PANE E POLITICA AI TAVOLI DEL COOPI

Il Presidente del COOPI  è il compagno socialista e filosofo Andrea Ermano, direttore dell’AVVENIRE DEI LAVORATORI, al quale collabora il compagno di Socialismo XXI° Felice Besostri, membro anche del Consiglio di Amministrazione del Coopi. La Società COOPERATIVA sospenderà temporaneamente l’attività enogastronomica, ma rafforzerà quella editoriale e di comunicazione. L’Avvenire dei Lavoratori è ricevuto settimanalmente da più di 22.000 socialisti di lingua italiana distribuito nei 5 continenti. La Federazione Socialista Italiana in Svizzera controlla sia il COOPI  che l’attività editoriale, organizzazione centenaria non ha mai partecipato alle scissioni socialiste italiane, anche perché è dei socialisti di lingua italiana e ne fanno parte cittadini svizzeri o binazionali. Felice Besostri Pane e politica ai tavoli del Coopi di Guido Farinelli | La storia in cucina Nel 1905 alcuni socialisti italiani aprono a Zurigo un ristorante cooperativo dove si mangia e si organizza la rivoluzione. Tra gli avventori Lenin, Balabanoff, Matteotti e Pertini. È il 26 luglio 1896 quando a Zurigo scoppiano tumulti che dureranno diversi giorni: una vera e propria caccia all’uomo che ha come obiettivo gli immigrati italiani. Violenze diffuse, saccheggi, abitazioni e negozi dati alle fiamme per punire i «figli del sud». La scintilla è l’accoltellamento di un alsaziano da parte di un muratore italiano: l’ennesimo atto di violenza, diranno gli svizzeri, di un popolo incapace di integrarsi nella «civile» terra d’accoglienza. Ma il vero motivo dietro l’esplosione di rabbia che costringerà molti italiani ad abbandonare la città è interno al mondo del lavoro: la disponibilità degli italiani ad accettare stipendi più bassi. DI FRONTE AL  TRAGICO assalto avvenuto nel quartiere operaio di Aussersihl e alla profonda distanza tra le classi popolari dei due paesi, i lavoratori più politicizzati hanno l’obiettivo di abbassare la tensione e unire il movimento operaio. Tra gli emigrati italiani molti sono militanti anarchici e socialisti riparati in territorio elvetico per sfuggire alla repressione poliziesca. Nonostante i recenti attacchi delle autorità svizzere – come la cacciata degli anarchici italiani del 1894, raccontata dal cantautore Pietro Gori in Addio Lugano bella, dopo l’omicidio del presidente della Repubblica francese Marie François Sadi Carnot a opera dell’italiano Sante Caserio – i militanti delle differenti aree politiche continuano a impegnarsi per la costruzione di un movimento internazionalista. ZURIGO È DA TEMPO al centro del dibattito politico: nel 1893 vi si riunisce l’Internazionale anarchica e nello stesso anno si svolge il Congresso operaio e socialista internazionale dove sono presenti molti italiani tra cui anche Filippo Turati. È all’interno di questa tensione che nel settembre 1897 il gruppo dei Socialisti italiani in Svizzera, guidati da Giacinto Menotti Serrati, fonda il giornale Avvenire dei lavoratori. L’obiettivo è alimentare la coscienza di classe tra gli operai italiani e svizzeri. Punto di partenza è la risposta alle esigenze materiali di persone povere ed emarginate, come gli immigrati. Che fare? UNA RISPOSTA la trovano alcuni socialisti, per la maggior parte romagnoli, che vivono a Zurigo: fondare una cooperativa e soprattutto aprire un ristorante! Il 18 marzo 1905 nasce la Società cooperativa di Zurigo che, recita lo statuto, vuole «promuovere la cooperazione tra socialisti di lingua italiana in Svizzera; appoggiare con sovvenzioni istituzioni di tendenza democratica socialista; appoggiare il movimento sindacale e cooperativistico e collaborare con il movimento operaio indigeno; aiutare soci e socialisti di lingua italiana colpiti da sventura o caduti nell’indigenza». Nascono così un programma d’istruzione popolare, una biblioteca operaia e il Coopi, ristorante della solidarietà e della rivoluzione. NELLA ZURIGO di inizio secolo, attraversata da esuli, ribelli e rivoluzionari provenienti da tutta Europa, il Coopi di via Zwinglistrasse è il luogo dove gli operai trovano cibo sano a prezzi abbordabili, ma soprattutto possono discutere di politica e organizzare lotte e scioperi. Come quello del 1911 che provoca l’espulsione di 1.200 muratori, caricati su un treno speciale e rispediti in Italia. Un minestrone al Coopi, riporta un vecchio menu, costa solo 20 centesimi di franco come la minestra di trippa, 40 centesimi la trippa al sugo, 50 la carne al lesso e 1 franco il mezzo pollo. Oltre al sostegno materiale per emigrati e operai al Coopi si organizzano conferenze e discussioni sui problemi concreti e pratici che investono gli emigrati italiani in una sorta di opera pedagogica rivolta agli operai. Una delle prime conferenze ha per oggetto la riprovevole consuetudine di «metter mano al coltello durante le furibonde risse che scoppiavano non di rado tra gli emigrati per motivi politici o per questione di donne». Una pratica aspramente criticata dagli svizzeri. La discussione appassiona così tanto i partecipanti che il relatore Domenico Armuzzi, tra i fondatori del Coopi, viene accoltellato da un connazionale mentre torna a casa. L’altro non aveva gradito la tesi secondo la quale il coltello non era raccomandabile come mezzo di persuasione. IN QUESTI ANNI tanti esponenti del movimento operaio europeo passano dal Coopi. Angelika Balabanoff è una delle più assidue frequentatrici. Nel 1913 tra i tavolini del ristorante arriva anche Benito Mussolini, giunto a Zurigo per il comizio del primo maggio come direttore dell’Avanti. Un anno prima il ristorante si era spostato al numero 36 della Militarstrsasse, nella zona popolare chiamata Kreis Chaib, il quartiere «carogna». Tra i più radicali frequentatori del Coopi spicca Vladimir Illic Ulianov, Lenin, che sta scrivendo L’imperialismo come fase suprema del capitalismo. Il bolscevico adora i cappelletti in brodo preparati da Erminia Cella, cuoca romagnola e straordinaria militante. Pare ne abbia mangiato un gran piatto appena prima di salire sul treno piombato diretto in Russia per dare il via alla Rivoluzione d’Ottobre. C’è chi sostiene che Lenin e Mussolini abbiano cenato insieme al Coopi ma Balabanoff, che conosce e frequenta entrambi, smentisce questa notizia nella sua biografia. La rivoluzionaria verrà arrestata ed espulsa dalla Confederazione con l’accusa di essere una spia bolscevica. QUANDO IN ITALIA si impone il fascismo in Svizzera ripara chi è in fuga dal regime. Al Coopi si incontrano fuoriusciti, rivoluzionari e antifascisti. Ogni gruppo politico ha il suo tavolo fisso, tranne i comunisti che per prudenza evitano di averne uno tutto per loro. Passano i fratelli Carlo e Nello Rosselli, poi più tardi Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e Pietro Nenni. Il primo maggio 1924, …

