spirito AUTONOMISTA di cui Craxi e Signorile furono antesignani. Dopo il disgraziato 1993 crebbe il ragionamento OGNUNO PER SE e Dio per tutti, sia a destra che a sinistra. Cicchitto ed altri a destra, Del Turco ed altri a sinistra (si fa per dire). Poi i “pendolari“. Ma nessuno lo fece per il PARTITO, che non ci raccontiamo balle. Boselli col SI fu inventato dal PDS e nonostante la ricomposizione con Intini ed altri (lo stesso Martelli inizialmente), la sindrome dei “cespuglio” rimase nell’interesse dei dirigenti, che anziché rischiare una “vita autonoma” restarono saldamente ancorati alle sedie (anche scomode) messe a disposizione dai catto-comunisti. Il povero Manca finì addirittura nella CDU e qualcun altro in Alleanza Nazionale: Di fronte a scelte sicure nessun dirigente si è tirato indietro. Ora abbiamo l’ulteriore imbroglio Un finto “merito e bisogno”, che per essere serio avrebbe dovuto avere preventivamente una grande preparazione e, soprattutto, un’alleanza tra scheletri, che naturalmente non possono avere il sangue caldo che serve ad ogni vertebrato vivente. Quindi era molto più facile dire: IL PD CI OFFRE TOT SEGGI PARLAMENTARI, per cui a noi dirigenti interessa esserci. Tutto il resto i MATUSA lo possono raccontare a giovanetti imbelli o a qualche interessato ad un posticino di provincia, raccattato con le firme raccolte dal PD. Giampaolo Mercanzin

«CONGRÉS DE L’UNITÉ» À ÉPINAY-SUR-SEINE (juin 1971): POUR LA RENAISSANCE DU PARTI SOCIALISTE

Il Congresso di Epinay del giugno 1971 segna la rinascita del Partito Socialista dopo un breve periodo del Nuovo Partito Socialista guidato da Alain Savary dal luglio 1969. Questo “congresso dell’unità” puntò a costruire una formazione unitaria, sviluppando un programma comune con i comunisti e, soprattutto, in prospettiva di una politica di governo. Già, nel giugno 1970, un congresso socialista a Épinay-sur-Seine Dal 1968, i socialisti francesi  parlarono di unificazione di tutte le tendenze all’interno di un unico partito. Dopo il ritiro di Guy Mollet alla testa del partito socialista nel dicembre 1968, Alain Savary, che lasciò il partito nel 1958 in segno di protesta contro Mollet De Gaulle, fondò la PSA diventato poi PSU, prende le redini di un partito che egli  intende rinnovare, il nuovo partito socialista: il congresso costituente del 4 maggio 1969 a Alfortville e 11, 12 e 13 luglio 1969 a Issy-les-Moulineaux, furono convocati dallo SFIO e l’Unione dei Clubs per la rinascita della sinistra (UCRG), che Savary dirisse. Alcuni attivisti della Convenzione delle istituzioni repubblicane (CIR), guidato da François Mitterrand, si unirono a loro nonostante il ritiro dal collettivo nazionale organizzatore. Questi due congressi portarono al nuovo partito socialista, definendo il suo statuto, i dibattiti di orientamento e l’elezione degli organismi centrali. Il Congresso Nazionale Straordinario del nuovo PS, 20 e 21 giugno 1970 Un anno dopo, nel giugno del 1970, il nuovo PS tiene un congresso straordinario a Epinay-sur-Seine, Seine-Saint-Denis, dove pone gli obiettivi per vedere realizzata l’unità dei socialisti. Un “piano d’azione socialista per una Francia democratica” fu adottato all’unanimità con otto astensioni. Questo piano, opposto al capitalismo, propone una nuova economia e un nuovo Stato, riconoscendo e accettando le istituzioni della Quinta Repubblica. Avrebbe consentito anche di avviare un confronto con le organizzazioni politiche e sindacali in vista dell’unione della sinistra in prospettiva di governo. Malgrado questa congresso voluto come unificazione, il nuovo partito socialista rimase diviso, in particolare sul tema cruciale dell’unione della sinistra. Lo testimonia l’uscita dalla sala di Mollet ed altri, poco prima del discorso di François Mitterrand, il quale fu accolto dalla platea con lo slogan “Unità, Unità” … Questa uscita, non fu riportato dal Comunicato socialista, fu però sottolineato dai quotidiani del tempo (Le Monde, L’Humanité, France-Soir, L’Aurore). Comunicato socialista, giornale PS (Pierre Mauroy) > Vedi anche la rassegna stampa sulla conferenza straordinaria del 20 e 21 giugno 1970 nella collezione Robert Pontillon (attualmente classificata: in un inventario della serie SFIO e PS) Un programma comune con altri partiti di sinistra I socialisti, prima del “Congresso dell’Unità” del 1971, stavano già progettando un programma comune di governo, con il PCF e i radicali di sinistra, con cui era stati avviati dei dibattiti. > Dichiarazione congiunta del nuovo PS con il partito radicale (Pierre Mauroy) > Dichiarazione congiunta del Nuovo PS con il Partito Comunista, 18 dicembre 1969 (Robert Pontillon) La preparazione del “Congresso dell’Unità” Dopo l’accordo del 26 gennaio 1971, la “Delegazione Nazionale per l’Unità dei Socialisti” – composta da rappresentanti del Partito Nuovo Socialista, CIR e dei circoli creati al di fuori del SFIO – richiesero la partecipazione al “Congresso dell’Unità”, che si tenne nei giorni 11, 12 e 13 giugno, per un “cambiamento profondo e una forte organizzazione del Partito Socialista“. La delegazione, presieduta da Nicole Questiaux, incoraggiò gli attivisti a partecipare ai congressi preparatori previsti in tutti i dipartimenti per nominare i loro delegati. > Appello della delegazione nazionale per l’unità dei socialisti al Congresso dell’Unità > Preparazione del congresso > «Nota sul congresso per i nuovi membri» > «Progetto di procedura del congresso» > Precisazioni del CIR sulla preparazione del congresso Documenti tratti da Claude Estier. Le mozioni presentate al Congresso di Épinay Diciassette mozioni furono presentate al “Congresso dell’Unità”. Ma il dibattito si concentrerà su cinque di esse, presentate dai principali dirigenti del nuovo PS, del CIR e dei circoli: la mozioneL, il tandem Louis Mermaz-Robert Pontillon, la mozione Jean Jean Poperen, capo del l’Unione dei gruppi e dei Circoli socialisti (UGC), la mozioneO presentata da  Alain Savary e firmato da Guy Mollet, la mozioneP CERES Chevènement e il movimento con la mozioneR con Gaston Defferre e Pierre Mauroy federazioni Socialisti di Bouches-du-Rhône e nord. > Fascicolo della conferenza distribuito ai delegati (include 17 mozioni) > Mozione L (Louis Mermaz-Robert Pontillon): “Per un socialismo, un partito unito e forte” > Mozione M (Jean Poperen): “Per un partito socialista di sinistra” > Mozione O (Alain Savary e Guy Mollet): “Per un forte partito socialista e per la ricerca dell’Unione della sinistra” > Mozione P (CERES): “Unità e rinnovamento per una vittoria del socialismo nel 1973” > Mozione R (Gaston Defferre e Pierre Mauroy): il progetto e il discorso di Pierre Mauroy al Congresso I testi delle mozioni sono estratti dalla fondazione Robert Pontillon. 11-13 giugno 1971 Questo “Congresso di Unità”, atteso da tutti i socialisti, fu in continuità sui temi discussi al congresso straordinario del Nuovo PS nel 1970: nel giugno del 1971, i leader di queste formazioni e gli attivisti concentrano i loro interventi in rottura (o no) con il capitalismo, e l’unione della sinistra, attraverso l’alleanza elettorale con il Partito comunista di Georges Marchais. La votazione sulle proposte di risoluzione dei delegati posta dalla mozioneO, difesa da Alain Savary e Guy Mollet, suo rappresentante, non fu sufficiente per vincere contro la maggioranza che stava per formarsi intorno François Mitterrand, il quale firmò la mozioneL (Mermaz-Pontillon). Mozione O (Alain Savary e Guy Mollet): il 33% Mozione R (Gaston Defferre e Pierre Mauroy): il 28% Mozione L (Mermaz-Pontillon): 16% Mozione M (Jean Poperen): 12% Mozione P (CERES): 8,5% Dopo una trattativa (in particolare con la Federazione socialista del Nord), François Mitterrand riuscì a raccogliere intorno a sé i suoi amici del CIR, e di Gaston Defferre e Pierre Mauroy, e CERES Chevènement. Jean Poperen, nel frattempo,  scelse di sostenere Alain Savary. La votazione finale della conferenza consentì alla mozione di sintesi del gruppo Mauroy-Defferre Mitterrand Chevènement- ad ottenere una maggioranza del (51,26%), opposta a quella di Savary-Poperen-Mollet (48.73%). La formula di …

