ANCORA SUL SOCIALISMO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Un ulteriore contributo Accetto volentieri l’apertura di una corrispondenza, aperta a tutti i compagni, con Silvano Veronese, e vorrei precisare lo scopo della mia risposta al suo ultimo post. Lo scopo è di confrontarci per raggiungere una visione condivisa sul futuro del socialismo e quindi del nostro comportamento; parto dai punti che condividiamo, chiarisco punti che evidentemente non ho ben spiegato, cerco di spiegare il perché della non condivisione di altri punti. Il tutto al fine di una costruzione, magari dialettica, ma congiunta. Silvano: mi sembra che condividiamo il fatto che, come scrivi tu, “purtroppo il contesto politico, esterno alle fabbriche, ha subito negli ultimi anni un regresso continuo, facendo venir meno la condizione che potesse favorire una continuità evolutiva di questi positivi processi gradualisti fino a far regredire anche le stesse conquiste sociali degli anni ‘70”, meno condiviso è il seguito “Ma ciò non mette in discussione il valore di questo riformismo sociale”. Abbiamo avuto un periodo dal 45 agli anni ’70 di, da me riconosciute, importanti riforme sociali (per esempio la nazionalizzazione dell’Enel); abbiamo poi avuto un periodo di avanzante liberismo che ha portato ad affrettate ed inopportune privatizzazioni che hanno ridotto la funzione pubblica alla sola funzione di “stato regolatore” garante del libero mercato; siamo passati poi ai fallimenti del mercato (tre nel solo nuovo secolo) che hanno portato allo “stato elemosiniere” che viene in aiuto del capitale erogando bonus, sussidi e agevolazioni fiscali. Ciò non è colpa del riformismo, ma è sintomo del fatto che il riformismo, come scrivi tu, vede “regredire anche le stesse conquiste sociali degli anni ‘70”. Di qui la mia sollecitazione a ricercare una nuova “fase” del riformismo, un approccio adeguato ai tempi che innalzi il livello di intervento fino ad “intaccare la struttura economica” o per meglio chiarire, modificare la struttura del capitalismo superando la fase di modifica sovrastrutturale. E su questo mi pare che concordiamo quando scrivi che sei favorevole ad “una presenza pubblica attiva (…) in alcuni settori di primaria importanza sociale”. Non ho mai parlato di “statalizzazione di tutti i mezzi di produzione” ma ho indicato, nel capitolo “economia”, dove ritengo intervenire con un nuovo approccio nel rapporto con i mezzi di produzione. Sull’economia. Siamo completamente d’accordo sul ruolo strategico che la ricerca assume in questa fase storica, tu mi contesti di non essere “d’accordo che solo lo Stato debba mettere a disposizione le risorse necessarie”. Non mi sembra di aver scritto questo, e se l’avessi fatto rettificherei. Quello che sottolineavo è che il capitalismo privato (quello nostrano, non le multinazionali) non è strutturalmente in grado di assumersi l’onere del rischio e del lungo pay-back insito nella ricerca. Mi rifaccio cioè alla funzione nuova (ecco la nuova fase del riformismo) che “Lo stato innovatore” di Mariana Mazzucato può assumere. Ed aggiungevo che “solo un programma impostato tra gli stati europei può offrire una base seria per una ricerca capace di tenerci in campo nella competizione mondiale”. Ma la Cina e gli stessi Stati Uniti (leggasi sempre sul libro della Mazzucato) sono al primo posto nella ricerca fatta dallo stato o enti (pentagono, cia etc) che hanno prodotto da internet a gps tutta la tecnologia oggi in uso. Ma pensiamo ai calcolatori quantistici, non potrebbe essere un ente europeo che lo sviluppa, e che dire della fusione nucleare (Iter insegna). Certo in questo disegno può partecipare anche l’imprenditoria privata ma è ovvio che sarebbe parte di quella programmazione pubblica costituente la nuova fase del riformismo che immagino. Altro è regalare i soldi alle imprese con i miliardi di € già erogati e quelli erogandi con il PNRR con le agevolazioni 4.0 di Calenda. Con questo provvedimento, come scrivevo, ”i soldi delle tasse pagate dai contribuenti sono regalati ad un capitale ozioso ed inadempiente ai suoi compiti, per aumentare la produttività (ferma da trent’anni) che in un primo approccio crea licenziamenti ai danni proprio di quei contribuenti che hanno finanziato l’innovazione”. Per questo proponevo che quei fondi invece di essere erogati sotto forma di sussidio, fossero erogati in cambio di azioni societarie delle imprese beneficiate. Tu invece hai “delle riserve circa il tramutare il sostegno pubblico in azioni delle imprese interessate ed impegnate in questi programmi perché, nel caso l’azienda dovesse fallire, trascinerebbe anche la sfera pubblica nella responsabilità del negativo evento”. Obietto che in primis non vedo perché se l’investitore è privato ha in cambio azioni ed invece se è pubblico non dovrebbe aver diritto ad un pari trattamento, In secundis non capisco perché per il rischio possibile di un fallimento di una azienda su mille su cui si è investito dovrei perdere tutto l’investimento (anche quello delle altre 999) erogandolo come regalo. Insomma per non perdere uno preferiresti perdere mille. Infine ricordo che in caso di fallimento, l’azionista perde il valore dell’azione senza nessun altro evento negativo in cui si possa essere trascinati. Sullo sfruttamento. Non è un “esagerazione massimalista”usare il termine “sfruttamento” o prefigurare una situazione di neo-schiavismo. L’attuale fase economica vede, insieme a tradizionali forme di sfruttamento, nuove forme prodotte dalle innovazioni nel modo di produzione. Non condivido la tua osservazione secondo la quale “oltre il 50% del mondo del lavoro dipendente è impegnato nelle attività del terziario, dei servizi e della P.A. (prevalentemente impiegatizio) e perciò non assoggettato a ritmi più o meno insopportabili di lavoro vincolato o disagiato.” Già Marx, nei Grundrisse, osservava che lo svilupparsi dello sfruttamento sul lavoro intellettuale avrebbe reso miserevole lo sfruttamento sul lavoro fisico; l’appropriazione da parte del capitale del lavoro intellettuale del mondo del lavoro (in questo caso impiegatizio) è oggi la realtà dei rapporti sociali. Ma non possiamo ignorare, quando parliamo di servizi del terziario, l’introduzione degli algoritmi, di quelle elaborazioni presentate come asettiche e obiettive, che vengono imposte senza alcuna fase contrattuale e di confronto minando così alla base ogni parvenza di rapporto tra uguali.  “La vecchia contraddizione tra capitale e lavoro si amplifica, per manifestarsi, a mio avviso, sempre più come contraddizione tra l’energia complessiva …

SOCIALISMO “LIBERALE” O DEMOCRATICO PER GOVERNARE IL FUTURO O SEMPLICEMENTE SOCIALISMO?

