CAMILLO PRAMPOLINI

Camillo Prampolini nacque a Reggio Emilia il 27 aprile 1859, di famiglia abbastanza agiata e molto civile. Il padre era impiegato municipale; la madre veniva da una casata facoltosa. Più alto del livello economico era quello morale e intellettuale. Gente di principi rigidamente conservatori, ma per convinzione e non per interesse; fervidamente patrioti… Pur vivendo in una famiglia molto religiosa (nota di L.B.), a circa 13 anni già dubitava delle verità religiose. Col crescere della ragione, gli calava la fede, continuando però nelle pratiche di culto, per non dar dolore ai suoi e per non urtarsi con loro… A 17 anni, in politica non aveva ancora idee definite, ma piuttosto dei sentimenti o delle abitudini mentali, seguiva le tradizioni famigliari, era monarchico e conservatore per forza d’inerzia…Questa la posizione dello spirito suo quando, giovine di 18 anni, va all’Università di Roma, nella qual città aveva parenti presso i quali viveva ospite, di principi religiosi e conservatori rigidissimi… Si preparava in lui, senza che egli l’avvertisse, una elaborazione interiore. Quella concezione così assoluta, così statica della società, che gli era apparsa sino ad allora perfetta, ordinata in modo definitivo, come un edificio millenario posto su incrollabili colonne, si scuote. Ha una conoscenza, da principio assai vaga, delle idee di Darwin.… Ciò che lo aveva colpito come una rivelazione che avea scosso irreparabilmente la sua fede conservatrice, era stata, nel 1879, una proposizione, enunciata dal Filimusi-Guelfi, che il diritto di proprietà escludeva il diritto al lavoro. Ciò significava dunque, che chi non possedeva, poteva anche esser destinato a morir di fame! E questo era l’ “ordine” nel quale egli fino ad allora aveva così ciecamente creduto? Tale il primo germe, messogli nell’animo, che maturerà poco più tardi. Frattanto, a Bologna, durante il terzo corso di università, fa il servizio militare come volontario d’un anno in fanteria. Fisicamente quella vita gli piaceva e gli giovava; disciplinarmente, la sopportava con uno spirito in cui già albeggiavano concetti di collettività, ed eran già saldi dei principi egualitari, e d’antiprivilegio….Non ebbe mai una punizione, e alternava alle occupazioni militari letture febbrili di libri nuovi a quei tempi, come i romanzi di Zolà, e di libri vecchi…come la Bibbia, che(cosa da notare) lo interessava moltissimo….Ma la passione allo studio, o almeno la curiosità che lo spinge alla ricerca e alla lettura di libri di scienze sociali, si acuisce nel quarto anno di università, in quell’ambiente di Bologna di allora, dove il Sergi insegnava sociologia (e Prampolini era uno dei pochi frequentatori del corso) e Enrico ferri, giovanissimo docente, divulgava Lombroso e Ardigò….Giunto il tempo di fare la tesi di laurea, egli si sente maturato nella mente un insieme di concetti attorno al punto a lui fondamentale, rimastogli come in chiodo fisso nella testa: la teoria del diritto di proprietà che nega il diritto al lavoro, udita all’Università di Roma dal Filomusi-Guelfi. Su di essa la sua mente, la sua anima aveva meditato e lavorato in quegli anni di “incubazione socialista”. Quella teoria, svolta dal Filomusi, era quella dei filosofi ed economisti borghesi. Il diritto al lavoro non esiste, perché negherebbe, se ammesso, il diritto di proprietà. Questo diritto di proprietà è un vero jus utendi et abutendi,. Se il proprietario avesse l’obbligo di dar lavoro , non sarebbe più proprietario. E’ quel che il Beccaria chiamò “terribile e forse non necessario diritto”. Generalmente i conservatori non hanno coscienza della terribilità di questo diritto e della sua ingiustizia; o anche se l’hanno, affermano la necessità di esso, per la esistenza dell’ordine sociale. Ma è chiaro che questo iniquo “diritto” fondamentale è quello da cui sgorgano tutte le altre iniquità. Dunque, bisogna abolire la proprietà privata! Il sillogismo dei conservatori era questo: “il diritto di proprietà è la base della società civile. Senza di esso non vi è società possibile, non vi è ordine”. Ma ammettere il diritto al lavoro significherebbe negare il diritto di proprietà: dunque il diritto al lavoro non è ammissibile; non esiste, né potrà esistere mai”. Il sillogismo del giovine – che già da tempo andava sviluppandosi in lui, e che sarà il nucleo della sua tesi di laurea – procede in senso inverso. “Poiché negar il diritto al lavoro significa negare il diritto alla vita pei non possidenti, ciò repugna a quel sentimento della giustizia che ebbe le sue maggiori manifestazioni nel movimento e nei principii del Cristianesimo, e in quelli della Rivoluzione francese, e che diventa sempre più vivo e diffuso nella coscienza dei popoli moderni. Dunque il diritto di proprietà è inumano ed iniquo, contrasta con gli interessi e con la volontà delle masse, e perciò deve fatalmente cadere”. A questo punto si fa strada nel suo pensiero il concetto spenceriano della società come organismo. Nessuna forma di società può reggersi, se tra il suo assetto generale, e la forma dei vari elementi che la compongono, non vi è una corrispondenza e una reciproca armonia… E’ in questo momento che la febbre della nuova fede, che era stata in incubazione per circa due anni, divampa. Egli ne è invaso e inebriato, e come trasformato. Per preparare la sua tesi di laurea, ricercò le opere degli economisti borghesi più in voga, e particolarmente degli scrittori che verso la metà dell’Ottocento erano scesi in campo contro il diritto al lavoro, al tempo del famoso esperimento degli ateliers nationaux in Francia. Essi sostenevano, e dimostravano, che ammettere tale diritto equivaleva a negare il diritto di proprietà. Ed era vero! Ma – ecco il bivio al quale la sua coscienza giovanile si trovò e si decise – egli scelse senza esitare, fra i due diritti: e optò per il lavoro. La sua tesi di laurea (1881) fu – com’egli lo definisce – un centone di più che 100 fitte pagine di protocollo, in cui cominciando… da Adamo, sosteneva che nessun assetto sociale può esistere quando urta violentemente contro il “senso di giustizia” dei suoi componenti: onde la società moderna perdeva la sua ragion d’essere ed era fatalmente destinata a tramontare, precisamente perché fondandosi sulla proprietà …

