CRAXI IERI COME OGGI? E IL FUTURO DEL SOCIALISMO ITALIANO

di Christian Vannozzi | 16 anni, dal luglio 1976 al febbraio 1993, periodo in cui forse l’Italia, a prescindere da quanti per sentito dire possano pensarla diversamente, ha forse raggiunto il suo apice economico, un livello che oggigiorno sembra un sogno e uno Stato Sociale che ormai sembra un miraggio, non perché non si possa replicare, ma perché ormai decenni di liberalismo sfrenato e privatizzazioni rendono nelle nuove generazioni quasi impensabile uno Stato come quello che esiste in Germania o in Danimarca. Il craxismo come causa della crisi economica italiana anni ’90 e primo decennio del 2000, anni dominati dal Berlusconismo, intervallati dalle parentesi Prodiane e dal breve regno di D’Alema, secondo esponente di sinistra al Governo italiano e forse il più liberale a livello economico di quanto non lo siano mai stati i ‘vecchi liberali’ al Governo ai tempi del Pentapartito. Gli anni ’80 hanno visto in Italia la grande cavalcata del PCI, guidato dal miglior segretario politico dell’epoca, quell’Enrico Berlinguer che ha segnato gli anni della svolta di un partito politico che decise di togliere le ben piazzate ancore che aveva nell’Unione Sovietica per aprire a un comunismo europeo e se non proprio democratico almeno non dittatoriale come lo era stato quello russo. Competere con un simile Partito Comunista era assai arduo per un piccolo PSI che, purtroppo, nella storia italiana, ha sempre dovuto barcamenarsi tra i due colossi storici del ‘bipartitismo imperfetto’ italiano, che lasciavano forse solo le briciole agli altri partiti, ma anche queste possono trasformarsi in nutrimento, bastava infatti ben calcolare il peso di queste ‘briciole politiche’ specialmente se queste potevano diventare un contorno, un bel contorno essenziale per una compagine politica e per poter dettare la propria via allo sviluppo della Penisola, uno sviluppo non solo economico ma anche sociale. “Primum vivere” fu il suo orgoglioso slogan. E cominciò la battaglia per svecchiare il partito e per l’egemonia a sinistra, contro un avversario che sembrava imbattibile e che stava aprendo una nuova via per la Sinistra italiana, quel Berlinguer citato prima che aveva senza dubbio delle enormi qualità e ha segnato, sicuramente in positivo, la storia d’Italia, avviandola verso la democrazia contro ogni sorta di dittatura, sia di destra che di sinistra. Il compromesso storico tra DC e PCI poteva segnare la fine del socialismo italiano, in quanto se i due maggiori partiti italiani si fossero alleati non ci sarebbe più stata storia per gli altri partiti, a meno che non si riuscisse a prospettare una nuova via, qualcosa di nuovo che potesse scardinare le solide basi dove poggiavano i due più grandi partiti della storia italiana. Occorreva scontrarsi sulle stesse basi culturali della Sinistra italiana, non bastava più il dissociarsi con i diktat di Mosca, cosa che già aveva fatto anche il PCI, ma rivedere le stesse basi del socialismo europeo, a iniziare da Karl Marx, illustre teorico e filoso del socialismo che però era ormai terreno di conquista dei comunisti, per questa ragione la svolta ideologica doveva passare per Pierre Joseph Proudon, filosofo, sociologo e anarchico francese che ha senza dubbio fatto conoscere il socialismo in Europa, prospettando un nuovo sistema economico e sociale simile ma alternativo a quello di Marx, come voleva appunto essere il PSI. La sostituzione della Falce e del Martello con il Garofano rosso sul simbolo del partito è senza dubbio la svolta epocale di una formazione politica che non voleva più essere suddita della tradizione comunista italiana ma essere qualcosa di nuovo, per i lavoratori e per lo Stato, abbinando la lotta politica e sociale a quella per i diritti civili, in modo da ‘svecchiare’ non solo il partito ma l’intera Penisola, troppo ancorata alle tradizioni cattoliche e quasi incapaci di svincolarsi da qualcosa di talmente tanto radicato nelle menti da sembrare quasi un dogma. La caduta politica della Dc alle elezioni del 1983 permise il rafforzamento degli altri partiti della coalizione di Governo. A uscirne più forte fu proprio il PSI di Bettino Craxi che ottenne da un altro socialista, Sandro Pertini, eroe della Resistenza, eletto Presidente della Repubblica nel 1978, l’anno che vide la morte dell’onorevole Aldo Moro, forse a causa di quella linea dura voluta così energicamente da Andreotti e da Berlinguer e invece contrastata da quel Craxi, che voleva invece trattare con i terroristi per non abbandonare al suo destino uno dei maggiori politici che l’Italia abbia mai avuto, l’incarico di formare il nuovo Governo, per poi ottenere la fiducia alle camere, che si mostrarono pronte ad avere una guida non democristiana a Palazzo Chigi. Una volta salito alla Presidenza del Consiglio i problemi internazionali italiani vennero subito alla luce, tra cui quelli relativi alla sudditanza della Penisola nei confronti della potenza Statunitense, sia per la sconfitta (chiamata da alcuni liberazione) nella Seconda Guerra Mondiale, sia per il Piano Marshall, che ha reso si possibile la ripresa dell’Italia ma al prezzo di una subordinazione politica ed economica che ancora oggi pesa al nostro Paese. Continuando la politica atlantista del suo partito politico anche Craxi diede una forte impronta atlantista al suo segretariato, avvallando al decisione dell’istallazione in Italia dei missili Cruise statunitensi, ma senza però rinunciare alle proprie idee per quanto riguarda i Paesi dell’America latina e soprattutto sulla questione palestinese, dove il PSI mostrò una nuova via rispetto agli alleati della DC. Decisione per mostrare la sua linea internazionale il Premier l’ebbe subito a Sigonella nel settembre del 1985, quando non permise ai marines di arrestare i terroristi palestinesi guidati da Abu Abbas, responsabili del sequestro dell’Achille Lauro. Mostrando la sua simpatia verso la causa palestinese e creando uno sgarro col Governo statunitense. L’avventura di Bettino Craxi alla guida del Governo italiano durò fino al 17 aprile 1985, conquistando un record per un Premier della Repubblica Italiana ben 1058 giorni, record infranto dai due Governi Berlusconi, il II, di ben 1409 giorni, dall’ 11 giugno 2001 al 23 aprile 2005 e dal IV, 1283 giorni dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011, terminato con le dimissioni del leader di Forza Italia …