AL TEMPO DELLA SPERANZA: LA CONFERENZA DI BANDUNG

di Franco Astengo | Qualche sera fa Il canale “Rai Storia” un ricordo della conferenza di Bandung (1955) dalla quale (riferisco con un poco di semplificazione) nacque il movimento dei “non allineati”: questo piccolo episodio della rievocazione televisiva si è verificato in un momento particolarmente buio nella storia del mondo, dove la vicenda della pace e della guerra sta tenendo in sospeso la vita stessa degli abitanti del pianeta appesi al filo di una possibile catastrofe nucleare e legati ansiosamente all’esito di guerre che stanno avvolgendo tutti i continenti in una spirale che sembra ricostituire l’antica e mai superata strategia del terrore. Ricordare la Conferenza di Bandung significa allora rievocare un tempo di apertura di speranza che possa servire come un monito valido per il presente. In quel tempo, alla metà del XX secolo (il secolo delle grandi tragedie mondiali) in un mondo dominato ormai dalla logica dei due blocchi contrapposti: quello occidentale raccolto attorno agli USA, e quello orientale egemonizzato dall’URSS si svilupparono, nel decennio intercorso tra il 1950 (anno di inizio della guerra di Corea) e il 1960 (con il completamento, salvo alcune sanguinose eccezioni come l’Algeria, del processo di decolonizzazione in Africa) alcuni eventi assolutamente fondamentali per il prosieguo del processo storico a livello planetario. Assieme alla fine irreversibile del vecchio colonialismo si possono ricordare l’entrata in crisi della “guerra fredda”, la ricostituzione della potenza economica dell’Europa Occidentale e del Giappone, l’emergere della Cina comunista. La fine del colonialismo corrispose a una serie di imperativi storici: dopo la seconda guerra mondiale apparve chiaro che la nuova forma di dominio mondiale non passava più attraverso quelle sfere di dominio ormai arcaiche, bensì attraverso la costituzione di immense sfere di influenza che, includendo paesi sviluppati o meno, non avevano più nulla a che fare con le colonie. In questo senso agirono le due grandi potenze: USA e URSS. L’influenza statunitense nel mondo si esprimeva esportando capitali, tecnologia, fornendo aiuti di vario tipo e condizionando le linee politiche degli Stati subalterni, come in Europa Occidentale, oppure saccheggiando risorse e materie prime attraverso una combinazione di sfruttamento economico e di controllo politico sui governi. Il sistema neo – imperialista era molto articolato e andava da una complessa politica di alleanza e di condizionamento verso grandi paesi (come nel caso della costruzione dell’embrione dell’Unione Europea) fino alla politica brutale in paesi sotto governi- fantoccio in Asia e in America Latina (emblematico lo sbarco dei marines in Libano, l’occupazione di Grenada e – soprattutto – l’organizzazione del “golpe” cileno dell’11 settembre 1973). Alla sfera di influenza statunitense, basata sull’imperialismo di tipo nuovo, corrispondeva quella sovietica, nella quale l’URSS, pur nemica del vecchio colonialismo e dell’imperialismo di nuovo conio di marca statunitense, realizzava una sua forma di ferreo dominio sui paesi minori, che si manifestava nel controllo politico ed economico e nell’utilizzazione delle risorse dei piccoli e medi Stati dell’Est europeo (sottoposti anche diretta vigilanza e repressione militare come dimostrato dall’Ungheria ’56 e dalla Cecoslovacchia ’68),. Il primato sovietico nel campo socialista poggiava, analogamente a quello statunitense, sul monopolio delle superarmi e dei più avanzati settori tecnico – scientifici (com’era dimostrato, in quel momento, dalla lotta tra le due superpotenze per la supremazia nelle imprese spaziali). La decolonizzazione, con il sorgere conseguente di numerosi Stati nuovi, portò al delinearsi di un nuovo assetto planetario che fu battezzato con un’espressione poi corrente per un lungo periodo eppur vaga “Terzo Mondo”. Un “Terzo Mondo” variegato per storia, economia, struttura politica eppure accomunato da alcune grandi tendenze di fondo: la necessità di svilupparsi in tempi rapidi e la diffusa tendenza al “neutralismo”. In quest’ambito si svilupparono alcune iniziative clamorose che misero in luce proprio queste tendenze “neutraliste”. Dopo la conferenza di Colombo (Ceylon) del 1954, nel corso della quale India, Pakistan, Birmania, Ceylon e Indonesia presero posizione per la fine della corsa all’armamento nucleare, contro il colonialismo, a favore della pace e della distensione ebbe grandissima importanza la Conferenza di Bandung (Indonesia), la quale fra il 18 e il 24 aprile 1955 riunì 29 stati che per la maggior parte erano neutrali. La conferenza era il frutto delle discussioni sviluppatesi tra alcuni paesi asiatici durante la fase finale della crisi indocinese, e dopo la firma, nel settembre del 1954, del trattato istitutivo della SEATO (l’omologo sul fronte del Pacifico, della NATO). Originariamente la conferenza di Bandung non era ispirata da un comune progetto tra i paesi partecipanti di non allineamento rispetto agli schieramenti della guerra fredda, dato che fra i paesi invitati erano presenti tanto il Pakistan, ben legato all’Occidente dal trattato della SEATO e dalla sua politica generale, quanto la Cina, in quel momento schierata con l’URSS, o le Filippine e il Giappone, capisaldi degli USA nel Pacifico. Complessivamente a Bandung furono presenti 29 delegazioni, eterogenee quanto alla provenienza e anche rispetto alla loro linea di politica internazionale ma tutte sensibili al tema degli schieramenti in relazione allo scontro sovietico – americano e ai costi impropri che la logica dello scontro proiettava su tutto il globo. In realtà il proposito iniziale fu modificato durante i lavori dal ruolo dominante assunto da alcuni dei partecipanti, come Nehru, Sukarno, Nasser, U Nu e Chou En Lai, che riuscirono a sovrapporre alle tematiche di schieramento nelle quali i 29 partecipanti erano impegnati l’analisi di alcuni principi generali che avrebbero dovuto costituire come una sorta di guida del “non allineamento”. Il diritto di autodeterminazione nazionale e la condanna del colonialismo ebbero un posto importante nel dibattito: un altro punto importante fu rappresentato dall’impegno, sancito in linea di principio, di “astenersi dal partecipare ad accordi di difesa collettiva volti a servire gli interessi particolari delle grandi potenze”. Era questa la formula del “non allineamento”, la cui formula consentì però una vasta gamma di interpretazioni. In generale la conferenza ebbe un forte valore simbolico, offrendo anche forti spunti di dibattito e intervento ai movimenti della sinistra critica in Occidente, in quanto vi furono affermati principi del futuro ordinamento internazionale come il forte impegno a favore dell’indipendenza dei popoli coloniali, che avrebbe …