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | Giusto il richiamo riportato nel Suo recente articolo da Renato Gatti a delle  condivisibili affermazioni di Norberto Bobbio contenute in una vecchia intervista. Personalmente,  non mi è  mai piaciuta l’aggettivazione di “socialismo liberale”, oggi spesso usata a volte per definire la pratica di un socialismo democratico, vale a dire il perseguimento di politiche ed azioni da parte di soggetti politici che tendono ad introdurre, attraverso una lotta politica riformista in una società pluralista retta da un sistema democratico, elementi di socialismo e cioè di emancipazione dei lavoratori e di eguaglianza sociale, di estensione di diritti progressivi di giustizia sociale, di avanzamento della condizione economica, sociale e civile delle classi meno abbienti e marginalizzate come “periferie” di una società articolata. A volte viene usata da alcuni  per intendere quella che giustamente Norberto Bobbio chiama una formula dottrinaria e cioè il “liberalsocialismo”. Esistono al mondo, anche dopo la “caduta del muro” e la disgregazione dell’Unione Sovietica, regimi autoritari dittatoriali illiberali  da parte di partiti-stato che dicono di ispirarsi al socialismo, ma non vedo il bisogno di ricorrere alle predette aggettivazioni, secondo me, per distinguere dette  esperienze dal socialismo che si è affermato nell’Europa occidentale da molti anni perché queste esperienze di socialismo europeo sono  maturate e sviluppate assumendo in sé gli inalienabili valori della libertà e della democrazia. Quanto al liberalsocialismo, prendo atto, invece,  che tutte le sue esercitazioni ideologiche – a partire da G.L. e dal Partito d’azione, per andare al progetto pannunziano ed unificatorio della “terza Forza” e per giungere alla seduzione italiana della blairiana “terza via del new labour” unificandolo ai liberali, hanno fallito la loro concretizzazione pratica in un partito politico, malgrado le indubbie qualità morali ed intellettuali dei propugnatori come pure quelle di coloro che, pur avendovi aderito all’inizio, hanno finito poi – quelli di ispirazione socialista – per confluire nel PSI e – quelli di ispirazione liberaldemocratica – per confluire nel PRI, nel Partito Radicale o nella sinistra liberale. Ci sono certamente valori comuni e/o contigui tra le due ideologie, ma ci sono pure non trascurabili elementi antagonisti e molto diversi riferimenti sociali con i loro interessi, con problematiche e bisogni di segno diverso  da soddisfare che rendono – al limite – praticabile una alleanza coalizionale fra soggetti politici che si ispirano alle due ideologie ma NON praticabile la loro contaminazione e/o fusione in soggetto politico unitario, in particolare per una diversa concezione del ruolo dello Stato, una diversa  visione della società e della distribuzione dei poteri e della ricchezza. Tutto cio’ premesso, secondo il mio pensiero, vengo a chiarire le mie valutazioni sul carattere di socialismo che Renato Gatti ha sviluppato nel Suo articolo e che, per la comunità di “Socialismo XXI”, interessa molto di piu’ che una valutazione sulla validità di una formula  dottrinaria (per dirla con Bobbio). Non credo sia privo di significato il fatto che la Costituzione repubblicana definisce uno Stato che, grazie al ruolo delle forze riformatrici, si astiene dal comprimere la libertà dei cittadini, ma che non rinuncia a regolamentare i diritti di libertà del singolo o di un gruppo di cittadini  affinchè essi non comprimano la libertà degli altri. E ciò si è affermato, ad un certo punto della vita repubblicana, anche sui posti di lavoro affinchè il soggetto subordinato nella organizzazione produttiva (cioè il lavoratore dipendente) non lo fosse anche come cittadino con le sue libertà di espressione politica, religiosa, e di appartenenza sindacale o partitica. Non ritengo condivisibile, perciò, quando Gatti afferma  che per il Socialismo democratico (che Egli chiama riformista) i diritti sociali siano indefiniti. Faremmo un torto allo Statuto dei Lavoratori e ad altre normative pro-labour nonché ad una diffusa rete di contratti nazionale di lavoro che non sono piovuti dal cielo o senza il sostegno e l’impegno di questo modello di socialismo. La Costituzione, nelle sue indicazioni di principio e precetti generali, prefigura la possibilità di una economia mista: spetta alla legislazione, ai governi e al Parlamento definirne gli ambiti e i ruoli, in particolare quelli dell’intervento pubblico. Ad esempio, proprio raccogliendo le indicazioni costituzionali, io penso che scuola, sanità, assistenza sociale, mobilità, servizi pubblici essenziali, tutela ambientale dovrebbero vedere un maggiore ruolo gestionale diretto e primario dello Stato (anche se in termini non esclusivi, ma certamente fondamentali e di indirizzo e controllo per le eventuali co-presenze dei privati). Anche in settori strategici per l’economia e l’interesse generale del Paese lo Stato, oltre a formulare indirizzi dovrebbe, in caso di inerzia o latitanza dei privati, assumere un ruolo protagonistico di gestione. Abbiamo avuto, anche in presenza di governi di centrosinistra, negative e gravi inversioni di tendenza con privatizzazioni affrettate e spesso ingiustificate. Cio’ non significa che sia avvenuto per responsabilità  di una pratica del “socialismo riformista”, semmai il contrario. Come pure lo strapotere brutale del capitalismo, in particolare di quello finanziario, che ha prodotto gravi e profondi regressi sul piano della distribuzione della ricchezza e dei redditi, non è responsabilità di una pratica riformista del socialismo anche perché per governare l’intera società serve il consenso della maggioranza e, purtroppo, un soggetto politico di queste caratteristiche non l’ha mai avuta nella c.d. prima repubblica oppure non c’è mai stato nella c.d. seconda, malgrado la presenza in vari governi di responsabilità con ascendenze storiche nel mondo del lavoro e contiguo. Tu dici, serve una “strategia che intacchi la struttura economica”. Non ne vedo le condizioni e le disponibilità di forze politiche e sociali di rilievo. E poi in che formula si concretizzerebbe? Nella statalizzazione di tutti i  mezzi di produzione? Non sono d’accordo perché riporterebbe ai dibattiti di 120 anni fa nella sinistra e comunque sarebbe un obiettivo negato dalla Legge Costituzionale che riconosce la proprietà privata e la libera iniziativa in economia. Diverso è il discorso, come sopra ho evidenziato, di una presenza pubblica attiva (piu’ dello Stato che delle Regioni che hanno dato cattiva prova di sé  nella capacità gestionale del bene comune) in alcuni settori di primaria importanza sociale e per il bene della comunità nazionale o per la loro strategicità ai fini dello sviluppo ed …