Formica: Italia verso il buio, solo una Costituente ci può salvare

Tutti stanno affossando la nostra democrazia, anche coloro dai quali ci si aspetterebbe una discesa in campo. Da Grasso a Prodi. Secondo RINO FORMICA solo l’astensione ci può salvare Tutti stanno concorrendo alla crisi della nostra democrazia parlamentare, anche coloro dai quali ci si aspetterebbe una discesa in campo. Da Grasso a Prodi. E’ l’opinione di Rino Formica, ministro socialista delle Finanze e del Lavoro nella prima repubblica. Formica abbozza lo scenario più cupo. “Mi interessa poco sapere se Grasso ha incontrato Bersani o Cuperlo — dice al sussidiario —. Ciò che conta è che aumentano i segni tangibili del disfacimento istituzionale”. Istituzionale dunque e non solo politico. Come mai? Grasso ha aperto la questione del vulnus istituzionale venuto dal voto di fiducia sulla legge elettorale voluto dal Pd. E ha fatto bene, perché un partito ha impedito la libertà democratica dei parlamentari su una legge politica di grande rilevanza. E ha ritenuto che la denuncia fosse doverosa. Ma? Ma non ha compiuto l’atto politico conseguente, capace di dare il giusto tenore di drammatizzazione che avrebbe scosso il paese. Si è dimesso dal gruppo parlamentare del Pd, ma non da presidente del Senato. Qui sta la debolezza del suo gesto. Non essendosi dimesso, i suoi gesti successivi vanno inevitabilmente ad incidere sull’autorevolezza dell’istituzione che presiede. Ricevendo da presidente del Senato i rappresentanti di una nuova forza politica, trasforma l’istituzione in una bottega di partito. Il risultato è quello di concorrere anche lui alla demolizione della democrazia parlamentare. Non parliamo ovviamente di chi lo sta facendo da tempo. Il paese andrà al Movimento 5 Stelle? Non credo. Con la nuova legge elettorale, il paese va diritto verso la celebrazione di un voto inutile. La domanda è: come può reggersi una democrazia parlamentare sapendo che il voto degli elettori non serve a nulla, dato che il parlamento non riuscirà ad esprimere un esecutivo serio e stabile? Ad un paese del genere non resta altro che essere commissariato. Arriverà la troika? Prima ho detto che M5s non è una soluzione alternativa. Ci attende un tempo di novità. Per quale motivo? Perché nel frattempo l’astensione potrebbe raggiungere livelli tali da superare nettamente il consenso complessivo dei partiti. Dopo le prossime elezioni si aprirebbe una breve fase, drammatica, destinata a condurre ad uno scioglimento anticipato. Quell’astensione potrebbe costituire il deposito delle forze di un rinnovamento democratico. Quindi l’astensionismo sarebbe la strada per salvare il paese. Ma chi guiderebbe il rinnovamento? Si può facilmente immaginare che le pressioni europee, insieme a quelle della Germania, che dopo la Brexit e dopo il consolidamento di Macron va cercando una nuova stabilità continentale, si troveranno a dover favorire in Italia una fase provvisoria di stabilità democratica sotto la responsabilità del presidente della Repubblica. E poi? Contemporaneamente nascerà l’esigenza che le elezioni successive siano costituenti. Si dovrà eleggere un’assemblea costituente, preceduta da un referendum di convalida o di condanna della democrazia parlamentare come si è andata esprimendo negli ultimi 10 anni. Ma sarebbe una costituente ancora sotto la nostra sovranità? La sovranità non può essere imposta in una situazione di debolezza radicale delle strutture che ci ha consegnato lo stato moderno, perché sono precisamente queste strutture che hanno determinato la sovranità come oggi la conosciamo. Il disfacimento delle istituzioni è in atto e sta continuando sotto i nostri occhi. Prenda la commissione di inchiesta sulle banche. Non darà un euro ai risparmiatori truffati, in compenso assesterà un ulteriore colpo a tutte le istituzioni di garanzia e di controllo, dalla Consob a Bankitalia fino all’Antitrust e — in parte — alla Bce. In questo scenario di decomposizione istituzionale e politica che ruolo giocherà la presidenza della Repubblica? Il presidente Mattarella è la parte migliore della nostra classe dirigente ed è una persona in grado di fornire assolute garanzie di fedeltà democratica. Il problema è un altro. Quando arriverà la parte più buia della crisi, non avendo una forza politica di largo sostegno in ciò che sarà rimasto delle istituzioni, gli verrà meno il piedistallo su cui si appoggia l’autorità del presidente della repubblica. In quel momento sarà tentato di fare come Celestino V. Federico Ferraù Fonte: ilsussidiario.net  