DONNE E SOCIALISMO, MARIA GOIA

di Ferdinando Leonzio |       O compagne, per il presente e per l’avvenire gridate, coi socialisti, la vostra      esecrazione alla guerra! (Maria Goia) La Romagna di fine ´800, in cui visse e si formò Maria Goia, era una delle zone piú politicizzate d’Italia: in essa fermentavano le prime formazioni politiche organizzate, sia socialiste che repubblicane, unite nella vivace contestazione al regime monarchico-conservatore prevalso alla fine del processo risorgimentale, ma ben presto rivaleggianti fra loro. Maria Goia nacque il 28 novembre 1878 a Cervia, nel Ravennate, dov´era presente un numeroso bracciantato, in una famiglia di umili condizioni[1]. Lí trascorse l´infanzia e l´adolescenza, a stretto contatto coi problemi che affliggevano la cittadina: povertá, disoccupazione, sfruttamento del lavoro. Il padre Raimondo era un salinaro, simpatizzante per il nascente socialismo, e la madre Edvige Marzelli faceva la lavandaia; ma essi non mancarono di notare la vivace intelligenza della figlia e la sua propensione per la cultura e per la politica, per cui decisero di farla studiare. Perció, terminata brillantemente la scuola di base, la iscrissero alla Regia Scuola Normale femminile di Ravenna. Ma nel 1898 Maria fu costretta a interrompere gli studi, non potendo piú usufruire dei sussidi del Comune di Cervia, benché brillante studentessa[2]; di conseguenza non poté conseguire il diploma magistrale cui aspirava. Negli anni che seguirono maturó la sua scelta politica e nel 1901, a ventitré anni, si iscrisse al PSI. Il suo esordio pubblico nella scena politica ebbe luogo nello stesso anno 1901, quando fu inaugurata la prima sede socialista in Romagna, alla presenza di Andrea Costa, leader riconosciuto del socialismo romagnolo e primo deputato socialista. Maria in quella occasione prese la parola per spronare le donne a una presa di coscienza politica e all´adesione al socialismo: le donne socialiste, diceva, rialzavano la testa e si battevano per emanciparsi dalla doppia servitú, economica e domestica, per la paritá di salario a paritá di lavoro, per il diritto di voto. Rivelatasi ben presto oratrice brillante e conferenziera efficace, capace di commuovere e di coinvolgere, fece presto ad attirare l’arcigna sorveglianza poliziesca, mentre la sua fama andava crescendo sempre piú, tanto da farle guadagnare la stima dei piú famosi socialisti romagnoli, come Andrea Costa e Argentina Altobelli, e da essere inserita in un canto popolare dell´epoca: Evviva la Maria Goia/ col suo bel parlar, /se l´Italia la si riunisce/ la faremo ben tremar. Negli anni successivi si dedicó, con particolare fervore, all’attivitá di propagandista, prestando particolare attenzione alle tematiche femminili, sulle quali tenne conferenze anche in Umbria, nelle Marche e in Friuli. Nel 1906, grazie all´iniziativa di Linda Malnati e di Angelica Balabanoff, si svolse, parallelamente al congresso socialista di Roma (7-10/10/1906), un convegno femminile socialista, da cui, fra l´altro, scaturí un Comitato Femminile Nazionale, di cui Maria Goia fu chiamata a far parte. Nello stesso 1906 Maria conobbe e sposó il farmacista socialista Luigi Riccardi (1863-1907) e si trasferí con lui a Suzzara, in provincia di Mantova[3]. Purtroppo il matrimonio duró appena otto mesi, poiché Riccardi morí il 18 marzo 1907. Rimasta vedova, Maria si dedicó completamente all´attivitá politica, svolta prevalentemente nell’area padana. Nel luglio 1907 accettó la segreteria della Camera del Lavoro di Suzzara[4]. Fu allora che si rese conto, in una col noto socialista Achille Luppi Menotti[5], della necessitá di dare impulso al movimento cooperativistico, quale valido supporto contro lo sfruttamento del lavoro e tappa importante della marcia verso il socialismo. Un primo importante passo in questa direzione fu la costituzione di una Cooperativa di produzione metallurgica, per l´impiego di operai disoccupati. La Goia, aliena da ogni forma di violenza, fu sempre decisamente schierata per quello che oggi chiamiamo un “socialismo dal volto umano”, gradualistico, in Italia allora guidato da Filippo Turati, Claudio Treves, Emanuele Modigliani. Il consolidamento del movimento cooperativistico fu appunto uno degli strumenti piú validi cui fece ricorso il riformismo socialista per la costruzione di una societá senza sfruttati e senza sfruttatori. In questa costante e tenace lotta per conquistare sempre nuovi diritti e nuovi traguardi si inserisce, a pieno titolo, anche la sua battaglia femminista per il diritto di voto, che Maria Goia andava propagandando in giro per l’Italia e dalle colonne de La Provincia di Mantova, su cui scriverá dal 1908 al 1911. Il 7 gennaio 1912, in ottemperanza ai deliberati del PSI (congresso di Modena, 15-18/10/1911) apparve un nuovo periodico, organo delle donne socialiste: La Difesa delle Lavoratrici, diretto da Anna Kuliscioff, della cui redazione la Goia fu chiamata a far parte e su cui apparirá piú volte la sua firma, accanto a quelle delle piú famose socialiste dell´epoca. Nel luglio 1912 divenne anche componente dell´Unione Nazionale delle Donne Socialiste, sorta allo scopo di far penetrare le idee socialiste nel mondo femminile. L’anno successivo (1913), dopo l´uscita dal PSI dei socialriformisti bissolatiani, la Goia diventerà segretaria della federazione socialista di Mantova e riprenderá la pubblicazione del suo settimanale La Nuova Terra. Da sempre pacifista convinta[6], antimilitarista intransigente e tenace, fu attiva propagandista contro l’ingresso nella “Grande Guerra” dell´Italia e nel 1915 scrisse, sull’organo della federazione socialista di Ravenna, La Romagna socialista, un appassionato appello alle donne italiane contro la barbarie della guerra a cui contrappose il valore della vita, che cosí concludeva: Un´anima nuova entri nella vita pubblica; un’anima che, non recando il sentimento di antiche convinzioni, di antichi odi, la nostalgia delle violenze vittoriose e rapaci, è più viva, più fresca tutta dell’oggi e protesa tutta verso l’avvenire. Siete voi l’anima nuova, o compagne, o sorelle. Voi date energie alla civiltà presente, è giusto che vogliate salvarla. E quelli che la guerra dovrebbe travolgere, massacrare o macchiare del delitto di avere ucciso, sono vostri figli, vostri fratelli, uomini cari al vostro cuore; quelli che dovrebbero soffrire l’eredità di questa tragica ora, saranno uomini del vostro sangue ancora. O compagne, per il presente e per l’avvenire gridate, coi socialisti, la vostra esecrazione alla guerra! A nulla valsero le lotte dei gruppi neutralisti, con in testa il Partito Socialista Italiano. Il 24 maggio 1915 (tre mesi dopo il drammatico appello della Goia!) …