ANTONIO GREPPI

In Antonio Greppi il suo socialismo cristiano metteva doppiamente l’uomo al centro delle sue attenzioni e delle sue cure. Mi riferisco al socialismo inteso come aiuto ai meno abbienti e come emancipazione dei lavoratori per l’affermazione dei loro diritti – come conquista di una società più libera e più giusta attraverso la formazione e l’educazione del popolo alle idee socialiste con la democrazia, senza violenza e senza prevaricazioni – come fiducia nella libertà accompagnata dalla tolleranza verso chi sbaglia. Questi sono i principi che ispirano Antonio Greppi e lo orientano verso l’impegno politico e sociale e anche in quello professionale. Dopo gli studi egli, già con l’animo socialista, si era avvicinato a Filippo Turati, ad Anna Kuliscioff, a Claudio Treves, a Giacomo Matteotti, stimolato anche dagli insegnamenti liceali del professor Ugo Guido Mondolfo che a quei maestri era molto legato. Nella direzione del Partito socialista unitario di Matteotti, Greppi era rappresentante dei giovani e collaboratore degli organi di stampa socialisti. Nel 1923 viene nominato direttore de ‘La libertà‘, settimanale della gioventù del PSU, con una redazione della quale fa parte tra gli altri Giuseppe Faravelli che sarà uno dei ‘leader’ del centro socialista interno (clandestino) organizzazione antifascista e, nel secondo dopoguerra, direttore della Critica Sociale dopo Ugo Guido Mondolfo. Come scriverà sulla ‘Critica Sociale’ nel 1946 (‘Il socialismo alla conquista dell’uomo‘) il fine dell’umanità può essere ritrovato solo nella …”realtà di ogni singola creatura, unità pensante, cosciente, sensibile … e la missione del socialismo …” si trova dove è presente l’uomo con le sue elementari aspirazioni, i suoi scrupoli morali, la sua ansia di sapere e il suo anelito alla verità. E questa, aggiunge, “… è l’incantevole magia del socialismo …” dove il proletariato è Tantalo che deve essere liberato dai suoi ceppi. Il socialismo, nella sua azione di stimolo e di sviluppo delle capacità intellettive e morali delle masse popolari, “… crea le condizioni e le premesse più favorevoli alla rivelazione religiosa …”. È il punto di incontro tra il socialismo umanitario e il cristianesimo, secondo la visione di Greppi. Anche sotto il profilo professionale, sull’esempio dell’avvocato socialista Enrico Gonzales, vuole fare l’avvocato ‘dei poveri’ e presta la sua collaborazione all’ufficio legale per i poveri dell’Umanitaria. Il suo antifascismo ‘non violento’ lo porta a lavorare nel 1928 con Faravelli, Fernando Santi e altri alla ricostruzione a Milano del Partito socialista e a dirigere nel 1937, sempre in clandestinità, nel capoluogo lombardo, il fronte interno socialista dopo l’arresto di Rodolfo Morandi. Di lì a poco (1938) anch’egli finisce nelle maglie della polizia fascista e poi di fronte al Tribunale Speciale dove si salva per una efficace difesa in cui dà prova di non avere commesso alcun reato (gli addebitavano gli omicidi attribuiti agli antifascisti italiani e l’organizzazione di un attentato a Hitler) e dimostrando il suo passato patriottico nella prima guerra mondiale. Viene arrestato di nuovo nel 1940 e inserito nell’elenco di coloro che sono destinati ai campi di internamento. Ciò lo costringe a espatriare in Svizzera dove si ritrova, tra gli altri, con Faravelli, Emanuele Modigliani, Mondolfo, Morandi, Ignazio Silone, Ezio Vigorelli. Nel 1944 viene ucciso in un’imboscata il figlio Mariolino Greppi militante nella lotta antifascista. È un brutto colpo al cuore di Antonio che chiede di partecipare alla lotta partigiana, nella quale entra in Val d’Ossola nel gennaio 1945, dopo essere già stato indicato dal CLNAI come sindaco di Milano dopo la Liberazione. La sua candidatura è stata caldeggiata, oltreché dai socialisti, da Alfredo Pizzoni (di formazione liberale, ma senza tessere di partito) presidente del CLNAI (e poi del Credito Italiano) galantuomo che conosceva Greppi e lo considerava uomo capace di stare al di sopra delle contrapposizioni strumentali pure esistenti tra le forze politiche del Comitato di Liberazione. Il Sindaco della Liberazione dopo avere assunto l’incarico il 27 aprile lancia un appello perché cessino le uccisioni per vendetta che si registrano alla fine della guerra civile e organizza una squadra di vigili (sapendo che gli appelli non bastano) per prevenire queste forme di giustizia sommaria e individuale. Poi parte il grande lavoro di ricostruzione morale e materiale della città nel quale l’avvocato ‘dei poveri’ ha una parte determinante. Ci sono un milione e mezzo di metri cubi di macerie da rimuovere (nasce la ‘montagnetta’ di S. Siro). I locali sinistrati sono 450.000, quelli completamente distrutti sono 160.000. (…). Greppi interviene a favore dei senza tetto chiedendo a chi ha la possibilità di ospitare di farlo transitoriamente, vincendo gli egoismi. Provvede all’alimentazione della popolazione anche attraverso mense collettive e ristoranti del popolo; rimette in sesto i servizi di assistenza sociale e sanitaria del Comune; fa partire la ricostruzione delle scuole; fa fronte al drammatico problema degli alloggi; procura i combustibili necessari alla cittadinanza e ripristina l’illuminazione pubblica; affida a Mario Borsa il fondo per l’acquisto della penicillina e poco dopo provvede per la streptomicina. Accanto a questo, sia pure con le immaginabili difficoltà, fa riaprire, dove possibile, musei e biblioteche e fa proseguire alacremente i lavori al cantiere della Scala, iniziati poco dopo il bombardamento del 1943. Sono avviati gli studi per il Piano Regolatore. Dopo un anno dalla formazione della giunta CLN il sindaco Greppi viene premiato dai milanesi con un risultato elettorale straordinario che fa del Partito socialista, con il 36% dei voti, il primo partito. Il Piano Regolatore adottato nel 1948 e definitivamente approvato nel 1953, sia pure condizionato dalla necessità di rispettare le convenzioni contratte con i privati prima della guerra, è un risultato importante per dare regole allo sviluppo urbano. Si dà vita, tra l’altro, al quartiere Ottava Triennale, QT8, che giustifica la ripresa, in tempi di difficoltà economiche, dell’attività dell’ente dedicato alle arti decorative e industriali, e diventa il simbolo della possibile simbiosi tra cultura e finalità sociali. L’edificazione del quartiere sperimentale, su idea dell’architetto Piero Bottoni, iniziata nell’autunno del 1946, è il riferimento centrale dell’esposizione al Palazzo dell’Arte che si svolge nell’estate del 1947 e dove il tema della casa – visto in tutti i suoi aspetti, dall’arredo, agli oggetti, al …