DEMOCRACY REVIEW: LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI CORBYN

di Carlo Patrignani Da noi fiumi di parole sul fascismo di ritorno, la vile aggressione di Ostia è l’ennesimo episodio della recrudescenza di una incultura inumana e violenta, con cui i conti sono ancora da fare. E altrettanti fiumi di parole sul futuro ravvicinato, sempre più plumbeo, di una sinistra rissosa, divisa e senza identità. Oltremanica, invece, solo una parola: democracy review, lanciata su Facebook dal leader del Labour Party, Jeremy Corbyn per avviare un’ampia, diffusa e capillare consultazione della base sulla trasformazione del partito in un mass movement, movimento di massa, con l’ambizioso obiettivo di cambiare la società per i molti, non per i pochi. Messa come titolo del programma per le elezioni di giugno 2018, democracy review è ora la parola l’ordine e il principio cui ogni proposta laburista, coerentemente e indissolubilmente, fa e dovrà fare riferimento. Fermi restando i temi cari a Corbyn: il fallimento del modello verticale, dall’alto al basso, in politica, in economia, nei media; l’affermarsi di modelli organizzativi orizzontali e non gerarchici che sono propri dei movimenti sociali che lavorano in rete; l’uso delle nuove tecnologie per favorire e incoraggiare, a ogni livello, la partecipazione degli iscritti. Punto di partenza di questa originale campagna di consultazione della base, finalizzata all’obiettivo di vincere le elezioni e governare il paese, sono le 500 mila persone che negli ultimi anni, dal 2015 a oggi, hanno quasi triplicato in numero degli iscritti. Con la rivoluzione della democracy review Corbyn vuol mettere gli iscritti al Labour Party al centro delle decisioni sulle politiche da seguire, sulla forma di organizzazione interna, sulle modalità di elezione del leader e sul modo migliore di affrontare le sfide globali del momento. La rivoluzionaria democracy review ha infatti lo scopo di coinvolgere la base con la partecipazione a eventi organizzati dal partito o proposti dagli iscritti e soprattutto di dotarsi di un meccanismo di consultazione e raccolta di proposte su un’ampia gamma di temi. Non a caso sul sito del Labour Party   sono state predisposte diverse sezioni:  Costruire un movimento di massa, Come fare politica, Diversità e partecipazione e altre. Ognuna di esse contiene un formulario dettagliato, in cui lasciare i propri dati, rispondere a domande precise e avanzare proposte, con scadenze diverse (gennaio, marzo e giugno 2018) a seconda dei temi. E’ questa di Corbyn una sfida e insieme una scommessa innovative nel panorama europeo che potrebbero costituire un modello per chi, in altri paesi, cerca di costruire un’alternativa di sinistra alla devastante spinta verso il centro che ha fatto perdere ovunque voti e popolo alla sinistra e favorito il successo di populismi trasversali e di una destra razzista, xenofoba e violenta. Fonte: alganews.it

DISCORSO ALLA CAMERA DEI DEPUTATI DI DENUNCIA DI BROGLI ELETTORALI: GIACOMO MATTEOTTI

Presidente: Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà.   Giacomo Matteotti. Noi abbiamo avuto da parte della Giunta delle elezioni la proposta di convalida di numerosi colleghi. Nessuno certamente, degli appartenenti a questa Assemblea, all’infuori credo dei componenti la Giunta delle elezioni, saprebbe ridire l’elenco dei nomi letti per la convalida, nessuno, né della Camera né delle tribune della stampa. (Vive interruzioni alla destra e al centro)   Dario Lupi. È passato il tempo in cui si parlava per le tribune!   Giacomo Matteotti. Certo la pubblicità è per voi un’istituzione dello stupidissimo secolo XIX. (Vivi rumori. Interruzioni alla destra e al centro) Comunque, dicevo, in questo momento non esiste da parte dell’Assemblea una conoscenza esatta dell’oggetto sul quale si delibera. Soltanto per quei pochissimi nomi che abbiamo potuto afferrare alla lettura, possiamo immaginare che essi rappresentino una parte della maggioranza. Ora, contro la loro convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè, che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti… (Interruzioni).   Voci al centro: “Ed anche più!”   Giacomo Matteotti. … cotesta lista non li ha ottenuti, di fatto e liberamente, ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessario (Interruzioni. Proteste) per conquistare, anche secondo la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono stati attribuiti! Potrebbe darsi che i nomi letti dal Presidente: siano di quei capilista che resterebbero eletti anche se, invece del premio di maggioranza, si applicasse la proporzionale pura in ogni circoscrizione. Ma poiché nessuno ha udito i nomi, e non è stata premessa nessuna affermazione generica di tale specie, probabilmente tali tutti non sono, e quindi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione della maggioranza (Rumori vivissimi). Vorrei pregare almeno i colleghi, sulla elezione dei quali oggi si giudica, di astenersi per lo meno dai rumori, se non dal voto. (Vivi commenti – Proteste -Interruzioni alla destra e al centro)   Maurizio Maraviglia. In contestazione non c’è nessuno, diversamente si asterrebbe!   Giacomo Matteotti. Noi contestiamo….   Maurizio Maraviglia. Allora contestate voi!   Giacomo Matteotti. Certo sarebbe Maraviglia se contestasse lei! L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo, ripetuta da tutti gli organi della stampa ufficiale, ripetuta dagli oratori fascisti in tutti i comizi, chele elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso – come ha dichiarato replicatamente – avrebbe mantenuto il potere con la forza, anche se… (Vivaci interruzioni a destra e al centro. Movimenti dell’onorevole Presidente del Consiglio)   Voci a destra: “Sì, sì! Noi abbiamo fatto la guerra!” (Applausi alla destra e al centro).   Giacomo Matteotti. Codesti vostri applausi sono la confermaprecisa della fondatezza dei mio ragionamento. Per vostra stessa confermadunque nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la suavolontà… (Rumori, proteste e interruzioni a destra) Nessun elettore si ètrovato libero di fronte a questo quesito…   Maurizio Maraviglia. Hanno votato otto milioni di italiani!   Giacomo Matteotti. … se cioè egli approvava o non approvava la politica o, per meglio dire, il regime del Governo fascista. Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso. (Rumori e interruzioni a destra)   Una voce a destra: “E i due milioni di voti che hanno preso le minoranze?”   Roberto Farinacci. Potevate fare la rivoluzione!   Maurizio Maraviglia. Sarebbero stati due milioni di eroi!   Giacomo Matteotti. A rinforzare tale proposito del Governo, esiste una milizia armata… (Applausi vivissimi e prolungati a destra e grida di “Viva la milizia”)   Voci a destra: “Vi scotta la milizia!”   Giacomo Matteotti. … esiste una milizia armata…(Interruzioni a destra, rumori prolungati)   Voci: “Basta! Basta!”   Presidente. Onorevole Matteotti, si attenga all’argomento.   Giacomo Matteotti. Onorevole Presidente, forse ella non m’intende; ma io parlo di elezioni. Esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra) la quale ha questo fondamentale e dichiarato scopo: di sostenere un determinato Capo del Governo bene indicato e nominato nel Capo del fascismo e non, a differenza dell’Esercito, il Capo dello Stato. (Interruzioni e rumori a destra)   Voci: a destra: “E le guardie rosse?”   Giacomo Matteotti. Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. (Commenti) In aggiunta e in particolare… (Interruzioni) mentre per la legge elettorale la milizia avrebbe dovuto astenersi, essendo in funzione o quando era in funzione, e mentre di fatto in tutta l’Italia specialmente rurale abbiamo constatato in quei giorni la presenza di militi nazionali in gran numero… (Interruzioni, rumori)   Roberto Farinacci. Erano i balilla!   Giacomo Matteotti. È vero, on. Farinacci, in molti luoghi hanno votato anche i balilla! (Approvazioni all’estrema sinistra, rumori adestra e al centro)   Voce al centro: “Hanno votato i disertori per voi!”   Enrico Gonzales. Spirito denaturato e rettificato!   Giacomo Matteotti. Dicevo dunque che, mentre abbiamo visto numerosi di questi militi in ogni città e più ancora nelle campagne (Interruzioni), gli elenchi degli obbligati alla astensione, depositati presso i Comuni, erano ridicolmente ridotti a tre o quattro persone per ogni città, per dare l’illusione dell’osservanza di una legge apertamente violata, conforme lo stesso pensiero espresso dal Presidente del Consiglio che affidava ai militi fascisti la custodia delle cabine. (Rumori) A parte questo argomento del proposito del Governo di reggersi anche con la forza contro il consenso e del fatto di una milizia a disposizione di un partito che impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale e che invalida in …