SOCIALISMO LIBERALE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | “Socialismo liberale o, che è lo stesso, liberalsocialismo, sono formule dottrinarie, che stanno a indicare in astratto l’esigenza di far confluire in un progetto politico concreto le istanze del liberalismo e quelle del socialismo, che durante tutto il corso del secolo passato [il XIX] erano state tenute separate. Ma come formule dottrinarie debbono essere riempite di contenuti che possono variare da un’età all’altra. Sono formule tanto dottrinarie che non è mai esistito sinora un partito socialista liberale. Entrambe le formule non dicono niente circa il quantum di socialismo che deve essere di volta in volta mescolato nella pratica politica. Altro è la formula dottrinaria, altro la combinazione in sede politica che, pur tenendo conto della duplice esigenza, deve affrontare situazioni concrete. La politica dei diritti – di diritti che possano avere la natura di diritti di libertà, che richiedono soltanto l’astensione dello Stato, o quella di diritti sociali, che richiedono invece l’intervento dello Stato – a me pare la maniera per riempire di contenuti concreti quella formula e quindi di saggiarne la validità.” Da una intervista a Norberto Bobbio. La nascita del socialismo liberale trova, a mio parere, la sua ragion d’essere nel rifiuto di due opposti regimi totalitari quali il fascismo ed il comunismo sovietico: dei due regimi si contesta l’intervento dall’alto di uno stato che limita e sopprime le libertà dei cittadini costretti a subire il comando di un potere centralizzato e negante spazi a diritti fondamentali insiti nella dignità umana. Del comunismo si critica anche il materialismo marxiano, accettando del socialismo la vocazione alla difesa dei più deboli ed emarginati attuabile con una politica che estenda i diritti sociali. Nel mondo odierno ritengo vastamente accettata la concezione di uno stato che si astenga dall’intervenire nella limitazione o regolamentazione dei diritti di libertà, solo la destra oggi al governo, già dai suoi primi vagiti, esprime la propensione ad intervenire su questi diritti con affermazioni di principio e interventi legislativi che preannunciano uno stato etico di gentiliana memoria. Ma va pure notato che la destra al governo, quando preannuncia interventi nel campo dei diritti e delle libertà, si premura di assicurare che non c’è alcuna intenzione di abolire o cancellare, ma di meglio interpretare, quei principi che pur si mettono in discussione. Dove i confini del socialismo liberale sono più indefiniti è nel campo dei diritti sociali, che non possono non rimandare ad un campo molto specifico, quello dell’economia, e quindi dei temi della produzione e della redistribuzione. Alle origini si pensava ad  un’economia mista, con imprese pubbliche, private e cooperative, che, senza misconoscere le regole del mercato, fornisca al potere pubblico e alle forze sociali i mezzi per la realizzazione degli obiettivi di interesse generale. Si pensa alla pecora (il capitalismo) che va supportata e difesa per poterla meglio tosare agendo sulla redistribuzione, un sistema che troverà la sua piena formulazione teorica e pratica in quello che si chiama welfare state. Questo indirizzo politico ha prodotto riguardevoli risultati sia nel settore dei diritti sociali che nelle politiche redistributive, risultati che non possono essere negati e che hanno contrassegnato un preciso momento storico. Nell’agosto del 1971 il governo statunitense, sganciando il dollaro dalla convertibilità in oro, ha dato inizio ad periodo di anarchia economica contraddistinta dal trasformazione del capitalismo da produttivo in finanziario. Da allora le crisi si sono succedute, nel nuovo secolo, nei primi venti anni, si sono già prodotte tre crisi (quella del 2007, quella pandemica e oggi quella energetica) di cui la prima ancora incombe sulle economie dei paesi e sugli equilibri internazionali. E quando queste crisi si abbattono sul mondo capitalista succedono due cose: il capitale chiede aiuto allo stato e lo stato si rifà sui contribuenti; il capitale riversa le sue difficoltà sui lavoratori. La crisi del 2007 è un esempio perfetto: il capitalismo in crisi ha chiesto l’aiuto allo stato (quindi lo stato che secondo i capitalisti dovrebbe essere estraneo all’iniziativa privata, quando serve deve diventare elemosiniere del capitale) lo stato si è indebitato, è stato attaccato dalla finanza che aveva elemosinato e ha accumulato un enorme debito, trasmettendo alle generazioni future i guasti creati dal capitalismo finanziario. Ma non basta la crisi del capitalismo finanziario si è travasato sul capitalismo produttivo (mancati investimenti e crollo della domanda) producendo fallimenti che hanno generato nel mondo occidentale 20 milioni di disoccupati. La brutalità del capitalismo è lampante e rende problematica la strategia riformistica predicata da Turati e che aveva raggiunto il suo apice nel trentennio glorioso (1945-1975). Occorre riconoscere che la strategia riformistica del socialismo liberale è stata sbaragliata dal capitalismo imperante e che quindi rende problematico e discutibile il proposito di riprendere quella strada; basta guardare l’indice Gini e la conseguente curva di Lorenz per vedere i regressi nella distribuzione dei redditi (non parliamo di quella della ricchezza, mille volte più grave) e rimarcare la polarizzazione nella distribuzione dei redditi associata alla quasi scomparsa della piccola borghesia dei ceti medi. E ciò dovrebbe dirci qualcosa nel ricercare un parallelo con la crisi della piccola borghesia del primo dopoguerra che ha portato alla nascita del fascismo. C’è quindi da chiedersi se nella situazione in cui ci troviamo sia ancora percorribile una via riformistica che agisce sovrastrutturalmente a livello redistributivo o non sia il caso di pensare ad una strategia che intacchi la struttura economica ritornando ad uno approccio materialistico marxiano che in sintesi ponga il problema dei mezzi di produzione. Per rispondere a questa domanda vorrei esaminare alcuni punti essenziali per il nostro paese alfine di rendere più consapevole la risposta da dare (anticipo il fatto che sono partigiano a favore dell’opzione riformatrice versus quella riformista e ciò si noterà nell’esposizione dei punti che seguono. 1 – Economia In questo momento storico dobbiamo renderci conto che il futuro dell’economia è basato sulla ricerca; l’avvento dell’intelligenza artificiale, dell’innovazione schumpeteriana, dei calcolatori quantistici che risolvono in pochi secondi problemi che i più avanzati computers tradizionali impiegherebbero secoli, ci dicono che solo attraverso la ricerca si può …

IL LAVORO E IL SUO VALORE

di Pasquale Calandra – Coordinatore Socialismo XXI Sicilia | Prima ancora di fare delle considerazioni sulla politica economica dei Socialisti in Europa, da attivista socialista e da sindacalista da oltre 40 anni della UIL, devo fare una premessa -che serve a chiarire molte cose di quelle che vorrò scrivere, parliamo di socialisti in Europa, non di quello che genericamente viene chiamato «Il Socialismo», o politica economica socialista-, perché è opportuno fare una doverosa precisazione, che apparentemente può apparire prodotto da un illuminato Professore, che non sono. Perché il Socialismo e l’aggettivo Socialista accostato alla politica economica, vengono utilizzati, anche per fare riferimento alla politica economica dei paesi ex comunisti o comunisti? Del comunismo, che si realizza in Unione Sovietica, e che in seguito si è sparso anche in altri paesi, e che ha caratterizzato l’intera storia del secolo XX, si chiamava socialismo, altresì chiamato comunismo, idea non solo diversa, ma, storicamente, politicamente e culturalmente, di un vero e proprio antagonismo, che prese le mosse tra quelle che sarebbero stati socialisti e socialdemocratici, già nel secolo XIX dopo Karl Marx e dopo Friedrich Engels ai tempi delle culture e dei partiti che presero su di se il carico dei ceti più deboli della fine dell’800. Portiamoci per un momento alla realtà dell’800, quando sta nascendo la società cosiddetta industriale, quando accade quel fenomeno che è di autentica trasformazione della vita delle