MUDU E MANDIGA, DURCHES E PAGHE

Mangia e stai zitto, Dolci e pace.| I ministri della difesa e delle riforme istituzionali negli ultimi giorni si sono scomodati per tranquillizzare i sardi sull’importanza delle basi militari in Sardegna l’uno, e sull’ampliamento dei diritti costituzionali dello statuto sardo, l’altro. L’esigenza strategica delle basi e della fabbrica di armi è una importante opportunità di lavoro per i giovani e non, il rafforzamento delle competenze di uno statuto speciale nel rapporto tra stato e regione che dovrebbero tranquillizzare le istituzioni e i cittadini dicono loro, di una delle terra più colonizzata del mondo. Una terra che ormai non fa più parte dell’Italia, originariamente composta di 20 regioni ma ora di una regione in meno. Si chiami come si vuole o si consideri come un fatto democratico, ma la realtà obiettiva e quella di una Sardegna colonia dell’Europa e della Nato. Per la maggior parte dei sardi questa situazione sembra normale ma per chi analizza l’operato delle istituzioni e di norme democratiche, per chi nota la differenza tra la libertà e la schiavitù, così normale non è. Caro sardo, mandiga e mudu e accontentati del pane amaro che ti diamo. In un interessante libro di recente pubblicazione distribuito anche nelle edicole, si propone ai lettori un viaggio nella storia dei dolci sardi, dall’antichità ai giorni nostri. Si potrebbe dire, ma cosa centrano i dolci sardi? Diventando nella storia della nostra terra sin dall’antichità una forma di scambio di segni di pace tra le famiglie ed i conoscenti, strumento di buona accoglienza per gli ospiti e gli amici, i nostri dolci hanno caratterizzato un’arte specifica per le feste locali e confermato sempre la storica ospitalità del popolo sardo verso i forestieri. Mani preziose di nonne, madri con a fianco le bambine e le giovani figlie, hanno trasmesso forme, ingredienti e sapori ancor oggi apprezzati e divenuti vere opere d’arte che fanno dispiacere nell’essere mangiate, Ma la tradizione passa con il trasferimento dei saperi e dei sapori da una generazione all’atra, da sempre. Poiché le tecnologie militari, industriali e di comunicazione sono diventate altamente sofisticate ed al popolo sardo non è permessa nessuna arma di difesa, è rimasta solo l’accoglienza e lo scambio di dolci per confermare la profonda caratteristica di pace delle genti di Sardegna. E allora genti di questa terra paradiso che non è più, bussiamo ai cancelli delle decine di basi militari disseminate in ogni angolo evidente e nascosto di questa terra e con la più pacifica intenzione, offriamo i nostri dolci ai militari, ai loro comandanti, a chi li comanda dalle alte sfere e a chi ne guida le strategie di morte per chiede la pace, ma non solo per questa terra martoriata ma in ogni realtà del mondo in cui la pace non è più un diritto. La Sardegna ha bisogno che quei centri di morte siano trasformati in centri di ricerca per la vita e sulle malattie rare ed ogni altra malattia che affligge il mondo. Nelle zone industriali diventate cattedrali nel deserto e fonti fossili di produzione energetica ma purtroppo anche di conseguenti morti da inquinamento bussiamo ai cancelli degli stabilimenti rimasti e  offriamo dolci per ringraziare della benevolenza dataci in termini occupativi e di salute. A coloro che offrono la tanto sbandierata evoluzione tecnologica come nuova forma di crescita individuale e collettiva e non di una forma di controllo totale delle nostre vite, offriamo dolci, quei dolci che sono la nostra unica arma di pace possibile in un mondo di guerre e di morte. A chi vuole realizzare nel mediterraneo e soprattutto in Sardegna i sardi propongano uno schieramento sui crinali dei monti minacciati dalle pale eoliche ed eccessivi pannelli solari, file di pescherecci sui confini tra il mare e il cielo e cittadini schierati lungo le coste, i promontori sul mare e sulle spiagge, nelle zone non industriali, vicine ai patrimoni archeologici di pregio e di interesse naturalistico, sit-in silenziosi e festanti con dolci sardi. Per il fabbisogno energetico i sardi potrebbero realizzare comunità energetiche pubbliche e private autosufficienti per il consumo energetico regionale se fossero state previste e coperte dai fondi del PNRR destinati invece a reti e servitù per il gas, inutili pale off shore con energie non accumulabili che diventeranno semplice spreco di denaro pubblico appannaggio di piratesche imprese e multinazionali speculative. Non, Mandiga e mudu populu sardu ma dona durches pro sa paghe. Non mangia e zitto popolo sardo ma dona dolci sardi per la pace. E se in ucraina le bambine, le madri e le nonne, all’invasione russa di carrarmati avessero opposto un gesto di offerta di dolci tipici di quel religioso popolo che oggi vive anche tra noi in terra di Sardegna, avessero opposto cesti di dolci tipici, la guerra ormai quasi nucleare sarebbe esplosa in modo così drammatico. I soldati russi avrebbero sparato contro quelle donne portatrici di pace? Poiché tutto era programmato da decenni per avviare il grande reset, non è passato a nessuno per la testa di evitare questa e tutte le altre guerre del mondo con i dolci. Ora se il popolo sardo fosse capace di prendere coscienza della sua realtà, e scoprisse il coraggio di un gesto globale di pace, potrebbe diventare messaggero di questo gesto per tutto il mondo. La non violenza predicata ed attuata da Gandhi ha permesso all’India di diventare indipendente dal dominio inglese, e la stessa non violenza può aiutare la Sardegna a diventare indipendente ed interdipendente come isola della pace per riconquistare gli spazi perduti del paradiso di un tempo. A nulla servono le manifestazioni di parte del cittadini sardi per dichiarare “a foras sas bases e cherimos indipendentzia” se non è l’intero popolo a chiederlo. A nulla servono gli sforzi degli ambientalisti se non si decide che l’incontro tra il nostro cielo e il nostro mare, i nostri monti ed i boschi, le pianure coltivabili ed i terreni incolti o bruciati, sono il nostro e di tutto il mondo patrimonio naturale che ci è stato affidato e che non dobbiamo concedere alla speculazione dei governi e …

OTTANT’ANNI FA, IL 27 GENNAIO 1943, VITTORIA NENNI CONOSCEVA L’ORRORE DI AUSCHIWITZ

Fondazione Nenni | In occasione della Giornata della Memoria e a ottant’anni dalla deportazione ad Auschwitz di Vittoria Nenni, la Fondazione Pietro Nenni ha prodotto e pubblicato il podcast “LA STORIA DI VIVÀ. LA FIGLIA DI PIETRO NENNI NELL’INFERNO DI AUSCHWITZ” che ripercorre la vita di Vittoria Nenni, terzogenita del leader socialista Pietro Nenni, morta nel campo di sterminio nel luglio del 1943. Il Podcast, disponibile sulle maggiori piattaforme (Spotify, Apple Podcast, Amazon Music), racconta la storia di Vivà, il suo impegno, la sua morte per la libertà, contro le violenze e i soprusi dei nazisti in Europa, dei fascisti in Italia. Il Podcast, in due episodi della durata di circa 15 minuti l’uno, è stato realizzato interamente dalla Fondazione Pietro Nenni. Contiene un audio originale di Pietro Nenni che ricorda “la sua figliola”, la testimonianza della nipote di Nenni, Maria Vittoria Tomassi, le letture dell’attore Peppino Mazzotta tratte da un appunto di Nenni sulla figlia, e le ricostruzioni storiche del Prof. Giovanni Scirocco e di Antonio Tedesco, autore della biografia di Vivà. Per ascoltare il podcast:Spotify: https://open.spotify.com/episode/2jvX8Cr9QJ4f6L6GiLNU7p… Apple Podcast: https://podcasts.apple.com/…/la-storia…/id1667853704… Amazon Music: https://music.amazon.it/…/603181f0-b739-482e-adf7… SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GIORNO DELLA MEMORIA E SACRIFICIO OPERAIO