E QUESTA SEMINAGIONE UNA RICCA RACCOLTA DARA’!

A tre anni passati dall’inizio della Grande guerra, Maksim Gor’kij pub­blica sull’ADL dell’8.9.1917 un testo – I pensieri intempestivi – che di seguito riproduciamo integralmente. «Parecchie diecine di milioni di uomini, robusti, sani, laboriosi, sono tolti dalla grande opera della vita, dallo sviluppo delle forze produttive della terra e sono mandati ad uccidersi gli uni contro gli altri. Rintanati nella terra, essi vivono sotto la pioggia e la neve, nel fango, nella strettezza, tormentati dalle malattie, divorati dai parassiti. Vivono come bestie, spiando gli uni gli altri per uccidere. Già è il terzo anno che noi viviamo nell’incubo sanguinoso e ci siamo imbestialiti, e siamo impazziti. L’arte eccita la sete di sangue, di massacro, di distruzione. La scienza, violata dal militarismo, serve ubbidiente allo sterminio di uomini. Questa guerra è il suicidio dell’Europa! Pensate. Quanto cervello sano, magnificamente organizzato, fu buttato sulla terra fangosa durante questa guerra! Quanti cuori sensibili si sono fermati! Questo insensato sterminio dell’uomo, da parte di un altro uomo, questa distruzione delle grandi opere dell’uomo non si limita alle perdite materiali, no! Diecine di migliaia di soldati mutilati, per lungo tempo, fino alla morte, non dimenticheranno i loro nemici. Nei racconti sulla guerra essi trasmetteranno il loro odio ai figli, cresciuti sotto le impressioni dei tre anni di orrore quotidiano. In questi anni molto odio è seminato sulla terra e una ricca raccolta darà questa seminagione! E però da così lungo tempo ci si parlò con tanta eloquenza della fratellanza degli uomini, dell’unità! Chi è colpevole del diabolico inganno, della creazione di questo caos di sangue? Non andiamo a cercare i colpevoli fuori di noi stessi, diciamo la verità amara: tutti noi siamo colpevoli di questo delitto, tutti e ciascuno. Immaginate per un momento che viviamo nel mondo degli uomini savi, sinceramente preoccupati dalla buona organizzazione della loro vita, fiduciosi nelle loro forze creatrici; immaginate per esempio che a noi, russi, nell’interesse dello sviluppo della nostra industria fosse stato necessario scavare il canale Riga-Kherson, riunire il Baltico col Mar Nero, opera alla quale sognò già Pietro il Grande. Ed ecco, inve­ce di mandare al macello milioni di uomini, noi ne mandiamo una par­te soltanto a questo lavoro, necessario al paese, al popolo. Io sono sicuro che gli uomini uccisi in tre anni di guerra avrebbero potuto in questo periodo di tempo asciugare le migliaia di chilometri delle nostre paludi, irrigare la Steppa della Fame e altri deserti, riunire i fiumi del Basso Ural colla Kama, costruire una strada attraverso il Caucaso e fare altri grandi lavori per il bene della nostra Patria. Ma noi distruggiamo milioni di vite ed enormi quantità di energie del lavoro per l’eccidio e lo sterminio. Si fabbricano masse enormi di esplosivi carissimi e distruggendo le migliaia di vite questi esplosivi si fondono senza traccia nell’aria. Dal proiettile scoppiato restano almeno i pezzi di metallo dai quali in seguito, potremmo fare magari i chiodi; ma tutte queste meliniti, lidditi, dinitro-tolnoli mandano veramente in fumo e al vento la ricchezza del Paese. Non solo miliardi di rubli, ma milioni di vite umane insensatamente sono distrutte dal mostro dell’Avidità e della Stupidità. Quando vi penso, una fredda disperazione mi stringe il cuore e un folle grido vuole liberarsi dal petto: “Disgraziati, abbiate compassione di voi!”» (ADL 8.9.1917). Maksim Gor’kij a parte, l’ADL apre sulle agitazioni operaie scoppiate a Torino il 23 agosto 1917: «Il proletariato ha dato una nuova formi­dabile prova del suo odio alla guerra, della sua capacità rivoluzionaria. Come? Quando? Quali sono i dettagli? Non sappiamo. Sappiamo solo che la Cavalleria affrontò la folla per le vie; che il palazzo dell’Associazione Generale degli Operai, ove ha sede il Partito Socialista e la Camera del Lavoro è chiuso; che alla “FIAT”, ove lavorano 80’000 operai metallurgici, il lavoro è stato abbandonato per cinque giorni; che il pane è mancato e manca tuttavia; che il questore è punito, che il prefetto è sospeso dalle sue funzioni; che l’allarme risuonante di paura passa dai giornali borghesi ai giornali pseudo-rivoluzionari, come il “Popolo d’Italia”» (ADL 8.9.1917). La sommossa di Torino scoppia spontaneamente e subito è schiac­ciata nel sangue, la capitale sabauda viene classificata “zona di guerra” e sottoposta a legge marziale: oltre cinquanta i morti, più di duecento i feriti. Gli arresti indiscriminati di massa decapitano la sezione cittadina del PSI. La guida del partito torinese passa a un comitato di dodici compagni, tra cui anche Antonio Gramsci, esponente allora ventiseienne del gruppo giovanile che venti mesi più tardi si cristallizzerà – con Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti – nella redazione de “L’Ordine Nuovo – Rassegna settimanale di cultura socialista”. Papa Benedetto XV, in quell’estate infuocata, non fa nulla per na­scondere la propria empatia di fondo verso il popolo torinese, anche se socialista e anticlericale, vedendovi in ogni caso l’espressione di un comune sentire contro la guerra, “inutile strage”. Ma l’accenno a suggello delle notizie sulla sommossa che l’editoriale dell’ADL fa al quotidiano “Il Popolo d’Italia”, fondato e diretto dal futuro duce del fascismo, prefigura già lo scontro che andrà consumandosi nel primo dopoguerra italiano tra i “Consigli operai” e la prima ondata di violenza in camicia nera. L’atteggiamento papale si riallineerà a quello dell’establishment dopo lo scoppio della guerra civile tra “rossi” e bianchi” nella nascente Unione Sovietica. La Chiesa cattolica manifesterà un favore crescente per le organizzazioni mussoliniane. E queste, osteggiate ai tempi dell’interventismo bellico, verranno ora invocate, invece, come risposta “provvidenziale” al bolscevismo. Il successo dei fascismi, dilaganti di lì in poi dall’Italia all’intera Europa, nasce da una potente convergenza d’interessi – politici, economici e religiosi – postasi sotto l’egida delle “tempeste d’acciaio” e del loro connotato ideologico più ovvio ed esiziale: il nazionalismo. I regimi fascisti ne vorranno incarnare l’adattamento a un nuovo clima populistico che la mobilitazione generale delle masse in guerra ha ormai suscitato su tutto il continente. Così, Mussolini potrà congegnare “da destra” uno stato sociale capace di offrire al popolo d’Italia le concessioni necessarie alla tenuta del sistema, concessioni che per l’establishment saranno accettabili, però, …