nostre società, che affida alle macchine la produzione di beni. Una delle conseguenze di questo grande cambiamento è, che formandosi le grandi fabbriche, migliaia e magliaie di persone, trovarono lavoro, con ciò si ha una notevole trasmigrazione dalle botteghe e dalle campagne nelle fabbriche, e, nasce più tardi quella che ci abitueremo a definire la «La Classe Operaia», prima largamente maschile e poi anche femminile, qual è il punto, il sistema nuovo della società industriale, sposta completamente il soddisfacimento dei bisogni, sposta l’assetto dei diritti reciproci tra gli esseri umani, crea rischi, che prima non c’erano, crea condizioni di lavoro che non c’erano mai stati in passato in fabbrica, quando la fabbrica iniziò ad esistere. Non c’è un contratto collettivo, che parli di diritti di chi lavora, per quanto ore lavora, parli di ferie, di cosa succede in caso di infortunio, non c’è assolutamente nulla di tutto questo e allora il lavoratore e le lavoratrici in fabbrica, sono persone esposte ad una realtà completamente nuova e sprovviste di diritti dei quali si possono avvalere. Nel frattempo, anche le persone che vivono nelle campagne, o che avevano prima le botteghe artigiane, perdono progressivamente di condizioni positive, si forma un variegato insieme di esseri umani, che potremmo definire, come si usavano definire allora «Gli Esclusi», c’era una società che mutava, e che dimenticava le persone che venivano sfruttate, o abbandonate alla loro povertà. Ecco allora la presenza di Movimenti Sindacali e politici, che si venivano formando, per affermare le ragioni degli «Esclusi» e qui che arriva Karl Marx il quale prospetta la società industriale come una fase nuova della storia, al termine della quale, la nuova classe degli sfruttati gli «Operai», diventerà la classe dominante, che creerà un nuovo sistema. In questa fase nasce il Movimento Anarchico, il nome di Michail Bakunin, dovrebbe dire qualcosa a tutti noi, che eccita la ribellione soprattutto di chi vive nelle campagne, in nome di una vita dignitosa, è qui che nasce un Movimento Socialista, che, inizialmente prende nel suo insieme, le mosse da Marx, ma che poi pian piano, si distingue tra coloro i quali pensano che il loro compito principale e non esclusivo, sia quello di migliorare le condizioni di vita e coloro che escludendo i diritti pensano che la finalità debba essere soltanto quella di fare arrivare la società industriale al suo culmine. Un Movimento che nasce unito sul cambiamento della società industriale, e che si divide fondamentalmente in questi filoni. Dopo questa premessa, vorrei partire dal lavoro; il quale credo, mai come adesso sia una parola «centrale» da cui ripartire. Se capita di incontrare una persona, dopo avergli chiesto come si chiama, la prima domanda spontanea è «che lavoro fai?» Questo significa che il lavoro è un elemento importante, un fatto di identità, questo vuol dire, che sapere cos’è il lavoro oggi, come vivono le persone oggi che hanno bisogno di lavorare per vivere e soprattutto qual’è il contributo che si può dare per una rappresentanza del lavoro, che credo oggi, non esiste, lo dico facendo politica un veloce paragone. Noi oggi siamo negli anni ’20 del XXI secolo. Anche gli anni ’20 del secolo scorso è stato un periodo molto importante se lo guardiamo dal punto di vista sindacale ed anche storico-politico. Il il biennio 1919-1920 fu chiamato il «biennio rosso», una fase molto efficace, per ciò che accadeva. Ci furono esperienze anche di autogestione nel mondo del lavoro, tant’è i lavoratori pensarono che non ci fosse bisogno di qualcuno che per farli lavorare doveva essere il proprietario, ma credevano, che attraverso il loro lavoro e mediante un’autoorganizzazione, si poteva essere libere come persone, al punto di potere affermare anche un cambiamento di carattere sociale nel mondo. In realtà dovremo fare un bilancio. Sono trascorsi più di 100 anni, Socialismo più Fordismo ha prodotto solo il Fordismo, non certo il Socialismo che intendiamo noi, lo dico in maniera decisa come ragionamento, perché, secondo me, c’è un punto fondamentale. Il lavoro non è semplicemente un’attività che ti permette di vivere; il punto fondamentale è che il lavoro è un diritto di «Libertà delle persone» perché se una persona non è libera nel lavoro, non è in grado di potersi realizzare, non è in grado di poter realizzare il proprio progetto di vita. Non è neanche in grado di riconoscere se stesso e quella che è la sua dimensione di vita nel contesto sociale non a caso la nostra Costituzione fonda la Repubblica sul lavoro. Per dare l’idea, il lavoro e il suo valore, sono un elemento, che può andare oltre la singola appartenenza politica, anzi, nei momenti più alti di crescita …

IL GOVERNO MELONI

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Nel centenario della marcia su Roma si insedia a palazzo Chigi il governo più a destra della storia repubblicana. Tralasciando le contradditorie scelte di Letta che hanno portato alla sonora sconfitta del centro-sinistra (si fa per dire), e le terremotate gesta di Berlusconi all’interno dell’alleanza di destra-centro, vorrei esaminare i punti critici che attendono alla prova questo governo, democraticamente eletto. Politica estera La linea del nuovo governo mi pare completamente aderente alla linea Draghi e al mainstream del pensiero unico che vede come unica soluzione all’invasione della Russia in Ucraina la vittoria delle forze ucraine necessariamente supportate dalle armi e dagli aiuti offerti dai paesi occidentali. A dicembre, data di scadenza dell’invio delle armi in Ucraina, mi sembra facile prevedere una posizione governativa a favore di un rinnovo dell’invio di armi. Da notare tuttavia che la prima visita all’estero del nuovo primo ministro è la Polonia, paese di dubbia democraticità, dove l’aborto è un reato e dove più aspri sono i confronti Russia-Stati Uniti camuffati sotto spoglie europee. Politica economica  La minaccia della recessione, la legge di bilancio dove si annunciano 20 miliardi di sforamento del superbonus  110% ed la scala mobile delle pensioni, il prezzo del gas che anche dopo l’accordo in Europa si deve confrontare con un gas gassificato statunitense quattro volte più costoso di quello russo, le possibili chiusure di molte aziende ed i conseguenti licenziamenti, la fine della sospensione della legge di stabilità che riporta in piena evidenza l’enormità del nostro debito in un periodo dove gli aiuti della BCE non paiono ripetibili, tutti questi elementi costringono il governo Meloni a seguire tramite Giorgetti l’agenda Draghi che, a mio parere, sarà un aiuto tecnico e morale di non poco conto. Diritti civili Un campo dove è prevedibile lo sfogo identitario del governo è quello dei diritti civili, in particolare quello attinente la famiglia tradizionale che si difende da tutte quelle “schifezze” (come le chiama il presidente della Camera Fontana) che inquinano la natura. Ne sono sintomo la ministra Roccella e il disegno di legge Gasparri che vuole modificare l’articolo 1 del codice civile spostando l’attribuzione della personalità giuridica dal nato al feto. Ma in molti altri campi si svilupperà l’azione del governo sulla base di una base filosofica per cui lo stato non deve permettere e tutelare le libertà dei cittadini, ma deve porsi come impositore di una sua morale, una visione di STATO ETICO che risale al filosofo fascista Gentile. Ordine pubblico La situazione economica sopra descritta porterà a tensioni sociali per le proteste anti costo delle bollette e contro i licenziamenti. Sarà molto importante vigilare sull’uso della forza pubblica in caso di tensioni sociali, non abbiamo dimenticato i fatti di Genova quando Fini stava al comando della forza pubblica. Vigilare non basta Dopo l’esperienza di questa tornata elettorale serve una frustata che riporti la sinistra dispersa e scoglionata a ritrovare un suo ruolo positivo. Abbandonando tutti i dissidi passati, le pregiudiziali personalistiche di un ceto politico inetto, si potrebbe cogliere la proposta di Maraio di un incontro tra tutte le forze (si fa per dire) socialiste e trasformandola in una Epinay italiana come Socialismo XXI da anni la sta proponendo.  