di Franco Astengo | Il 27 gennaio, giorno della Memoria, deve rappresentare anche l’occasione per non dimenticare e commemorare gli oltre 10 mila italiani uccisi nei lager per il loro impegno politico. Tra questi debbono trovare posto nella memoria anche i circa 3.000 operai delle grandi fabbriche del Nord deportati come rappresaglia per aver scioperato in particolare nella settimana tra il 1 e l’8 marzo del 1944. Quando si sviluppa un tentativo di analisi storico – politica su quella tragica fase non si può tenere da parte la vasta azione di massa condotta dalle classi lavoratrici. Si trattò di un vero momento estremo di opposizione politica :fin dal Gennaio 1944, la direzione per l’Alta Italia del PCI (Longo, Secchia, Li Causi, Massola, Roasio) tenne una riunione, alla quale intervennero anche i rappresentanti dei comitati d’agitazione che avevano diretto gli scioperi nel novembre – dicembre 1943 (Colombi per il Piemonte, Grassi per la Lombardia, Scappini per la Liguria) e decise di avviare immediatamente la preparazione di uno sciopero di vaste proporzioni, costituendo a questo fine un comitato di agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. L’iniziativa venne poi discussa ampiamente con gli altri partiti del CLNAI, e in particolare con il partito socialista e il partito d’azione che s’impegnarono anch’essi nel lavoro preparatorio. Seguirono settimane d’intensa attività politica e organizzativa per mobilitare al massimo le forze operaie e per coordinare l’intervento dei GAP, non solo nelle regioni del triangolo industriale, ma anche nel Veneto, in Toscana e in Emilia; questa estensione del movimento impose alcuni rinvii della data d’inizio, che infine venne fissata per il 1 Marzo 1944. Sin dal primo giorno lo scioperò si rivelò imponente e vide complessivamente la partecipazione di circa mezzo milione di lavoratori: A Torino scioperarono 60mila lavoratori e 150.000 nell’intero Piemonte. A Milano scioperarono anche le maestranze della tipografia del Corriere della Sera e per tre giorni l’organo della grande borghesia lombarda non poté uscire. La repressione tedesca fu dovunque feroce. L’ambasciatore Rahn ricevette personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti. E anche se il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per “difficoltà tecniche inerenti ai trasporti” e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica (come spiegò lo stesso Rahn) si calcola che circa 1.200 operai furono immediatamente deportati nei campi di lavoro e in quello di sterminio di Mauthausen. I fascisti s’assunsero il ruolo servile di esprimere la volontà dei tedeschi, rivolgendo minacciose intimazioni agli operai che continuavano ad astenersi dal lavoro. A Genova, il capo della provincia Basile lanciò un “ultimo avviso”, minacciando – appunto – la deportazione nei campi di sterminio (si trattava, secondo lui, di mandare gli operai a “meditare sul danno arrecato alla causa della vittoria”). Basile era lo stesso personaggio che, 16 anni dopo, sarebbe stato al centro dei moti genovesi contro il governo Tambroni, per via della decisione del MSI di fargli presiedere il previsto congresso nazionale di quel Partito che avrebbe dovuto svolgersi proprio a Genova. Congresso che le mobilitazioni di piazza impedirono  si svolgesse aprendo la strada anche alla caduta del governo DC che gli stessi missini stavano sostenendo. La sera stessa del 1 Marzo 1944, a Savona, 150 operai dell’Ilva e della Scarpa e Magnano furono arrestati per essere poi avviati alla deportazione (un carico di savonesi arrivò a Mauthausen il 26 Marzo dopo essere passato per la Casa dello Studente e San Vittore): altri luoghi d’origine della deportazione furono Varese (50 deportati), Prato (dove lo sciopero fu totale e generale), Bologna. Da Torino furono deportati 400 lavoratori (178 appartenenti alla FIAT), da Milano 500, in particolare dall’area di Sesto San Giovanni (Breda, Falck, Marelli, Ansaldo). Il successivo 16 giugno 1944 in adesione all’ordine di Hitler 1.488 operai genovesi furono deportati, dopo un vero e proprio agguato rastrellati all’ingresso del turno di lavoro nelle fabbriche all’Ansaldo, all’Ilva, alla SIAC. Dati sicuramente incompleti che comunque consentono di valutare il numero dei deportati a circa 3.000 unità Lo sciopero fu una dimostrazione imponente di forza e di volontà combattiva, fu un movimento di massa che non trova riscontro nella storia della resistenza europea. Ai fini bellici la sua importanza non fu minore, se si pensa che per otto giorni la produzione di guerra venne completamente paralizzata in tutta l’Italia invasa. E’ giusto allora ricordare che Shoah , deportazione politica, sacrificio operaio rappresentano aspetti dello stesso piano di sterminio messo in atto dal nazismo e dal fascismo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL SOCIALISMO NEL XXI SECOLO

La fine del liberismo Tutto ha inizio con il veto posto dalla Commissione europea al progetto di fusione Alstom-Siemens, ovvero con un progetto la cui ambizione era quella di creare un gruppo ferroviario mondiale. Tale ambizioso progetto fu soffocato dalla solerte applicazione di Margrethe Vestager delle norme antitrust europee. L’idea franco-tedesca era creare un campione europeo capace di tenere testa al colosso statale cinese CRRC, il maggior produttore di veicoli ferroviari del mondo. A seguito di questo fatto il duo franco-tedesco Merkel-Macron redasse un dossier che prospettava il futuro della politica comunitaria. All’epoca del Trattato di Aquisgrana dell’accordo franco-tedesco passò quasi inosservata l’appendice del Manifesto franco-tedesco per una politica industriale adatta al XXI secolo, un documento dove venne messo nero su bianco la volontà di rendere le aziende europee (in primis francesi e tedesche) capaci di competere con successo, dentro e fuori la UE,  in tutti i settori industriali della competizione globale. L’obiettivo del manifesto è favorire la creazione di grandi aziende europee in grado di reggere la concorrenza delle multinazionali non europee sostenute (direttamente e indirettamente) dagli apparati statali, in particolare dalle grandi potenze continentali, quindi: Cina, e Stati Uniti su tutti. Riporto alcuni passi del Manifesto citato: “At a time of increasingly fast changes globally, Europe must pool its strengths and be more united than ever.Europe’s economic strength in the coming decades will be hugely dependent on our ability to remain a global manufacturing and industrial power. The industrial sector of the 20th century is changing before our eyes due to digitalization. Brand new industrial sectors are appearing such as those linked to artificial intelligence, others are changing at great speed such as the car or railways sectors, and other traditional sectors will continue to be essential such as steel or aluminium.If Europe still wants to be a manufacturing powerhouse in 2030, we need a genuine European industrial policy. The investments required to enable Europe to compete on the global stage and the development of long-term industrial strategies aiming inter alia at a carbon-neutral economy are so      important that we can only succeed if we pool our funding, our skills, and our expertise.The choice is simple when it comes to industrial policy: unite our forces or allow our industrial base and capacity to gradually disappear. We consider the future European industrial strategy should be built around following pillars:–   Massively investing in innovation:We will only succeed if we are the ones creating, developing and producingnew technologies.Ø To become world leaders on Artificial Intelligence. Ø To ensure our financial markets support innovation in industry.: That is why we need to complete the Capital Markets Union and give our industry the possibility of financing themselves more easily, especially when they grow in scale.” Volendo risalire alla dottrina economica sottesa a questa impostazione non possiamo non riandare ai testi di Mariana Mazzucato, in particolare a Lo stato imprenditore e Al valore di tutto. In quei testi l’autrice evidenzia come il futuro dell’economia sia caratterizzato dalla presenza di stati-continente come Cina e USA, ove la ricerca scientifica si pone come punto focale critico dello sviluppo economico. Tale ricerca richiede ingenti investimenti, propensione ad investire in aree dove la percentuale di successo è bassa e che comunque quand’anche conclusa con successo, richiede tempi che confliggono con il shortismo del capitalismo odierno. La Mazzucato evidenzia come i fenomenali imprenditori, conclamati ed osannati per le recenti innovazioni tecnologiche siano semplicemente degli sfruttatori di una ricerca seria fatta a monte da enti statali nell’ambito di una programmazione lungimirante atta a raggiungere l’egemonia tecnologica; ricorda, ad esempio, che il www nasce al CERN di Ginevra, il GPS al pentagono statunitense. Così come accade sul fronte del computer quantistico e dell’Intelligenza Artificiale la presenza di ricerca pubblica è all’origine di quanto poi le start up companies ereditano e diffondono nel mondo del capitale privato. Lo stato del conflitto economico Non è un caso che la proposta di una rivoluzione nella politica europea che mette in mora le posizioni liberiste e di libero mercato sia stata fatta da due paesi come Francia e Germania che più delle altre si rendono conto della crescita dello scontro, chiamiamolo tecnologico, tra i paesi-continente. Quei due paesi sono quelli che più degli altri hanno incrementato la produttività delle loro produzioni e hanno da tempo recuperato la perdita di PIL causata prima dal fallimento del capitalismo finanziario del 2008 e successivamente dal Covid. La Cina continua ad investire cifre notevoli nella ricerca (si pensi ad esempio agli sviluppi nella fusione nucleare) guidata da uno stato forte, notevole programmatore, estremamente capace di politiche ad ampio raggio; si pensi che nonostante l’immensa disponibilità di mano d’opera anche formata e specializzata, la Cina è tra i primi produttori ed utilizzatori di robots. Gli Stati Uniti dopo aver stampato enormi quantità di dollari (Trump e Biden in particolare) per contrastare gli effetti del Covid si trovano ora in presenza di una inflazione da domanda che la Federal bank sta combattendo a colpi di rialzo del tasso di sconto. Sorvolo sulla correttezza dell’approccio figlio della religione del NAIRU (not accelerating inflation rate of unoccupancy) e sulla miope copiatura fatta dalla BCE in presenza di inflazione importata e non da consumi. Ma mi riferisco alla recente legge IRA (inflation reduction act).     Si tratta dell’entrata in vigore negli Usa di un pacchetto legislativo di circa 400 miliardi di dollari, che dal primo gennaio 2023 agevola imprese e famiglie nella transizione green. Si tratta dell’IRA (Inflation reduction act), che stanzia una quantità di sussidi senza precedenti per convincere le imprese a tornare a investire negli Stati Uniti, oltre a concedere robuste agevolazioni fiscali alle famiglie per convincerle a «comprare americano», in testa le auto elettriche. Le industrie dell’auto tedesche e francesi temono di non poter reggere la concorrenza: basti dire che l’Ira prevede un credito d’imposta di 7.500 dollari per l’acquisto di un’auto elettrica nuova, e di 4mila dollari per una usata. Incentivi fuori portata in Europa. Insomma, la battaglia tutt’altro che liberista o concorrenziale ma fondata sugli  incentivi e sui …