IL RITORNO DI LENIN?

di Pierfranco Pellizzetti L’ultracentralismo raccomandato da Lenin ci sembra pervaso in tutto il suo essere non dallo spirito positivo e creatore ma dallo spirito sterile del guardiano notturno. La sua concezione è fondamentalmente diretta a controllare l’attività di partito e non a fecondarla, a restringere il movimento non a svilupparlo, a soffocarlo e non unificarlo»1. Rosa Luxemburg   Il processo al regime accentratore, autoritario, monopolistico della rivoluzione russa, non si può fare a priori in nome di un ideale di autonomia perché […] Lenin ubbidisce al suo clima storico e ad esigenze non più astratte ma determinate da una dialettica quotidiana reale»2. Piero Gobetti Norberto Bobbio, Il marxismo e lo Stato, Mondoperaio, Roma 1976 Michele Prospero, Ottobre 1917 – la rivoluzione pacifista di Lenin, Manifestolibri, Roma 2017   La mummia in Piazza Rossa Parafrasando György Lukács, secondo cui l’Hitlerismo «è contenuto oggettivamente in ogni espressione filosofica dell’Irrazionalismo»3, qualcuno potrebbe affermare che lo Stalinismo è già prefigurato geneticamente nel Marxismo? Continuando il gioco delle simmetrie, nel primo caso un itinerario in scorrimento lungo la filiera che da Nietzsche arriva ad Heidegger, mentre nell’altro una sequenza con tappa intermedia obbligata nel Leninismo; la sua teoria sistematicamente giustificatoria della prassi (ovviamente si parla di teoria rivoluzionaria, visto che la speculazione filosofica leniniana di “Materialismo ed Empiriocriticismo” del 1909, a prescindere dai tributi agiografici in età sovietica, si limita alla difesa del materialismo dialettico contro le scoperte della fisica del tempo; l’imbarazzante Dia-Mat di Engels, che pretenderebbe di applicare dogmaticamente al campo della natura le leggi dialettiche dello sviluppo sociale che Marx aveva formulato come materialismo storico). Appunto, un tema che potrebbe diventare d’attualità qualora fosse in avvio sottotraccia un revival a sinistra – oltre al Che, Gramsci e Fabrizio de André – nientemeno che di Vladimir Il’ič Ul’ianov, in arte rivoluzionaria Lenin. Operazione carica di non pochi rischi, visto che andrebbe a risvegliare virulente polemiche ormai sopite da lunga pezza. L’ennesimo torneo d’armi dibattimentali senza possibilità di tregua, che mette in campo detrattori e aficionados. Tra chi vorrebbe resuscitare la salma (o il simulacro in cera?) esposta nel mausoleo della Piazza Rossa moscovita e chi ne auspicherebbe la definitiva sepoltura nell’oblio. Riprodotto nella messa a specchio del saggio di Prospero, che ricostruisce la presa del potere di Lenin, con le riflessioni di Bobbio sugli effetti costituenti del modo con cui tale presa è avvenuta. Diciamolo, ormai un confronto per pochi intimi, visto che la materia (il giudizio su teoria e pratica rivoluzionaria bolscevica) era ribollente al tempo della conquista del Palazzo d’Inverno, manteneva una temperatura ancora elevata attorno al ‘68 e agli ultimi bagliori delle insorgenze anticapitalistiche; quando i Valentino Gerratana e i Luciano Gruppi recensivano gli opuscoli militanti leniniani come se si trattasse del Talmud (o di Das Kapital). Gerretana proclamando il gran capo carismatico della rivoluzione d’Ottobre un riferimento ancora indispensabile «perché si tratta di far comprendere alle masse cosa dovranno fare per liberarsi, in un avvenire prossimo, dal giogo del capitale»4; Gruppi teorizzando un filo di continuità tra Lenin, Gramsci e Togliatti («abbiamo cercato di indicare la continuità di una linea di sviluppo, dal lontano Che fare? alla concezione del partito di Gramsci e a quella di Togliatti»5). Gli ultimi hurrah – dottrinari o cortigiani – di un milieu piccista che riteneva ancora proponibile il progetto di società alternativa a quella borghese-capitalista. Poi messi a tacere dalla lunga gelata della restaurazione NeoLib; quando le suggestioni antagoniste finirono nel dimenticatoio, insieme alle masse chiamate a conquistare il Comunismo. Per giungere al 31 dicembre 1991 quando, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, scompariva il Paese-guida nella marcia verso il sol dell’avvenire. Il totale azzeramento del lascito leniniano, ovvero la cancellazione di un esperimento che – come fu detto – “aveva sconvolto il mondo”. Nel frattempo il dibattito culturale aveva già destinato al dimenticatoio la via ipotizzata dal Marx-Leninismo per la costruzione di uno Stato che portasse a compimento l’esperienza della Comune («non sarebbe possibile distruggere di punto in bianco la burocrazia. Sarebbe utopia, Ma spezzare subito la vecchia macchina amministrativa per cominciare a costruirne una nuova, che permetta la graduale soppressione di ogni burocrazia, non è utopia, è l’esperienza della Comune»6); con ciò accantonando la tesi anarchica, poi ripresa dal tatticismo marxiano-engelsiano, dell’estinzione dello Stato. Una formulazione di raro confusionismo teorico, che si spiega in quanto giustificativa delle scelte strategiche bolsceviche dopo la conquista armata del potere in Russia e l’insediamento nei palazzi del potere. Di cui in Italia si era curato di fare piazza pulita nel 1975 Norberto Bobbio, aprendo la discussione sulla rivista Mondoperaio con il saggio “Esiste una dottrina marxista dello Stato?”. Ortodossia o aggiustamento in itinere? Oh potenza magica dei numeri! La celebrazione dei cento anni che ci separano dall’avvio della rivoluzione d’Ottobre ricrea attenzione attorno al plesso di criteri organizzativi e intuizioni tattiche che la resero possibile. Innovazione decisiva nello schema ortodosso marxiano, che rompe l’ordine mondiale partendo dall’anello debole di un grande impero arretrato, oppure opera demiurgica di un «Lenin esecutore testamentario dell’intuizione di Marx»; quel Marx che – secondo il filosofo del diritto Michele Prospero nel suo recente saggio – negherebbe l’eccezionalismo russo e la mistica dell’arretratezza («Marx anticipa l’ipotesi di una rivoluzione in Russia che non deve aspettare che il tempo del progresso si completi»7)? Di certo, l’uomo di mano giunto a Mosca nel carro piombato tedesco, con la sua decisione di prendere il potere istituendo mediante il partito bolscevico una dittatura del proletariato e dei contadini più poveri, calpesta radicalmente alcuni canoni consacrati dell’ortodossia marxista russa, secondo cui la rivoluzione poteva essere soltanto “capitalista”: la teoria di Georgij Plechanov delle “due rivoluzioni”, la prima “borghese”, la seconda “proletaria” (di cui troviamo echi nella concezione gramsciana della “rivoluzione passiva” a Occidente, guidata non dalla base operaia ma dai vertici del comando fordista). Resta il fatto che, sino all’ultimo respiro, il Lenin trionfatore in patria scrutava con crescente apprensione gli scenari a Occidente, alla ricerca di concreti segni insurrezionali nelle società industrialmente avanzate. Il tanto atteso avvio della rivoluzione internazionalista. Difatti, secondo François Furet, «il …