ANGELO FILIPPETTI

Nato nel 1866 ad Arona da Cesare e Giulietta Pisoni. Proveniente da una agiata famiglia, si laurea in medicina a Milano e prende ad esercitarvi la professione, risiedendovi dal 1892 fino alla morte. Sposato con Vittoria Usnelli. Sua figlia Giulia sposerà poi Dino Gentili, che nel secondo dopoguerra militerà prima nel Partito d’Azione e poi nel Psi. Ancor studente organizza il Nucleo socialista di Arona ed in seguito, assieme a Silvio Cattaneo e Dino Rondani, il Circolo socialista “Fate largo alla povera gente” di Porta Genova, Porta Ticinese e Porta Ludovica. Presente al ii (1893) Congresso del Psi, durante la repressione crispina sconta una condanna a due mesi di confino. Candidato alle elezioni politiche nel 1895 non riesce eletto, come anche in quelle del 1897, 1900 e 1909. Nel 1899 viene invece eletto nel consiglio comunale di Arona e, con la lista del Blocco popolare, anche in quello di Milano, dove poi è riconfermato sino al 1914. Nel 1903-1904 viene chiamato a far parte della giunta, presieduta da Giovanni Battista Barinetti, come assessore alla beneficenza. Promotore dell’Università popolare (1901) e membro del suo primo consiglio direttivo, entra a far parte anche di quello della Società umanitaria. Nel 1907 dà vita assieme ad altri alla Lega popolare milanese contro l’alcolismo, nel 1912 viene eletto presidente del neo costituito Ordine dei medici della provincia di Milano e dal 1913 al 1920 è presidente della Federazione esperantista italiana. Schierato su posizioni riformiste, dopo la conquista della maggioranza (giugno 1914) del consiglio comunale di Milano diviene assessore anziano nella giunta guidata da Emilio Caldara. Con lo scoppio della prima guerra mondiale passa a posizioni massimaliste e dopo essere stato denunciato nel 1916 per aver gridato frasi “antipatriottiche” durante una manifestazione, nell’agosto 1917 è costretto a dimettersi dalla presidenza dell’Ordine dei medici per il suo irriducibile neutralismo. Dopo la disfatta di Caporetto si adopera a mantenere in piedi la giunta Caldara, dilaniata dalle polemiche fra riformisti e intransigenti, ma quando nel giugno 1918, alla vigilia dell’offensiva austriaca, Turati rivolge un appello alla resistenza e alla concordia nazionale, presenta un ordine del giorno della sezione milanese reclamante l’espulsione del leader riformista. Nel 1919 è tra i promotori della Lega dei medici socialisti, che dal luglio 1920 al marzo 1922 pubblica il quindicinale Sanità proletaria, di cui è direttore. Con le elezioni del novembre 1920 diviene sindaco di Milano. La giunta, composta da intransigenti e riformisti, e ben presto attanagliata da difficoltà finanziarie, rimane però in carica sino all’occupazione di palazzo Marino da parte delle squadre fasciste nell’agosto 1922. Dopo essere stato ancora presente fra le file dei “rivoluzionari intransigenti” al xvii e al xviii Congresso del Psi, svoltisi a Milano nel gennaio e nell’ottobre 1921, con l’avvento della dittatura scompare dalla scena pubblica. Mantenutosi fedele alle sue idee, si ritira dalla vita politica a parte, dal 1927, una sua collaborazione alle iniziative culturali dell’Associazione Nazionale Studi “Problemi del lavoro”. Fonte: Archivio Biografico Movimento Operaio