PD, MOVIMENTI, SISTEMA POLITICO 

di Franco Astengo | Nel corso del dibattito che si è sviluppato nell’Assemblea di lancio per le “primarie” del PD è mancata l’analisi del vero “oggetto del contendere” . Il tema di fondo, infatti, non risiede nella situazione del partito, nella sua evidente incapacità di rappresentare soggetto di proposta politica e di aggregazione del consenso. Il nodo gordiano di questa fase è invece quello della fragilità congenita del sistema politico italiano e del suo disancoraggio complessivo dall’insieme delle contraddizioni sociali. Un dato di analisi che coinvolge tutti i soggetti in campo: la fragilità del sistema politico sta già presentando il conto, dopo pochi mesi, anche al governo di destra che non appare in grado di ravvisare un punto comune o una capacità di condensare spinte diverse in qualcosa di coerente e compatto, sbandando di qua e di là . Come vedremo meglio in seguito per la destra non risulterà sicuramente sufficiente portare avanti la problematica della modifica costituzionale (questione che è sempre risultata viatico di sconfitta per il suoi propugnatori) avanzata in termini tra loro contrastanti e fortemente divisiva anche rispetto all’elettorato (al di là delle sirene dei facili slogan: “la donna/uomo forte”; “la priorità del proprio giardinetto”). Tornando al PD il primo interrogativo che si pone riguarda la difficoltà nel porsi come “traduzione politica” ai movimenti reali presenti nel Paese: movimenti che pure stanno fornendo significativi segnali di vitalità e di presenza sociale. Due soli esempi: il movimento sindacale, con lo sciopero generale del 16 dicembre scorso e il movimento per la pace che, dopo la manifestazione nazionale del 5 novembre, sta continuando a crescere, anche in dimensione europea (a questo livello è prevista una manifestazione a Barcellona). Presenza sindacale in connessione pacifista che fa sì che nel movimento confluiscano vari impulsi sia al riguardo del modello economico, della giustizia sociale, dell’uguaglianza e dell’impatto ambientale. Il PD, pur svolgendo a lungo ruolo di governo in funzione pivotale dovrebbe analizzare meglio come elemento di principio di non essere stato al governo tra il 2011 e il 2022 con i governi Monti,Letta, Renzi, Gentiloni, Conte II, Draghi, come soggetto parte di una coalizione vincente alle elezioni (in seguito: o governi di larghe intese oppure frutto di trasformismi e scissioni, dal Nuovo Centro destra di Alfano al M5S versione Conte II) . Ed è questo un punto che definisce davvero la crisi come “sistemica”: un partito dal consenso insufficiente che si regge come “architrave” della governabilità per un periodo di circa 10 anni (esclusa la parentesi gialloverde). Osserviamo per punti: 1) Via via, tra le elezioni 2013 e quelle 2022 passando per le Europee 2014 e 2019 il consenso per il partito di maggioranza relativa pro-tempore si è via, via ristretto in un quadro di altissima volatilità (dagli 11 milioni di voti del PD targato Renzi nel 2014 ai poco più di 7 milioni raggranellati da FdI nel 2022); 2) L’esito elettorale è stato sempre determinato da una costante ricerca del “nuovo” da parte di settori molto consistenti dell’elettorato che via, via si sono espressi in “sacche” di consenso territoriale oppure legate a “single issue” di stampo corporativo, anche se dettate da istanze materiali molto pressanti (nel frattempo sono falliti progetti politici di rilevante portata: quello del PD “vocazione maggioritaria”, quello dei 5 stelle “uno vale uno e il consenso aggregato per via web”, quello della Lega di trasformazione da partito regionale a partito nazionale); 3) Nel ridefinirsi del quadro internazionale dalla fase di “globalizzazione aperta” ad un tentativo di risistemazione in “blocchi” emerge una grande incertezza al riguardo della potestà legislativa e della facoltà esecutiva: tra Parlamento e Governo; tra “Stato – Nazione e UE” (UE di cui si sta cercando di far coincidere perimetro e intenzioni con quello della NATO); tra Stato e Regioni. In questo quadro frammentato emergono rischi di abbattimento costituzionale attorno a temi di grande delicatezza quali la forma di stato ( forma di stato repubblicana legata al ruolo mediatorio della Presidenza della Repubblica) e la forma di governo (al riguardo della quale sta avanzando una proposta di presidenzialismo non chiarita sul punto – chiave della distinzione tra legislativo ed esecutivo) Confusione che del resto albergava anche nei progetti già presentati in precedenza: Bicamerale 1997, governo di centro – destra 2005, governo di centro – sinistra 2016. Il tutto collegato a continue e folli modifiche della legge elettorale, due delle quali bocciate dalla Corte Costituzionale e con quella in vigore contenente in sé una potenzialità di fortissimo squilibrio nella formula che traduce i voti in seggi. In sostanza: politica estera ridotta ad acquiescenza al progetto di compiuta identificazione nella NATO, insufficienza della base di consenso a livello sistemico, debolissima tenuta del radicamento elettorale sul territorio; progetto di frammentazione territoriale nella risposta ai bisogni sociali (già in stato avanzato) con distruzione dei residui di welfare e aumento delle disuguaglianze; distanza dalle contraddizioni sociali; vocazione corporativa ( nello specifico della destra attualmente al governo, ma non solo); evidente insufficienza di espressione culturale da parte dei partiti (e dei mezzi di comunicazione che li sostengono). Risultato: il punto non sta “dentro” al PD ma nella debolezza complessiva del sistema. Una debolezza che non può e non potrà essere affrontata soltanto dall’avvento di meccanismi istituzionali di ulteriore prevalenza della governabilità e di soffocamento delle esigenze di rappresentanza. Prima di guardarsi all’interno e contendersi leadership di gusci vuoti il PD e la sinistra dovrebbero tentare di esaminare il quadro generale in Italia e fuori d’Italia e comprenderne le difficoltà “sistemiche” in termini di equilibrio tra i poteri tra cessione di sovranità al di fuori e all’interno dello “Stato Nazione”, di debole radicamento complessivo, dell’emergere di istanze settoriali, corporative, di vero e proprio egoismo sociale, di vera e propria sparizione del concetto di “interesse generale”. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, …