IL DELITTO MATTEOTTI

Le parole di Turati Il 27 giugno del 1924 Filippo Turati pronunciò un commosso discorso in ricordo dell’amico assassinato durante la riunione delle opposizioni parlamentari. Queste le parole dell’anziano leader socialista: “Vorrei che a questa riunione non si desse il nome logoro, consunto – specialmente qui dentro – di “commemorazione”. Noi non “commemoriamo”. Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito religioso, che è il rito stesso della Patria. Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare, perché il Suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore, al di qua e al di là dell’Alpe e dei mari, non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un accusatore; Egli è un giudicatore; Egli è un vindice. Non il nostro vindice, o colleghi. Sarebbe troppo misera e futile cosa. Egli è qui il vindice della terra nativa; il vindice della Nazione che fu depressa e soppressa; il vindice di tutte le cose grandi, che Egli amò, che noi amammo, per le quali vivemmo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere. E il dovere di vivere è anche, e soprattutto, il dovere di morire quando l’ora lo comanda. Di morire per rivivere; di morire perché tutto un popolo morto riviva; di morire perché il nostro sangue purifichi le zolle, le sacre zolle della Patria, che alla Patria – se le fecondi sudore di servi – procacciano messi avvelenate. E questo vivo, che è qui accanto a me, alla mia destra, ritto nella sua svelta figura di giovane arciere, di cui voi vedete il sorriso, di cui voi scorgete il cipiglio – perché non è un’allucinazione, perché li vedete, perché non vi inganno – questo vivo, questo superstite, questo ormai immortale e invulnerabile, fatto tale dai nemici nostri e d’Italia; questo vivo, nell’odierno rito, è trasfigurato. È Lui ed è tutti. È uno ed è l’universale. È un individuo ed è una gente. Invano gli avranno tagliato le membra, invano (come si narra) lo avranno assoggettato allo scempio più atroce, invano il suo viso, dolce e severo, sarà stato sfigurato. Le membra si sono ricomposte. Il miracolo di Galilea si è rinnovato. A che le vane ricerche, o farisei d’ogni stirpe? A che gli idrovolanti sul lago, a che il perlustrare la macchia, il frugare nei forni? L’avello ci ha reso la salma. Il morto si leva. E parla. E ridice le parole sante, strozzategli nella gola, che furono da uno dei sicari tramandate alle genti, che son Sue quand’anche non le avesse pronunciate, che son vere se anche non fossero realtà, perché sono l’anima Sua; le parole che si incideranno nel bronzo sulla targa che mureremo qui o sul monumento che rizzeremo sulla piazza a monito dei futuri: “Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai… La mia idea non muore… I miei bambini si glorieranno del loro padre… I lavoratori benediranno il mio cadavere… Viva il Socialismo!“. È qui trasfigurato, o colleghi. E di ciò il mio egoismo si duole, il mio piccolo egoismo di individuo, di fratello maggiore, di anziano, di padre; ché Egli non è più soltanto il mio figliolo prediletto. L’uomo di parte, l’assertore nobile ed alto di un’idea nobilissima, quegli che fu, per noi socialisti, tutto in una volta, il filosofo, il finanziere, l’oratore, l’organizzatore, il commesso viaggiatore, l’animatore sovra tutto, il pensiero insomma e l’azione congiunti – anche l’azione più umile che altri sdegnava – l’unico, l’insostituibile; colui che, come già Leonida Bissolati pel Cremonese, travolto dalla sublime follia dell’amore dei suoi contadini, del suo proletariato polesano, per esso aveva rinunziato indifferente agli agi e alla tranquillità della vita, alla seduzione degli studi cari in cui più eccelleva, e di sé e della sua giovinezza poteva dire, col poeta della Versilia “e tutto ciò che facile allor promettono gli anni,/ io ‘l diedi per un impeto lacrimoso di affanni,/ per un amplesso aereo in faccia all’avvenir” e per questa sua passione divorante, gelosa, era l’esule in patria, il bandito dalla sua terra, il maledetto dai parassiti della sua terra, il profugo eterno, sempre presente soltanto dove l’ora del periglio battesse la diana; quest’uomo, questa figura così staccata e viva su lo sfondo verde e bigio di questo singolare paesaggio politico, non sparisce, no, non scolora, ma si riaffaccia oggi in troppo più ampia cornice. Quello che era cosa nostra, è divenuto anche la cosa vostra, l’uomo di tutti, l’uomo della storia. E, ingrandito così, quasi è tolto a noi, come alla famiglia dolorante, perché è divenuto un simbolo. Il simbolo di un oltraggio che riassume ed eterna cento e cento mila altri oltraggi, tutti gli oltraggi fatti ad un popolo; la figura che compendia tutti gli altri trucidati e percossi per lo stesso fine, da Di Vagno a Piccinini, agli infiniti altri oscuri; il simbolo di una stirpe che si riscuote; il simbolo di un passato che si redime, di un presente che si ridesta, di un avvenire che si annunzia; della immortale democrazia, della indefettibile giustizia sociale, che si rimettono in cammino; dell’Italia che, dopo una parentesi di spaventoso Medio Evo, risale nella luce dell’età moderna, rientra tra le genti civili. Il simbolo e la Nemesi: la Nemesi augusta, o signori, che è della storia. Cerchi il Magistrato le colpe e le ferocie secondarie e minori; incalzi gli esecutori codardi e i mandanti immediati; compito anche questo, altamente rispettabile e necessario. Frughi e tenti di sventare la congiura degli intrighi, di snodare il groviglio dei silenzi comprati o ricattati, le mendicate omertà, e il tagliaborse che si annida nell’assassino. Tutta questa è la cronaca. La Nemesi vola più alto. Essa addita il grande mandato; il mandato che erompe da più anni di violenze volute, di violenze inanellate alla frode, di consenso cercato ed irriso; dal sarcasmo di una pacificazione, proclamata a parole e …