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA PROGRAMMAZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Ha vinto la Meloni, ho scorso il suo programma elettorale, ambiguo. Non ha vinto il PD, lo conosco dalla nascita e proprio per questo non ho mai aderito ad esso. Si salvano i 5S che, nonostante le immense idiozie trasformate in leggi, hanno trovato uno sbocco nel populismo più esaltante. In conclusione sono veramente avvilito della situazione del mio paese e non posso che pensare al fallimento della mia generazione. Sono nato nel ’40, e nel nord mi sono subito, alla nascita, quattro anni di fascismo, ma ho anche goduto della ricchezza delle prospettive che la Resistenza ci aveva offerto. Dall’educazione piccolo-borghese ho maturato una coscienza socialista, approfondita nei miei studi universitari alla Bocconi e sfociati nel primo centro-sinistra degli anni sessanta. Il sessantotto è l’anno del mio matrimonio e del mio vagare tra i movimenti di sinistra da Lombardi a Valpreda per approdare poi al PCI. Non ho mai accettato il comunismo sovietico e sono stato inconsapevolmente seguace dell’insegnamento gramsciano che successivamente ho studiato e approfondito. Tutta la razionalità politica, elaborata nel corso di anni, di cui il comunismo italiano era intriso mi ha portato ad una costruzione interna fondata sulla ragione e un pizzico di passione. La politica, come atto della ragione, non poteva che portare ad un paese in cui il socialismo trionfava come sbocco naturale della coscienza razionale del popolo. Non ho mai creduto alla santificazione della classe operaia, che a mio parere aveva il grande vantaggio di avere interessi opposti al capitale, vantaggio che tuttavia, se non elaborato dalla razionalità, non aveva grandi sbocchi al di fuori dell’immediata rivendicazione corporativa. Ho sempre ritenuto il fatto produttivo come il motore fondamentale della vita del paese, e con questa convinzione, ho sempre apprezzato la figura dell’imprenditore come il più importante lavoratore, il più importante soggetto della vita economica del paese. Il suo limite consiste in due condizioni esistenziali: a) nel nostro paese l’imprenditore spesso coincide con il capitalista (familismo), b) l’imprenditore è troppo subordinato al capitalista, nella scelte cruciali non è lo schumpeterismo imprenditoriale a prevalere ma la potenza del capitale. E la potenza del capitale, a partire dallo sganciamento nixoniano del dollaro, ha abbandonato la produzione (area di egemonia dell’imprenditore) per approdare alla finanza (area di egemonia della speculazione). La risposta a questa trasformazione è, e continua ad essere, la programmazione, ovvero la elaborazione scientifica della coniugazione tra fini e mezzi; una soluzione razionale di un sistema di mille equazioni governabili con le conquiste della scienza e non abbandonate alla anarchia tribale della legge del profitto. Il superamento del principio di Adam Smith per cui il valore delle cose nasce solo dal lavoro, superamento attuato dal capitalismo nella sua trasformazione da capitalismo produttivo in capitalismo finanziario, ha trascinato i nostri paesi a dover subire un succedersi ripetuto di crisi (già tre nei primi venti anni del terzo millennio) che cominciano a mettere in dubbio la capacità di sopravvivenza di molti paesi, e comunque a prospettare tempi futuri sempre più disperanti. I partiti politici, completamente succubi dell’elemento M (ovvero mercato, come scrive il compagno Benzoni) sono incapaci di una risposta alla domanda di base, fondamentale  che il mondo odierno ci pone. “ Cosa produrre, come produrre.” La non risposta a questo punto mette tutti i partiti sullo stesso livello, sulla stessa aridità di pensiero, sulla stessa nullità di assolvere i loro compiti. Le mille questioni sovrastrutturali denunciano differenze tra i partiti, ma la questione strutturale, quella decisiva ai fini ultimi, è da tutti i partiti ignorata. Solo la programmazione economica (quella di cui abbiamo avuto un assaggio negli anni sessanta) è la risposta concreta alla domanda che abbiamo posto. Solo la razionalità scientifica può avvicinarci alla capacità di dare una risposta a quella domanda. Con la consapevolezza che la programmazione richiede il superamento del dominio della classe dominante, dell’illusione dell’egemonia del mercato in una rivoluzione culturale per un nuovo modo di convivenza.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SULLE CRISI IN ATTO NEL CONTESTO MONDIALE E NAZIONALE

di Tibet | a- Crisi climatica. La crisi climatica, avvertita in tutta la sua crudezza attraverso le periodiche catastrofi naturali, l’aumento della temperatura media, lo scioglimento progressivo dei ghiacci perenni e la siccità, è figlia dei comportamenti umani e del sistema economico che ha governato gli ultimi due secoli. L’Onu e gli scienziati che hanno studiato il fenomeno chiedono, entro irreversibilmente il 2030, un cambiamento drastico del modo di produrre e dei comportamenti umani. Senza il quale si precipiterà verso la catastrofe. L’attuale sistema capitalistico finanziario dovrebbe riconvertirsi in termini di sostenibilità, sotto la guida degli Stati che inevitabilmente tornerebbero protagonisti dell’economia, attraverso una vera e propria programmazione economica d’orientamento socialista. Massicce iniziative di rimboschimento, investimenti per la desalinizzazione dell’acqua del mare ed impiego  della stessa  nei più svariati usi possibili, prevalenza del trasporto pubblico favorito da investimenti mirati, messa in sicurezza di più luoghi a rischio in caso di eventi climatici avversi. Insomma, una serie di urgenti e massicci investimenti, in primo luogo pubblici, che coinvolgano anche i privati e che solo una Politica socialista, nel senso più alto del termine, non certo il libero mercato, può progettare, coordinare e monitorare. b – Crisi energetica, accentuata dalla guerra. Per il gas o… per l’acqua? Il sistema capitalistico ha sovente risolto le sue crisi attraverso il ricorso alla guerra. Dopo Hiroshima, le guerre si sono localizzate, ma ora, lo spettro dell’atomica torna ad aleggiare da occidente ad oriente. L’attuale conflitto russo ucraino, per il possesso di territori affacciati sul mare (l’acqua sarà l’Oro del XXI secolo…), ha fatto esplodere la questione energetica ben peggio di quella che costrinse l’Occidente all’Austerity nel 1973. Il costo della luce e del gas s’è drasticamente impennato, anche per azioni di tipo speculativo, causando un innalzamento dei prezzi complessivi. Un inflazione a due cifre fa perdere potere d’acquisto allo sterminato esercito di ceti medi a reddito fisso che dovranno necessariamente comprimere ogni tipo di consumo. Con conseguenze recessive, disoccupazione, tensioni sociali e