EMILIO CALDARA

“Barbarossa a Palazzo Marino”. Tale fu il grido d’allarme del Corriere della Sera per la vittoria dei socialisti alle elezioni amministrative del giugno 1914. Novant’anni fa, infatti, grazie alla legge maggioritaria vigente per le elezioni locali, la lista socialista guidata da Filippo Turati otteneva 64 degli 80 seggi del Consiglio comunale milanese. Gli altri sedici andarono ai cosiddetti “costituzionalisti”: i liberali e i conservatori. La candidatura, dapprima, fu offerta a Luigi Majno, anziano e autorevole avvocato socialista, il quale, tuttavia, non accettò. Allora, venne proposto Emilio Caldara, avvocato, esperto nelle questioni amministrative, consigliere comunale già nel 1899, fondatore e segretario dell’Associazione dei comuni. La vittoria socialista appariva possibile, dopo il successo che a Milano il Psi aveva riportato alle politiche del ’13. Ma nella campagna elettorale, lo scontro fu duro. Le parole pesanti del Corriere della Sera: “Non si amministrerà per tutti, ma soltanto per il proletariato rigorosamente socialista.” In compenso, Benito Mussolini, ancora direttore dell’Avanti! Proponeva di condannare il Re all’ostracismo dal Comune di Milano: “Si sappia che se S.M. Vittorio Emanuele avesse idea di venire a Milano, troverà il portone di Palazzo Marino solidamente sprangato.” Come ovvio, l’idea mussoliniana fu utilizzata dai conservatori per dipingere i socialisti come faziosi. Emilio Caldara era un profondo conoscitore delle nonne e dei meccanismi comunali e aveva contribuito, con Filippo Turati, Ugo Guido Mondolfo, Alessandro Schiavi, Luigi Veratti, Paolo Pini, a elaborare un programma che venne accolto senza suscitare critiche anche dalla parte massimalista del Psi, notoriamente più preoccupata nel preparare la rivoluzione che nell’amministrare un comune. Gli obbiettivi più rilevanti erano la politica sociale e il rilancio delle opere pubbliche. Per i socialisti, il Comune doveva garantire sussidi ai disoccupati, ma contemporaneamente procurare ps5ti di lavoro. Doveva calmierare i prezzi dei generi di prima necessità e promuovere l’edilizia popolare. Doveva rendere equa l’imposizione tributaria, con l’imposta sulla proprietà “che dalle opere del Comune ha avuto maggiori vantaggi”. Non erano dimenticate le “municipalizzazioni”: già attuata quella dell’energia elettrica, veniva auspicata quella del gas, che però non si fece, e quella dei trasporti pubblici, che si attuò nel 1916. Infine, la beneficenza doveva trasformarsi in assistenza sociale. Durante la guerra, la solidarietà. Il programma dovette subire tuttavia dei cambiamenti, perché alle porte c’era la partecipazione italiana alla guerra. Il Psi, com’è noto, era contro l’ingresso in guerra e Caldara non faceva eccezione. Quando Mussolini, che era stato eletto consigliere comunale, scrisse il suo articolo per la “neutralità attiva” a favore dell’intesa anglo-franco-russa, contro l’Austria e la Germania, si apri un periodo di profonde fratture nella società italiana e all’interno dello stesso Partito. I socialisti della corrente “turatiana” rimasero fedeli alla neutralità, ma non nascosero la loro disponibilità per la difesa dei confini della Patria. Caldara intervenne, nel novembre 1914, per attenuare i provvedimenti disciplinari della direzione del Psi contro Mussolini, che fu espulso e, di lì a poco, diede vita al Popolo d’Italia, ma non si discostò dal neutralismo. Milano divenne l’epicentro delle manifestazioni interventiste, che presero di mira anche il sindaco e la giunta, senza arrivare a particolari forme di violenza. La politica del primo cittadino socialista e della sua amministrazione, dopo l’entrata in guerra, sul piano dell’assistenza fu poi sufficiente da far mutare l’atteggiamento del Corriere e di una parte dell’opposizione. Per esempio, dell’ex sindaco Ettore Ponti. Gli aiuti ai profughi, che arrivavano a Milano, e alle forze armate, furono organizzati da un Comitato di assistenza, che aveva il compito di dare destinazione ai fondi raccolti. Una grande sottoscrizione per i programmi di sistema civile ebbe un successo imprevisto. L’Ufficio per l’assistenza economica, cosiddetto ”Ufficio l”, alle famiglie dei militari era presieduto dal Sindaco stesso. Un altro ufficio (l’”Ufficio II”) per i bambini bisognosi, vide la partecipazione di un gran numero di volontarie e volontari e l’intervento della Società Umanitaria. L ‘”Ufficio III”, per il “collocamento e soccorso dei disoccupati residenti da un anno e ricovero e sussidio a profughi e rimpatriati”, continuò in altra forma l’attività dell’ufficio municipale del lavoro, che era. stato uno dei primi atti della Giunta Caldara, utilizzando la collaborazione di industriali e commercianti, più disponibili di qualche tempo prima nel clima di solidarietà esistente durante la guerra. Vennero create altre sezioni: quella che tutelava gli interessi economici e personali dei militari, con supporto legale gratuito, assistenza morale ai feriti e convalescenti (Addio alle armi di Ernesto Hemingway!); assistenza sanitaria e aiuti ai militari al fronte; assistenza straordinaria ai danneggiati dalla guerra, tra cui i ciechi e gli orfani. Fu un ‘esperienza eccezionale che mise in luce le qualità amministrative, umane e politiche di Caldara e le capacità dei suoi collaboratori (“quasi tutti sconosciuti” al momento dell’elezione) e “incisività del socialismo riformista che si procurò l’apprezzamento di una parte degli avversari e la stima della borghesia produttiva. Dopo la rotta di Caporetto la Giunta diffuse un manifesto, che senza tradire il neutralismo, si schierava a difesa della patria nel momento difficile: “Se è vero che l’invasore conta sullo scoramento del popolo nostro, voi, cittadini della città generosa, in cui più si urtano i contrasti ideali, mostrate che esso ha fatto un calcolo sbagliato, e date esempio ai fratelli d’Italia di calma, di fiducia perché più facilmente il nemico sia ricacciato, più presto rifulga la pace e la giustizia imperi sui popoli.” L’appello venne accolto favorevolmente da tutte le forze politiche cittadine, con l’eccezione dei “rivoluzionari” della sezione milanese del Psi. L’amministrazione socialista non si limitò all’assistenza Se il clima particolare della guerra consentì al “socialismo municipale” di mettere in luce le capacità dei suoi uomini sul terreno della assistenza e di ottenere l’apprezzamento e l’appoggio da settori dell’oppo5izione e dell’establishment, cittadino, l’azione della Giunta Caldara non si fermò a questi risultati. Venne data vita all’ Azienda consorziale dei consumi per “togliere alla speculazione il rifornimento dei generi alimentari di più ampio consumo” (latte, pane, olio, scarpe, vestiti, legna, carbone ecc.) che fu molto gradita dai cittadini di tutte le tendenze, malgrado l’ostilità di una parte degli esercenti. Attuò la municipalizzazione dei tram, approfittando della scadenza, nel …

ANTONIO LABRIOLA

Antonio Labriola fu tra i fondadotori del PSI. Filosofo e uomo politico italiano (Cassino 1843 – Roma 1904). Tra i massimi studiosi italiani del marxismo, dopo aver iniziato lo studio sistematico dei testi di K. Marx e F. Engels, s’impegnò in un’opera di divulgazione che risultò in realtà una elaborazione originale: egli polemizzò contro le interpretazioni positivistiche e deterministiche e contro la riduzione del marxismo a una filosofia della storia (Del materialismo storico: dilucidazione preliminare, 1896). Il suo insegnamento ha lasciato una traccia profonda nella cultura italiana anche per l’influenza esercitata, con diversi esiti, su Croce e su Gramsci. Vita, opere e pensieroSi formò a Napoli alla scuola hegeliana che ivi fiorì intorno alla metà del 19º sec.: suoi maestri furono F. De Sanctis, A. Tari, A. Vera e soprattutto B. Spaventa. Già negli anni napoletani pubblicò alcuni saggi di notevole pregio, fra cui è da ricordare una monografia su Socrate (1869). Dal 1873 fu professore di filosofia morale e di pedagogia all’università di Roma. In questo periodo fu politicamente vicino alla Destra, ma ben presto (1875-76) se ne venne distaccando, per iniziare una critica penetrante del mondo culturale italiano, che lo avvicinava ai gruppi di opposizione radicali e socialisti. Nel 1890, entrato in corrispondenza con F. Engels (Lettere ad Engels, pubblicate la prima volta tra il 1924 e il 1929), iniziò lo studio sistematico dei testi di Marx e di Engels. Si staccò allora decisamente dai gruppi radicali, per dedicarsi alla formazione di un partito dei lavoratori; per quanto poi, quando il partito sorse (1892), egli ne restò formalmente fuori per serî dissensi con F. Turati e con gli altri esponenti del socialismo italiano. L. s’impegnò in un’opera di divulgazione del marxismo, opera che risultò in realtà una elaborazione originale (In memoria del Manifesto dei comunisti, 1895; il già citato La concezione materialistica della storia: dilucidazione preliminare; Discorrendo di socialismo e di filosofia, 1897), che lo pose come il primo e certamente uno tra i maggiori studiosi del marxismo in Italia. La sua polemica si svolse su due fronti: contro le revisioni e le volgarizzazioni deterministiche e positivistiche del marxismo, ne affermò il significato integralmente storicistico e antimetafisico; contro i fautori della “crisi” e del “superamento” del marxismo in nome delle nuove teoriche volontaristiche, pragmatistiche e idealistiche, egli attribuì al materialismo storico carattere non di semplice “canone per la interpretazione della storia”, ma di integrale concezione del mondo. fonteweb

