CAMILLO PRAMPOLINI
Camillo Prampolini nacque a Reggio Emilia il 27 aprile 1859, di famiglia abbastanza agiata e molto civile. Il padre era impiegato municipale; la madre veniva da una casata facoltosa. Più alto del livello economico era quello morale e intellettuale. Gente di principi rigidamente conservatori, ma per convinzione e non per interesse; fervidamente patrioti… Pur vivendo in una famiglia molto religiosa (nota di L.B.), a circa 13 anni già dubitava delle verità religiose. Col crescere della ragione, gli calava la fede, continuando però nelle pratiche di culto, per non dar dolore ai suoi e per non urtarsi con loro… A 17 anni, in politica non aveva ancora idee definite, ma piuttosto dei sentimenti o delle abitudini mentali, seguiva le tradizioni famigliari, era monarchico e conservatore per forza d’inerzia…Questa la posizione dello spirito suo quando, giovine di 18 anni, va all’Università di Roma, nella qual città aveva parenti presso i quali viveva ospite, di principi religiosi e conservatori rigidissimi… Si preparava in lui, senza che egli l’avvertisse, una elaborazione interiore. Quella concezione così assoluta, così statica della società, che gli era apparsa sino ad allora perfetta, ordinata in modo definitivo, come un edificio millenario posto su incrollabili colonne, si scuote. Ha una conoscenza, da principio assai vaga, delle idee di Darwin.… Ciò che lo aveva colpito come una rivelazione che avea scosso irreparabilmente la sua fede conservatrice, era stata, nel 1879, una proposizione, enunciata dal Filimusi-Guelfi, che il diritto di proprietà escludeva il diritto al lavoro. Ciò significava dunque, che chi non possedeva, poteva anche esser destinato a morir di fame! E questo era l’ “ordine” nel quale egli fino ad allora aveva così ciecamente creduto? Tale il primo germe, messogli nell’animo, che maturerà poco più tardi. Frattanto, a Bologna, durante il terzo corso di università, fa il servizio militare come volontario d’un anno in fanteria. Fisicamente quella vita gli piaceva e gli giovava; disciplinarmente, la sopportava con uno spirito in cui già albeggiavano concetti di collettività, ed eran già saldi dei principi egualitari, e d’antiprivilegio….Non ebbe mai una punizione, e alternava alle occupazioni militari letture febbrili di libri nuovi a quei tempi, come i romanzi di Zolà, e di libri vecchi…come la Bibbia, che(cosa da notare) lo interessava moltissimo….Ma la passione allo studio, o almeno la curiosità che lo spinge alla ricerca e alla lettura di libri di scienze sociali, si acuisce nel quarto anno di università, in quell’ambiente di Bologna di allora, dove il Sergi insegnava sociologia (e Prampolini era uno dei pochi frequentatori del corso) e Enrico ferri, giovanissimo docente, divulgava Lombroso e Ardigò….Giunto il tempo di fare la tesi di laurea, egli si sente maturato nella mente un insieme di concetti attorno al punto a lui fondamentale, rimastogli come in chiodo fisso nella testa: la teoria del diritto di proprietà che nega il diritto al lavoro, udita all’Università di Roma dal Filomusi-Guelfi. Su di essa la sua mente, la sua anima aveva meditato e lavorato in quegli anni di “incubazione socialista”. Quella teoria, svolta dal Filomusi, era quella dei filosofi ed economisti borghesi. Il diritto al lavoro non esiste, perché negherebbe, se ammesso, il diritto di proprietà. Questo diritto di proprietà è un vero jus utendi et abutendi,. Se il proprietario avesse l’obbligo di dar lavoro , non sarebbe più proprietario. E’ quel che il Beccaria chiamò “terribile e forse non necessario diritto”. Generalmente i conservatori non hanno coscienza della terribilità di questo diritto e della sua ingiustizia; o anche se l’hanno, affermano la necessità di esso, per la esistenza dell’ordine sociale. Ma è chiaro che questo iniquo “diritto” fondamentale è quello da cui sgorgano tutte le altre iniquità. Dunque, bisogna abolire la proprietà privata! Il sillogismo dei conservatori era questo: “il diritto di proprietà è la base della società civile. Senza di esso non vi è società possibile, non vi è ordine”. Ma ammettere il diritto al lavoro significherebbe negare il diritto di proprietà: dunque il diritto al lavoro non è ammissibile; non esiste, né potrà esistere mai”. Il sillogismo del giovine – che già da tempo andava sviluppandosi in lui, e che sarà il nucleo della sua tesi di laurea – procede in senso inverso. “Poiché negar il diritto al lavoro significa negare il diritto alla vita pei non possidenti, ciò repugna a quel sentimento della giustizia che ebbe le sue maggiori manifestazioni nel movimento e nei principii del Cristianesimo, e in quelli della Rivoluzione francese, e che diventa sempre più vivo e diffuso nella coscienza dei popoli moderni. Dunque il diritto di proprietà è inumano ed iniquo, contrasta con gli interessi e con la volontà delle masse, e perciò deve fatalmente cadere”. A questo punto si fa strada nel suo pensiero il concetto spenceriano della società come organismo. Nessuna forma di società può reggersi, se tra il suo assetto generale, e la forma dei vari elementi che la compongono, non vi è una corrispondenza e una reciproca armonia… E’ in questo momento che la febbre della nuova fede, che era stata in incubazione per circa due anni, divampa. Egli ne è invaso e inebriato, e come trasformato. Per preparare la sua tesi di laurea, ricercò le opere degli economisti borghesi più in voga, e particolarmente degli scrittori che verso la metà dell’Ottocento erano scesi in campo contro il diritto al lavoro, al tempo del famoso esperimento degli ateliers nationaux in Francia. Essi sostenevano, e dimostravano, che ammettere tale diritto equivaleva a negare il diritto di proprietà. Ed era vero! Ma – ecco il bivio al quale la sua coscienza giovanile si trovò e si decise – egli scelse senza esitare, fra i due diritti: e optò per il lavoro. La sua tesi di laurea (1881) fu – com’egli lo definisce – un centone di più che 100 fitte pagine di protocollo, in cui cominciando… da Adamo, sosteneva che nessun assetto sociale può esistere quando urta violentemente contro il “senso di giustizia” dei suoi componenti: onde la società moderna perdeva la sua ragion d’essere ed era fatalmente destinata a tramontare, precisamente perché fondandosi sulla proprietà …