Organizzazioni Socialiste a Taranto e Provincia

Il movimento socialista sorse e si sviluppò nel Tarantino attraverso la costituzione di circoli e leghe di resistenza costituiti qua e là da ristretti gruppi di studenti, professionisti e artigiani, animati da sentimenti dl solidarismo e giustizia sociale che si esprimevano nella volontà di riscattare le popolazioni dei Salento dalle condizioni di sfruttamento in cui vivevano, in un ambiente economico e sociale dominato dal latifondo. La Federazione socialista salentina si costituì nel 1893. Taranto, in quel periodo, era uno dei pochi comuni della provincia di Lecce che, a differenza degli altri, viveva una profonda trasformazione economica e sociale in conseguenza della costruzione dell’Arsenale militare. Da circa un decennio, infatti, con alterne vicende, tra una sospensione e una ripresa dei lavori, migliaia di sterratori, manovali, edili e metalmeccanici lavoravano alla costruzione dell’Arsenale e all’adeguamento delle strutture urbanistiche cittadine alla nuova realtà. Prima della costruzione di questi impianti Taranto non era che un vecchio borgo di pescatori e artigiani, ristretto sull’isola della città vecchia, che viveva di pesca e di mitilicoltura, circondata da piccoli e medi abitati contadini alle prese con un’agricoltura povera, in un insieme economico e sociale quanto mai precario e con un alto indice di disoccupazione. L’impiego di migliaia di lavoratori nella costruzione dei grande stabilimento militare diventò perciò una grande risorsa per una vasta zona del Salento e, nel contempo, una occasione irripetibile per fondare le prime organizzazioni operaie attraverso l’esperienza delle lotte per i salari e la riduzione dell’orario di lavoro. Molti furono gli episodi di lotta: il Primo Maggio del 1889 gli operai delle Imprese che costruivano l’Arsenale si presentarono al lavoro alle 8 anziché alle 5 dei mattino, chiedendo la riduzione degli orari di lavoro e l’aumento dei salari. Ma, nonostante queste richieste, nel dicembre del 1889, con decisione del ministro della Marina, i già miseri salari vennero decurtati con l’istituzione di due festività mensili non retribuite. A tali soprusi i lavoratori rispondevano con aspre lotte non sempre organizzate e vittoriose, ma comunque positive per l’esperienza e la capacità di maturazione necessarie alla costituzione di associazioni e leghe di mestieri. Nacquero così le prime società di mutuo soccorso che, a Taranto, gli arsenalotti costituirono nel 1890. Con il passar degli anni la fine dei lavori di costruzione ritardava per la mancanza di fondi, tanto da prospettare la riduzione degli operai occupati che, da parte loro, rispondevano con rivendicazioni sempre più avanzate. La crisi economica che colpì l’economia salentina prima dell’inizio del 1900 dette luogo all’acutizzarsi dei contrasti sociali anche nelle campagne circostanti e, per iniziative dell’avvocato Edoardo Sangiorgio (prestigioso dirigente già nel 1892 aveva aperto un circolo o socialista a Taranto), si costituirono leghe di resistenza dei braccianti e contadini poveri a Ginosa, Castellaneta, Palagiano e Palagianello. Nel 1906 da Brindisi rientrò a Taranto Odoardo Voccoli, giovane ex studente liceale di estrazione borghese, che ricco di esperienza di organizzatore sindacale e di cooperazione acquisita a Brindisi (e prima ancora a Genova) si dedicò l’organizzazione dei portuali e di altre categorie. Con queste strutture organizzative, sotto la guida di un qualificato gruppo dirigente, di cui erano elementi di punta Sangiorgio e Voccoli, il movimento socialista fu l’animatore delle grandi lotte sindacali degli arsenalotti e dei contadini del circondario. Nel 1906 Sangiorgio, Voccoli e l’arsenalotto Francesco i Boccuni furono eletti consiglieri comunali di Taranto. Alle elezioni politiche del 1907 venne sostenuta candidatura di Enrico Ferri collegio di Castellaneta e il popolo socialista tarantino si caratterizzò come il più intransigente e rivoluzionario del Salento. La debolezza delle organizzazioni contadine poneva d’altronde in evidenza il ruolo decisiva della classe operaia delle città e in particolare di Taranto che, già allora, con l’arsenale e alcuni piccoli cantieri si presentava come uno dei pochi centri industriali del Mezzogiorno, mentre nel Salento si manifestavano carenze della politica socialista nelle campagne, all’epoca imperniata sulla nazionalizzazione della terra. Nel 1911 la classe operaia di Taranto, sotto la guida dei socialisti, fu animatrice della battaglia per il suffragio universale. Collegandosi alle lotte sociali, marcando le loro tendenze intransigenti e rivoluzionarie, i dirigenti socialisti agirono in profondità con comizi, riunioni e manifesti per dare una coscienza rivoluzionaria alle masse. Nella stessa direzione premevano i giovani e i sindacalisti, sicché in preparazione del Congresso nazionale di Reggio Emilia (aprile 1912), dal congresso socialista pugliese uscì vittoriosa la tendenza rivoluzionaria e, nel Consiglio della Federazione socialista, venne eletto il capo della lega di resistenza di Palagianello. Al Congresso Socialista di Reggio Emilia i delegati di Taranto e di Castellaneta votarono l’odg presentato dal delegato della Federazione di Lecce, in cui si affermava il concetto fondamentale della lotta dl classe, quale base teorica e guida pratica dl ogni azione socialista e stabiliva per le elezioni politiche l’adozione del metodo intransigente. Un momento di difficoltà era stato peraltro vissuto dal socialismo tarantino nel 1911, allo scoppio del la guerra di Libia. Il gruppo dirigente aveva condotto una lunga battaglia contro questa guerra ed erano stati diffusi manifestini fra i militari; a Palagianello, un comizio tenuto dal giovane Portone era stato interrotto dal carabinieri e un manifesto contro la guerra era stato vietato. La prospettiva di un ulteriore sviluppo dell’arsenale e degli altri impianti militari, che il governo Giolitti, faceva Intravedere connessa all’occupazione militare della Libia, agì però sugli orientamenti degli arsenalotti che, nonostante le lotte sostenute per la soluzione dell’annosa vertenza riguardante l’assegnazione delle categorie, non sostennero i candidati socialisti delle elezioni del 1913. A farne le spese fu Edoardo Sangiorgio che raccolse solo 250 voti. Sul finire del 1913 e all’inizio del 1914, in presenza dl una situazione economica e sociale drammatica, i Socialisti tarantini furono gli ispiratori e dirigenti di grandi scioperi di ferrovieri e di contadini, nonché dl manifestazioni di protesta contro l’autoritarismo dei governo Salandra. I socialisti si fecero poi promotori di varie iniziative In appoggio alla ‘Settimana Rossa” e, con una vivace opposizione politica e sociale contro l’entrata in guerra dell’Italia e con una grande campagna di orientamento antimilitarista delle masse popolari, attività che si saldarono con l’azione svolta da Edoardo Sangiorgio e dai …