radicalizzazione dello scontro che troverebbe verso la destra estrema la sua più facile collocazione. Televisioni paludate e la rete, dove tutto è il suo esatto contrario, non riusciranno ad evitare il peggio. Il consumismo si rivelerà a quel punto una effimera tigre di carta. Servono investimenti indirizzati alla riduzione di ogni tipo di spreco energetico. Al ricorso ad ogni forma di energia possibile, nessuna esclusa, tale da rendere sempre meno dipendente dagli altri il paese. Senza se e senza ma. Ricondurre sotto il controllo dello Stato il settore dell’energia. Insomma, una azione forte in totale rottura con l’indirizzo neo liberistico degli ultimi trent’anni. c – Crisi del sistema sanitario. Il sistema sanitario, dopo la trentennale opera demolitrice di stampo neo liberistico, implode attraverso gli equivoci del sistema. Pazienti in Codice rosso e verde accolti nel medesimo sito negli ospedali. Il ricorso ad assicurazioni private per avere subito prestazioni che altrimenti porterebbero a mesi d’attesa. Il paziente divenuto per le strutture sanitarie pubbliche praticamente un “cliente”. Regole aziendalistiche che mal si conciliano con la funzione costituzionale del diritto alla salute. La pandemia ha dimostrato che il ripetersi di eventi epidemici necessitano di azioni forti e coordinate dallo Stato. Che dovrà riappropriarsi del controllo dell’intero settore, prima di essere messo nuovamente alla prova. Allo Stato non deve interessare se avrà un costo ingente nella gestione delle sale di rianimazione, nei momenti dove non ci sarà bisogno. Perché ne avremo bisogno. d – Crisi del sistema previdenziale. Con il progressivo invecchiamento della popolazione, il sistema previdenziale ed assistenziale volge al collasso. Carenze evidenti di personale generano rallentamenti nei procedimenti mentre, come per la sanità privata, si apre una autostrada del sole per favorire i fondi assicurativi privati. “Mi pago la pensione integrativa perché lo Stato, tramite l’Inps, mi darà poco.” I pensionati rischiano di essere le vittime preferite degli effetti delle crisi indicate in precedenza. e – Come affrontare tutto questo. Nel punto più alto della crisi politica, dove le recenti elezioni italiane certificano la morte della sinistra, avvenuta ormai molti anni addietro in Europa nella rincorsa spasmodica al centro, ai ceti medi e ai loro valori, urge La necessità che debba costituirsi un partito d ‘ispirazione socialista costituito da cittadini, da qualunque parte provengano purché condividano i principi di solidarietà e giustizia sociale da sempre patrimonio del mondo socialista, che si faccia promotore di riforme tali da provare ad invertire la rotta. Prima che sia troppo tardi. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

NEL CENTENARIO DELLA MARCIA SU ROMA

Copyright gettyimages | di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXi Lazio | Nell’esaminare un fatto storico occorre inquadrarlo e contestualizzarlo esaminando gli eventi che stanno a monte di quel fatto, cercando di individuare i nessi causali che possono aver portato a quel risultato. Ce l’hanno insegnato recenti fatti che, per poter giudicare con obiettività, occorre andare indietro nel tempo ricercando motivazioni ed accadimenti, che possono essere a monte l’origine di conseguenti accadimenti. Vediamo allora di identificare i maggiori avvenimenti che possono aver avuto come esito il fatto storico che stiamo esaminando. La crisi post-bellica Al termine della Prima guerra mondiale, in Italia i problemi del dopoguerra sono più gravi che altrove. Il processo verso la democratizzazione della società era iniziato da pochissimo: solo dal 1913, infatti, era in vigore il suffragio universale maschile. La vecchia classe liberale era in crisi, perché non riusciva a rapportarsi con le masse dei cittadini, da sempre estranee alla vecchia Italia liberale, che per di più le aveva trascinate in una guerra che non volevano. Le polemiche e le dimostrazioni scatenate dalla “vittoria mutilata” non erano certo il problema principale in Italia tra il 1919 ed il 1920. I prezzi del grano stavano aumentando a dismisura, dando luogo a tumulti contro il ‘caro-viveri’ in molte città, mentre i sindacalisti lottavano per un aumento dei salari, in particolare ricorrendo allo sciopero in modo massiccio. I lavoratori agricoli della pianura padana si stavano organizzando in leghe, sia socialiste che cattoliche. Le leghe socialiste stavano assumendo il controllo del mercato del lavoro, ottenendo aumenti di salario ed un ruolo di primo piano nella contrattazione con i proprietari terrieri. Nel frattempo, i contadini del Centro-Sud, molti dei quali erano reduci di guerra, iniziano ad occupare le terre incolte. Il fenomeno del reducismo costituiva una situazione politica di grande impatto sociale. Insomma, le agitazioni sociali erano molte, sconnesse tra loro, e stavano esasperando le divisioni in tutto il paese. Si stavano intanto consolidando nuove forze politiche in grado di inquadrare le masse, dialogare con loro e mobilitarle. Si trattava del Partito popolare di Sturzo e del Partito socialista italiano. Nel gennaio del 1919 i cattolici si organizzano nel Partito popolare italiano (PPI), un movimento che si dichiarava privo di una confessione religiosa precisa, ma che si ispirava direttamente alla dottrina cattolica ed era molto legato alla chiesa. Il movimento era stato voluto dallo stesso papa Benedetto XV per allontanare le masse dal socialismo. Per permettere ai cattolici di aderire, il papa abolisce nel 1919 il non expedit. Il fondatore don Luigi Sturzo era un sacerdote siciliano, convinto che i cattolici dovessero partecipare alla vita politica – ma il suo partito includeva anche elementi legati alla vecchia classe politica liberale. Il Partito socialista in questi anni stava crescendo vertiginosamente: era dominato dalla propria corrente di sinistra, i massimalisti, il cui principale obiettivo era instaurare una repubblica socialista ispirata alla rivoluzione bolscevica del ‘17, pur senza muoversi concretamente per realizzarla. Insoddisfatti di questa scarsa propensione all’attività, alcuni elementi si stavano progressivamente avvicinando al mondo operaio, tentando di riproporre in Italia l’esperienza dei soviet russi. Le forze socialiste si rifiutavano di dialogare con le forze ‘borghesi’ e democratiche, anche se il colloquio tra di esse era tormentato e conflittuale. Questo preoccupava la piccola borghesia e forniva ottimi argomenti a moltissimi gruppi nazionalisti che stavano sorgendo in quei mesi, secondo i quali il socialismo andava fermato, e in fretta. Il biennio rosso Il dopoguerra italiano è caratterizzato dalla crisi economica, dalla disoccupazione, dall’inflazione e dal crollo della lira. Questi processi furono la causa di lotte operaie senza precedenti in Italia; gli operai chiedevano agevolazioni circa gli orari di lavoro ed i propri diritti mentre i braccianti chiedevano salari più elevati ed una gestione migliore dell’agricoltura. L’inflazione colpisce anche gli stipendi e le rendite della piccola e media borghesia, accresciutasi numericamente durante lo sviluppo economico del primo ventennio del secolo e che non avevano mai conosciuto la disoccupazione o un basso tenore di vita. La piccola borghesia si schiera contro il proletariato e contro la grande borghesia dei “pescicani”, ritenuta avida ed egoista. Questo stato metteva in luce la crescente sfiducia nella classe dirigente liberale, ritenuta incapace di tutelare