SEBASTIANO BONOFIGLIO

Sebastiano Bonfiglio nacque il 23 settembre del 1879 a San Marco Valderice, figlio di Nicolò Bonfiglio e Francesca Tosto. Il padre lo avviò subito al lavoro artigiano. Bonfiglio da giovanissimo partecipò con il padre al movimento socialista dei fasci dei lavoratori, avviando così la sua opposizione alla politica e al potere esercitato dal clero e dalla borghesia del Comune capoluogo Monte San Giuliano, vasto comune del trapanese. Bonfiglio rappresentò per molti l’esempio dell’artigiano contadino che attraverso lo studio arriva a superare le barriere dell’analfabetismo e a conquistare una certa conoscenza tecnica e politico-sindacale dei problemi agrari e delle maestranze artigiane. Nel 1901 si svolse nella zona un compatto sciopero agricolo che obbligò la famiglia latifondista dei Fontana a scendere a patti con i socialisti che organizzavano il movimento contadino. La partecipazione di Bonfiglio allo sciopero agricolo del 1901, segnò l’inizio della sua attività di dirigente e nel 1902 assunse la guida della federazione provinciale del Psi di Trapani e nel 1903 del giornale “La voce dei socialisti”. Nel 1904 Bonfiglio lasciò improvvisamente la Sicilia e si trasferì a Milano, dove trovò lavoro nella fabbrica di mobili Stigler. A Milano, prese contatti con sindacalisti ed esponenti del Psi (Lazzari, Turati, e altri). Ritornò in Sicilia nel 1906, ma dopo poco tempo, accogliendo l’invito di suoi parenti, si recò negli Stati Uniti d’America. Bonfiglio, assieme ad altri compagni, organizzò la sezione socialista di Brooklyn e una cooperativa di consumo (1909). Nel 1911 venne chiamato a dirigere il giornale “La voce dei socialisti” di Chicago. Tornato in Sicilia nel 1913, Bonfiglio condannò la scissione riformista (Bissolati) nel Psi e venne incluso nel Comitato promotore per il rafforzamento del partito in Sicilia. Sempre nel 1913, guidò lo sciopero dei contadini. Venne arrestato e condannato a cinque mesi di reclusione. Uscito dal carcere nel 1914 si schierò decisamente contro i fautori della guerra. Durante il primo conflitto mondiale Bonfiglio fu arruolato nel Corpo sanitario ma, a causa delle sue idee sovversive, venne trasferito a Cirene (in Libia), dove dette un segno tangibile della sua solidarietà internazionalista e anticolonialista, aprendo una scuola per bambini arabi. A guerra finita, ripresa la sua attività politico-sindacale fra i contadini e la guida del Psi nel trapanese. Seguace della linea massimalista (Serrati-Baratono) al Congresso nazionale di Livorno del 1921, venne nominato membro della Direzione del Psi. Il 3 ottobre 1920 i socialisti vinsero clamorosamente e in maniera schiacciante le elezioni amministrative del Comune di Monte San Giuliano (oggi diviso nei Comuni di Erice e Valderice), Sebastiano Bonfiglio venne quindi eletto sindaco. Ma il 10 giugno 1922, mentre Bonfiglio tornava a casa da una riunione della Giunta municipale, venne ucciso da un sicario appostato dietro un muretto. La mafia, in difesa degli interessi dei latifondisti ed agrari, era già intervenuta con ferocia, là dove più acuti erano i conflitti agrari: a Salemi, Castelvetrano, Paceco, nell’Agro Ericino, uccidendo amministratori, capilega e dirigenti di cooperative. Alla schiera di questi martiri, il 10 giugno 1922 si aggiunse quello di Sebastiano Bonfiglio, sindaco socialista di Monte San Giuliano. Valderice lo ricorda oggi con un monumento eretto nella frazione natale di San Marco. Fonteweb

ANNA MARIA MOZZONI

La più importante femminista italiana dell’Ottocento nasce nel 1837 da nobile famiglia milanese, e conosce fin da bambina la discriminazione riservata alle donne: per mantenere agli studi i fratelli, la famiglia, pur risorgimentale e antiaustriaca, la rinchiude in un collegio femminile di spirito gretto e reazionario. Uscita di collegio, la giovane Anna Maria si forma una cultura attingendo alla biblioteca di casa. Tra queste letture gli illuministi francesi e lombardi, i romanzieri contemporanei, Mazzini, Georges Sand, Fourier. Della sua vita privata si sa poco. Vissuta sino al 1894 tra Milano e il borgo di Rescaldina, ha una figlia, forse naturale forse adottiva, che porta il suo cognome: Bice Mozzoni, e che sarà avvocato. Si sposa solo nel 1886 con un procuratore, molto più giovane di lei, il conte Malatesta Covo Simoni, con il quale nel 1894 si trasferisce a Roma. Muore in questa città il 14 giugno 1920, ormai da tempo appartata dalla lotta politica. L’Avanti!, del 18 giugno le dedica un necrologio che merita di essere riportato: «Alla prima alba di lunedì 14, è morta al Policlinico, in età di anni 83, la signora Anna Maria Mozzoni, vedova Malatesta, che fu a suo tempo, se non la prima, certo una delle più geniali e più amabili assertrici dei diritti e della emancipazione femminile in Italia. […] Invecchiata e ormai fuori dalla vita militante, aderì alla guerra più forse per atavica tradizione della famiglia patriottica fin dai tempi della dominazione austriaca in Lombardia che per convinzione, ma rispettò il contegno dei socialisti coi quali mantenne sempre buoni rapporti di amicizia e di stima. Si è spenta oscuramente, ma le tracce della sua opera di un tempo restano incancellabili nella storia della causa femminile e la sua memoria rimane simpatica ed indelebile nell’animo dei vecchi amici che le sopravvivono». Nel 1881 fonda un’associazione indipendente, collegata al movimento socialista, la Lega promotrice degli interessi femminili e otto anni più tardi, con Filippo Turati, Costantino Lazzari e Anna Kuliscioff – con la quale instaura inizialmente un legame di amicizia destinato a incrinarsi – la Lega socialista Milanese. Collabora alla rivista «Critica Sociale» di Turati. Si orienta verso il socialismo quando comprende che le donne assunte in fabbrica accettano salari bassi perché non sono per niente tutelate e scrive diversi testi sulla necessità di adesione al socialismo. «Che fa la penna in mano a una donna se non serve alla sua causa, come a quella di tutti gli oppressi?» «Voi però della cui intelligenza non posso dubitare vedendovi qui, pensate che le idee sono possenti e fatali, espansive e contagiose – non temete le opposizioni; senza attrito non v’è scintilla, ridete dell’umorismo, non ve ne impressionate; non ne vale la pena – e pensate ad aggiungervi lena, che se noi libiamo la vita in un calice sovente amaro, le nostre figlie e le nostre nipoti, che respireranno in pieno petto l’aura inebriante della divina libertà, benediranno ai generosi conati di chi la preparò per loro.» (Dei diritti delle donne) – Anna Maria Mozzoni Fonteweb  