SI E’ ESAURITA LA SPINTA PROPULSIVA CATTO-COMUNISTA

di Carlo Patrignani Si è esaurita la spinta propulsiva: lo si è detto, in ritardo, del Regime comunista sovietico prodotto dalla rivoluzione d’ottobre, della socialidemocrazia post Bad Godesberg, del socialismo post Epinay, e, in tempi più recenti, del centro-sinistra 1996-’98 e 2006-’08, ma non del catto-comunismo, dell’ibrida alleanza tra le due Chiese che hanno dominato gli anni dal dopoguerra a oggi: quella cattolica e quella comunista. Ora, di fronte al disastro culturale e politico del Partito democratico, germogliato dalla frettolosa fusione a freddo, all’indomani del crollo del Muro di Berlino dell’89, accompagnata da rulli di tamburo, tra post comunisti e post democristiani, si preferisce glissare, dirottando l’attenzione sul solito capro espiatorio del disastro: Matteo Renzi, come se fosse un estraneo, un marziano venuto dal Nulla. Via, allora, alle divagazioni, alle masturbazioni mentali a iosa in alternativa al droit d’inventaire, diritto all’inventario, che l’onestà intellettuale e morale richiede: ossia il fallimento culturale e politico di un progetto, l’indefinito e immaginario partito democratico, come evidenziò l’eretico Bruno Trentin in un’intervista all’Unità (8 giugno 2006) in cui sosteneva vorrei morire socialista, una parola però aborrita dall’ibrida alleanza. In questo declino culturale e politico, di cui si sono appositamente trascurati i segnali premonitori nell’illusione che quel 40% alle Europee del 2014 fosse reale e non dopato, sono stati rinverditi i vecchi arnesi del mestiere: costruire il nemico di turno e aprire il fuoco amico per procedere alla scomposizione dell’atomo, un gioco non più di moda per carpire la buonafede degli elettori. E quale migliore argomento se non rispolverare il mito della Costituzione più bella del mondo, lasciando come sempre per strada un piccolo particolare: se è vero che l’impianto istituzionale messo in piedi dall’accordo tripartito – democristiani, comunisti, socialisti – era [è] dotato, come gli art.1 e 3, di principi nobilissimi, manca per il modello scelto, la Repubblica parlamentare, degli strumenti idonei alla loro attuazione. Lo dimostra chiarissimamente l’anomalia tutta italiana, spesso sollevata ma mai risolta: siamo l’unico paese europeo a non aver mai sperimetato l’alternativa di governo tra schieramenti opposti: tra laburisti e conservatori, come in Inghilterra, tra sinistra e destra, come in Germania, ma ha avuto sempre la Democrizia Cristiana come partito inamovibile di centro, che si è servita a seconda delle convenienze dei partiti di sinistra, ora il Psi, ora il Pci, o dei partiti intermedi, Psdi, Pri, Pli. Da qui, forse, bisognerebbe ripartire: da una seria e approfondita analisi del perchè si è arrivati al disastro culturale e politico di oggi: guardare al successo strepitoso di Jeremy Corbyn in Inghilterra, di Bernie Sanders negli Usa o di Antonio Costa in Portogallo serve solo se coerentemente si avvia un percorso senza rete di ricerca culturale e poi politico che non può non partire dalla chiara  separazione da ogni tentazione catto-comunista, per non restar senza popolo e prigionieri di un fascismo di ritorno con cui i conti purtroppo sono ancora aperti. Fonte: alganews.it