LA PANDEMIA COME PRETESTO CONTRO LA SCUOLA PUBBLICA

di Pierfranco Pellizzetti | Tra i tanti principi, dichiarati inalienabili a parole, oggetto di ininterrotti mercimoni da parte dell’incommensurabile corrività del ceto politico italiano, la scuola di Stato, repubblicana ed eguagliatrice, risulta in permanenza il più palese agnello sacrificale. Ed anche il più vergognoso e ignobile esempio di svendita dello spirito della nostra Costituzione. Perché il trasbordo che dirotta verso le strutture private, in larga misura confessionali, le sempre più scarse risorse a sostegno dell’insegnamento pubblico, determina l’anemizzazione dei luoghi istituzionalmente dedicati a coltivare e trasmettere alle nuove generazioni i valori irrinunciabili della laicità e – ribadiamolo senza infingimenti o ponziopilatesche prudenze – della civiltà democratica. Tutto questo a che pro’? Nient’altro che interessi inconfessabili. Sul fronte dei “beneficiati” – le scuole private – per ragioni affaristiche in generale (fare provvista di denaro a integrazione del monte-rette versato dalle famiglie clienti) e per ragioni di indottrinamento, nel caso comunque prevalente di quelle religiose (condizionare in senso fideistico ragazze e ragazzi, particolarmente indifesi nella fase formativa delle loro personalità, a sostegno dell’ordine gerarchico-patriarcale incarnato dai vertici ecclesiastici). Sul fronte dei benefattori – larga parte del ceto politico politicante – l’opportunistico calcolo di scambio tra concessioni monetarie e importanti bacini di voto e di consensi. Santa Romana Chiesa in testa. Una lunga azione, comunque spartitoria esercitata sul pubblico denaro, e – nello specifico – di de-secolarizzazione della società italiana; che principia dalla formazione del nostro Stato Nazionale, passa attraverso la vergogna dei Patti Lateranensi mussoliniani, si rafforza con l’ultra-vergogna della recezione di tali Patti nella Costituzione del 1948 (larva inoculata nel suo dettato dalla collusione tra democristiani e comunisti, in rapida metamorfosi diventata il contagio che attacca le difese della nostra Grundnorm sul fronte del civismo). E non si ferma più. Operazione affaristico/reazionaria che si è sistematicamente ammantata nelle parole di libertà: pluralismo nelle proposte didattiche, priorità delle famiglie nelle scelte dei percorsi educativi (quelle famiglie ormai da tempo insigni nell’assenteismo in quanto a esercizio del ruolo genitoriale). Poi è diventata un mantra della vague liberista: l’idea di mercantilizzare la scuola che piacque ai banditori di Comunione e Liberazione, non meno che a svariati Chicago Boys nostrani alla Michele Boldrin (non si capì se più ideologici, petulanti o naif). Attualmente rinasce a nuova vita nel revival sovranista alla Salvini del Cristianesimo come antemurale delle nostre radici etniche (il bizzarro presidio dell’Occidente affidato a un’eresia medio-orientale predicata da un palestinese). Oggi siamo ancora qui, con l’assalto ai miliardoni del “Decreto rilancio” predisposto dal governo, che vede in prima linea il più insigne esponente contemporaneo del professionismo politico senza scrupoli né pudori: quel Matteo Renzi, che qualunque posiziona assuma dà sempre l’impressione di perseguire interessi personali; materiali. Di potere, elettorali, di visibilità. Qualcosa che si traduca in beneficio per il suo salvadanaio, la Fondazione Open nel mirino di inchieste della magistratura. Puro carrierismo che nulla ha a che vedere con qualsivoglia istanza valoriale. A conferma che sulla pelle della scuola si giocano sempre interessi mercantili, che un Gesù redivivo (se mai fosse esistito) si premurerebbe di scacciare dal tempio. La vicenda della battaglia per quadruplicare la regalia (già di per sé indebita) del governo ai privati per 150 milioni di euro. Con tanti saluti all’idea di scuola prima di tutto come scuola di cittadinanza, insita nella missione primaria della scuola pubblica. Teniamo duro! SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA CRISI DELLA SOCIALDEMOCRAZIA

  di Luigi Ferro – Socialismo XXI Campania |   La recente decisione della Corte Costituzionale tedesca avrà inevitabili ricadute sul piano economico , ma soprattutto sul piano politico. La sentenza, in accoglimento dei numerosi ricorsi presentati dall’area conservatrice, ha certificato il sovranismo in Germania. Ne ha rappresentato l’esistenza anche giuridica, o meglio la genesi, come quando nasce un bambino che viene nell’immediatezza riconosciuto dai genitori e registrato all’anagrafe del comune di appartenenza. La sentenza in esame rappresenta un megafono per i sovranisti teutonici e per quelli nostrani, ma direi per tutti gli euroscettici. Una volta in Europa lo spettro era il comunismo, oggi è il sovranismo. Engels e Marx non lo avevano previsto. Dal punto di vista economico, probabilmente cambierà poco. La BCE e la commissione europea hanno subito precisato che i meccanismi finanziari non cambieranno e che i titoli di stato dei Paesi maggiormente in difficoltà come l’Italia saranno  acquistati senza limiti per sostenere la doppia emergenza sanitaria ed economica. Non solo. La Corte di Giustiza Europea, le cui decisioni prevalgono sul diritto interno di ogni singolo stato, a suo tempo si era pronunciata in favore del quantitative easing voluto da Mario draghi, allora a capo della BCE. Insomma, nessuna sproporzione e nessuna violazione dei trattati in ordine alle misure intraprese ( SURE, BEI, BCE, recovery fund) per salvare l’Europa. Ma la decisione della Corte Costituzionale di Karlsruhe ha un valore soprattutto politico perché abilita i conservatori e fa tuonare i loro omologhi di mezza Europa. E’ strano come la decisione dei Giudici tedeschi arrivi prima di un importante vertice del Consiglio di Europa per decidere le strategie di crescita e di sviluppo post-pandemia da COVID-19. Ancora più emblematica è la figura del presidente dell’organo della Corte ormai prossimo alla pensione. Coincidenze? No, incidenze, avrebbe risposto Sciascia. A pensare male si pecca, ma alle volte … Il segnale è chiaro. In Germania e nei Paesi rigoristi quel rigurgito antieuropeista o , meglio, di insofferenza verso i popoli meridionali dell’Europa, Italia compresa, non è mai tramontato. Il tentativo è sempre quello ben noto di limitare e di commissariare la BCE in modo da spingere  le banche centrali dei singoli Paesi membri della UE a rifiutare ogni forma di finanziamento verso una istituzione colpevole di sostenere economicamente, e fin troppo, i soliti Paesi , spreconi e dalla finanza allegra. Paesi che non meritano di essere aiutati. Questo è un primo dato politico. Il secondo dato politico è il silenzio della Merkel di fronte all’ennesimo attentato alla UE. Forse per timore di perdere qualche LANDER? O forse perché intenzionata a ricandidarsi? Lo scopriremo strada facendo. Il terzo dato politico, più preoccupante ritengo, è il silenzio della socialdemocrazia tedesca e di quella europea. Mi sarei aspettato un minimo di solidarietà, una difesa ad oltranza della UE e delle sue istituzioni politiche e finanziarie. Solo silenzi assordanti. La socialdemocrazia in Europa attraversa da tempo una crisi profonda. Una crisi di identita’. Quali le cause? L’analisi è sicuramente complessa, ma proviamoci ugualmente. Dopo gli anni del blairismo e la terza via al socialismo tracciata da GIDDENS, con luci e ombre, la socialdemocrazia europea è caduta in un generale torpore, letargo. E’ apparsa smarrita, senza idee e senza una visione del mondo chiara e coerente. L’inizio del terzo millennio è stato funestato da gravi crisi internazionali che hanno segnato un certo appannamento del socialismo nel momento in cui il mondo intero aveva più bisogno di socialismo. E’ paradossale, ma è andata proprio così. L’attentato nel 2001 di New York ha cambiato radicalmente il nostro modo di vivere e di relazione con gli altri. Diffidenze, timori, paure, hanno preso il sopravvento sul significato di comunità internazionale, di appartenenza che ha travolto anche le sinistre di varia estrazione culturale. La crisi economica del 2008, in un mondo interconnesso e globalizzato, ha cancellato ogni certezza, ogni equilibrio, e al tempo stesso ha prodotto nuovi poveri, nuove disuguaglianze. In ultimo, ma non meno importante, la crisi pandemica da COVD-19 che ha messo in evidenza tutte le nostre fragilità di uomini e le crepe di sistema. Una crisi lunga venti anni quella della socialdemocrazia incapace di guardare  “de visu” le nuove realtà,  il nuovo mondo che l’alta finanza ha costruito a sua immagine ovvero sull’individualismo senza regole e spregiudicato. Sospeso tra il passato e il presente, la socialdemocrazia appare inerte, assente, non in grado di volgersi al nuovo secolo e di affrontare con coraggio ed efficacia le nuove sfide. Appare atrofizzata, avvolta in sè stessa, autoreferenziale, timorosa, incerta, priva di ogni reazione, senza un volto, ma soprattutto senza un’anima, senza uno spirito guida. Una crisi di idee. Tematiche socialiste oggi sono diventate asse portante di una destra populista e sovranista. Da ciò discende la paura di affrontare temi politicamente ritenuti scomodi o impopolari per non perdere quelle “rendite di posizione”, in alcuni casi già ridotte al lumicino, temi scippati da movimenti politici appartenenti a una destra, per definizione europea, senza scrupoli ed eversiva. L’immigrazione, lo sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente, il disarmo e il pacifismo sono solo alcune delle questioni che hanno messo in ginocchio la socialdemocrazia più disponibile a tacere, a inseguire quella scia populista e neoliberista che danneggia irrimediabilmente le nostre vite. Sentire oggi alcune forze socialdemocratiche e i partiti nazionalisti è assistere a un dibattito fatto da una voce sola poiché non sempre è agevole coglierne le differenze culturali e di impostazione metodologica, quelle peculiarità che distinguono la sinistra dalla destra. Pertanto, occorre voltare pagina e cambiare passo. Subito! Serve discontinuità. Nel solco della migliore tradizione socialdemocratica o socialista (essere socialisti sottintende anche essere dei democratici) appare necessario fluttuare nel ventunesimo secolo, accettando le nuove sfide da superare con una visione diversa e moderna della società e del mondo che vogliamo, senza timori di sorta e senza pregiudizi. Insomma serve un processo di trasformazione identitaria della socialdemocrazia. Un nuovo “look”, per usare un anglismo, ma soprattutto idee fresche, nuove, di contenuto, moderne, senza approcci che risentano del rigurgito del passato, importante, da non dimenticare, ma da …