GIUSEPPE DI VAGNO

Nacque a Conversano (Bari) il 12 apr. 1889 da Leonardo Antonio e da Rosa Rutigliano, in un’agiata famiglia contadina. Dopo aver compiuto con buoni risultati gli studi liceali presso il locale seminario, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Roma, ove subì l’influenza politico-giuridica di Enrico Ferri. Laureatosi nel 1912, dopo aver svolto un breve periodo di attività forense nella capitale, si iscrisse al partito socialista e tornò definitivamente a Conversano, ove promosse le lotte popolari e bracciantili di quegli anni. Nelle elezioni del 1914 fu eletto per la lista socialista al Consiglio provinciale. Interventista su basi democratiche prima dello scoppio della guerra, denunciò successivamente la natura imperialista della stessa. Durante il conflitto, col grado di caporale, fu relegato fra la truppa di stanza in Sardegna a causa delle sue opinioni. Il 10 nov. 1917 venne violentemente attaccato nel Consiglio provinciale per la sua posizione di supposto disfattismo. La violenta polemica ebbe immediata ripercussione in una manifestazione di piazza scatenata contro di lui dai gruppi nazionalisti. Nell’anno successivo incominciò la sua collaborazione ai giornali progressisti L’Oriente, Gazzettino di Puglia e Il Giornale del Sud. Sempre nello stesso anno, per la sua attività politica, venne schedato presso il Casellario politico centrale (8 febbraio). Dopo la guerra riprese a svolgere l’incarico di segretario dell’Ente provinciale di consumo, che aveva cominciato già da prima del conflitto, suscitando però le critiche di alcuni socialisti operaisti che consideravano l’Ente un’istituzione borghese. È di quegli anni, inoltre, la ripresa su vasta scala dei suoi interventi processuali a difesa di braccianti imputati di reati economico-politici in danno dei latifondisti locali. Nel 1919, a causa della sua adesione al programma meridionalista di Gaetano Salvemini, fu escluso dalla lista dei candidati del Partito socialista italiano alle elezioni politiche. Superato il momento d’attrito interno al partito, nell’ottobre del 1920 venne riconfermato come rappresentante socialista nel Consiglio provinciale e, nell’anno successivo, nominato direttore dell’organo della federazione socialista di Bari Puglia rossa. Durante uno sciopero generale, proclamato dalle organizzazioni proletarie di Conversano il 25 febbraio per protestare contro le violenze fasciste, scoppiarono gravi incidenti popolari. Pur non avendo direttamente partecipato agli scontri, Di Vagno fu indicato dai fascisti come l’animatore degli incidenti. La prepotenza fascista, tollerata dalle autorità governative, giunse al punto da metterlo al bando della cittadina. Egli, comunque, continuò la sua azione di organizzatore del movimento socialista nella regione in un clima di continue violenze: i fascisti, l’8 maggio 1921, a pochi giorni dalla consultazione elettorale politica, incendiarono la Camera del lavoro di Conversano. Le elezioni del 15 maggio videro, però, un ampio successo di Di Vagno che venne eletto nella lista socialista nella circoscrizione di Bari e Foggia con ben 74.602 voti preferenziali. A Conversano, però, ne ottenne Solo 22 a causa delle intimidazioni messe in opera dai fascisti locali. Entrato in Parlamento, venne chiamato a svolgere le funzioni di segretario della commissione Giustizia. Il 30 maggio 1921, con l’intenzione di infrangere la proscrizione fascista, andò a tenere un comizio a Conversano. Al termine della manifestazione una squadra di fascisti provenienti da Cerignola organizzò un attentato. Invece di Di Vagno, nell’agguato rimase però ucciso un altro militante socialista, Cosimo Conte, e vennero feriti nove contadini. Durante gli scontri trovò la morte anche il fascista Ernesto Ingravalle. Tentativi di aggressione nel suoi confronti proseguirono nei giorni successivi a Casamassima, Noci e Putignano. Pochi mesi dopo, mentre si stava recando a Mola di Bari per l’inaugurazione di una sezione, Di Vagno venne avvertito che si stava organizzando un nuovo agguato contro di lui. Ciononostante egli volle ugualmente raggiungere il 25 sett. 1921 il centro costiero pugliese. Dopo un comizio tenuto in piazza XX settembre, una squadra fascista proveniente da Conversano lo aggredì con colpi di rivoltella e con una bomba a mano in via Loreto. Ferito gravemente Di Vagno spirò il giorno successivo nel locale ospedale civile. Per l’omicidio furono rinviati a giudizio presso la corte di assise di Bari lo studente Luigi Lorusso, quale autore materiale, e altri nove correi, ma, nel dicembre del 1922, prima ancora che fosse esaurita la fase processuale, gli imputati vennero amnistiati e poterono tornare a Conversano accolti dai fascisti in modo trionfale. All’indomani della caduta del regime il procedimento penale venne riaperto e, dopo alterne vicende, si chiuse il 31 luglio 1947. La corte di assise di Potenza, escludendo la premeditazione, emise condanne varianti fra 10 ed 18 anni di reclusione, provocando una veemente polemica da parte delle forze politiche progressiste. Con il provvedimento di amnistia di Togliatti tornarono in libertà. Fonti: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario politico centrale