SOCIALISMO E ASPETTI DELL’EMIGRAZIONE PUGLIESE

Il fenomeno dell’emigrazione pugliese assunse i caratteri di un vero e proprio fiume in piena tra la fine dell’Ottocento ed il primo Novecento. Mete privilegiate dell’ondata migratoria furono prima gli Stati dell’America del Sud, poi il Canada e gli Stati Uniti. Nei primi quindici anni del XX secolo sbarcarono sulla costa atlantica dell’America del Nord, in gran parte ad Ellis Island, circa tre milioni e mezzo di italiani. Di questa imponente cifra circa l’80% proveniva dalle regioni meridionali, tra cui la Puglia. Si trattava in parte di immigrati temporanei in maggioranza giovani di origine contadina, ma anche di operai e artigiani, che dopo qualche anno ritornavano in Italia. Per decine di migliaia di lavoratori dell’intera regione, che agli inizi del ‘900 approdarono sulle coste del Nuovo Mondo, l’America significava ricerca di una nuova vita, liberazione e realizzazione di un sogno. La spinta all’esodo scaturiva dalla dure condizioni di vita nelle campagne e nelle città e da una diffusa condizione di impoverimento dei ceti popolari che dette luogo ad una protesta sociale senza precedenti, definita in Parlamento “la protesta dello stomaco”, e da una inaudita repressione politica, che un quotidiano d’opposizione come l’Avanti! presentò con i titoli, “Puglia affamata, Puglia insanguinata”. Eccidi proletari nei primi anni del ‘900 costellarono diverse località dell’intera regione. Il culmine dell’intervento repressivo del governo in Puglia si verificò nel 1914, durante la Settimana Rossa, con l’occupazione dell’esercito di diversi centri dell’Alta Murgia e di Andria. Gli scontri più duri si registrarono ancora una volta a Bari, capoluogo pugliese, dove si contarono alcune vittime tra gli scioperanti e diverse decine di arresti. All’origine della scelta migratoria, strettamente connessa alla crisi economia che dal 1907 al 1913 investì tutta la Puglia, non è estranea dunque anche la costrizione politica. In tale contesto, l’esponente socialista Ettore Cicciotti affermò: “L’emigrazione funziona nel Mezzogiorno, in mancanza di salda organizzazione, come uno sciopero immenso, colossale. L’America, anzi, è l’Aventino di quei lavoratori”. La spinta all’emigrazione di contadini, operai ed artigiani, in cerca di condizioni di vita migliori, s’intrecciò con le esigenze libertarie di molti lavoratori. L’attrazione per gli Stati Uniti accomunò le vicende dell’emigrazione economica a quelle dell’espatrio politico di militanti socialisti, anarchici e repubblicani, e di semplici lavoratori la cui attività era oggetto di una dura repressione soprattutto nelle diverse realtà della Puglia. In questo contesto si collocano le diverse storie di molti emigrati politici  sin dai primi anni del ‘900 tra cui Leone Mucci, figura rilevante del movimento socialista della provincia di Foggia che emigrò negli Stati Uniti nel 1908 svolgendo una intensa attività politica nel partito socialista americano sino al suo rientro in  Puglia alla vigilia del primo conflitto mondiale. Da Torremaggiore  intraprese il viaggio verso gli Stati Uniti nel 1908 un giovane figlio di contadini Nicola Sacco che nel corso del primo conflitto mondiale, abbracciò le idee anarchiche anche sulla spinta di atteggiamenti repressivi e razzisti della società americana . In quello stesso anno Paolo Perrini ed Elvira Catello decisero di trasferirsi da Locorotondo a New York in cerca di una nuova prospettiva di vita e di lavoro e sulla spinta di una forte motivazione politico-ideologica perché si erano “schierati contro le istituzioni (la Chiesa ed il Governo) assumendo una posizione anticonformista e anarchica”.   Essi riuscirono a mettere su, nel cuore della metropoli americana, una Libreria-tipografia, dal nome emblematico “Lux”, che in poco tempo costituì il punto di riferimento di socialisti, anarchici ed antifascisti italiani. Più complesso e con esiti drammatici, come analizzeremo in seguito appare il percorso politico di Giuseppe Sacco, trasferitosi negli stessi anni dell’emigrazione della famiglia Catello Perrini, prima in Brasile e Canada ed infine stabilitosi definitivamente a Buffalo nello Stato di New York dopo aver contratto matrimonio nella sua città natale, Modugno alle porte di Bari. Una seconda fase dell’emigrazione politica è connessa all’avvento del fascismo ed al clima di violenza che caratterizzò l’intera regione dopo il primo conflitto mondiale Il momento più alto dello scontro di classe e di tensione politica si verificò a Conversano nel maggio-settembre dell’anno successivo, all’indomani delle elezioni politiche del maggio 1921, che si svolsero in un clima di violenze diffuse da parte fascisti. Questi ultimi decisero di eliminare il deputato socialista Giuseppe Di Vagno, considerato uno dei più forti organizzatori delle “forze proletarie in Puglia”. L’azione delittuosa da parte delle squadre fasciste di Conversano e di Cerignola, quest’ultimo feudo politico di Giuseppe Caradonna, fallì il 30 maggio del 1921, provocando comunque un morto e diversi feriti tra i socialisti. Tre mesi dopo alla fine di un comizio l’on. Di Vagno, assalito da una squadra di giovani fascisti della sua città natale, Conversano, fu colpito a morte. Tra il 1921 ed il 1922 il clima politico-sociale pugliese apparve sempre più invaso dalla violenza che raggiunse il suo picco a Bari nell’agosto del 1922 con l’assalto alla Camere del lavoro, difesa sino all’ultimo da Giuseppe Di Vittorio, futuro leader sostenuto dall’intera popolazione del borgo antico. L’avvento del fascismo dette luogo dunque ad un esodo di militanti politici dei partiti di sinistra e del sindacato che senza soluzione di continuità raggiunse la sua punta più alta all’indomani del delitto Matteotti e delle leggi speciali del 1926. In questa fase l’emigrazione politica s’indirizzò verso alcuni paesi Europei, soprattutto Francia, Svizzera e Belgio, tuttavia alcuni militanti politici e sindacali, riuscirono a stabilirsi negli Stati Uniti nonostante le restrizioni introdotte nel corso del primo conflitto mondiale. “L’emigrazione – come ha sostenuto Giovanni De Luna-  è la storia di una sconfitta. L’esilio fu infatti la sanzione esistenziale di una sconfitta politica e di una scelta obbligata e traumatica”. Tuttavia negli anni Venti e Trenta la condizione degli emigrati politici italiani peggiorò, anche per gli effetti della grande crisi economica del 1929 che provocò il crollo delle borse di tutto il mondo. Molti esponenti socialisti, comunisti ed anarchici, attivi nelle manifestazioni in diverse città degli Stati Uniti, furono denunciati e corsero il rischio del rimpatrio nell’ Italia di Mussolini. Prof. Vito Antonio Leuzzi