gli interessi dei ceti medi. Il 20 settembre del 1920 l’occupazione delle fabbriche, impressionante e potente, segna un episodio drammatico, vissuto dai lavoratori come l’inizio di una vera e propria rivoluzione: Giolitti si rifiuta di intervenire con la forza pubblica e accoglie alcune delle istanze degli operai. Ma ciò che era rimasto era una profonda ostilità verso il socialismo da parte della borghesia, profondamente legata alla paura della rivoluzione. I fatti del settembre del 1920 impaurirono profondamente i capitalisti che temono una ripetizione ad ovest della rivoluzione di ottobre; quindi, il “biennio rosso” fa nascere l’esigenza di una opposizione reazionaria impersonata con più efficacia dal fascismo di Mussolini (che si disvela a metà ottobre con l’assalto al palazzo d’Accursio a Bologna, esattamente un mese dopo i fatti del settembre). Organica a questa preoccupazione del capitale è il superamento della lotta di classe da effettuarsi con l’unione di imprenditori e lavoratori considerati entrambi “produttori” nella concezione corporativistica. Tuttavia, a dar forza e popolarità all’avanzamento del movimento fascista, è la cronica incapacità delle forze della sinistra di raggiungere una sintesi necessaria. Sono incapaci di dare sviluppo e concretezza a moti spontanei dal basso (come peraltro erano state le occupazioni del settembre del 20) come quello degli “Arditi del popolo” o come quello sindacale dell’”Alleanza del lavoro”, per dichiarare apertamente la loro imbellità con il clamoroso fallimento dello “sciopero legalitario” dell’agosto del ’22 che sposterà decisamente l’opinione pubblica verso la convinzione che solo il fascismo sarà in grado di far uscire il paese dalla crisi. Scriverà Gramsci:” La catastrofe dello sciopero legalitario dell’agosto 1922, ebbe il solo risultato di spingere gli industriali e la Corona verso il fascismo e di far decidere l’on. Mussolini al colpo di Stato”.   Le elezioni del ’19 e del ‘21 Nel novembre del 1919 ci sono le elezioni: il PSI è il …

COLONIZZAZIONE, AUTOCOLONIZZAZIONE E AUTODETERMINAZIONE 

di Vincenzo Carlo Monaco – Coordinatore Socialismo XXI Sardegna | RIFLESSIONI INIZIALI Governare e non dominare il mondo. La nostra corresponsabilità nel colonialismo sardo e nel mondo, nella pace o nella guerra, nello sviluppo relativo o nella povertà assoluta, nel rispetto o nel non rispetto della terra che ci ospita, nell’evolversi o involvere delle nostre alternanze generazionali, nel nostro essere umani sensibili o umani non completamento sensibili, nel nostro sentirci o non sentirci parte del globo terrestre, nel nostro limite di appartenenza alla immensità dell’universo o nel nostro adattarci alla piccolezza del nostro essere: Tutto questo à molto di più in quanto incide nello scorrere dei nostri interessi individuali e collettivi? Noi siamo compartecipi delle scelte che condizionano le nostre vite. Non possiamo accusare o assolvere gli uni o gli altri che agiscono con la nostra delega.  La attuale scelta sulla dissoluzione o permanenza della nostra vita su questa terra ci riguarda tutti. Ma proprio tutti, come cosiddetto genere umano, compresi i bambini e gli anziani. La continuità del nostro passaggio è una responsabilità dalla quale nessuno può estraniarsi affidandosi alle verità di questa o quella parte. Le verità, spesso bugie scientificamente comunicate, non sono assolute e noi dobbiamo pretendere le verità vere. E’ il momento di sentirci un unico popolo su questa terra e di scoprire insieme la verità del nostro essere popolo globale, meravigliosamente diverso in ogni individualità e felicemente consapevole della grandezza del nostro unico genere, l’umanità nelle diversità. Ed allora quella felicità, sempre fugace, che ricerchiamo nell’animo durante lo scorrere della vita, troviamola oggi nel momento storico più pericoloso della nostra storia umana. Le alternative sono semplicemente la dissoluzione collettiva o la rinascita collettiva. Che cosa ostacola questa rinascita? La necessità di disporre a qualsiasi costo delle risorse naturali per trasformarle in materie utilizzabili per confermare il potere parziale e il dominio degli Stati e nelle nazioni colonizzanti o colonizzate. In questo momento storico lo strumento per dominare è il capitalismo. Ne viviamo uno storico americano. E vi sono poi, un neo capitalismo russo, che deriva dal superamento della esperienza sovietica, e un capitalismo cinese, che ha trasformato il comunismo in una variante del capitalismo russo – americano. Questi capitalismi si esprimono nel mondo con il BRICS costituito tra il Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Tutti gli altri capitalismi, intermedi, sono in gran parte subordinati a uno di questi. Il peso economico, finanziario e produttivo e di potere sul mondo è rappresentato secondo accreditati pareri, dal 13% degli USA e dall’87% del BRICS. La guerra in atto non è solo una guerra sul controllo dei  territori e di conseguenza delle risorse e delle energie conseguenti, bensì è anche una guerra monetaria tra il dominio dei petrodollari e l’insieme delle monete del BRICS, monete che in questo momento sostengono con gli scambi internazionali i valori delle singole valute e delle liquidità di ogni stato. Ecco perché la Russia chiede il pagamento del gas e del petrolio in rubli (rublegaz), ancorando l’emissione di moneta al valore delle materie prime e dell’oro auspicando un ritorno al Gold Standard. Abbiamo bisogno di una moneta unica ”Globale“, strumento di una politica unica tra gli stati del mondo. E’ giunto il momento che i cittadini del mondo si mobilitino per far sentire la propria volontà con congiunte manifestazioni in ogni città del chiedendo l’immediata pace totale e la costituzione di una unità delle nazioni per la vita. E’ giunto il momento che i rappresentanti delle grandi potenze si incontrino per mettere in atto questa volontà superando gli interessi esclusivamente economico-finanziari che li dividono. Una nuova economia è possibile sia pur nelle diversità attuali. Si incontrino i potenti difronte ad uno dei milioni di bambini affetti da malattie rare e spieghino che la loro vita può essere più breve a dispetto della ricerca di soluzioni che ne possano alleviare le sofferenze garantendo loro una vita più serena. Ebbene, è giunto il momento di prendere atto che la natura del nostro essere non dipende dal luogo e dal sistema in cui siamo nati o ci siamo trasferiti, ma dall’insieme globale del nostro essere cittadini del mondo: I sette e più miliardi di cittadini del mondo devono mobilitarsi per decidere di agire insieme e chiedere ai potenti di creare il comunitarismo delle risorse che la terra ancora contiene. E’ giunto il momento di considerare le risorse un insieme di beni comuni appartenenti all’intera umanità. Dobbiamo rivedere le nostre forme istituzionali e di governo, dandoci regole globali per il loro utilizzo parsimonioso, perché queste risorse non sono infinite. Dobbiamo lavorare insieme per una riforma istituzionale del mondo e un governo globale di conservazione e valorizzazione di queste risorse nell’interesse equo della intera umanità. Altro che guerra nucleare e globale, ci attende il più fantastico periodo storico dell’evolversi umano su questa terra. E’ possibile pensare che anche i nostri concittadini dell’universo possano essere d’accordo considerando quanto sarà destabilizzante per l’equilibrio complessivo la esplosione di un piccolo pianeta nascosto in un angolo disperso della via