GRAMSCI-MATTEOTTI UN ACCOSTAMENTO FORZATO

  di  Vincenzo Lorè – Responsabile Comunicazione Socialismo XXI  |   C’è un tentativo in atto da parte di alcuni rispettabili compagni che miri a ripensare alle sorti della “sinistra italiana” coniugando Gramsci e Matteotti. Due personalità distinte, ma anche distanti, sia considerando il loro contesto storico, sia per quanto possa essere oggi la loro trasposizione disinvolta nel secondo ventennio del nuovo secolo. Prima di rendergli onore come combattente sfortunato e tenace, Gramsci applica a Matteotti la definizione di “pellegrino del nulla” che Karl Radek, un dirigente dell’Internazionale comunista, aveva usato per Leo Shlageter un nazionalista tedesco fucilato nella Ruhr dagli occupanti francesi. “Vagabondo del nulla!” era il titolo di un popolare romanzo nazionalista tedesco, riferisce E.H. Carr (“La morte di Lenin”, 1965). L’incomunicabilità tra comunisti e socialisti, che peraltro lo stesso Matteotti aveva sottolineato senza incertezza, non poteva essere espressa più chiaramente. Infatti, ad una proposta di collaborazione da parte del Partito comunista, Giacomo Matteotti Segretario del Partito Socialista Unitario, rispondeva nell’aprile del ’23 con la seguente lettera: «Alla Direzione del Partito Comunista – Roma. Riceviamo la vostra lettera contenente la solita proposta poligrafata per tutte le occasioni. L’esperienza delle altre volte, e dell’ultima in particolare, ci ha riconfermati nella convinzione che codeste vostro proposte, apparentemente formulate a scopo di «fronte unico», sono in sostanza lanciate ad esclusivo scopo di polemica coi partiti socialisti, e di nuove inutili dispute. Ciò può recare piacere o vantaggio a voi, come al Governo fascista, dominante con gli stessi metodi di dittatura e di violenza che voi auspicate. Ma non fa piacere né a noi né alla classe lavoratrice che subisce il danno delle vostre disquisizioni e dei riaccesi dissensi. Chi ha moltiplicato e inasprito le ragioni di scissione di discordia nella classe lavoratrice, è inutile e ridicolo si torni a camuffare da unitario e da «fronte unico». Restiamo ognuno quel che siamo: voi siete comunisti per la dittatura per il metodo della violenza delle minoranze: noi siamo socialisti per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla di comune tra noi e voi. Voi stessi lo dite ogni giorno, anzi ogni giorno ci accusate di tradimento contro il proletariato. Se siete quindi in buona fede, è malvagia da parte Vostra la proposta di unirvi coi traditori; se siete in malafede, noi non intendiamo prestarci ai trucchi di nessuno. Perciò, una volta per tutte, vi avvertiamo che a simili proposte non abbiamo nulla da rispondere. Tanto per vostra norma e definitivamente. GIACOMO MATTEOTTI   Non vede nel Pci né democrazia né un partito di libertà. Una delle sue ultime frasi, quando mancano pochi giorni al 10 giugno del 1924: “La libertà e il socialismo non piovono dall’alto. Bisogna conquistarseli marciando uniti contro l’avversario e spezzando l’equivoco che impedisce la marcia”. Ciò che egli osteggiò sempre con decisione furono appunto le decisioni settarie, dalle quali vedeva purtroppo derivare la radicalizzazione estrema delle diverse esposizioni programmatiche con il rischio di un conflitto tra loro, con grave danno dell’unità del Movimento operaio e del partito stesso, di conseguenza l’inefficacia dell’azione politica. Un’ulteriore riflessione va fatta a sostegno della tesi di Matteotti, seppur nella sua schematicità, ma è del tutto evidente che si tratti di un atteggiamento politico proprio del movimento comunista, è racchiusa in una frase di Lenin quando parla di comunismo quale capitalismo di stato, con i soviet o con i dirigenti comunisti al posto dei dirigenti della borghesia. Naturalmente, alla luce di fatti ed epoche in cui vissero i due leader, fondamentalmente occorrerebbe contestualizzare, pur tuttavia mi chiedo quale correlazione oggi ci sarebbe tra Gramsci e Matteotti? Al limite, l’dea dei compagni mi sentirei di definirla un tentativo meritorio da circoscrivere ad un evento storico-politico-culturale, ma non certo un elemento che possa apportare basi per la ricostruzione della sinistra italiana e soprattutto portare in vita un grande Partito Socialista Unitario del XXI secolo. Ritornerei, invece, alla proposta di METODO già avanzata ed in corso di esecuzione avviata da Socialismo XXI, il quale con chiarezza come abbiamo sempre ripetuto il nostro impegno, non è la costruzione di un recinto identitario chiuso e autoreferenziale, al contrario è l’impegno a costruire una comunità nazionale socialista capace di offrire un orizzonte politico. L’abbiamo chiamata “EPINAY ITALIANA”, dunque il metodo! Ed è del tutto evidente che questo sistema deve essere aperto ed inclusivo. I Socialisti, ovunque essi siano oggi, debbono prendere forza e modello da un’esperienza come quella francese (Congresso di Epinay), che chiami a raccolta, in forma libera, autonoma, con pari dignità, ma chiara ed organizzativamente identificabile, tutte le energie socialiste che sentono la necessità di lanciare questa sfida; in primo luogo a se stessi per una nuova militanza che, nel nome del socialismo, agisca quale fattore propulsivo per tutta la sinistra, anch’essa da ricomporre e riorganizzare: culturalmente, socialmente e politicamente.     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’ALTRO 18 APRILE (1993)