LINA MERLIN

All’anagrafe Angelina Merlin Pozzonovo (PD) 15 ottobre 1887 – Padova, 16 agosto 1979. Maestra elementare, politica e partigiana, membro dell’Assemblea costituente, prima donna ad essere eletta al Senato. Nota soprattutto per la legge n. 75 entrata in vigore il 20 settembre 1958 – conosciuta come legge Merlin – con cui venne abolita la prostituzione legalizzata in Italia. Nel 1914, la ventisettenne Lina si laurea in Lingua e Letteratura Francese. Il 1914 è anche l’anno in cui iniziano i combattimenti della prima guerra mondiale e l’Italia, neutrale, viene scossa dalle manifestazioni degli interventisti che chiedono la rottura dell’alleanza con l’Austria e la Prussia per completare l’unità d’Italia con la liberazione di Trento e Trieste. Convinto dell’opportunità di questa scelta è Mario Merlin, fratello di Lina, il quale ritiene necessario concludere la parabola risorgimentale con una quarta guerra di indipendenza. Lina, su posizioni antimilitariste, viene bonariamente dileggiata dal fratello con l’epiteto di “pacefondaia”. La guerra causa la morte di tre fratelli di Lina: Umberto, Mario, Carluccio. Nel 1919 torna dal fronte Antonio detto Nino, unico maschio superstite che raggiunge la famiglia a Padova con i genitori e le sorelle Lina e Letizia. I primi passi in politica di Lina Merlin Lina Merlin, profondamente scossa dagli eventi della guerra e dal clima amaro successivo al conflitto, sente di non poter restare in disparte e si trova a condividere le posizioni espresse dai socialisti, verso cui si era già trovata in sintonia per la scelta neutralista. Da poco, vicino alla sua casa, si è trasferito il medico socialista Dante Gallani, del quale proprio nel ’19 torna dal fronte anche il figlio maggiore Mario, contemporaneamente a Nino Merlin, suo coetaneo. I due giovani si trovano ben presto uniti in un analogo percorso di vita: condividono posizioni antimilitariste, simpatie verso il partito socialista e la scelta di iscriversi entrambi alla facoltà di medicina presso l’università di Padova. Tra le famiglie Merlin e Gallani si intrecciano pertanto forti legami di amicizia e condivisione di temi politici. Dante Gallani, eletto deputato nel 1919, dà vita al giornale socialista L’Eco dei lavoratori, dove lavora anche Lina. Dal nascente partito fascista iniziano a intensificarsi le minacce al giornale che, anziché scoraggiare Lina, la convincono che quella del socialismo è la strada giusta per tentare di arginare le prepotenze politiche. Nel dicembre 1921 Lina Merlin è coinvolta nell’assalto armato della casa del sindaco di Pozzonovo dove si trova ospite. Gli assediati si difendono sparando e colpendo a morte un giovane assalitore fascista. Nell’agosto del ’22 i fascisti distruggono la sede de L’Eco dei lavoratori e il giornale continua una sua vita clandestina stampato ora a Venezia ora a Treviso per eludere le aggressioni. La Merlin antifascista Nel 1925 vengono messi al bando i partiti politici e decretata l’obbligatoria iscrizione al Pnf per tutti i dipendenti statali. Lina Merlin rifiuta e viene privata del posto di maestra. A Padova vengono affisse ai crocicchi di alcune strade delle liste di antifascisti meritevoli di morte dove compaiono i nomi di Lina Merlin e Dante Gallani. I due fuggono a Milano, dove vengono arrestati con l’accusa di ricostituzione del Partito Socialista. Dopo il processo, il confino: Dante Gallani in Basilicata, Lina Merlin in Sardegna. Per entrambi il confino termina con l’amnistia nel ’29. L’anno successivo Lina va a vivere a Milano dal fratello Nino, divenuto dentista. E a Milano si trasferisce anche la famiglia Gallani. I due, sempre controllati dalla polizia, riescono comunque a organizzare incontri con dissidenti del regime. Lina per vivere dà lezioni private. Nel 1932 muore la moglie di Dante Gallani, che l’anno successivo può unirsi in matrimonio con la Merlin: lui ha 55 anni, lei 46. Viene così sancita quell’unione di ideali e sentimenti consolidatasi dieci anni prima e sempre rimasta viva. Soltanto tre anni dopo, però, nel 1936 Dante Gallani cesserà di vivere, mentre Lina continuerà a tessere la tela dell’antifascismo, collaborando con i comunisti ritenuti in questo periodo decisamente più attivi dei socialisti. La guerra, il Senato e la Camera Nel giugno del ’45 Lina viene nominata componente della Direzione nazionale del partito. Il nuovo corso inizia pieno di speranze, ma nel contempo ha modo di constatare il prevalere di logiche di potere, cosicché ben presto avverte un’estraneità nei confronti del partito “…che si serve di dirigenti senza scrupoli, oltre che senza altra capacità politica di quella di servire i capi, mutando orientamento a seconda del vento che soffia”. Ciò nonostante si prodiga per il nuovo corso dell’Italia repubblicana, come membro della Costituente, venendo poi eletta senatrice nel collegio di Adria nell’aprile del 1948, all’età di 61 anni. Lina Merlin, infaticabile nel percorrere le strade polesane per ascoltare la voce dei suoi elettori, con non pochi dei quali stabilisce un vero rapporto di amicizia, viene soprannominata la “Madonna Pellegrina Socialista”. Ed al Senato, quando prende la parola, qualche parlamentare osserva stizzito: “Ecco il Polesine”. Nel 1953, a 66 anni, viene rieletta senatrice, ma la sua insoddisfazione per la dirigenza del partito, specie riguardo alla segreteria rodigina, non ha tregua. Nel 1958, settantunenne, viene eletta alla Camera dei Deputati. E’ questo l’anno in cui viene approvata la legge per la chiusura delle case di tolleranza che l’aveva a lungo impegnata, contemporaneamente all’attività parlamentare che la vede particolarmente attiva per il rinnovamento della legislazione concernente la famiglia e il ruolo della donna. Nel giugno del ’61, divenuto insanabile il contrasto con la segreteria rodigina, Lina Merlin restituisce la tessera del partito, evitando di recedere dal suo proposito nonostante l’interessamento di molte personalità, tra cui si distinse in particolare Pietro Nenni. Rimane in parlamento fino al ’63, dopo di che si trasferisce a Milano dove continua ad interessarsi di problematiche sociali. Ad 81 anni, nel 1968, sempre a Milano, si stabilisce in una stanzetta della Casa della laureata. Lina Merlin vivrà ancora dieci anni. Dopo aver fatto ritorno a Padova nel 1972, accolta presso la Casa di Riposo “Il Nazaret”, si spegnerà quasi novantaduenne il 16 agosto 1979. La senatrice ribelle che non volle legare il suo nome a una legge. …