FORMULA ELETTORALE

di Franco Astengo | Al momento dell’esito delle elezioni svoltesi il 25 settembre 2022 alti lai furono elevati all’indirizzo delle evidenti distorsioni presenti nella formula elettorale, in particolare al riguardo dell’impossibilità da parte dell’elettrice/elettore di indicare diversamente la propria preferenza tra la parte uninominale e quella proporzionale in cui era suddivisa la scheda. Esaurita l’emozionalità del momento e preso possesso dei seggi conquistati la “vox clamantis” denunciante l’ingiustizia si è acquietata e il dibattito politico sembra aver dimenticato la problematica. Soltanto in un piccolo angolo della sinistra e del fronte democratico si pensa di continuare a combattere questa battaglia della quale è ormai da anni indiscusso animatore il milanese prof. Felice Besostri, già senatore dell’Ulivo, che in ben due circostanze ha strappato alla Corte Costituzionale sentenze decisive l’una per affossare la legge Calderoli del 2005 e l’altra progettata dal governo Renzi nel 2014 e votata attraverso la fiducia dal Parlamento ma mai entrata in vigore proprio per via del pronunciamento della Corte. Proviamo allora a riassumere alcuni elementi per i quali il tema della formula elettorale che traduce i voti in seggi è questione fondamentale della vita democratica del Paese. 1) Dal 1976, momento della massima espansione elettorale del sistema dei partiti, ad oggi la percentuale della partecipazione al voto è risultata in costante calo: un segnale evidente non solo di disaffezione dal punto di vista sociale ma soprattutto dal punto di vista del complesso dell’educazione politica. Per eseguire questo lavoro abbiamo preso in considerazione alcune tappe dell’itinerario storico delle elezioni svoltesi in Italia e cominciamo allora ad esporre la percentuale dei partecipanti di volta in volta al voto: 1976 (punto di massima concentrazione del voto nei 2 grandi partiti di massa che assieme assommavano circa 27 milioni di voti) 93,39%; 1994 ( prima prova della formula mista con scorporo) 86,31%; 2006 (momento culminante del bipolarismo) 83,62%; 2018 (prima prova dell’attuale formula mista senza voto disgiunto) 72,94% 2022 63,79%. Da notare che dal 1994 non è più esistita la possibilità di espressione della preferenza (unica dal referendum del 1991) : collegio uninominale abbinato a lista bloccata (di diversa lunghezza); 2) Le cifre che appariranno di seguito sono state elaborate in questo modo: a) elezioni 1976, per lista singola; b) elezioni 1994 per coalizioni con i voti ottenuti nella quota maggioritaria sommando i seggi tra quota maggioritaria e quota proporzionale; c) elezioni 2006 per coalizioni sommando i seggi per le singole liste; d) elezioni 2018 e 2022 per coalizioni sommando i seggi per la quota maggioritaria e quella proporzionale. L’interrogativo al quale dovrebbe essere fornita una risposta è questo: considerata l’impossibilità di scegliere il singolo candidata/o come elemento di privazione di una parte importante della possibilità di scelta per l’elettrice – elettore quanto è possibile sopportare, per un sistema democratico, un determinato livello di disparità nella possibilità – per le singole liste o coalizioni di accedere al Parlamento ? I dati sono riferiti all’elezione per la Camera dei Deputati e al territorio nazionale esclusa la Valle d’Aosta (dove vige il sistema uninominale secco). Procediamo semplificando: Elezioni 1976 (sistema proporzionale con sbarramento ai 300.000 voti su tutto il territorio nazionale e al conseguimento di un quoziente pieno in almeno una circoscrizione): la DC ottiene la maggioranza relativa con 14.209.519 voti e 262 seggi, per un seggio la DC paga 54.234 voti. Il PCI secondo partito più votato ottiene 12.614.650 voti con 228 seggi, ciascun seggio vale 55.327 voti, con uno scarto di 1.003 voti. Dieci liste superano il “quorum”: esclusa la SVP che gode del vantaggio dovuto alla concentrazione territoriale, l’ultima lista a ottenere la rappresentanza parlamentare fu in quell’occasione il Partito Radicale che con 394.439 voti ottenne 4 seggi; 98.609 voti per ciascheduno. In sostanza il divario tra il costo-voto della DC e il costo – voto del PR correva l’81,82%. Elezioni 1994 (Formula mista proporzionale – maggioritario al 75% maggioritario. Scorporo, sbarramento al 4% e liste bloccate). Esce dalle urne un sistema tripolare. Il futuro centro – destra presenta una doppia alleanza: al Nord “Polo della Libertà” con Forza Italia e Lega Nord; nel centro – sud “Polo del Buon governo” con Forza Italia e Alleanza Nazionale (in quel momento espressione elettorale del MSI). Sommando i dati il centro destra ottiene 16.588.162 voti con 366 seggi, ciascun seggio vale 45.322 voti (circa 10.000 in meno rispetto alla DC’76) l’alleanza tra i Progressisti, progenitrice del futuro centro- sinistra ottiene 13.308.244 voti con 213 seggi, per ciascun seggio sono serviti 62.480 voti. Il terzo polo composto da Patto per l’Italia e Partito Popolare (gli eredi più diretti della DC) tocca i 6.098.986 voti con 46 seggi: 132.586 servono per un seggio, il 192,54% in più di quanto è servito al centro – destra. Il massimo delle disuguaglianza che indica il profilo nettamente bipolare insito nella formula adottata in quel momento e comunemente definita “Mattarellum”. Elezioni 2006 (premio di maggioranza, sbarramento e liste bloccate). Anche in questo caso il nostro riferimento è alle coalizioni sommando i seggi ottenuti dalle singole liste che le componevano. Centro – sinistra 19.002.588 340 seggi, ciascun seggio 55.889 voti; Centro – destra 18.977.843 voti per 277 seggi, pro- quota 68.512 voti. Il minimo della differenza considerato – ovviamente – l’esito strettamente bipolare: 12.622 voti. Per fornire un esempio della valenza maggioritaria di quella formula elettorale (poi, come già riferito, bocciata dalla Corte Costituzionale) si riferisce anche dell’esito delle elezioni successiva, 2008, dove il quadro di partenza presentava una quadripartizione del campo. Il centro – destra (perduta l’UDC) ottenne 17.064.506 (un calo di quasi 2 milioni di voti) per 340 seggi (50.189 voti per seggio, 18.000 voti in meno rispetto a due anni prima); l’alleanza PD-IdV (perdute le liste di sinistra ed ecologiste racchiuse nell’Arcobaleno che non ottenne il quorum) 13.689.330 per 239 seggi, 57.277 voti per seggio. L’UDC : 2.055.229 per 36 seggi, 57.089 per seggio, mentre l’Arcobaleno disperdeva direttamente 1.124.298 voti. Questi numeri dimostrano come il combinato disposto di premio di maggioranza (senza soglia) e lo sbarramento (al 4%) producano un effetto di riduzione della rappresentanza …