di Franco Astengo | L’esito della votazione avvenuta al Parlamento di Bruxelles sulle misure “europee” nel merito della crisi provocata dall’emergenza sanitaria, le minacce di chiusura dei “confini” pronunciate da alcuni presidenti di regioni meridionali, la vicenda della sanità lombarda, l’evidente fallimento delle molteplici task – force a livello governativo stanno segnando sicuramente il momento più basso, ai limiti del disfacimento, raggiunto in questi giorni dal sistema politico italiano. Un sistema del resto ormai da tempo in crisi verticale. Una crisi per la quale si può individuare una simbolica data d’inizio con il 18 aprile 1993, ventisette anni fa. Nella storia d’Italia la data del 18 aprile ha rappresentato per ben due volte l’occasione per segnare una svolta epocale: nella prima occasione, quella del 1948 quando si svolsero le elezioni per la Prima Legislatura Repubblicana con il successo della Democrazia Cristiana e la sconfitta del Fronte Popolare. In un’occasione successiva, quella del 1993, le urne furono aperte per un referendum che (tra altri convocati in quell’occasione) interessava la legge elettorale del Senato. Di seguito, considerata l’importanza dell’affermazione ottenuta dal quesito, si aprì una stagione di profonda riforma proprio in campo elettorale. La riforma elettorale era considerata allora la chiave di volta per modificare l’intero assetto del sistema politico. C’era chi, come il movimento capeggiato da Mario Segni oppure parte del PDS proclamava che l’adozione di un sistema elettorale maggioritario avrebbe semplificato il sistema, resa stabile la governabilità, fatta giustizia della corruzione, reso trasparente il rapporto tra eletti ed elettori. Mai promesse da marinaio come quelle enunciate all’epoca hanno causato una vera e propria distorsione nella capacità pubblica di disporre di una corretta visione politica. Sulla base dell’esito referendario si realizzò un vero e proprio riallineamento dell’intero sistema. In quel tempo ci trovavamo in una fase di grandi trasformazioni: la caduta del muro di Berlino, Tangentopoli, la stipulazione del trattato di Maastricht. In Italia era in atto da tempo un forte scollamento tra la società civile e il sistema dei partiti. Una fase di scollamento che si era mostrata evidente nell’occasione del referendum sulla riduzione a una sola delle preferenze esprimibili nell’elezione per la Camera dei Deputati, svoltosi nel Giugno del 1991 e osteggiato da parte della DC, dal PSI e dalla Lega Nord che, in quel momento, stava accelerando fortemente il suo processo di crescita. Il referendum del 1993 passò a grande maggioranza e si aprì così la strada a quella stagione che è stata definita come delle “transizione italiana”. Questi i dati finali: Votanti 36.922.390 77,01% Voti validi 34.971.387 Schede bianche 1.207.710 Schede non valide (bianche incl.) 1.951.003 Sì 28.936.747 82,74% No 6.034.640 17,26% “Tangentopoli” e “caduta del Muro di Berlino” rappresentarono i fattori decisivi perché ogni modello di forma – partito vigente fosse travolto, assieme ai resti del meccanismo dello “spoil system”. La vittoria degli abrogazionisti impresse una svolta in senso maggioritario al dibattito e fu affrettatamente letta come una “chiara” indicazione proveniente dalla base del Paese a favore dell’abbandono del sistema proporzionale. L’esito complessivo di quella vicenda, con l’evidente crisi a livello europeo della democrazia liberale classica, credo possa, a distanza di tanti anni, rendere giustizia al merito di chi, pur in netta minoranza, seppe in allora battersi contro quella che appariva già come una vera e propria illusoria furia iconoclasta. In quel modo si cercò di abbattere, mortificando la Costituzione Repubblicana, alcuni dei pilastri della nostra democrazia sul terreno della rappresentatività politica e della centralità del Parlamento. Si era così aperta la strada a uno dei periodi più mortificanti della nostra vita democratica. Va sempre tenuto in conto l’operato di coloro che isolati e ignorati, in tempi successivi seppero combattere la battaglia contro formule elettorali chiaramente incostituzionali chiedendo e perorando il giudizio dell’Alta Corte che in ben due (storiche) occasioni ha bocciato l’operato del Parlamento e del Governo. I giudizi della Corte Costituzionale rappresentarono vere e proprie vittorie della democrazia da non dimenticare quando si analizzano le vicende di questi anni tormentati. L’esito referendario del 18 aprile 1993 significò invece un punto di vera e propria battuta d’arresto per lo sviluppo democratico del nostro Paese, considerato che dalle elezioni del 1994 in avanti il corpo elettorale non ha mai avuto la possibilità concreta di scegliere i propri rappresentanti. Si è passati da un sistema misto di collegi uninominali e liste proporzionali bloccate a un sistema proporzionale interamente formato da liste e, dopo aver tentato addirittura di proporre un sistema che avrebbe fornito la maggioranza assoluta con liste bloccate senza alcuna soglia da raggiungere sul modello della legge fascista Acerbo del 1924, ad un altro sistema misto con collegi uninominali e liste ancora bloccate. Una serie di passaggi di vera e propria involuzione anti-democratica nel procedere dei quali si sono via via affermati soggetti politici di natura padronale, personalistica, di destra populista e sovranista, di antipolitica travolgendo un già debole sistema dei partiti. Sistema dei partiti dal quale sono scomparse le strutture ad integrazione di massa, a suo tempo decisive per la ricostruzione del Paese travolto dalla guerra fascista. Quella presente nell’attualità non può essere che giudicata come una situazione sconfortante. Purtuttavia dobbiamo ritrovare il coraggio almeno di testimoniare la presenza di una capacità alternativa di ricostruzione di una azione politica fondata sulla ripresa dell’idea della rappresentanza, della sua proiezione istituzionale, del recupero di ruolo delle assemblee elettive, di pienezza della democrazia repubblicana. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL PSI E’ STATO POSTO IN DISSOLUZIONE IL 12 NOVEMBRE 1994