EPIFANIO LI PUMA

Epifanio Leonardo Li Puma nacque a Raffo, una frazione di Petralia Soprana il 06/01/1893. Ha sempre vissuto in questa borgata che per certi versi assomigliava a tutti i villaggi meridionali dove la gente nasceva e moriva senza lasciar traccia. A Raffo si poteva arrivare solamente a piedi sul basto di animali attraverso le “trazzere”, non c’era luce e l’acqua sgorgava da una fontanella posta al centro dell’abitato. Cominciò a lavorare giovanissimo. Chiamato dalle armi per 18 mesi, il suo servizio verso la patria continuò poi in guerra dove combattè al fronte per quattro anni. Dal matrimonio con Michela ebbe 10 figli. Epifanio come tutti i padri di allora era severo e rigoroso, non faceva discriminazioni tra maschi e femmine, e per il fatto che nessuno dei suoi figli vagabondasse per strada, era stimato. Infaticabile lavoratore usciva alle prime luci dell’alba e rientrava all’imbrunire, un ritorno dai campi sempre atteso dai figli che vedendolo arrivare si facevano trovare all’ingresso del centro abitato per toglierli di mano le redini della mula e quello che portava, grazie al quale si poteva vivere. Era molto religioso, non si consumavano pasti senza ringraziare il Signore con il segno della croce, non era d’accordo sul modo d’agire della chiesa sul piano politico ed economico, ma considerava la chiesa un punto di riferimento. Un carattere rigoroso, egli teneva molto alla forma: quando parlava con gli estranei non voleva essere disturbato dai figli, ai quali raccomandava come comportarsi in pubblico; non usava rimproverare, bastava una sola occhiata per far capire loro quello che in quel momento voleva dire. Uomo all’antica di grande discrezione. IL SINDACALISTA – La prima lotta la intraprese al ritorno dalla prima guerra mondiale, rivendicando le terre che lo Stato aveva promesso ai combattenti. Epifanio Li Puma era contro il fascismo e lo diceva apertamente, il suo coraggio e la sua determinazione erano a conoscenza di tutti. Non era un rivoluzionario, ma un pacifista che credeva nello stato e nella legge uguale per tutti. Un politico sindacalista, che in occasione del referendum sulla monarchia o repubblica si schierò, facendo votare, in favore di quest’ultima. I suoi discorsi politici erano sempre a favore della sinistra e del PSI che lui indicava come il partito che dava pane perché credeva negli ideali politici del socialismo. Si adoperava per difendere e rivendicare i diritti del popolo e nonostante fosse sprovvisto di una base culturale operò una rivoluzione fra i contadini spingendoli a chiedere i propri diritti nei confronti degli agrari. Per questo organizzò a Raffo nel 1946 la lega dei lavoratori della terra in quanto aveva capito che solo attraverso i sindacati le sorti dei contadini potevano risollevarsi. Questo suo impegno naturalmente lo portò a scontrarsi con il feudatario presso cui lavorava. Quest’uomo poteva diventare pericoloso, era una voce stonata nel silenzio delle campane, così egli cominciò a ricevere intimidazioni e minacce di sfratto dal feudo. Epifanio non si preoccupò. Dirigeva la lotta secondo la legge bandendo soverchierie o oltraggi. Iniziarono gli incontri fra i capi lega che a contatto con i dirigenti provinciali e delle locali camere del lavoro riuscivano ad avere notizia sull’esistenza di nuove leggi, sul riparto dei prodotti (decreti Gullo) o sull’assegnazione delle terre incolte alle cooperative. Con la costruzione della lega iniziarono le prime riunioni e le prime rivendicazioni, infatti, le riunioni della lega non solo servivano ad organizzare la lotta ma anche a informare i cittadini di quanto stava avvenendo dal punto di vista politico, legislativo e sindacale. Le riunioni, in un primo tempo e fino a quando non diventarono segrete, venivano comunicate in vari modi, suonando la campana o a passaparola. A tenere le riunioni era sempre lui, le cui parole, rappresentavano un “fastidio” per i proprietari terrieri. Chiamati con lo pseudonimo di “pescicani” o “parassiti”. Nonostante il clima di intimidazione e schiavizzazione, le riunioni continuarono ma divennero segrete. L’argomento in discussione negli incontri era sempre lo stesso: decidere di non lavorare più il terreno del marchese per costringerlo a riconoscere le leggi vincenti. Una scelta difficile da fare visto che quel pezzo di terra da coltivare era l’unica fonte di vita per molte famiglie. Di fronte a questo problema, in occasione delle ripartizioni del prodotto, per ottenere l’applicazione delle nuove percentuali, dettate dal “decreto Gullo”, Li Puma convocò i Capi-lega delle borgate vicine e protestò la necessità di chiedere all’organizzazione sindacale l’assistenza di un avvocato. Nel 1947, visto i primi successi, si diede l’avvio all’occupazione simbolica delle terre incolte e mal coltivate con l’obiettivo della “terra a chi lavora”. Dall’attuazione del decreto Gullo si passa all’attuazione del decreto N°89 naturalmente non applicato in Sicilia per l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate a favore delle cooperativa contadine. Con questa speranza Li Puma assieme agli altri capi-lega lanciò la proposta della costituzione di una cooperativa agricola che prese il nome di “Madreterra” e venne avanzata la richiesta per ottenere 5000 ettari di terra. La richiesta venne respinta, ma questo non scoraggiò i contadini che decisero di non seminare e di non coltivare la terra dei padroni. Le riunioni si intensificarono e il movimento contadino stava prendendo piede. Epifanio veniva ripetutamente minacciato. A chi gli consigliava di denunciare coloro che lo minacciavano rispondeva “quattro anni di guerra, di prima linea e di trincea neanche una ferita e ora dovrei aver paura qua?…” L’ UCCISIONE – Epifanio Li Puma fu ucciso il 2 marzo 1948, mentre lavorava il suo pezzo di terra, da due colpi di fucile provenienti da due uomini a cavallo davanti a due dei suoi figli. Un uccisione che nessuno ipotizzava, ma che per certi versi era annunciata visto che la lotta contro le famiglie feudali si era fatta aspra e la mafia era tutta mobilitata. Un assassinio che arrivò perché Li Puma non si tirò mai indietro, un omicidio necessario perché per battere il movimento, in piena campagna elettorale per le elezioni del 18 Aprile ’48, bisognava dare un segnale forte eliminando fisicamente un capo-lega, un dirigente del movimento contadino. Le soluzioni adottate dai feudatari e dalla mafia …