I PRIMI VENTI ANNI DEL SECOLO

Il XXI secolo nel suo primo ventennio (22 per la verità) ci mostra un netto peggioramento del clima di convivenza, un crollo nella fiducia sulle prospettive e forti domande o meglio dubbi sul nostro futuro. Sovrasta nel senso comune la convinzione che le cose, invece di migliorare, anche se lentamente e con interruzioni, continuino a peggiorare iniettando nelle menti sfiducia, senso di impotenza, rassegnato scetticismo sulla possibilità di invertire la rotta. Capitol Hill e la rivolta brasiliana segnalano una crisi profonda della democrazia, l’invasione dell’Ucraina fa vacillare la solidità di una pacifica convivenza, le insopportabili spacconate di Nancy Pelosi anticipano un peggioramento sul fronte taiwanese. Inoltre, il surriscaldamento del pianeta minaccia le prospettive di sopravvivenza imponendoci obiettivi che stentiamo a condividere e a realizzare tempestivamente.    Senza entrare in riflessioni ad alto livello partirei elencando una serie di fatti che hanno caratterizzato questo ventennio. Inizia il 2001 con il fallimento della multinazionale Enron evidenziando la gestione truffaldina di una società  che coinvolge la politica e mette in crisi la credibilità delle società di revisione; Nel 2001 a settembre gli attentati alle torri gemelle portano all’estremo la tensione internazionale;   Tensione che si concretizza nell’attacco degli USA contro l’Afghanistan; Nel 2003 con l’attacco degli USA contro l’Iraq accusato falsamente da Colin Power di preparare armi di distruzione di massa; Nel 2007 il crollo dei mutui subprimes porterà l’anno successivo al fallimento della Lehman Brothers e al crollo dell’economia mondiale sfociata in milioni di licenziamenti di lavoratori in tutto il mondo; La crisi finanziaria costringe i governi ad aiutare le economie ma creando un indebitamento degli stati fonte di ulteriori sacrifici dei governati; Scoppia la pandemia Covid e tutti i paesi di ritrovano impreparati ad affrontare le conseguenze anche economiche che incrinano la globalizzazione; Nasce il dramma della dipendenza di molti paesi per quel che riguarda l’energia in primis ma che si estende a molte altre critiche materie prime o prodotti quali i semiconduttori; Dopo anni si riaffaccia l’inflazione che destabilizza i rapporti internazionali; l’Ucraina e Taiwan, cui abbiamo già accennato, costituiscono una minaccia terribile che rimanda al rischio nucleare, tornato a riattualizzarsi. La situazione vede incrinarsi la comunicazione, in qualche modo solidale, tra i popoli che si realizzava con la globalizzazione e tende ad acuire l’arroccamento delle due potenze mondiali, USA e Cina, con gli altri paesi che cercano una loro collocazione (India e paesi arabi, ma anche sud America) strategica, e la comunità europea che incapace di costruirsi una strategia che ne permetta una funzione autonoma e di riferimento, subisce le manovre strategiche degli imperialismi pagandone le conseguenze in termini economici con gli effetti delle controsanzioni e con una prossima recessione. Siamo chiari: la recente approvazione da parte degli USA dell’IRA (Inflation Reduction Act), che introduce sussidi all’industria statunitense, aggrava la situazione concorrenziale, già sbilanciata, nella quale l’Europa sta soffrendo nei confronti degli USA con la crisi energetica e con le altre ricadute derivanti dal conflitto ucraino. E’ indubbio che le imprese statunitensi stanno producendo con costi energetici pari ad un quinto di quelli che devono sostenere le imprese europee. L’intervento dello stato che con l’IRA sussidia le imprese rende ancor più ardua la competitività delle imprese europee. Il fondo sovrano europeo proposto da Gentiloni Il commissario Gentiloni lancia allora la proposta della riforma degli aiuti di Stato proponendo un fondo sovrano europeo. La proposta costituirebbe un secondo atto politico (dopo quello del NGEU) che rompe una subalternità della politica europea al libero mercato, al liberismo indiscusso. Gli aiuti di stato sono una negazione del libero mercato, ma divengono indispensabili quando gli altri paesi, specie se alleati, fondano la loro concorrenza su simili strumenti. L’Europa se non reagisce alla situazione e non imposta provvedimenti atti a rendere competitive le sue produzioni, rischia di soccombere.          Il fondo sovrano europeo proposto da Gentiloni avrebbe quindi l’obiettivo di consentire ai governi di contrapporre alla concorrenza internazionale, non sempre leale, strumenti che permettano loro di aiutare le proprie economie. Gentiloni, tuttavia, aggiunge che “nelle prossime settimane dovremmo deciderne i contorni” aggiungendo che il nuovo strumento dovrebbe finanziare comuni progetti europei in particolare se conformi alle priorità strategiche dell’Unione. Gentiloni precisa poi che “Dovremo anche decidere come finanziare questo nuovo fondo” ma anche come conferirlo alle imprese, se sotto forma di prestiti o di sussidi, ribadendo che questo fondo “non deve mettere in dubbio il modello economico europeo basato sulla concorrenza. Non vogliamo certo creare una economia gestita da burocrati. Sarebbe folle!”. Ecco, quindi il punto; gli aiuti di stato, che sono una negazione della libera concorrenza, non mettono in dubbio il modello economico europeo basato sulla concorrenza, solo se i fondi erogati lo sono sotto forma di prestito (che quindi devono essere restituiti) o sussidio (che vuol dire a fondo perduto o meglio regalati). Diventerebbero invece una violazione del modello economico europeo se fossero erogati sotto forma di partecipazioni nelle società beneficiarie, facendo quindi del governo (o meglio il contribuente) un socio a tutti gli effetti; ciò sarebbe la follia di una economia gestita da burocrati.   Gentiloni considera quindi Mattei un burocrate a capo dell’AGIP? Siamo seri, è giusta l’analisi di Gentiloni ed interessante la sua proposta di un fondo comune; assurda la sua proposta di come conferire i fondi: pare che seguendo il modello americano si privilegerà la via dei sussidi. Torna quindi in una veste più strutturata la proposta del “campioni europei” Si sono cioè aperte le porte a una revisione delle regole della concorrenza, rispondendo così alla richiesta presentata in varie occasioni da Francia e Germania per facilitare la nascita di campioni industriali tutti europei, in grado di competere con i concorrenti di Cina e Stati Uniti. La decisione segna un importante raffreddamento nella fiducia nella dottrina della massima concorrenza e de libero mercato, e conferma la volontà di Ursula Von der Leyen di dare seguito alla promessa di una Commissione che difenda gli interessi strategici dell’UE. Il dossier è fondamentale per il futuro della politica comunitaria. All’epoca del Trattato di Aquisgrana – l’accordo franco-tedesco sottoscritto da Merkel …