Mi permetto di ricordare e di richiamare l’attenzione dei compagni che troppo spesso e a sproposito usano il termine “PSI” nei loro interventi, che il PSI è stato sciolto con deliberazione nel suo XLVII Congresso che si tenne a Roma l’11 e il 12 novembre 1994. Quando si parla del PSI ci si riferisce al Partito Socialista Italiano che per un secolo – dal 1892 al 1994, nonostante le scissioni, errori, ma anche di momenti esaltanti – ha fatto la storia del nostro Paese. E’ stato il primo partito d’Italia nel 1919, il secondo nel 1946 e mai meno il terzo partito per tutta la sua esistenza nel periodo Repubblicano fino allo scioglimento, come già detto, avvenuto agli inizi degli anni ’90. Hanno fatto parte di quel partito personalità che sono diventati dei capi di Governo come: (Ivanoe Bonomi, Benito Mussolini, Bettino Craxi), Presidenti della Repubblica come: (Giuseppe Saragat e Sandro Pertini) ed hanno militato giganti del pensiero socialista, Martiri del Movimento Operaio e personalità di spicco, in special modo quali: Andrea Costa, Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Antonio Gramsci, Camillo Prampolini, Claudio Treves, Leonida Bissolati, Antonio Labriola, Giuseppe Di Vagno, Amedeo Bordiga, Palmiro Togliatti, Arturo Labriola, Oddino Morgari, Edmondo De Amicis, Cesare Battisti, Enrico Ferri, Giuseppe Emanuele Modigliani, Silvestro Fiore, Argentina Altobelli, Gaetano Salvemini, Carlo e Nello Rosselli, Giacomo Matteotti, Giuseppe Di Vittorio, Pietro Nenni, Costantino Lazzari, Angelica Balabanoff, Giacinto Menotti Serrati, Filippo Corridoni, Ines Oddone Bitelli, Anna Maria Mozzoni, Emilio Caldara, Angelo Filippetti, Antonio Greppi, Aldo Aniasi, Antonio Giolitti, Giuseppe De Felice, Eugenio Colorni, Bruno Buozzi, Rodolfo Morandi, Antonino Scuderi, Giuseppe Barbarossa, Tristano Codignola, Raniero Panzieri, Roberto Tremelloni, Lelio Basso, Giuliano Vassalli, Livio Maitan, Carlo Andreoni, Sebastiano Bonfiglio, Bernardino Verro, Lorenzo Panepinto, Nicola Alongi, Giuseppe Scalia, Carmelo Battaglia, Pino Camilleri, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Calogero Cangelosi, Epifanio Li Puma, Calogero Morreale, Giuseppe Gracceva, Vera Lombardi, Lucio Libertini, Giuseppe Romita, Mario Berlinguer (papà di Enrico), Anna Matera, Luigi Mariotti, Francesco De Martino, Fernando Santi, Giacomo Mancini, Emilio Lussu, Vittorio Foa, Tullio Vecchietti, Giacomo Brodolini, Gino Giugni, Livio Labor, Lina Merlin, Riccardo Lombardi… e troppi altri perché possa ricordarli a memoria almeno in piccola parte. Per ciò che oggi esiste, [VA] correttamente disambiguata utilizzando il termine più appropriato “psi-di-nencini” (tutto in minuscolo, per distinguerlo dal PSI del quale si parlava sopra! Resta fermo che quella forza è stata spazzata via dalla scena politica italiana e a detta di molti se ne avverte il bisogno di ridotarsene. Considerando inoltre, che il (pd) nel suo approdo evolutivo NON è un partito socialista, né tanto meno un partito socialdemocratico, ma una mera espressione del pensiero neo-liberista dominante. Dunque, la necessità che nel panorama politico italiano ritorni una FORZA DICHIARATAMENTE SOCIALISTA AUTONOMA, oltre che opportuno credo sia doveroso! Affinchè ciò avvenga, SOCIALISMO XXI ha dato vita da circa tre anni, all’idea progettuale chiamata “Epinay Italiana”. La Epinay per noi rappresenta il tentativo di UNIRE in un unico partito tutti coloro che hanno medesime sensibilità sociali e politiche e, per quanto ci riguarda, la voglia di riscoprire il valore del socialismo democratico attraverso un chiaro percorso e un METODO, simile a quello adottato dai compagni francesi che costituì un importante passo e l’elemento chiave di quel congresso, scevro da ogni tentazione di appelli inconcludenti, ma solo e soltando un valido metodo tutt’ora utilizzabile. Vincenzo Lorè SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

MARISA BELLISARIO: «SONO SOLA E PARTO DA ZERO, E’ LA MIA VOCAZIONE»

   di Silvano Veronese – Vice presidente di Socialismo XXI  |   Abbiamo avuto modo di vedere ed ascoltare (chi ha voluto) una bella rievocazione su RAI 2 della vicenda umana e professionale di MARISA BELLISARIO, morta prematuramente a 53 anni, grande manager di successo dell’industria pubblica e privata, simbolo all’epoca dell’Italia che produce e compete nel mondo, dell’Italia che innova e si rinnova, che valorizza il merito senza dimenticare i bisogni della gente umile che concorre al successo produttivo delle aziende in cui lavora. E’ stata anche il simbolo della emancipazione femminile, ma anche vittima – nella sua carriera manageriale –  dei pregiudizi di allora contro la donna quando una di loro veniva posta al vertice di un’impresa o delle Istituzioni, e vittima al contempo di pregiudizi politici perché socialista ed iscritta al PSI. Dopo una brillante carriera alla Olivetti, dove concorse al programma di progettazione e fabbricazione del primo PC italiano e ad altre importanti scelte per collocare e rafforzare il ruolo della grande azienda elettronica  di Ivrea a livello internazionale nel settore emergente dell’elettronica applicata all’informatica, Marisa Bellisario – com’è noto – venne nominata al vertice della ITALTEL, il gruppo elettromeccanico della telefonia dell’IRI, forte di 20 aziende e di 30.000 dipendenti che però presentava un deficit di bilancio tre volte superiore al fatturato. In tre anni, grazie ad un intelligente piano di ristrutturazione ed innovazione tecnologica, portò la ITALTEL in attivo.  Maturò, anche su Sua intuizione, un progetto di fusione tra Italtel e la TELETTRA, altra azienda del settore di proprietà della FIAT. Il progetto – denominato TELIT – avrebbe dovuto nelle intenzioni dei proponenti di divenire un Gruppo centrale e di riferimento di questo settore per portare “il sistema Italia” (come sottolineava spesso il compagno Gianni De Michelis) a competere con successo in questo settore emergente dominato da grandi multinazionali, in particolare americane. Il progetto non decollo’ perché la FIAT si sfilò e Marisa Bellisario non fu sostenuta nemmeno dal suo socio di riferimento la finanziaria STET dell’IRI in mano democristiana. Come è stato ricordato, durante la trasmissione dallo stesso Dott. Romiti, all’epoca potente amministratore delegato di FIAT, il rifiuto alla fusione da parte del gruppo torinese fu motivato dalla sua inaccettabilità della collocazione al vertice della nuova società di una donna “apertamente schierata politicamente, per giunta in un partito guidato da una personalità forte, ma “arrogante come Craxi”! (parole del dr. Romiti). Lo stesso dott. Romiti ha ammesso di aver detto in detta occasione alla Bellisario: “Marisa, sei una manager brava e stimata, non hai bisogno di schierarti ed impegnarTi  politicamente”. Marisa Bellisario rispose con grande dignità, ma anche duramente al manager FIAT: “Sono socialista da sempre, i risultati della mia mia carriera professionale sono riconosciuti per i miei meriti, per la mia competenza e per i sacrifici incontrati, senza bisogno di sostegni politici che non avrei voluto, perché allora dovrei nascondere la mia fede ed abbandonare la mia militanza socialista? A tutti coloro che, in questi ultimi anni, hanno concorso alla “rimozione” del socialismo, vogliamo rispondere con queste belle parole di Marisa Bellisario, assieme alla nostra riconoscenza. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DOPO 115 ANNI IL COOPI CHIUDE, MA NON PER SEMPRE

Care/i amiche/i del Coopi, in seguito alle comunicazioni sul Coronavirus del CF di ieri a Berna siamo spiacenti di dover tenere chiuso il Cooperativo, nostro storico locale e centro sociale, fondato nel 1905. Procediamo alla chiusura a malincuore, per la prima volta in 115 anni di attività, ma in convinto ossequio alle disposizioni del CF atte a contrastare la diffusione di questa pandemia. Andrà tutto bene! Il Coopi riaprirà non appena avremo superato la fase di emergenza e nuove condizioni lo consentiranno. Vi ringraziamo della comprensione. Arrivederci presto a tutti… al Coopi. Società Cooperativa Italiana Zurigo Dr. Andrea Ermano, presidente Zurigo, 17 Marzo 2020 LA STORIA DEL COOPI Zurigo anche il minestrone, qui, è un pezzo di storia. Lo mangiavano, gratis, gli immigrati appena arrivati dall’Italia. Piaceva anche a Benito Mussolini, quando era socialista, non aveva un soldo in tasca ed era innamorato di Angelica Balabanoff. Minestrone e politica, maccheroni e giornali antifascisti. Ecco, il Coopi è stato ed è tutto questo. Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin – sì, proprio lui – preferiva invece i cappelletti. Li preparava Erminia Celli, la moglie del figlio di nonna Adele, che era arrivata da Scandiano, Reggio Emilia. Dicono che li ha mangiati anche poco prima di prendere il treno per la Russia, la sera del 9 aprile 1917. Quando si apprese la notiza che Lenin aveva sterminato i Menscevichi, egli non fu più ammesso al COOPI. Al ristorante della Società cooperativa italiana Zurigo, in Strassburgstrasse 5, i tavoli sono rossi e sui muri ci sono i ritratti di Carlo Marx e Giacomo Matteotti. Su un ripiano, il busto di Filippo Turati. «Qui – dice Andrea Ermano, che insegna filosofia all’università ed è presidente della cooperativa – è passata la storia italiana. Il Coopi (a Zurigo tutti lo chiamano così) è stato il primo rifugio degli immigrati che scappavano dalla miseria italiana e poi il punto d’ incontro degli antifascisti. Ignazio Silone era il direttore de L’Avvenire dei Lavoratori, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini e Pietro Nenni mandavano qui i loro articoli contro il Duce. I fratelli Rosselli erano di casa, prima di essere ammazzati dai fascisti». Il ritratto di Carlo Marx sembra sorvegliare attentamente ogni angolo della grande sala. «Un giorno è arrivato qui Bertolt Brecht e si è arrabbiato perché, accanto al ritratto di Marx, non c’ erano anche quelli di Lenin e di Stalin. “I dittatori – gli risposero – noi non li vogliamo nemmeno appesi ai muri”». Inviati dell’Ovra sorvegliavano il ristorante e pagavano 50 franchi ogni informazione uscita da qui. Ci sono ancora i primi menù del Coopi, aperto il 18 marzo1905. L’ idea era quella di «fornire agli operai un cibo sano e nutriente a un prezzo equo». Un minestrone costava 20 centesimi di franco, una trippa al sugo 40 centesimi, un mezzo pollo 1 franco, “carne al lesso” 50 centesimi, minestra di trippa a 20 centesimi. «Nello statuto, ancora valido – dice Andrea Ermano – c’ è scritto che bisogna dare sostegno ai connazionali di passaggio. è un modo elegante per dire, senza umiliare nessuno, che se hai fame e non hai soldi in tasca qui al Coopi puoi avere un piatto di minestra gratis». Qui si organizzano i primi scioperi degli italiani che stanno costruendo mezza Zurigo e la repressione è forte. Milleduecento muratori, nel 1911, vengono caricati su un treno speciale e rispediti in Italia. Ma c’è bisogno di braccia. A scavare i tunnel sotto le Alpi arrivano i calabresi ed i siciliani, perché in galleria con le macchine a vapore in azione si arriva a 50 gradi e solo loro riescono a resistere. Emiliani, veneti e friulani lavorano nell’edilizia. Il comizio del 1° maggio 1913 viene tenuto dal socialista Benito Mussolini. A Zurigo ha conosciuto Angelica Balabanoff, la giornalista russa che è venuta a studiare qui perché l’università è aperta alle donne. Lo spiantato Benito si innamora e, alla ricerca di uno stipendio, contesta la linea politica de L’Avvenire dei lavoratori e convoca un’assemblea per diventarne il direttore. Viene sconfitto e torna in Italia. Scoppia la prima guerra mondiale e il Coopi diventa il “covo” dei pacifisti. «Venite fuori», questo un titolo de L’Avvenire dei lavoratori del 1° maggio 1916. «Lavoratori dei campi e delle officine, fermate i ferrei bracci vostri, immobilizzate le vostre macchine e venite fuori, fuori con noi sulla strada. Bimbi e fanciulle impallidite, che la fabbrica vi ucciderà precocemente, lasciate i vostri aghi, separatevi dai vostri merletti». La prima sede, nella Zwinglistrasse, viene lasciata nel 1912. Il nuovo Cooperativo trasloca al numero 36 della Militarstrasse, nel quartiere popolare di Zurigo, chiamato “Kreis Chaib”, il quartiere carogna. Durante il fascismo il numero 36 della Militarstrasse diventa l’indirizzo più conosciuto per i fuoriusciti italiani. Arriva anche Giacomo Matteotti, che scrive per L’Avvenire dei lavoratori. Si organizzano qui le partenze per la guerra di Spagna. La trafila passava da Basilea e Ginevra, poi attraversata la Francia si valicavano i Pirenei. La stampa clandestina viene nascosta nel doppiofondo delle valigie e mandata in Italia. Leo Valiani viene arrestato mentre porta a Roma una di queste valigie. Quando la Francia viene occupata dai nazisti, anche l’Avanti! trasloca da Parigi a Zurigo. Il direttore si chiama Pietro Bianchi ed è un muratore analfabeta. Ma ha la cittadinanza svizzera, e può fare il prestanome. Finisce la guerra e negli anni Cinquanta e Sessanta Zurigo torna ad essere Lamerica degli italiani con la valigia di cartone. Renzo Balnelli, svizzero con nonni di Casalmaggiore, Cremona, è stato direttore dei telegiornali della Tv svizzera di lingua italiana. «Da giovane lavoravo anche qui, al Coopi, all’ Avvenire dei lavoratori. Erano anni davvero duri, perché c’era chi voleva cacciare gli italiani. L’editore James Schwarzenbach organizzava le campagne xenofobe. Sul giornale facemmo una contro-campagna contro “gli usurai del sonno”. C’era un palazzo diroccato, vicino alla stazione centrale. Scoprimmo che veniva affittato agli immigrati con turni di otto ore al giorno: l’usuraio del sonno riceveva tre affitti per lo stesso materasso. Pubblicammo le foto, ci fu uno scandalo». Adesso, sotto il ritratto di Marx, …

STEPHEN HAWKING E’ SOCIALISTA?

Le élite imparino l’umiltà o il populismo sarà trionfante. Oggi la diseguaglianza economica rischia di sgretolare la società Fonte: The Gardian – Traduzione a cura Fabio Galimberti | Essendo un fisico teorico che vive a Cambridge, ho vissuto la mia vita in una bolla di eccezionale privilegio. Cambridge è una città insolita, tutta incentrata su una delle grandi università del pianeta. All’interno di questa città, la comunità scientifica di cui sono entrato a far parte quando avevo vent’anni è ancora più esclusiva. E all’interno di questa comunità scientifica, il gruppo ristretto di fisici teorici internazionali con cui ho trascorso la mia vita lavorativa potrebbe a volte essere tentato di vedersi come un apogeo. In aggiunta a tutto questo, con la celebrità che mi hanno procurato i miei libri e l’isolamento imposto dalla malattia, ho la netta impressione che la mia torre d’avorio diventi sempre più alta. Io mi definisco socialista, e credo che il mondo dovrebbe esserlo Pertanto, faccio parte senza dubbio di quelle élite che recentemente, in America e in Gran Bretagna, sono oggetto di un inequivocabile rigetto. L’elettorato britannico ha deciso di uscire dall’Unione Europea, i cittadini americani hanno scelto Donald Trump come presidente. Qualunque cosa possiamo pensare di queste decisioni, non c’è alcun dubbio, nella mente dei commentatori, che siamo di fronte a un grido di rabbia da parte di persone che si sono sentite abbandonate dai loro leader. Tutti sembrano d’accordo nel dire che è stato il momento in cui i dimenticati hanno parlato, trovando la voce per rigettare il consiglio e la guida degli esperti e delle élite di ogni latitudine. Io non faccio eccezione a questa regola. Prima del voto sulla Brexit ho lanciato l’allarme sugli effetti negativi che avrebbe avuto per la ricerca scientifica in Gran Bretagna, ho detto che uscire dall’Unione Europea sarebbe stato un passo indietro: e l’elettorato — o almeno una parte sufficientemente ampia di esso — non si è curato del mio parere così come non si è curato del parere di tutti gli altri leader politici, sindacalisti, artisti, scienziati, imprenditori e personaggi famosi che hanno dato lo stesso consiglio inascoltato al resto del Paese. Quello che conta adesso, molto più delle vittorie della Brexit e di Trump, è come reagiranno le élite. Dovremmo, a nostra volta, rigettare questi risultati elettorali liquidandoli come sfoghi di un populismo grossolano che non tiene in considerazione i fatti, e cercare di aggirare o circoscrivere le scelte che rappresentano? A mio parere sarebbe un terribile errore. Le inquietudini che sono alla base di questi risultati elettorali e che concernono le conseguenze economiche della globalizzazione e dell’accelerazione del progresso tecnologico sono assolutamente comprensibili. L’automatizzazione delle fabbriche ha già decimato l’occupazione nell’industria tradizionale e l’ascesa dell’intelligenza artificiale probabilmente allargherà questa distruzione di posti di lavoro anche alle classi medie, lasciando in vita solo i lavori di assistenza personale, i ruoli più creativi o le mansioni di supervisione. Servirsi di Dio come di una risposta alla domanda sull’origine delle leggi equivale semplicemente a sostituire un mistero con un altro Tutto questo a sua volta accelererà la disuguaglianza economica, che già si sta allargando in tutto il mondo. Internet, e le piattaforme che rende possibili, consentono a gruppi molto ristretti di persone di ricavare profitti enormi con un numero di dipendenti ridottissimo. È inevitabile, è il progresso: ma è anche socialmente distruttivo. Tutto questo va affiancato al crac finanziario, che ha rivelato a tutti che un numero ristrettissimo di individui che lavorano nel settore finanziario possono accumulare compensi smisurati, mentre tutti gli altri fanno da garanti e si accollano i costi quando la loro avidità ci conduce alla deriva. Complessivamente, quindi, viviamo in un mondo in cui la disuguaglianza finanziaria si sta allargando invece di ridursi, e in cui molte persone rischiano di veder scomparire non soltanto il loro tenore di vita, ma la possibilità stessa di guadagnarsi da vivere. Non c’è da stupirsi che cerchino un nuovo sistema, e Trump e la Brexit possono dare l’impressione di offrirlo. C’è da dire anche che un’altra conseguenza indesiderata della diffusione globale di Internet e dei social media è che la natura nuda e cruda di queste disuguaglianze è molto più evidente che in passato. Per me la possibilità di usare la tecnologia per comunicare è stata un’esperienza liberatoria e positiva. Senza di essa, già da molti anni non sarei più stato in grado di lavorare. Ma significa anche che le vite delle persone più ricche nelle parti più prospere del pianeta sono dolorosamente visibili a chiunque, per quanto povero, abbia accesso a un telefono. E visto che ormai nell’Africa subsahariana sono più numerose le persone con un telefono che quelle che hanno accesso ad acqua pulita, fra non molto significherà che quasi nessuno, nel nostro pianeta sempre più affollato, potrà sfuggire alla disuguaglianza. Le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: i poveri delle aree rurali affluiscono nelle città spinti dalla speranza, ammassandosi nelle baraccopoli. E poi spesso, quando scoprono che il nirvana promesso da Instagram non è disponibile là, lo cercano in altri Paesi, andando a ingrossare le fila sempre più nutrite dei migranti economici in cerca di una vita migliore. Questi migranti a loro volta mettono sotto pressione le infrastrutture e le economie dei Paesi in cui arrivano, minando la tolleranza e alimentando ancora di più il populismo politico. Dovremmo avere paura del capitalismo, non dei robot! L’avidità degli uomini porterà all’apocalisse economica Per me, l’aspetto veramente preoccupante di tutto questo è che mai come adesso, nella storia, è stato maggiore il bisogno che la nostra specie lavori insieme. Dobbiamo affrontare sfide ambientali spaventose: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare, il sovrappopolamento, la decimazione di altre specie, le epidemie, l’acidificazione degli oceani. Insieme, tutti questi problemi ci ricordano che ci troviamo nel momento più pericoloso nella storia dello sviluppo dell’umanità. Possediamo la tecnologia per distruggere il pianeta su cui viviamo, ma non abbiamo ancora sviluppato la capacità di fuggire da questo pianeta. Forse fra qualche secolo avremo creato colonie umane fra le stelle, ma in questo momento abbiamo un solo pianeta, e …