I MANIPOLATORI AD OLTRANZA

  di Mario Guadagnolo – Già sindaco socialista di Taranto – esponente di Socialismo XXI Puglia | A proposito del film di Gianni Amelio leggo su Craxi giudizi di ex o post comunisti o di giustizialisti ad oltranza come Travaglio e Scanzi manipolatori seriali di verità storiche e poliche che non si arrendono neanche di fronte alle dichiarazioni di Di Pietro e Colombo i quali ammettono di essersi sbagliati su Craxi e che Craxi diceva la verità. Questi ostinati falsificatori della storia dicono: “Non si puà beatificare Craxi perchè era una tangentista”. E no cari amici io accetto la definizione di Craxi tangentista se si aggiunge anche che tangentisti sono stati Berlinguer, D’Alema, Occhetto, Forlani, Longo, Altissimo, La Malfa e che se non si può beatificare Craxi non si possono neanche beatificare Berlinguer, La Malfa, D’Alema ecc. Sul tema del finanziamento illecito ai partiti nessun segretario di partito della prima repubblica può essere santificato, poichè tranne Pannella e Almirante tutti hanno ampiamente attinto a quel sistema e alcuni più di altri come il PCI che non solo prendeva le tangenti interne al sistema italiano, ma prendeva anche il finanziamento in rubli da Mosca con l’aggravante che l’Unione Sovietica era un nemico dell’Alleanza atlantica cincostanza che in Unione Sovietica avrebbe comportato il reato di alto tradimento. In proposito si legga il libro “L’oro di Mosca” molto circostanziato di Gianni Cervetti Segretario amministrativo del PCI, Baldini & Castoldi Editore 1999 che racconta nei minimi particolari come Mosca e il sistema delle cooperative rosse finanziavano il PCI. e Cervetti non era un camerata fascista della Repubblica di Salò, e l’onestissimo Enrico Berlinguer aveva come referenti per tali finanziamenti da Breznhev il suo segretario particolare Franco Tatò e Giorgio Napolitano che andavano personalmente a prendere i soldi da Mosca. Ma è accaduto che mentre Craxi ha concluso la sua vità in esilio in Tunisia D’Alema saliva le scale di Palazzo Chigi e Napolitano saliva quelle del Quirinale pur avendo le stesse colpe di Craxi. E’ questo il grande vulnus della storia recente della nostra repubblica che fino a quando non sarà sanato peserà come un macigno nella vita politica italiana e nella sua storia. Nè può essere assolta o santificata la magistratura che era perfettamente al corrente di questo sistema che era diventato di pubblico dominio da quando anni ’50 Enrico Mattei pubblicamente dichiarava alla stampa che per lui i partiti erano come il taxi “Li prendo, pago e scendo”, e i soldi di Mattei erano soldi dell’Eni e tutti vi attingevano e la magistratura lo sapeva benissimo. Craxi fra tutti costoro fu l’unico ad avere il coraggio di denunciare e ammettere pubblicamente e in Parlamento il sistema dei finanziamenti illeciti ai partiti, i bilanci falsi dei partiti con un discorso storico chiedendo a tutti i parlamentari di alzarsi e di smentirlo. Come è noto nessuno si alzò. Quindi parlare di Craxi come di un tangentista senza dire il resto e senza citare gli altri segretari di partito è un atto di somma ipocrisia che deliberatamente manipola la storia. . SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CRAXI, STORIA DI UN RIFORMISTA

Articolo Pubblicato su Il Tempo il 10 Gennaio 2010 | Nel lavoro di ricerca di testi, testimonianze, avvenimenti ho trovato la copia di un editoriale (prima e terza pagina del 19 gennaio 2010), firmato da Giuseppe Scanni per il quotidiano Il Tempo. In questi giorni (nonostante, per molti, la delusione suscitata dal film Hammamet, salvato dalla gigantesca interpretazione di Pierfrancesco Favino, un impressionante produzione di libri e di ricerche, basta citare quelli di Marcello Sorgi e Fabio Martini e non solo, che seguono lo straordinario lavoro di ricerca compiuto dalla Fondazione Socialismo animata da Gennaro Acquaviva, coi suoi oltre dieci volumi pubblicati da Marsilio) sembra si sia hanno messa finalmente in movimento una chiara volontà di studiare e riflettere sul colpo di stato che colpì così duramente i socialisti ed il suo segretario nel biennio 92-94 ed a seguire. Dieci anni fa Giuseppe Scanni, oggi vice presidente nazionale della nostra Associazione Socialismo XXI secolo, sembra quasi aver profetizzato gli avvenimenti che corriamo ora. Occhi che scrutano lontano. Per questo ripubblichiamo, senza il consenso dell’autore l’articolo, tranquillamente rintracciabile sul web. Vincenzo Lorè    di Giuseppe Scanni – Vice Presidente Socialismo XXI | Chi ha oggi venti anni troverà difficoltà a seguire quanto si scriverà e si dirà da oggi e nei prossimi giorni, rievocando la scomparsa di Bettino Craxi, morto ad Hammamet, in Tunisia, alle 17 del 19 gennaio 2000. Eppure i ventenni d’oggi, ma anche quelli di domani, dovranno parlare di Craxi, perché la sua figura rappresenta un drammatico passaggio tra la fine di un secolo, il ‘900, e l’inizio di un altro; perché sul suo nome si sviluppa oramai da diciotto anni un’irrisolta questione di poteri all’interno delle istituzioni; perché in pochi anni la sua leadership socialista e di governo confuse prima e mise in crisi poi il più grande, influente e autorevole Partito Comunista dell’Occidente, il PCI, aprendo la strada a cambiamenti storici. La Storia, poiché è figlia della verità, è un fiume carsico che, scorrendo nascosto nelle viscere della terra, crea l’illusione dell’oblio e infine, apparendo alla luce, con gagliardia spazza via falsità, menzogne. Craxi era un figlio del Risorgimento italiano, si professava garibaldino e come tale aveva un amore senza limiti per la patria, era convintamente repubblicano, socialista e internazionalista. Non era massone, ma dei massoni si professava protettore contro chi intendeva limitarne le libertà, nello stesso tempo riuscì a firmare il nuovo Concordato con il Vaticano. Il nuovo Concordato, introducendo l’otto per mille, ha reso la Chiesa cattolica italiana non solo economicamente autosufficiente, ma soprattutto libera di esprimersi sui temi sociali e politici. Il socialismo di Bettino Craxi fu riformista, democratico, libertario. Un pugno nello stomaco della sinistra italiana conservatrice e gramsciana, culturalmente «diversa» e pubblicamente pronta a rivendicare, grazie alla sua diversità, una superiorità di governo ed etica. Accompagnando Craxi a Ginevra dal 23 al 27 novembre del 1976 assistetti al congresso di Rifondazione della Internazionale Socialista, durante il quale fu eletto presidente Willy Brandt e tra i vicepresidenti, Bettino Craxi. Craxi era stato eletto segretario del Psi soltanto il 14 luglio dello stesso anno. Un famoso corsivista dell’Unità dell’epoca, Fortebraccio, lo definiva «il signor Nulla», la Repubblica di Eugenio Scalfari, lo accusava della terribile colpa d’essere un «socialdemocratico tedesco». A Ginevra il giovane segretario, che già aveva avuto un ruolo nella vecchia Internazionale, impressionò i partiti presenti per la concreta indicazione di una strada socialista ed occidentale per uscire dalle contraddizioni imposte dalla Guerra Fredda, nell’ambito dell’alleanza occidentale basata sul rispetto dei partner. Ricordo che la sera del 26 novembre l’ex presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, ospite dell’ambasciatore d’Italia e in procinto d’essere nominato — grazie allo stesso Craxi — Presidente Onorario dell’Internazionale, assieme a Nenni, ebbe parole di sincero compiacimento per il giovane segretario socialista. Compiacimento e ringraziamento per l’atteggiamento che i socialisti avevano assunto nei confronti dello scandalo Lockeed, che da scandalo democristiano divenne colpa socialdemocratica con la condanna dell’uomo forte del Psdi, Mario Tanassi. In pochi anni, passando attraverso la difesa appassionata di una scelta che assicurasse la vita all’onorevole Aldo Moro, Bettino Craxi sconfisse la politica di Compromesso Storico ideata dal segretario comunista Berlinguer e costrinse i comunisti ad affrontare il mare malmestoso della competizione alternativa di una democrazia conflittuale e non consociativa. Dopo aver impedito all’onorevole Andreotti di rieditare un esecutivo appoggiato dai comunisti, Craxi fu incaricato il 10 luglio 1979 di formare il Governo. Sull’aereo militare che ci accompagnava a Strasburgo per la solenne inaugurazione del nuovo Parlamento europeo, per la prima volta eletto a scrutinio universale, chiesi a Craxi cosa ci aspettava. Mi rispose che l’incarico non sarebbe sfociato in un suo governo, ma che grazie alle consultazioni si poteva lasciare un progetto un po’ più solido al suo successore, in attesa di una nuova occasione. E così accadde, perché alla fine delle consultazioni apparve chiaro che l’onorevole Cossiga avrebbe potuto guidare un governo Dc, Psdi, Pli, appoggiato dall’esterno dai repubblicani e dai socialisti. Il governo Cossiga durò fino ad aprile del 1980, per rinascere con una formula diversa (Dc, Psi, Pri) fino all’ottobre del 1980. L’8 maggio del 1980 morì il potente presidente della Federazione Jugoslava Tito. Il 9 maggio una delegazione nazionale presieduta da Pertini e composta fra gli altri da Craxi e Berlinguer si ritrovò all’aeroporto di Ciampino per partire e partecipare ai funerali dell’illustre capo di stato. Giunti a Ciampino trovammo Cossiga che attendeva tutti i delegati per salutarli. Dopo qualche convenevole Craxi si accorse che stava entrando nel salone Berlinguer, lo salutò e inventandosi al momento qualcosa di molto importante da dirmi, cominciò a entrare e uscire dalla sala parlandomi velocemente e impedendo a Cossiga di aprire «per caso» un incontro informale con Berlinguer, che sarebbe stato disposto a diminuire le ostilità verso il governo in cambio di un’apertura nei confronti del suo partito. Craxi non lo permise e il secondo governo Cossiga cadde il 18 ottobre del 1980. Si è molto favoleggiato su rapporti conflittuali tra Craxi e Pertini. Craxi, invece, mi ha sempre detto che senza Pertini al …

«QUEI RAPPORTI TRA USA E PM» LE OMBRE SULLA CADUTA DI CRAXI

di Mario Ajello – Il Messaggero | “Presunto colpevole” di Marcello Sorgi: Mani Pulite monitorata dagli Stati Uniti Serwer, allora diplomatico in Italia: non facemmo nulla per proteggere i politici amici GLI INTRECCI TRA I MAGISTRATI DI MILANO E IL CONSOLATO AMERICANO GUIDATO DA PETER SEMLER SIGONELLA, DE MICHELIS SENTI’ BETTINO GRIDARE: «SE PENSANO DI SFIDARMI, GLI SPEZZERO’ LE OSSA: L’ITALIA DEVE ESSERE AUTONOMA» Ci furono o non ci furono le influenze degli Stati Uniti sui giudici di Mani Pulite e sull’inchiesta che portò alla liquidazione di Craxi? Molti socialisti hanno sempre pensato e detto di sì. Prendendosi spesso l’etichetta di cospirazionisti. Eppure, leggendo le carte della Cia e mettendo insieme con la tecnica dello storico sperimentato i vari documenti e i tasselli riguardanti l’epilogo di Bettino, Marcello Sorgi che non è certo un dietrologo offre nuovi spunti di ragionamento e particolari trascurati o sconosciuti su questa vicenda. «Che qualcosa ci sia stato, e il lavoro dei pm di Mani Pulite abbia potuto essere monitorato dall’occhio attento degli osservatori Usa, questo è sicuro»: così scrive Sorgi, nel suo bel libro che tra tanti in uscita per il ventennale della morte del leader socialista si distingue per acume e velocità. S’intitola «Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi» (per Einaudi). E’ intrigante la riflessione, condotta con lo sguardo del cronista e senza svolazzi politologici, sui destini paralleli di Craxi e Moro, sulle due trattative fallite per liberarli. Gennaro Acquaviva che sorprende Craxi in lacrime mentre sta leggendo la lettera dalla «prigione del popolo» in cui Moro gli chiede di attivarsi per la liberazione – è una scena forte del libro. Così come lo sono quelle contenute nel capitolo «La Cia in casa». Leggendo queste pagine, non si riesce a credere che Tangentopoli possa essere stata soltanto il frutto di un’inchiesta giudiziaria, per quanto molto potente. Senza il concorso di fattori internazionali, non si azzera una classe dirigente, non si destabilizza il Paese. Ecco allora, il racconto degli intrecci tra i magistrati della Procura di Milano e il consolato americano a Milano guidato da Peter Semler. O quanto aveva scritto Daniel Serwer, incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Roma, in un dispaccio inviato a Washington nel ’93, sulla base di informazioni ricevute da parte di magistrati di Milano: «Si dice che un protagonista dell’inchiesta potrebbe essere un pupazzo manovrato dagli Usa». Probabilmente il riferimento è a Di Pietro. E ancora Serwer, in un’intervista molto successiva: «I politici che cadevano, Andreotti, Craxi, Martelli, erano nostri amici, ma non facemmo nulla per proteggerli. L’impressione generale è che fosse venuta l’ora di ripulire le cose». Di Più: «Se Di Pietro ci avesse chiesto aiuto glielo avremmo dato, nell’ambito di ciò che consentivano le nostre leggi». I rapporti tra Di Pietro e il console Semler erano stati fitti sia prima che nella fase calda dell’inchiesta. Alla fine del ’91, il pm aveva anticipato al console l’arresto di Mario Chiesa e praticamente gli aveva predetto tutto il cataclisma che stava per accadere. «Mi disse – ha raccontato l’amico americano – che le indagini avrebbero raggiunto la Dc e Bettino Craxi». Il plot che Sorgi, senza arrivare a giudizi sommari, riesce a costruire è fatto di visite e incontri tra Di Pietro e Semler, si avvale delle testimonianze cruciali dell’ex ambasciatore Reginald Bartholomew e contiene le azioni dell’agente segreto Stolz e di altri specialisti della Cia, che operano in Italia con particolare attitudine nel campo del «regime change». LA COMPLESSITÀ E la lista degli indizi e dei personaggi, su cui Sorgi lavora non per gridare al complotto! ma per sviscerare la complessità della storia, è piuttosto lunga e articolata. Si accenna per esempio a un particolare significativo, che è quello del viaggio – dopo la buriana Mani Pulite – che proprio il console Semler, insieme a Michael Ledeen, ufficiale di collegamento tra i servizi americani e quelli italiani, organizzerà per Di Pietro negli Usa. Alla base di tutto, c’è che da Craxi, quando diventa il personaggio di spicco della democrazia italiana, gli americani – anche prima di Sigonella – si aspettavano di più. O meglio, volevano una minore pervicacia, da parte sua, nel rifiutare quella subalternità automatica al gigante d’Oltreoceano di cui Washington aveva bisogno. Su questo punto Sorgi è molto netto ed esaustivo. Gli strascichi insanabili della vicenda di Sigonella fanno naturalmente parte di questa storia. Ed ecco la testimonianza di De Michelis durante quel braccio di ferro Italia-Usa. L’allora ministro sostiene di aver sentito Craxi gridare: «Se pensano di sfidarmi, gli spezzerò le ossa. Perché l’Italia dev’essere autonoma». E lì, come dice qualche vecchio socialista in slang, cogliendo il punto: «Si fottette!». Gli americani insomma avevano preso a non fidarsi di lui. E abbandonato da tutti, anche gli Usa a un certo punto lo scaricarono dopo che tanto gli era piaciuto (come una sorta di cowboy grande e grosso, un decisionista, un anti-comunista). Di sicuro la pistola fumante dell’eliminazione di Bettino nelle mani americane non è stata trovata, ma gli indizi che portano a credere che potesse esserci erano e restano tanti. E Sorgi ci gioca, senza nulla togliere alla tragedia. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

«POPULISMO, CRAXI CAPI’ I RISCHI MA COMMISE TRE GRAVI ERRORI»

Rino Formica a 20 anni dalla morte di Craxi di Generoso Picone – Il Mattino | «Rino Formica, 92enne ex ministro e storico dirigente del Psi, ai cui ideali è rimasto fedele (oggi presiede il movimento «Socialismo è Libertà»), guarda al 19 gennaio, ovvero i 20 anni dalla morte di Craxi. «Bettino commise tre errori, ma aveva compreso benissimo quali fossero i rischi del populismo. Nel ’91 sbaglio a non andare al voto, poi fallì le scelte di Scalfaro e Amato. Il Psi fu il capro espiatorio da sacrificare». A Rino Formica piacciono poco niente le liturgie degli anniversari, la retorica delle intitolazioni di strade, l’apposizione di lapidi e targhe, insomma tutto quel cerimoniale che nasconde sempre «una scorciatoia semplificatrice e consolatoria – dice -buona a mettere a posto la coscienza e non a risolvere». Il novantaduenne ex ministro e storico dirigente del Psi, ai cui ideali è rimasto fedele presiedendo oggi il movimento «Socialismo è Libertà», perciò guarda al 19 gennaio, alla data cioè che sancirà i 20 anni dalla morte di Bettino Craxi, con un certo sospetto e una sola aspettativa. Quale? «Che, a 20 anni dalla sua morte e a 30 dalla fine della Guerra fredda con la caduta del Muro di Berlino, ci possa essere un momento di riflessione seria su un protagonista di centrale importanza della storia della sinistra italiana con responsabilità elevate di governo e di direzione politica del Paese, per altro in una fase segnata da una crisi generale di sistema, dall’inizio degli anni ’80 alla fine dei ’90. Questa dovrebbe essere la vera riflessione che andrebbe svolta, senza sbirciare dal buco della serratura sulla vicenda di Craxi. Sarebbe l’occasione utile per misurarsi con il quarantennio che va dal termine degli anni ’40 agli ultimi ’80 in cui l’Italia è stato un luogo di frontiera. Anzi, di tre frontiere». Quali? «Quelle esterne Est-Ovest e Nord-Sud e l’interna con lo Stato Vaticano. Si è trattato di una condizione che imponeva vincoli, ma pure margini di discrezionalità. Veniva conservata la democrazia, ma stando sul piede di guerra. Dal 1989 al1994, invece, tutti hanno giocato senza più avere una rete di protezione: i due campi ideali in cui era diviso il mondo si ritrovano a confluire in uno solo nell’illusione che dall’implosione del comunismo la democrazia potesse espandersi irreversibilmente coniugandosi al capitalismo lungo una strada facile e lineare. È una situazione che naturalmente si ripercuote anche in Italia, dove salta il sistema di regole vigente ed emerge la debolezza di un capitalismo privato assistito e di un capitalismo pubblico inquinato dalla politica. Si rompe il rapporto tra istituzioni, politica ed elettorato. Si pone un problema di riordino del potere in termini politici, economici e sociali. Si va alla ricerca dell’anello debole da sacrificare». L’anello debole sarebbe stato individuato nel Psi di Bettino Craxi? «Il Psi era l’anello debole del sistema politico e costituì il capro espiatorio da sacrificare. Craxi ha rappresentato il punto politico più elevato nella storia della formazione della classe dirigente della Prima Repubblica che nel nome del dinamismo cercava di non assoggettarsi a un nuovo sistema bloccato. Ricorda il discorso che Bettino Craxi tenne al congresso di Bari dal 27 al 30 giugno 1991?». Quando citò Giovanni Spadolini? «Il quale a sua volta aveva citato Ugo La Malfa. Lui aveva detto: “Io potrei fare il populista, mettermi alla testa di una rivolta, prendere altri 3-4 milioni di voti grazie alla crisi del sistema. Ma non posso farlo, perché io sono figlio di questo sistema”. E Craxi chiuse sottolineando: “La penso esattamente allo stesso modo”. Un discorso di enorme levatura storica, pronunciato quando stava nascendo la ribellione nelle aree di rifugio di tutti gli sconfitti raccolti in una specie di Arca di Noè. Stava nascendo il populismo italiano e Craxi lo aveva capito. Io credo che quello sia stato il suo vero testamento politico, più dell’intervento sul finanziamento ai partiti alla Camera il 3 luglio 1992». Il quadro, comunque, era irrimediabilmente compromesso. «Craxi commise tre errori. Il primo: non aver voluto andare alle elezioni nel 1991, evidentemente preoccupato per la fragilità del Paese e del rischio dell’ingovernabilità. Il secondo: non aver voluto affidare alla scelta del presidente della Repubblica, nel maggio 1992, un segnale di rinnovamento, lasciandosi convincere da Marco Pennella a votare Oscar Luigi Scalfaro illudendosi che sarebbe stato un elemento di equilibrio sulla scorta dell’esperienza da ministro dell’Interno nel suo governo. Il terzo: aver accettato che nel giugno 1992 l’incarico di presidente del consiglio andasse a un socialista non segretario del partito. Lui diede tre nomi non in ordine alfabetico, di Giuliano Amato, di Claudio Martelli e di Gianni De Michelis. La nomina di Amato si rivelò un grave errore di valutazione. Anche la lettera che gli inviò ad Hammamet di cui si sa ora, un monumento di infedeltà per fine contratto, conferma che Amato si è dimostrato ciò che era. Quanto avvenne dopo il 1992 è riassumibile nel riassetto del sistema capitalistico e politico italiano». Ma dall’inizio del1990 era intanto partita la stagione di Mani pulite ed era esplosa Tangentopoli. «Dopo gli ’80 l’opzione giudiziaria appare una delle due vie d’uscita, una delle riposte agli sbandamenti populisti. L’altra era il golpe impossibile perché non si era più negli anni ’60 dei Colonnelli in Grecia. Il golpe giudiziario è l’operazione in cui far intervenire magistrati senza velleità politiche, ma con interesse a suggerire soluzioni. A rivoltare l’Italia come un calzino, come si diceva. Nel pool di Milano c’era chi era sensibile ai servizi internazionali, chi alla destra non governativa, chi alla sinistra che voleva governare. Il tema sollevato della corruzione è un classico della destabilizzazione, materia di studio nelle Università americane». La corruzione, però, ci fu davvero. «Soltanto allora? Se ieri era fuori controllo, oggi è incontrollabile, incontrollata ed è un problema non soltanto delle forze politiche». SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci …

GLI EX PCI PER RIABILITARE CRAXI? NO GRAZIE. MEGLIO LA VERITÀ

di Beppe Sarno | Da giovane socialista non amavo né Togliatti né il PCI, non mi piaceva la disciplina interna, la mancanza di un vero dibattito interno e poi Togliatti era responsabile della cacciata di mio nonno dal PCI perché Troskista e Bordighiano, cosa grave nei tempi in cui avvenne che costò a lui a mia nonna a mia madre e a mia zia Lalage nove anni di esilio in Francia ove vissero in povertà assoluta a Parigi. Di lui Lucio Colletti ebbe a dire in un’intervista “, Togliatti fa parte del tribunale ideologico che consegna alla polizia tutto il gruppo dirigente polacco. E’ il pubblico accusatore, sempre ideologico, dei comunisti tedeschi, anch’ essi eliminati. Viene mandato in Spagna dove partecipa all’ annientamento degli anarchici durante la guerra civile spagnola” Il PCI fu il suo capolavoro un partito che aveva un grande seguito nelle masse popolari dove raccoglieva grosse percentuali di voti. Colpa anche dei socialisti che nell’immediato dopoguerra gli consentirono di appropriarsi del loro patrimonio culturale e politico. Sindacati, movimento cooperativo, amministrazioni locali di sinistra furono sempre appannaggio del PCI, che grazie al supporto economico sovietico riusciva a finanziare stuoli di funzionari  e un apparato burocratico imponente. Mai però questa forza spropositata divenne reale alternativa di sistema. Era più comodo gestire l’opposizione. Togliatti non voleva fare la rivoluzione e non  si preoccupò ad attuare quelle riforme di cui la Costituzione aveva indicato le linee guida. Vi riuscirono in parte i socialisti con la collaborazione della sinistra DC portando risultati importanti per la democrazia e per il benessere della nazione.  Che dire della colpevole scelta di far morire Aldo Moro per non scendere a patti con le BR e per rappresentare il partito della fermezza e dell’essere stato il partito del sostegno alla magistratura milanese durante il periodo di “mani pulite”.  Contemporaneamente il Pci continuava a godere dei finanziamenti sovietici e si finanziava con lo scandalo delle Cooperative, opportunamente messo a tacere e nel frattempo Craxi andava in esilio ad Hammamet. Ora vogliono riabilitare Craxi? No grazie, lasciamo le cose come stanno! A venti anni dalla morte di Craxi qualcuno parla di riabilitazione della sua figura. Come socialista non sento il bisogno di questa riabilitazione perché la riabilitazione presuppone un peccato, una condanna. La storia ha fatto giustizia da sola e non ci interessano riabilitazioni posticce e fasulle. Il Pd si tenga la figura di Togliatti e finanzi i cento anni del PCI con quattrocentomila euro che è il valore attuale dei quaranta denari, noi socialisti ci teniamo Craxi e cercheremo di riportare in vita l’Avanti! SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IO SONO KARL MARX: AUTOBIOGRAFIA POSTUMA DI UNO SPETTRO CHE SI AGGIRA PER L’EUROPA

di Massimo Lunardelli* | Perché ho scritto questo libro? Ho scritto questo libro perché scrivere significa imparare. Non sapevo quasi nulla di Karl Marx, prima. Io sono Karl Marx. Porto un nome germanico che nella sua radice significa uomo e un cognome tipico delle comunità ebraiche. Dovrei forse dire che fui, che ero, che sono stato Karl Marx; la mia fugace apparizione terrena è banalmente racchiusa, come quella di tutti, in due luoghi e in due date: nacqui a Trier, nella Prussia renana, il 5 maggio 1818, morii a Londra, in quella casa al numero 41 di Maitland Park Road, il 14 marzo 1883. Però no, sento che ancora esisto; percepisco il mio vagare per il mondo sotto forma di vivido pensiero: sono speranza per qualcuno, incubo per altri. Da questo limbo in cui mi trovo non riesco ancora a comprendere in cosa mi abbia trasformato l’infinito mutarsi della materia; mi serve altro tempo per capire se aveva ragione Epicuro sostenendo che la morte esiste quando non esiste la vita o se invece aveva ragione Hegel quando parlava di un progredire dello spirito in dio. Un dio che però non ho ancora incontrato in questo mio etereo vagabondare, perciò resto convinto che dio è parola impronunciabile e che la religione è la più meschina tra le finzioni inventate dai potenti per addormentare le coscienze ed impedire ai popoli di ribellarsi di fronte alle diseguaglianze. Sì, io sono ancora Karl Marx. Ateo, comunista, nemico giurato di tutte le tirannie, di tutte le borghesie, di ogni società divisa in classi. Mi sposto col vento in questa eternità mobile tanto cara a Platone, in questo prima e in questo poi disegnato da Aristotele. Mi è chiaro da qui quello che ho sempre saputo: il tempo che passa non è metafisica ma storia, vale a dire il processo in perpetua evoluzione dello stare insieme degli uomini. Continuo ad osservare con smisurata passione il succedersi delle singole generazioni; vedo che sono cambiati i tempi, i modi e gli strumenti, ma che la sostanza è rimasta la stessa: ogni generazione si affanna a sfruttare le risorse accumulate dalle generazioni precedenti al solo scopo di aumentare le proprie ricchezze, reiterando così la follia del capitale.  Rido quando sento i profeti del tempo presente ricondurre tutti i mali dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo a ciò che hanno definito con il termine globalizzazione. Fanno finta di non sapere che si tratta di un pessimo neologismo che niente aggiunge all’antico e consolidato meccanismo: già ai miei tempi ciò che accadeva in India o in Cina determinava ciò che accadeva in Inghilterra o negli Stati Uniti. Mi dispiace che nessuno ponga la domanda cruciale: perché la storia precedente determina sempre la storia successiva? Mi tornano in mente certi filosofi a me coevi che tra le rovine degli imperi che crollavano e le conseguenti feroci restaurazioni, blateravano di un uomo nuovo che avrebbe dovuto ribellarsi ai dogmi e alle chimere che lo tenevano prigioniero, perché soltanto liberandosi dai nefasti parti della sua mente l’uomo avrebbe potuto liberarsi dalla falsa realtà che lo circondava. A quanto pare, purtroppo, ogni epoca è costretta a fare i conti con pecore che si credono lupi. Triste è il destino di chi non comprende che la realtà non è un fatto astratto partorito dall’autocoscienza, ma un fatto assolutamente concreto, dimostrabile empiricamente. Basterebbe guardarsi intorno per averne conferma: ogni individuo ne è la prova nel suo mangiare, nel suo bere, nel suo vestirsi, nel suo andare e venire. Occorrerebbe non farsi confondere dagli illusionisti e non dimenticare mai che gli uomini hanno solo un modo per modificare la realtà e quindi il mondo in cui vivono: cambiare i rapporti di forza tra le classi attraverso le rivoluzioni sociali. Osservo dai giardini pubblici la villetta a schiera costruita al posto dell’ultima delle tante case che presi in affitto. L’intera Maitland Park Road è stata trasformata in un complesso residenziale edificato nel secondo dopoguerra sulle rovine dei bombardamenti. Il Camden Council ha voluto apporre una targa per ricordare il mio passaggio, hanno scritto: Karl Marx, 1818-1883, philosopher, lived and died in a house on this site 1875-1883.  Sì, sono vissuto qui otto anni; otto anni mi paiono adesso un battito di ciglia, ma allora sono stati il mio tempo. Ricordo ogni dettaglio di quell’appartamento al primo piano, con l’ampia finestra che dava sui prati. Passavo le ore nel mio studio, confortato dall’ordinato disordine e dall’odore di acquavite e tabacco rimasto anche dopo che su ordine del medico avevo smesso di bere e di fumare. Rivedo la mia scrivania, i libri impilati, la sedia di legno con i braccioli, il caminetto con sopra le foto dei miei cari, il divano di pelle dove dopo pranzo mi appisolavo, il tappeto consumato dal mio andare avanti e indietro in cerca di un nuovo concetto, di un nuovo punto di partenza. Del giorno che sono morto ricordo che era un mercoledì. Me ne stavo seduto in poltrona, era già pomeriggio, avevo pranzato e ingurgitato le mie solite pastiglie. Ho sentito la vita andare via come una brezza nell’ultimo respiro, come un incaglio che tronca di netto l’ultimo pensiero. Non ho mai capito cosa mi abbia ucciso veramente: forse il cronico mal di fegato o forse la tubercolosi venuta a dare il colpo di grazia a un corpo ormai vecchio e malandato. Ho memoria delle sorgenti sulfuree di Enghien, dell’aria salubre di Argenteuil e dell’Isola di Wight, dei lunghi soggiorni ad Algeri e sul lago di Ginevra, dell’arseniato di sodio che bevevo al mattino per calmare la tosse fortissima e dello sciroppo a base di oppiacei e codeina che bevevo la sera per vincere l’insonnia: a quanto pare niente servì a rimettermi in sesto. Poi quella fastidiosissima laringite che sopraggiunse a rendermi difficoltosa la deglutizione costringendomi a nutrirmi di solo latte, alimento che ho sempre detestato. Ma più di ogni malattia, penso che ad uccidermi davvero sia stato il dolore che si aggiunse al dolore: la mia adorata Jenny, compagna di tutta la vita, era …

IL COMPLEANNO DELLA CLASSE OPERAIA MILANESE: 160 ANNI DI LOTTE PER I DIRITTI DEI LAVORATORI

dalla Fondazione Anna Kuliscioff | di Matteo Pucciarelli La Repubblica| Bronzisti, cappellai, fornaciai, fornai, fabbri, ferrovieri, marmisti, muratori, nastrai, pettinai, sarti, scalpellini, tessitori di seta, tipografi. Eccola la classe operaia milanese di oltre 160 anni fa, lavoratori “di un’epoca che seppure ci appaia oggi remotissima, conserva un suo significato proprio per l’eccezionale contingenza in cui il crescere della città s’incrocia con la trasformazione sociale e politica in atto in Italia”. Sembrano anche queste parole attuali e invece era il sindaco socialista Aldo Aniasi, nel 1970, a ricordare gli albori della working class ambrosiana. Venticinque anni gloriosi, dal 1859 al 1882, di attivismo e primissima organizzazione tra lavoratori. Cominciano esattamente nell’autunno del 1859 quando “alcuni benemeriti cittadini” assieme ad un “gruppo di operai di provato patriottismo” decisero di formulare lo Statuto della primissima associazione generale di Mutuo soccorso degli operai di Milano e dintorni. La quale si costituì poi il 1° gennaio 1860, data simbolica che doveva segnare appunto un inizio, riunendo 2 mila iscritti. Milano ci arrivò in ritardo rispetto a Torino, l’altra capitale industriale, dove una mutua generale c’era già da dieci anni. Ma fu la scintilla della consapevolezza di esistere, prima ancora del sindacalismo, dei movimenti socialisti, anarchici e solo dopo, molto dopo, comunisti.    Il filone principale del primo associazionismo tra lavoratori fu quello patriottico perché le barricate risorgimentali del 1848 e 1849, con la famose Cinque Giornate, erano ancora un ricordo vivido. Dei 480 morti di quei giorni, ribelli contro l’invasore austriaco, ben 300 erano operai. Solo che i lavoratori erano esclusi dalla vita civica e politica. Alle prime elezioni municipali di Milano, gennaio 1860, su 184 mila abitanti ad avere diritto di voto furono solo 10 mila persone: bisognava avere un certo grado di istruzione e pagare più di 25 lire all’anno di imposte dirette. Fissato il prezzo del pane, il salario giornaliero di un lavoratore medio corrispondeva a 4 chili di pane; quello di una donna a due chili; quello di un ragazzo a un chilo. Con le giornate di lavoro che non duravano mai meno di 12 ore. I primi scioperi avverranno solo nel 1872, cominciato dai muratori e dai meccanici, poi via via si unirono gli altri.  “Noi crediamo che nessuna spica si miete se il germe non è stato deposto nella terra e innaffiato di sudore: e che ogni agitazione è sempre utile e feconda”, si legge nell’opuscolo del “congresso delle società operaie in Milano” del 1879. Le associazioni di mutuo soccorso “si confrontavano con un capitalismo spesso brutale e disinteressato alle condizioni dei lavoratori – spiega Walter Galbusera, presidente della fondazione Anna Kuliscioff, istituto che raccoglie materiale anche di quegli anni -e perciò ricoprivano un ruolo enorme, non solo di tutela salariale, ad esempio le assenze per malattia e gli infortuni non erano retribuiti, ma anche di sostegno all’azione sindacale nei casi in cui le casse di resistenza coprivano parte del salario perduto quando c’era uno sciopero”. Sono una settantina le officine meccaniche e le fonderie, il tessile impiega 1.500 tessitori, 2.500 guantai, 4 mila calzolai, la Pirelli ha 700 operai; la piccola media e grande industria milanese conta in totale su 60 mila lavoratori. Intanto il 10 per cento dei bambini non va a scuola, chi invece ci va si ritrova stipato in 300 aule con 80 persone a classe. “Non abbiamo avuto abbastanza illusioni? Non ci siamo noi agitati per ottenere il diritto più naturale, quello d’essere cittadini non solo per dare i figli alla coscrizione, ma anche per prender parte, col voto, alla vita della nazionale di cui siam parte? Non ci siamo agitati per il riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso? E che abbiamo ottenuto? Nulla! Sempre nulla”, viene però detto al congresso operaio. Le rivendicazioni non sono quindi più e solo per i miglioramenti salariali e per la riduzione dell’orario di lavoro, i lavoratori cominciano a pretendere una condizione e un protagonismo civile fino ad allora sconosciuto e per questo le utopie mazzoliniane lasciano il posto al socialismo. Così le associazioni mutualistiche rimasero indietro: “L’astensione da ogni attività politica e così il disinteressamento, il fatto di considerare l’operaio organizzato un animale apolitico e solo individualmente animale politico era conveniente ai padroni e ad ogni specie di loro difensori schietti o larvati, comprese le varie demagogie sociali e compresi i cosiddetti filantropi”, scrisse Filippo Turati. Nel 1882 nasce il Partito operaio. “È un pericolo prossimo, giacché è tutta una classe nuova e distinta che si ordina, si conta, si istruisce”, annotò in un suo rapporto il questore. Il candidato a sindaco socialista Osvaldo Gnocchi-Viani, parlando al teatro Castelli, dirà: “Mi trovo alle spalle tutto ciò che tramonta: superstizioni, privilegi, tiare e corone; dinanzi a me sorge la scienza che si libera, il lavoro che si emancipa”. Quelle elezioni saranno una cocente sconfitta: non sarà la fine della storia ma solo l’avvio di una lunga marcia di diritti e progresso sempre attuale. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SORVEGLIANZA, IL CONTROLLO MERCIFICATO

di Pierfranco Pellizzetti – MicroMega | RILEGGIAMOLI INSIEME «Il popolo americano è diviso da una guerra culturale. In più, alcune parti delle sue élite hanno un interesse materiale a creare caos. […] Anche se ufficialmente erano una democrazia basata sulle regole, gli Stati Uniti erano diventati, dopo decenni di economia liberista, un contesto privo di regole per chiunque disponesse di potere tecnologico o finanziario».[1] Paul Mason «C’è un nuovo totalitarismo all’orizzonte, non imposto da dittatori pazzi, ma prodotto da un adattamento volontario alle nuove dimensioni sociali del potere».[2] Jonathan Friedman Michel Foucault, Sorvegliare e punire, nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976 Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, LUISS, Roma 2019 Verità e PotereIl controllo sociale come obiettivo primario della Modernità. Nella sua fase aurorale (Primo Moderno), entro il perimetro tracciato dalla nuova economia mercantile e dalla scienza calcolante che si sono fatte Stato; dunque l’organizzazione preposta alla sorveglianza analizzata da Foucault. Nella sua fase autunnale (o forse terminale) – post-moderna o iper/sur-moderna che dir si voglia – strutturata dalle tecnologie comunicative, la mercificazione del virtuale esplorata dagli studiosi dell’infosfera; tra cui la nostra guest star Zuboff. Con una costante, immutabile nel tempo: la preoccupazione di tenere a bada ceti percepiti come “pericolosi”. Partendo dalla grande intuizione metodologica – alla base dei processi del disciplinamento messa in pratica a partire dalla fine del secolo XVIII in ogni ambito del sociale – che con la fine della pena spettacolarizzata (leggi, le torture su pubblica piazza), a fronte di una nuova tecnologia del castigo, «si è passati da un’arte di sensazioni insopportabili a un’economia di diritti sospesi»[3]. Strategia ispirata a una ricetta generale per l’esercizio del potere sugli esseri umani, che diventerà il filo conduttore definitivo: «la sottomissione del corpo per mezzo del controllo delle idee»[4]. Il grande tema foucaultiano della produzione di verità come esercizio di potere: «la verità è di questo mondo; essa vi è prodotta grazie a molteplici costrizioni. E vi detiene effetti obbligati di potere. Ogni società ha il suo regime di verità, la sua politica generale della verità»[5]. Più sinteticamente, «la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità»[6]. Ecco – quindi – emergere e imporsi la visione generale del controllo come grande macchina, già messa a punto negli opifici e nelle fabbriche dove si organizza un nuovo tipo di sorveglianza del modo di comportarsi dei lavoratori, in termini di zelo e prontezza. «La disciplina fa funzionare un potere relazionale che si sostiene sui propri meccanismi e che, allo splendore delle manifestazioni, sostituisce il gioco ininterrotto di sguardi calcolanti […]. Potere che è in apparenza tanto meno corporale quanto più è sapientemente fisico»[7]. A margine di questo celeberrimo saggio sull’instaurazione nel Moderno dell’universo disciplinare – risalente al 1975 – così annotava David Harvey: «è in questi termini che Foucault rileva la svolta repressiva delle pratiche illuministiche in direzione della sorveglianza e del controllo»[8]. Un continuismo di logiche nell’evoluzione della società dedita alla sorveglianza, oggi potenziato a dismisura dalle tecnologie a disposizione; nel passaggio dalla metafora dell’orologio (propria della fisica newtoniana) a quella del network, egemone nell’attuale fase detta dell’informazionalismo. Rivelando la persistenza nel tempo di quello che appare il “cuore di tenebra” di un regime che si dichiara ostentatamente “democratico”. Dunque, in apparenza rispettoso dei diritti civili. Privacy compresa. Sorveglianza, mutazione pirata del Capitalismo È da questa natura bifronte del Moderno che viene emergendo il fenomeno che prende nome di “Capitalismo della sorveglianza”; coniugando inconfessati retro-pensieri demofobici, che ci accompagnano dal tempo delle cosiddette “rivoluzioni borghesi”, con le inusitate potenzialità dell’Intelligenza Artificiale dedicata a profilare, analizzare e catalogare congerie incommensurabili di dati. Sia per scopi di ordine pubblico sia di promozione commerciale. All’insaputa di coloro da cui tali dati sono stati estratti. Mentre il sogno digitale (Internet come grande spazio di democrazia) si va facendo sempre più oscuro. Il tema centrale del ponderoso (e pure talvolta dispersivo) saggio della Zuboff. Operazioni smascherate già nel 2013 da Edward Joseph Snowden, il whistleblower (il segnalatore di illeciti, alla lettera “quello che fischia il fallo”) ex consulente della National Security Agency USA. Intervistato da Roberto Saviano, il giovane ramingo, tuttora inseguito dalla giustizia del suo Paese, ha ricostruito così le origini del fenomeno: «dopo la bolla [2008, crack Leman Brothers e implosione del sistema finanziario mondiale, ndr] le aziende capirono che la connessione umana che Internet aveva reso possibile poteva essere monetizzata: dovevano semplicemente trovare il modo di inserirsi in questi scambi sociali e trarne profitto. Così è nato il capitalismo di sorveglianza»[9]. Un plesso di interessi convergenti tendenti al perverso. Difatti «il vero nemico non è la tecnologia ma l’attuale regime politico ed economico – una diabolica commistione tra il complesso militare-industriale e la totale mancanza di controllo su annunci pubblicitari e mondo bancario – che sfrutta le più recenti tecnologie per raggiungere i suoi scopi malvagi (anche se redditizi e talvolta piacevoli). La Silicon Valley è la componente in vista di questo mix, quella di cui si parla di più, la più naive»[10]. Intuizione da cui è balzato fuori un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche segrete di estrazione, previsione e vendita; raggiungendo una platea di tre dei sette miliardi di umani che abitano la Terra. Una via di mezzo tra la pirateria informatica e il parassitismo, che attualmente produce la massima concentrazione di ricchezza promettendo la sicurezza assoluta; in prima battuta a scapito della privacy, per arrivare all’espropriazione dei diritti umani fondamentali e perfino alla sovversione della sovranità democratica. Regime bollato dalla Zuboff “famelico e insaziabile”. «Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e ora minacciano la Terra, così una civiltà dell’informazione nata dal capitalismo della sorveglianza e dal suo nuovo potere strumentalizzante prospererà a discapito della natura umana e minaccerà di distruggerla» [11]. La svolta dal capitalismo dell’informazione in direzione di una nuova logica di accumulazione: il controllo manipolativo dei comportamenti. Nelle due versioni: economica (propensioni di acquisto) e politica (induzione subliminale di …

LA RIPRESA DELL’ITALIA PUO’ PARTIRE SOLO DALLA SCUOLA

  di Anna Rito – Coordinatrice Socialismo XXI Basilicata |   La scuola, in questi ultimi anni, non è stata certamente in cima ai pensieri dei politici. Spesso si è sentito parlare della cara, buona, vecchia scuola di una volta, ma più che invocare l’obbligo del grembiulino per tutti gli scolari d’Italia, la rivoluzione promessa non l’abbiamo ancora vista. Nel frattempo, studi e sondaggi confermano che come nei Paesi che hanno una bassa scolarità, anche in Italia si avverte un’evidente distanza tra percezione e realtà. Una distanza che purtroppo tende a confermarsi stabilmente nel tempo. Nelle scorse settimane un articolo di Tuttoscuola ricordava che nel 2030 avremo probabilmente un milione e 300 mila studenti in meno, con un turnover del 40% degli insegnanti. Il futuro è angosciante se pensiamo che invece in altri Paesi europei come la Svezia, la Germania e l’Inghilterra gli studenti aumenteranno di numero. Lo sconforto aumenta quando si viene a conoscenza che i nostri ragazzi, come dimostrano le prove Invalsi arrivano spesso ad affrontare la maturità, soprattutto al Sud, con livelli di preparazione molto bassi. Una politica seria e lungimirante capace di costruire il futuro del proprio Paese sarebbe corsa ai ripari e avrebbe aperto le Università e la ricerca e gli ordini professionali al rinnovamento. Investirebbe danaro e risorse per il rilancio della scuola e quindi della formazione come grande priorità del Paese. Invece, in questi anni solo drastici tagli. I risultati di questa politica miope e scelleratamente schiava della tattica, –bada il lunedì a quanto accadrà martedì- senza più visione e progetti di lungo respiro. In questo desolato panorama si nota con drammaticità la mancanza di una chiara forza Socialista, del suo spirito vitale che nella sua storia centenaria ha contribuito non poco a cambiare positivamente l’Italia, con le riforme realizzate e con la conseguente crescita civile. Oggi come ieri, i socialisti non possono che dire “Prima la scuola”, perché mai potrebbero accettare che una popolazione sprovvista di cultura e spirito critico possa essere soggetta a più facili manipolazioni e a sudditanza perenne. Perciò non è credibile nessuna politica di ripresa del Paese che non cominci da qui e che non abbia a cuore un’Italia più moderna e competitiva, facendo della scuola e della cultura l’asse portante per il nostro riscatto.     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DALL’AVANTI! SCUOLA OPERAIA PER L’ILVA (1920 E 1945)

di Beppe Sarno | Il 2 settembre 1920 la Fiom torinese appena venuta a conoscenza dell’occupazione degli stabilimenti da parte delle maestranze,  diramava alle Commissioni interne ed agli operai le seguenti disposizioni per il lavoro nelle officine: « Tutti gli operai devono  occupare il proprio posto e continuare puntualmente il lavoro in modo che la produzione corrisponda alla paga nominale; le ore di lavoro saranno registrate come prima. Le assenze non saranno conteggiate ai fini del salario, salvo le ulteriori  disposizioni, a carico degli nsaeatì, da parte dell’organizzazione nei  turni di lavorazione  nelle officine, saranno due di dodici ore, dalle 7 alle 19 e dalle 19 alle 7 del mattino; II lavoro normale sarà dalle  9 alle  12 e dalle 16 alle 19. Il turno di notte comincerà il lavoro alla ore 20 e fino alle 24 e dalle ore 24 alla sei del mattino. Il lavoro gli operai dovranno riceverlo e consegnarlo come prima ai loro capì diretti o a chi ne prenderà le veci. Nei reparti  dove mancasse il capo tecnico  o l’impiegato amministrativo, gli operai del reparto nomineranno provvisoriamente un loro delegato a coprire tale, carica e sbrigare le funzioni a questi attribuite. Questo delegato sarà sottoposto al controllo dei commissari di reparto .  Giornalmente tutti gli incaricati dovranno riferire al Comitato di officina il funzionamento dei singoli reparti, notificare le assenze degli operai e le eventuali mancanze di materie prime. Gli operai dovranno usare il massimo rispetto alle macchine, agli utensili a loro affidati e la massima obbedienza ai dirigenti.  I commissari di reparto e le Commissioni interne dovranno sorvegliare per l’esatta applicazione delle nonne sopra stabilite ed impedire in modo assoluto l’accesso negli stabilimenti’i di bevande alcoliche. Nessuna persona estranea ai lavori  se non autorizzata dalla Commissione interna, potrà entrare, nell’officina. Nessuno potrà asportare dall’officina involti od oggetti se non con l’autorizzazione scritta dal dirigente generale d’officina ». (Estratto dall’Avanti edizione Torinese) Nei giorni drammatici della Liberazione, gli operai degli stabilimenti industriali torinesi danno luogo a quelle epiche giornate definite “le cinque giornate di Torino” e si organizzano per difendere le fabbriche dalla furia delle armate tedesche che avrebbero voluto distruggerle “Già da qualche tempo l’ufficio sabotaggio e  controsabotaggio del CLN  aveva preso contatto con i dirigenti e i tecnici di molte aziende per preparare la difesa degli impianti industriali e se non in tutte, in diverse si erano trovati aiuti e complicità nel lavoro di trasporto e occultamento delle armi. Ogni officina è rapidamente trasformata in fortezza……. Vi sono gli impianti delle ferrovie, delle centrali elettriche e telefoniche da difendere, i ponti sul Po e gli acquedotti da salvare, le radio, gli edifici pubblici, le caserme da conquistare” e continua “Le unità alleate entrando a Torino trovarono una città disciplinata, presidiata da 14 mila partigiani, i servizi pubblici in funzione, salve tutte le industrie, intatti i ponti le centrali elettriche e ferroviarie. Nelle cinque giornate insurrezionali di Torino caddero combattendo nelle fabbriche e nelle strade 320 partigiani e lavoratori. La classe operaia torinese ancora una volta era stata all’avanguardia nella lotta e nel sacrificio. Le maestranze presenti alla Fiat Mirafiori durante tutte le giornate insurrezionali avevano superato il 90%, l’80% alla Spa, l’85% alla Lancia, le stesse percentuali negli altri stabilimenti.” (Cronistoria del 25 aprile 1945, Feltrinelli, Milano, 1973) Potremmo citare decine di esempi di fabbriche salvate dagli operai. L’occupazione della stabilimento di Taranto è l’unica strada per convincere Il Governo a riconsegnare la fabbrica ai Commissari, i quali dovranno elaborare un piano per il proseguimento delle attività produttive. Questo piano non potrà prescindere dalle uniche forze che hanno diritto a dire il loro pensiero e cioè gli operai, i tecnici, gli impiegati dello stabilimento ex ILVA e delle rappresentanze sindacali, i quali è bene ripeterlo sono gli unici che hanno saputo fin da subito indicare la via politica per la soluzione del problema.   Nessun privato verrà mai a Taranto per risanare lo stabilimento e metterlo in funzione in una situazione economica internazionale turbolenta, nessun privato si fiderà di interlocutori inaffidabili quali sono i rappresentanti attuali del governo nè di quello che lo hanno preceduto. Pertanto al problema si dà una risposta politica  oppure una risposta giudiziaria con l’intervento della magistratura che ha il potere di sequestrare l’impianto e riaffidarlo ai commissari per impedire lo spegnimento degli altiforni. Questa soluzione sarebbe la prova della sconfitta dello Stato che non riesce a garantire l’esercizio dei diritti senza un intervento autoritario della magistratura. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it