lattea. Ma questo lavorare insieme lo dobbiamo ai nostri figli, nipoti e  pronipoti. E’ vitale pensare che questo impegno collettivo possa diffondere nel genere umano quella straordinaria sensazione ai quali aspiriamo tutti. Il vero senso della felicità. Ma quanto lavoro interiore e collettivo dobbiamo sviluppare per raggiungere questo obiettivo in pochissimo tempo? I principi che ispirano questa teoria ci vengono suggeriti dall’agire di tanti esseri umani che si sono sacrificati sulla terra a partire dai filosofi del passato e dai rappresentanti di tutte espressioni del nostro patrimonio interreligioso sui principi universali. Le teorie storiche inossidabili che da Kant ad oggi si sono sviluppate sul federalismo stanno dimostrando che questa forma istituzionale può essere una di quelle percorribili per unire le diverse nazioni. L’America, la Russia, la Cina, il BRICS, con diversità di metodo, e di origine, ne hanno creato forme diverse unendo i diversi stati che oggi le compongono. Dobbiamo rappresentare la necessità delle vittime delle centinaia di guerre presenti oggi in troppe regioni del mondo e tra queste l’ultima causata dal blocco del grano nel Corno dell’Africa sulle rotte del Mar …

ETICA DEI PRINCIPI ED ETICA DELLE RESPONSABILITA’

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio| “Weber si muove all’interno di una filosofia dei valori i cui presupposti sono la distinzione tra essere (Sein) e dover essere (Sollen) e il riconoscimento di una pluralità di sfere dei valori (quel “politeismo dei valori” in forza del quale nell’etica il valore è il buono, nell’estetica il bello, ecc). In un mondo che si è spopolato degli dèi e delle forze magiche per diventare il puro e semplice teatro dell’agire razionale dell’uomo, proprio perché i valori sono tanti e inconciliabili, nel chinare il capo a certi valori se ne escludono altri, ci si trova ad affrontare una forma di dualismo tra l’etica dei principi (Gesinnungsethik) – anche detta etica delle intenzioni o delle convinzioni – e l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik). La prima forma di etica fa riferimento a principi assoluti, che assume a prescindere dalle conseguenze a cui essi conducono: di questo tipo sono, ad esempio, l’etica del religioso, del rivoluzionario o del sindacalista, i quali agiscono sulla base di ben precisi principi, senza porsi il problema delle conseguenze che da essi scaturiranno. Si ha invece l’etica della responsabilità in tutti i casi in cui si bada al rapporto mezzi/fini e alle conseguenze. Senza assumere princìpi assoluti, l’etica della responsabilità agisce tenendo sempre presenti le conseguenza del suo agire: è proprio guardando a tali conseguenze che essa agisce. Sicché l’etica dei principi è quella della responsabilità sono due etiche opposte e inconciliabili, che fanno capo a due diversi modi di intendere la politica, come nota Weber in Politica come professione: l’etica dei princìpi è, in definitiva, un’etica apolitica, come è testimoniato dal Cristiano che agisce seguendo i suoi principi e senza chiedersi se il suo agire possa trasformare il mondo. Al contrario, l’etica della responsabilità è indissolubilmente connessa alla politica, proprio perché non perde mai di vista (e anzi le assume come guida) le conseguenze dell’agire.”(da filosofico.it) ETICA DEI PRINCIPI La Russia è l’aggressore, l’Ucraina è l’aggredita. Sono state infrante le norme della convivenza internazionale. Occorre fare in modo che le truppe russe se ne ritornino al di là dei confini, per fare questo bisogna aiutare l’Ucraina con aiuti umanitari ma anche con aiuti militari. Noi inviamo armi e predisponiamo pacchetti di sanzioni (siamo arrivati a sette) per costringere la Russia a ritirarsi. La Russia ci colpisce con controsanzioni e soprattutto usa la fornitura del gas come efficace strumento di guerra. Noi rispondiamo cercando gas altrove e limitando i nostri consumi ma i prezzi salgono alle stelle. Noi escludiamo la Russia dai circuiti finanziari internazionali in modo da isolarla nei commerci, la Russia allora pretende il pagamento in rubli per il gas che contrattualmente ci deve, salvo sospendere o limitare le forniture per asserite manutenzioni rese necessarie dalle nostre sanzioni. Per reagire all’utilizzo da parte della Russia di quel postribolo che è il TTF ci inventiamo il price-cap, che è l’allargare il conflitto sul campo economico contrapponendo un monopsomio ad un monopolio. Inviamo, non noi ma USA e UK, armi più sofisticate e diamo consulenza strategico-militare che ha successo nelle zone occupate, la Russia indice i referendum per far divenire stati aderenti alla federazione russa le zone occupate di modo che chi attacca quella zone attacca la federazione russa con le conseguenze belliche che possono utilizzare armi atomiche tattiche. Il ministro degli esteri USA risponde che all’uso di armi atomiche gli USA “e i suoi alleati” (ma vi risulta che siamo stati consultati?) reagiranno di conseguenza. Tutti i passi presi dall’una come dall’altra parte sono presi ispirandosi all’etica dei principi: tu invadi io ti punisco, tu reagisci ed io rispondo per le rime. Tutto logico ma quel che non si vede è dove questa “escalation” può arrivare, o meglio si sa dove arriva ma si finge che così non sia e ci si stupisce se qualcuno lo confessa apertamente. Se nessuno interrompe questa logica, se la presidente della commissione UE continua a ripetere “VINCEREMO”, rischiamo di infognarci in un sentiero senza ritorno ma con uno sbocco unico, da non augurare a nessuno. ETICA DELLA RESPONSABILITA’ Non mi pare corretto dire, come dice Weber, che l’etica della responsabilità non assume “principi assoluti” o meglio sarebbe dire che non assume in modo assoluto, relativizzandoli, principi che si rifanno ai valori. Se ad esempio, mettendosi nei panni dell’altra parte, ricercassimo indietro nel tempo possibili ragioni per la posizione di Putin, credo che faremmo un buon inizio di impostazione dei problemi, pur avendo fermo il principio che, per quante ragioni Putin possa avere, esse non sono mai sufficienti a giustificare una invasione. E di ragioni Putin ne ha. Partiamo dalla promessa, non trasfusa in un trattato, ma documentata e scritta nei documenti della NATO, che, crollo dell’URSS la NATO fece a Gorbachev per cui la NATO non si sarebbe espansa al di là del fiume Reno. Il patto di Varsavia viene sciolto, la NATO invece rimane. Si era poi giunti, con Pratica di Mare, ad ipotizzare la realizzazione dell’auspicio di Gorbachev di fare dell’Europa una casa comune, giungendo ad ipotizzare un ingresso della Russia nella UE. Poi però, ad iniziare fu Clinton, l’area della NATO si è estesa ad est inglobando, anche in successivi passi, quasi tutti i paesi ex sovietici. L’idea di una “finlandizzazione” di tutta quell’area cade, creando, e non a torto, un complesso di accerchiamento che la Russia subiva. Che poi, con la sua azione Putin abbia spinto Svezia e Finlandia a chiedere l’ingresso nella NATO sta a dimostrare il disastro che Putin si è tirato contro, il fallimento della sua politica. Nel 2014 viene destituito un presidente russofono, un colpo di stato che inizia il capitolo Ucraina, che introduce in costituzione l’adesione alla NATO. Ma che ci faceva, prima dell’invasione, la NATO in Ucraina a fare esercitazioni? Ma i nostri governanti erano a conoscenza e concordavano con ciò? Ma un altro punto mi pare importante; l’art.10 della NATO dice  “Le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire …