INTERVISTA A BOBO CRAXI

di Francesco Battistini – Corriere della sera | «Il tesoro? Mio padre ci lasciò sul lastrico» «Come cammina, come parla. Sì, sembra proprio lui…». Un giorno di primavera tunisina, Bobo ha visto rivivere suo papà: «Ero ad Hammamet. Al piano terra giravano il film. Sono sceso. C’era il nostro vecchio Amida commosso: dopo anni, rivedeva Craxi muoversi per le stanze… Allora ho stretto la mano a Pierfrancesco Favino, il protagonista, il mio “papino”. Identico. Impressionante». Il film Hammamet” sta per uscire… «La grande metafora del potere che finisce nella polvere. Il dramma d’un uomo sconfitto e in cattività. La storia di mio padre non si può assorbire in due ore di cinema, ma la sceneggiatura tocca il cuore. Anche se non combacia con la realtà. Diciamo che Gianni Amelio s’è preso qualche licenza poetica. Per esempio su mia sorella: Stefania ebbe una forma di rimorso, per essere stata lontana in quegli anni, ma capisco che nel racconto il rapporto padre-figlia funzioni meglio…». Lei invece è stato sempre lì. «E’ stato un dramma da cui non ci siamo mai più ripresi. Una storia che io ho vissuto da vicino. Per me e Scilla, mia moglie, stare tre anni consecutivi in esilio non fu proprio toccare il cielo con un dito. Fu una grandissima sofferenza. D’altronde, non potevo andare da nessuna parte. A un certo punto, lui sceglie la Tunisia e mi dice: vieni con me, che cavolo fai a Milano? Che cosa c’è di suo, nel film? «Qualche parte del mio Route El Fawara Hammamet è stata saccheggiata. A proposito, sa come lo pubblicarono? Una volta mi chiamò Elvira Sellerio. Aveva fatto leggere le bozze a Camilleri e il giudizio era stato: interessante, il libro del figliolo di Craxi…». Che cos’è stata, per lei, la villa di Hammamet? «Il mio primo ricordo è da bambino: capii subito che sarebbe stato un luogo dove un giorno sarei vissuto anche d’inverno. Probabilmente, un presagio. Fui il primo della famiglia ad abitarci, ancora non era finita. Paradossalmente, è dove sono stato di più con mio padre: di lui a Milano, ricordo poco». Ad Hammamet vi siete ritrovati? «Noi parlavamo di politica da quando avevo dieci anni. Ma io non mi sono mai messo in modalità trota: io andavo nelle sezioni e non sono stato eletto quando mio padre era vivo, come La Malfa o la figlia di Nenni. Non mi sono mai posto nemmeno il problema dell’emulazione, perché l’unico figlio d’arte che conosco superiore al padre è Paolo Maldini: la mia carrierina politica mi ha dato comunque soddisfazioni insperate. Insomma, non sono stato un figlio ribelle. Però critico, questo sì. Già ai tempi dei successi, vedevo nel partito cose che non mi pia-cevano». Che padre è stato? «Io mi sento il figlio d’un figlio del partito. E ho assolto la mia responsabilità come figlio e come militante. Con lui, sono in pari. È stato un padre da bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto: prima veniva la politica, poi il partito, poi il Paese, poi gli amici e, solo a un certo punto, arrivavamo anche noi. Non fosse stato così, oggi non avrei difficoltà di tutti i generi. Lui ebbe amici o ex collaboratori che hanno vissuto come maragià. Io mi son trovato sul lastrico economico. L’ho messo nel conto: non è che i figli di Allende abbiano vissuto una vita serena». E il famoso tesoro di Craxi? «Questa storia del tesoro funzionava come racconto. Vero è che a molti di quelli che s’occupavano di denaro, qualcosa è rimasto in tasca. Ma io, dopo Tangentopoli, ho vissuto i peggiori anni della mia vita. Se sei un politico, nessuno t’assume. Non sono stato più rieletto e sono ancora percepito come uomo della Casta, senza esserlo: non ho uno stipendio pubblico da dieci anni, né vitalizi. La mia casa a Roma è finita all’asta. Dov’è, questo tesoro?». S’è molto fantasticato sulla villa tunisina: i pavimenti lastricati con la fontana del Castello Sforzesco, Paolo Rossi che cantava “ad Hammamet perfino il vino viene giù dal rubinèt”… «Diventò un luogo comune. La sentina di tutti i mali. E si passò direttamente al dileggio. Puoi farci poco. Col senno di poi, da Parmalat a Montepaschi, i politici ne han combinate talmente di peggio che è stata riabilitata anche questa casa: di fascino, ma sfarzosa proprio no. Un compagno di partito era stato ad Hammamet negli Anni 50 e aveva detto: è un posto meraviglioso, a un’ora da Roma… All’inizio doveva essere un terreno sul mare, ma c’era una disputa fra eredi. Allora, nel 1970, i tunisini ci proposero una campagna desolata in collina, più fresca. Ma s’arrivava solo in auto attraverso una pista, la sera niente luce, quando pioveva s’allagava tutto. Fu un vero disagio: chi passava a trovarci si domandava se Craxi fosse matto, come mai era finito laggiù e non a Forte dei Marmi». Dice Rino Formica che la fuga ad Hammamet è stato il più grande errore di Craxi. «Bisogna sapere che c’era anche un pericolo fisico. In Tunisia, capitarono due incidenti stradali casualmente identici. Un pezzo della frizione manomesso. Io ho rischiato la vita, ma il vero obbiettivo era ammazzare mio padre. Laggiù, lui si mise al riparo. E comunque non riconosceva i tribunali che lo condannavano. Fu il rifiuto d’una legislazione straordinaria, mai votata dal Parlamento, che applicava le norme in forma arbitraria. Fu un esilio». Non tutti chiamano esilio una latitanza… «Non si trattava più di sottrarsi alla giustizia. Era il rifiuto d’una logica politica che voleva punire solo lui. Come dice un grande poeta tunisino, Meddeb, l’esilio è una ricerca e non un castigo. Di sicuro, lo influenzò il mito di Garibaldi. E il riferimento storico agli oppositori esiliati. La Tunisia è sempre stata terra d’esiliati, dai fascisti o dai Borboni. Seguo da vicino il caso catalano e due anni fa incontrai Puidgemont, il leader indipendentista. Mi chiese della vita in Tunisia di mio padre. Non capivo il perché: due giorni dopo, Puigdemont fuggì da Barcellona per il Belgio. Anche gente come …

GIORGIO RUFFOLO: “SONO SODDISFATTO CHE SI VADA AGLI STATI GENERALI, MI INFASTIDISCE L’IMBARAZZO VERSO IL SOCIALISMO ITALIANO. RAPPRESENTA UN SECOLO DI STORIA”

di Giorgio Ruffolo | In questi anni a sinistra non è cambiato nulla. Ne è la riprova uno dei tanti articoli (questo è del 1998) che stiamo riproponendo rispolverandoli dall’archivio. Si sono prodotte situazioni che sono andate nella direzione opposta alla ricostruzione della sinistra italiana di ispirazione socialista. Il senso della riproposizione di questo articolo verte nel rimarcare, appunto, tutti i fallimenti di questi anni. E’ illusorio pensare che il “piccolo compromesso storico” che ha generato il pd da una parte e gli “arcobaleni” dall’altra siano la continuazione storica e politica di quello che furono i due soggetti politici rappresentanti il Movimento Operaio ovvero il Psi e il Pci. Anche in questi giorni osserviamo articoli con panegirici di parole, quando semplicemente definire ciò che manca oggi in Italia è una grande forza SOCIALISTA! … Avrei diritto al copyright. Scherza l’on. Giorgio Ruffolo, economista, esponente dell’area socialista. E stato lui un anno fa a parlare di «Stati generali» della sinistra. Ora che l’appuntamento è fissato per metà febbraio a Firenze può esserne soddisfatto. Quella sarà la pista di decollo del nuovo partito della sinistra a cui da tempo stanno lavorando D’Alema e altri protagonisti della sinistra fra cui Ruffolo. Onorevole dopo tanti rinvii questa sembra la volta buona. La «Cosa 2» dopo tante oscillazioni e frenate ora dovrà uscire dal generico e assumere i contorni precisi di nuovo partito della sinistra che ha l’ambizione di diventare più grande e più forte di quanto oggi la sinistra non sia. Ne è contento? «Certo. Sarei più contento se poi ne nascesse effettivamente la Costituente. Senza passare per il terrore perché abbiamo già dato». Battute a parte però le polemiche è i mal di pancia non mancano. «E come l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Quando non ci credeva nessuno sembrava che tutto fosse pacifico, invece la prospettiva diventa concreta e imminente allora vengono i mal di pancia soprattutto di quelli che ne avevano creduto, né avevano voluto. E così anche nei riguardi di questa impresa storica. All’inizio c’è stata indifferenza e incredulità. E adesso che l’appuntamento è fissato vengono fuori conflitti, tensioni, reticenze, rigetti e paure che non si erano manifestati nella fase di incredulità. E una cosa abbastanza naturale e va fronteggiata senza sfuggire ai contrasti». Appunto le tensioni, le incomprensioni. Giuliano Amato andrà a Firenze, ma ha anche detto che non se la sente di stare con chi, il riferimento è soprattutto per i pidiessini, pensa che il passato dei socialisti sia vergognoso. E un tasto spinoso che evoca tanti rancori. «Penso che Amato abbia molte, valide ragioni. Per quanto riguarda il tema della rimozione del socialismo italiano credo che abbia ragioni da vendere. Nessuno vorrebbe partecipare ad un partito ad un’impresa politica nella quale ha l’impressione di essere tollerato, perdonato o assolto da qualche cosa che non ha commesso e della quale non si sente in alcun modo responsabile. E soprattutto nessuno vi vorrebbe entrare se non fosse riconosciuto, con chiarezza e senza masticare le parole, la tradizione della quale è portatore». Si riferisce a episodi in particolari? «Qualche volta quando si parla di socialisti c’è la traccia di un imbarazzo che un socialista non può tollerare. Non può si parlare di socialista senza aggiungere azionista, laico, cattolico, cristiano, progressista, liberale. E ridicolo che questo aggettivo che rappresenta cento anni di storia debba essere sempre velato da cortine eufemistiche. Non possiamo essere presentati in pubblico se non abbiamo un corteo di accompagnatori. Siamo un pò infastiditi di questo C’è una cosa che si chiama socialismo, di cui i comunisti sono stati partecipi per un terzo del percorso e che e parte integrante della storia della sinistra e dell’Italia, che non può essere messa in un’insalata nizzarda con tante altre cose per poter essere commestibile». Amato riconosce che il vertice del Pds ha fatto grandi passi in avanti e che le ostilità seminai vengono dalla base. C’è una strada per colmare questo divario? «Nei percorsi innovativi c’è sempre distanza tra chi sta all’avanguardia, e sono soprattutto le vette più illuminate della classe dirigente e chi ancora e legato non soltanto ai miti, ma anche ai rancori. Questo non sorprende. Però è tanto più necessario che chi ha la responsabilità di guidare illumini gli strati più sordi e non li lasci alloro rancori. E quindi importanti che un’azione di chiarimento ci sia. Il fatto che sul socialismo italiano ci sia silenzio non aiuta quelli che hanno maggiori riserve ad uscire dal loro stato di diffidenza e ostilità. Non aggiunge nulla e toglie molto a questa nuova esperienza politica nella quale si entra se ci si è liberati dalle scorie di un passato che è passato, ma che non deve essere dimenticato. Per potere mettere in archivio la storia bisogna poterla chiarire, spiegare». Questo e un percorso che non si può fare dall’oggi al domani. «Indubbiamente. Infatti io sono molto critico nei riguardi di quelli che dicono che bisogna ancora aspettare. Ma aspettare che cosa? Un chiarimento si fa insieme. E dei tutto illusorio pensare che rinviando questa scadenza di Firenze si possa agevolarne ti percorso e il compimento. Al contrario. Più si rinvia e più i muri diventano alti e le barriere si fanno invalicabili. Non so se questo nuovo partito si farà e si farà come lo vorrei. Ma sono convinto che se non si farà o si farà male non saranno i socialisti o gli ex socialisti ad esserne colpiti. Sarà la sinistra intera che perderà l’occasione di costituire una forza pari per robustezza ed ampiezza, a quella degli altri grandi partiti della sinistra europea. Torniamo alle critiche di quei socialisti che guardano ancora con diffidenza all’idea di fondare, insieme al Pds e ad altre forze della sinistra, un partito più grande e più forte della sinistra. Quanto di queste critiche condivide e non condivide? «Mi trovo d’accordo con quanti fanno questo ragionamento. Ma come ? C’è un Pds che è l’erede del Pci, che abbiamo avuto sempre dall’altra parte quando il riformismo e la socialdemocrazia erano da loro considerate …

LA SINISTRA E’ UN DESIDERIO

di Giuseppe Genna | INCOMBE UN BIG BANG. CON L’URGENZA DI FIGURE IBRIDE E DI UNA FORZA ANTICA: IL SOCIALISMO La storia della sinistra non è la storia di un fenomeno omogeneo. Forse non è nemmeno una storia, quanto la ricapitolazione di un esodo: un intero popolo in esodo finisce per scorgere soltanto di spalle ciò in cui crede, perché il suo volto non lo si può vedere. Ci si chiede chi ha compiuto in questi anni la ricapitolazione: quale parola, sia pure delirante, è stata davvero pronunciata? Dove risiede la teoria che, in quanto è tale, pretende di non farei conti con nessun realismo, ma non per questo definisce un’utopia? Bisogna morire di realismo capitalista? Che problemi abbiamo con il desiderio sfrenato, che si esprime dove non esiste principio di realtà? Sembra oggi che pensare l’utopia sia un peccato mortale. In ciò si manifesta il principale tra gli effetti di un’abnorme alienazione di ehi avrebbe il diritto e il dovere di desiderare senza fine. Cosa potrebbe essere la sinistra, se non desiderare senza fine? Oggi la sinistra risulta essere la lotta alle disuguaglianze. Si tratta di un errore identitario e di un’insufficienza teorica. Si dovrebbe dire al limite che la sinistra è non lotta, ma distruzione delle disuguaglianze. Ciò stava già nella definizione di Pietro Nenni, per cui il socialismo è ciò che porta avanti chi è nato indietro, ma già Bettino Craxi, nel 1966 parlava di «socializzazione dei processi decisionali e di estensione della partecipazione democratica come metodo del sociali-smo moderno. Si può estendere questo allargamento di orizzonte. E dunque affermare che la sinistra non esiste. Essa non c’è. Non ha rappresentazione, se non illusoria. In particolare, quando sortisce una rappresentazione governativa di sé uccide all’istante se stessa. Ciò non significa che esiste una sinistra più pura quando si sta fuori dal governo delle cose, ma piuttosto che la caratteristica quasi soprannaturale della sinistra, il suo enorme potere, coincide con la sua inesistenza. Il suo non esserci è la sua potenza. La sua predicazione non si basa su nessuna scrittura. La sinistra è la sua stessa reinvenzione. La sinistra è ciò che tutela e promulga le istanze delle comunità. Questo è il centro di ciò che si dice sinistra. La sinistra ha dunque il centro dentro di sé. Cosa significa questa definizione cosi perentoria? Significa che la sinistra è l’interfaccia vuota che ha per compito di proteggere le istanze delle comunità, di farsi invadere da esse e di promuoverle. Il vuoto della sinistra è un eccesso di potenza, che non coincide con nessun contenuto e soprattutto non esprime nessun imperativo. Essa è un’interfaccia vuota, il che non significa che non agisca. Se l’interfaccia intercettasse e difendesse le istanze non delle, ma della comunità, avremmo la destra. Un’unica comunità, principalmente quella nazionale, a partire dall’unificazione del mondo in un assunto. in una tradizione cogente – ecco la destra. La sinistra è invece ciò che lascia il libero gioco al divenire, dal quale emergono le Istanze che va a rappresentare. Di quali istanze si tratta? Che cosa sono le comunità? Qui si gioca non tanto la critica, ma l’abolizione psichica delle imposizioni dell’intero sistema capitalistico, che si fonda sull’inoculazione dei bisogni. Le comunità sono infatti tali perché esprimono un desiderio e solo in base a quello presentano bisogni. Il rapporto tra popolo e sinistra sì definisce dunque in questa prospettiva: moltissime comunità pretendono che i propri desideri, non i propri bisogni. vengano difesi e promossi. cioè rappresentati, dall’interfaccia che è nata per farlo. In questo punto la sensazione e il senso della delega di rappresentanza ritrovano una vita vivente e intensa, poiché ogni individuo e ogni collettività sono molto legati a chi rappresenta il loro desiderio. Le comunità vengono responsabilizzate. Non sono entità passive, da andare a recuperare stando nei territori. Sono i territori che hanno già da subito il centro a disposizione e questo centro è la sinistra, che raccoglie le loro istanze. Per promuoverle dove? L’interfaccia della sinistra sta tra le comunità e lo Stato. Quale dottrina dello Stato è pensata ed espressa negli ultimi decenni? Cosa si ritiene che sia lo Stato? Ci si limita qui a dire che lo Stato è in due modi, entrambi letterali: lo Stato è ciò che è stato e inoltre è lo stato mentale che si definisce statuale. Per quanto compete ai contemporanei, se non altro in Italia, da quando essi sono nati c’è sempre stato lo Stato. Non hanno mai vissuto privi di Stato e non hanno mai deciso di costruirlo o di inventarlo. Lo Stato è l’eterno presente dei contemporanei. Soltanto l’io ha una simile persistenza. L’io delira e lo Stato fa altrettanto. Si pensa di mangiare grazie all’io, si ritiene di vivere grazie allo Stato. Se viene sottratto un atomo all’io, l’uomo vacilla, e casi pure se viene abolito un singolo ingranaggio dello Stato. A questo incrocio davvero cruciale si pone ciò che scrisse Aldo Moro nel 1943: «La Patria è certo il nostro io, ma non il piccolo io angusto. che si chiude ad ogni considerazione, ad ogni rispetto, ad ogni amore degli altri, ma l’io che si fa, energico e pieghevole, memore di sé ed attento alla vita di tutti, incontro agli altri, e afferma e nega, cede e s’impunta, sicché nel vasto gioco delle azioni di tutti sorga, in libertà e come frutto di libertà, il volto storico della Patria. La tirannia comincia là dove il piccolo io, rotto ogni vincolo di fraternità e di rispetto, dimentico di quella sublime umiltà che fa l’individuo uomo, la sua particolare visione eleva ad universale. Allora la Patria è morta: quella sua grandezza augusta, che è nell’accogliere ogni voce, ogni palpito, ogni gioia, ogni sofferenza dei suoi figli, è spenta». Ciò che definisce Aldo Moro non è la patria: è la sinistra. La sinistra è un’interfaccia tra i desideri delle comunità e lo Stata lo Stato è ciò che soddisfa le istanze delle comunità. Se non le soddisfa, è un problema per le comunità: o si alienano …

AL CAMPUS EINAUDI CONVEGNO SULLA REGRESSIONE DELLA DEMOCRAZIA IN ITALIA

  di Claudio Bellavita – Socialismo XXI Piemonte |   Il 10 e 11 ottobre un convegno dell’Istituto di Scienza della Politica sulla regressione della democrazia in Italia. Nonostante quanto si sbraccino i sostenitori del maggioritario, si sta affermando un regime di oclocrazia. Che veniva così definita da Polibio 25 secoli fa: Le fonti classiche Il termine oclocrazia è formulato per la prima volta nelle Storie di Polibio, specificamente fra i frammenti del Libro VI. La discussione dello storico greco si inserisce in una più ampia disamina della sua teoria ciclica delle forme di governo. Così si esprime infatti l’autore: Finché sopravvivono cittadini che hanno sperimentato la tracotanza e la violenza […], essi stimano più di ogni altra cosa l’uguaglianza di diritti e la libertà di parola; ma quando subentrano al potere dei giovani e la democrazia viene trasmessa ai figli dei figli di questi, non tenendo più in gran conto, a causa dell’abitudine, l’uguaglianza e la libertà di parola, cercano di prevalere sulla maggioranza; in tale colpa incorrono soprattutto i più ricchi. Desiderosi dunque di preminenza, non potendola ottenere con i propri meriti e le proprie virtù, dilapidano le loro sostanze per accattivarsi la moltitudine, allettandola in tutti i modi. Quando sono riusciti, con la loro stolta avidità di potere, a rendere il popolo corrotto e avido di doni, la democrazia viene abolita e si trasforma in violenta demagogia […]. Per quanto mi riguarda direttamente, ricordo un grande dibattito su AperTo sulla “forma partito”, mentre nessuno ha ancora sollevato il problema che la democrazia è sparita dal “partito democratico”, dove l’unico potere degli iscritti (per ora) è di scegliere tra tutti i candidati alla segreteria i 3 da sottoporre al voto dei passanti. Saranno poi questi 3 a designare direttamente o attraverso i sodali da loro scelti, tutti gli organi di partito, fino ai direttivi di sezione. E siccome sono troppo vecchio per sopportare di essere preso in giro, non rinnovo la tessera. La democrazia è anche sparita negli altri partiti, in alcuni, come Forza Italia, non è mai esistita. Esiste solo il voto in rete del M5S, trattato con ignorante disprezzo dai “teorici della politica” in attesa di premi in parlamento, e che invece andrebbe approfondito anche a livello delle garanzie, ma che comunque mi sembra meglio dei congressi a applausometro.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GIOVANNI PAOLO I IL FIGLIO DEL SOCIALISTA

Semplice come le sue origini Era caduta la barriera intellettuale che separava Paolo VI dai fedeli, la cortina dell’angoscia esistenziale e della raffinatezza culturale. Passavano in quelle udienze. Pinocchio e Verne, Carducci e Trilussa, chierichetti maltesi e bambini Daniele. Sul versante opposto gli intellettuali alla ricerca di certezze e in fuga verso il mondo uterino della sicurezza: vedevano in Giovanni Paolo I una premessa ed una promessa di Grandezza, con la G maiuscola. Tracciare una biografia di Giovanni Paolo I, anche se doveroso, in questo momento appare quasi irriverente tanto sono freschi nel ricordo di tutti i fiumi di parole che sono state scritte e dette sulla sua vita solo un mese fa. Tuttavia ripeterci ci sembra non solo utile ma anche necessario per meglio sottolineare la figura di quello che potremmo definire il «papa delle due continuità»: quella che ha legato — sia pur brevemente — il suo magistero a quello dei suoi due predecessori e la continuità coerente della sua opera pastorale, che avrebbe dovuto saldare in un solo contesto le umili origini di Albino Luciani la sua vita di parroco e le responsabilità di capo della chiesa cattolica. Ripercorriamo ora brevemente le tappe salienti della sua vita fino al 26 agosto di quest’anno, giorno della sua elezione al soglio pontificio, proprio per individuare, nel corso dei suoi anni trascorsi, le linee di comportamento dei suoi pochi giorni di pontificato. Papa Giovanni Paolo I era nato a Forno di Canale. in provincia di Belluno il 17 ottobre 1912, suo padre, socialista, dopo essere stato per numerosi anni emigrante in Svizzera, aveva trovato lavoro come artigiano del vetro a Murano. Il giovane Luciani, entrato nel seminario vi compì i primi studi: passò poi al seminario di Belluno dove segui i corsi di filosofia e teologia. Ordinato sacerdote il 7 luglio del 1935 si trasferì a Roma per frequentare i corsi della pontificia università gregoriana e si laureò in teologia discutendo una tesi su Rosmini. Il primo incarico pastorale Luciani lo ebbe proprio nel suo paese natale, a Forno di Canale dove fu assegnato come coadiutore del parroco, Passato alla parrocchia di Agordo, sempre in provincia di Belluno. Luciani si dedicò anche all’insegnamento presso il locale Istituto tecnico minerario. Per dieci anni dal 1937 al 1947 fu vice-direttore e professore di teologia dogmatica, morale, diritto canonico ed arte sacra, nel Seminario di Belluno. Nel 1948 fu nominato provicario generale delta diocesi e responsabile dell’ufficio catechistico diocesano. Passati quattro anni venne nominato vescovo di quattro Veneto. In questa diocesi rimase undici anni dimostrando particolari doti pastorali. Nel 1969 fu promosso a Venezia e Papa Paolo VI lo creò cardinale nel concistoro del 5 marzo, 1973. In veste di Patriarca di Venezia accolse il papa nel suo viaggio in occasione del Congresso Eucaristico Italiano tenutosi a Udine nel 1972. Nella sua attività, pastorale nella diocesi veneta Luciani svolse una missione di pari intensità sul piano spirituale, caritativo e culturale. Si preoccupò della riorganizzazione del clero e delle associazioni cattoliche e diede impulso alla diffusione della «buona» stampa. Raccomandò ai sacerdoti l’uso di un linguaggio semplice ed appropriato all’evangelizzazione e sempre in armonia con gli insegnamenti della chiesa. La chiarezza d’espressione, dote innata, era venuta in soccorso già anni addietro quando il giovane Don Albino si era trovato ad illustrare il vangelo nel paese natio, alla sua semplice gente. Il Papa ha poi raccontato queste sue esperienze in un libretto «Catechesi in briciole» giunto ormai alla V edizione. Avanti!  30 settembre 1978   La Questione delle finanze vaticane Negli anni ’70 Luciani Patriarca di Venezia è entrato in conflitto con Paul Marcinkus il direttore dello IOR la banca vaticana per alcune operazioni finanziarie poco chiare. Così quando nel 1978 diventa papa, in molti si aspettano che metta mano ad una profonda riforma delle finanze vaticane. Il 6 settembre la rivista “Il Mondo” indirizza una lettera aperta al pontefice e si domanda: E’ giusto che il Vaticano operi sui mercati come un agente speculatore? E’ giusto che abbia una banca che aiuta gli italiani ad evadere il fisco? La risposta del papa non si fa attendere. La proprietà privata per nessuno è un diritto inalienabile ed assoluto. Nessuno ha la prerogativa di poter usare esclusivamente dei beni in suo vantaggio oltre il bisogno, quando ci sono quelli che muoiono per non aver niente. [Albino Luciani]       SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

NON DIMENTICHEREMO MAI IL SACRIFICIO DEI COMPAGNI CILENI

di Franco Astengo | Quarantasei anni fa l’11 settembre 1973 in Cile il golpe fascista sostenuto dall’amministrazione USA, dal segretario di stato Henry Kissinger pose fine al Governo di sinistra, democraticamente eletto, massacrando e imprigionando migliaia di cittadine e di cittadini democratici e instaurando una feroce dittatura militare capace di mettere in pratica lo sfruttamento più intensivo delle persone e delle risorse del territorio. Un regime dittatoriale sorto in nome dell’indiscriminata libertà del profitto e della sopraffazione. Il governo di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende era sorto Il 4 settembre 1970 quando Salvador Allende era stato eletto Presidente.  Il 24 ottobre 1970 il Congresso nazionale cileno aveva ratificatola sua elezione: Salvador Allende poté così incominciare a mettere in pratica il programma rivoluzionario della Unidad Popular, la cosiddetta Vía chilena al socialismo. Un’esperienza politica non priva di contraddizioni ma assai avanzata nel connubio tra democrazia e socialismo. Unidad Popular avrebbe potuto cambiare il corso della storia del Cile, avere ripercussioni internazionali, essere d’esempio per diversi altri Paesi del mondo. La vicenda cilena, che pure diede origine a un ampio dibattito nel movimento operaio internazionale, deve rimanere nella memoria collettiva come un esempio e un monito incancellabili, in particolare in questi tempi dove davvero la “damnatio memoriae” sembra coinvolgere tutto quanto è stato fatto, tra luci e ombre, vittorie e sconfitte, per il riscatto del proletariato di tutto il mondo. Mai come in questo momento appare necessario il ricordo di quel tragico fatto: le sinistre sembrano essersi ritratte dalla lotta politica, nessuno osa più contrapporsi all’idea della “fine della storia”, alla possibilità della trasformazione radicale delle marxiane “stato di cose presenti”. L’11 settembre 1973, il giorno della “macelleria americana” resta intatto nella nostra mente e nel nostro cuore accanto ai grandi passaggi avvenuti nella storia dell’internazionalismo: dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione d’Ottobre, dalla guerra di Spagna alla vittoriosa resistenza al nazi-fascismo, dalle rivoluzioni cinese, cubana, vietnamita, alla liberazione dei popoli dell’Africa e dell’Asia dal giogo coloniale, alla fine dell’apartheid in Sud Africa. Non possiamo cancellare tutto questo anche considerando che va riconosciuto il fallimento dei tentativi d’inveramento statuale realizzati dai fraintendimenti marxisti attraverso il ‘900. L’11 settembre 1973, il giorno della caduta della speranza cilena avvenuta a mano armata con l’assassinio del “Compagno Presidente” ricorda il momento di una sconfitta. Per noi che continuiamo a credere nell’ideale, è uno dei giorni di quell’“Assalto al Cielo” verso il quale dobbiamo continuare a tendere con la nostra volontà, il nostro impegno, il nostro coraggio. Finché i popoli continueranno a lottare, là ci sarà un’idea di riscatto sociale, di rivoluzione politica, di uguaglianza, di solidarietà, di riconoscimento della condizione di classe. Un’idea quella del riscatto sociale che non deve essere mai smarrita. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA SCELTA DELL’8 SETTEMBRE

di Franco Astengo | Non è vero che l’8 settembre rimanga come un nodo irrisolto nella storia d’Italia: atti, ruoli, protagonisti, responsabilità sono chiari e restano incontrovertibili nel delineare l’identità del nostro Paese per una intera fase storica. Mi permetto quindi di riproporre questo testo nell’idea che  si possa fornire ancora un contributo a delineare ciò che è avvenuto nel momento più critico nella storia dell’Italia dall’Unità in avanti. Eventi grandi, eccezionali, pongono i popoli e le donne e gli uomini che ne fanno parte davanti alla necessità di scelte drastiche e decisive per l’avvenire della loro nazione, della loro entità collettiva e per loro stessi. Si verificano passaggi storici che quasi “costringono” a prendere coscienza di verità che, in precedenza, apparivano come latenti o la cui piena consapevolezza sembrava riservata a pochi. Uno di questi avvenimenti, forse quello davvero decisivo nella storia d’Italia (almeno per la sua parte più recente) fu rappresentato dal vuoto istituzionale creatosi con l’armistizio dell’8 settembre 1943. In quel contesto emerse la necessità, per i singoli, di compiere scelte cui la gran parte non aveva mai pensato di dover essere chiamata. In quel drammatico frangente emerse la necessità di esplicitamente consentire o dissentire: il sistema stava crollando e gli obblighi verso lo Stato non costituivano più un sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali. Lo Stato non era più in grado di pretendere quei “sacrifici per amore” di cui parla Jean Paul Sartre nell’intervista rilasciata nel 1969 a Rossana Rossanda, a proposito della guerra in Vietnam. In questo senso Claudio Pavone, nel suo fondamentale “Una guerra civile, saggio storico sulla moralità della Resistenza” cita opportunamente Hobbes, riferendolo direttamente all’Italia del 1943: “ L’obbligo dei sudditi verso il sovrano s’intende che dura fino a che dura il potere, per il quale esso è in grado di proteggerli, e non più a lungo, poiché il diritto che gli uomini hanno per natura di proteggere se stessi, quando nessun altro può proteggerli, non può essere abbandonato a nessun patto.” “Il Leviatano pag.216″. La scomparsa della presenza statale, come si verificò d’improvviso l’8 settembre 1943, poteva essere avvertita con un senso di smarrimento o come un’occasione di libertà. Però quando le truppe tedesche di occupazione cominciarono a dare un minimo di formalizzazione alla loro violenza e quando, subito dopo, i fascisti crearono la Repubblica Sociale, quando cioè nell’Italia occupata il vuoto istituzionale fu in un qualche modo riempito da un diverso sistema di autorità, la scelta da compiere divenne più dura e drammatica, perché la spontanea, umana solidarietà “tra scampati” dei primi giorni non poteva essere più sufficiente. La scelta doveva, infatti, esercitarsi fra una disobbedienza per la quale apparivano altissimi i prezzi da pagare e le lusinghe della, pur tetra, “normalizzazione” nazifascista. Il primo significato di libertà che assunse la scelta resistenziale fu implicita nel suo rappresentare un atto di disobbedienza. Non si trattò tanto di ribellione a un governo legale, perché su chi detenesse la legalità non c’erano dubbi, ma di ribellione verso chi disponeva, in quel momento, della forza per farsi obbedire. Era, cioè (come precisò poi, nel 1986, Franco Venturi nel corso di un seminario tenuto alla Scuola Normale di Pisa) “una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”. Per la prima volta nella storia dell’Italia Unita le italiane e gli italiani vissero, in forme diverse anche rispetto alle realtà territoriali nelle quali si trovarono a dover vivere e operare, un’esperienza di disobbedienza di massa. Il fatto va ricordato come di particolare rilevanza proprio per quella generazione che, nella scuola, era stata educata a una sorta di “culto dell’obbedienza”. Un secondo elemento da analizzare attentamente è rappresentato dal fatto che, davanti a scelte prima di tutto individuali, si presentò il nesso “necessità – libertà”, che  proprio nella scelta resistenziale assunse, insieme, problematicità e limpidezza nello stesso tempo. Una scelta da compiere, citando ancora Sartre (“La repubblica del silenzio”) “nella responsabilità totale e nella solitudine totale, cercando la rivelazione stessa della nostra libertà”. La solitudine, cioè la piena responsabilità individuale della decisione (“ho fatto di mia spontanea volontà, perciò non dovete piangere” scrive a 19 anni Vito Salmi, partigiano garibaldino, fucilato a Bardi il 4 Maggio 1944) è come esaltata e insieme riscattata dalla percezione dell’ineliminabile necessità di scegliere tra comportamenti che recavano iscritti valori che come ha scritto Massimo Mila portavano a una “rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita”. Questo senso della vita che “ricomincia da capo” (come scrisse “Risorgimento Liberale” il 23 Novembre 1943) sebbene avesse assunto sotto tanti aspetti la veste della politica, andava ben oltre quel “correre il rischio del politico” che Carl Schimtt indica quale conseguenza ineluttabile del fatto che “tutti i cittadini vengono obbligati a prendere posizione nella guerra civile”. Si trattò piuttosto , come scrive Hirschman, “della percezione improvvisa (o dell’illusione”) che posso agire per cambiare in meglio la società e che, inoltre, posso unirmi ad altre persone della stessa opinione”. La politica irruppe così nella vita partigiana, allorquando la “banda” nata da un’iniziale spinta di rivolta antistituzionale, o almeno di supplenza all’eclisse delle istituzioni, evolvette rapidamente e in modi originali, secondo una linea che la portò a diventare, in termini weberiani, da una semplice “comunità” o “associazione”, vero e proprio “gruppo sociale” retto da un ordinamento in cui l’agire era orientato in vista di dotarsi di regole vincolanti ed esemplari. Il tramite di quella che, sempre Claudio Pavone, indica come “la via di una nuova istituzionalizzazione” fu rappresentato dalla presenza dei partiti che, attraverso il CLN, avevano assunto il ruolo di punto di riferimento, di vera e propria “guida politica” dell’intero movimento resistenziale. L’organizzazione di tipo militare non sarebbe stata da sola sufficiente a tenere unito un esercito partigiano, tanto variegato e geloso della propria autonomia. I legami con i partiti fecero da contrappeso alle spinte autonomistiche e ribellistiche che pure erano ben presenti, come del resto a quelle localistiche. Questi legami resero più omogenee al loro interno le singole …

AGOSTO 1892: FONDAZIONE DEL PARTITO ITALIANO DEI LAVORATORI

di Franco Astengo | Anche quest’anno ho atteso qualche giorno ma non ho colto segnali di memoria al riguardo (fatta eccezione per Socialismo XXI) della ricorrenza della fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani progenitore diretto del Partito Socialista , dal quale poi con la scissione di Livorno originò anche il Partito Comunista. Mi pare allora il caso di ritornare sul ricordo di quella scadenza anche per il fatto che da qualche settimana a questa parte abbiamo avviato con altre compagne e compagni appartenenti a diverse aree politiche della sinistra italiana un lavoro tendente a promuovere un processo di vera e propria “ricostruzione di soggettività” fondato sul superamento delle divisioni del ‘900 e sull’attualizzazione di un progetto basato sull’analisi dell’inedito intreccio di contraddizioni che ha caratterizzato quest’avvio di XXI secolo. Questo ricordo si misura allora con questa idea di fondo della ricostruzione posta oltre le antiche separatezze rievocando l’importanza storica di quel momento fondativo. Un esempio di coraggio e di lungimiranza politica datato 1892 ma di grande attualità nella sua essenza di capacità nel progettare il futuro: forse quella capacità che a noi manca nel saper riproporre oggi l’essenza di una presenza della sinistra rivolta sempre coerentemente al riscatto dei ceti sociali sfruttati in modo diverso, ma forse sempre eguale, da un capitalismo sempre più tentacolare (per descriverlo sommariamente con un semplice slogan). “In Italia la crescita del movimento operaio si delinea sulla fine del XIX secolo. Le prime organizzazioni di lavoratori sono le società di mutuo soccorso e le cooperative di tradizione mazziniana e a fine solidaristico. La presenza in Italia di Michail Bakunin dal 1864 al 1867 dà impulso alla prima organizzazione socialista-anarchica, ma aperta anche ad istanze più generalmente democratiche e anche autonomiste: la Lega Internazionale dei Lavoratori (opposta all’Associazione internazionale dei lavoratori di Karl Marx). L’episodio anarco-socialista di propaganda più noto è quello del 1877 (un gruppo di anarchici tentò di far sollevare i contadini del Matese). La strategia insurrezionale fallisce mentre riscuote molto successo il partito Socialdemocratico nelle elezioni del 1877. In merito alla formazione dei socialisti in Italia (che a tutti gli effetti si configuravano come prima realtà partitica moderna) è interessante notare l’eredità mazziniana e della struttura di “partito” che, decenni addietro, si era data la Giovane Italia di Mazzini. Essa, infatti, pur scevra da costrutti dottrinali ideologici per come li intendiamo noi, basava la propria attività su tre punti fondamentali: proselitismo, coordinamento centrale e autofinanziamento del movimento. I socialisti, volontariamente o meno, si strutturarono quindi in maniera simile, poggiando le basi su una concettualità ideologica, e formando così il primo partito moderno italiano. Intanto la Lega Internazionale dei Lavoratori nel 1874 si era sciolta e l’anima più moderata, guidata da Andrea Costa, sosteneva la necessità di incanalare le energie rivoluzionarie in un’organizzazione partitica disposta a competere alle elezioni. Tra i più convinti sostenitori di questa linea troviamo Enrico Bignami e Osvaldo Gnocchi – Viani, fondatori nel 1876 della “Federazione Alta Italia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori” e, nel 1882, del Partito Operaio Italiano, con la rivista “La Plebe” (di Lodi), alla quale poi si affiancano altre pubblicazioni. Nel 1879 Costa, uscito dal carcere, si trasferì a Lugano in Svizzera Qui scrisse la lettera intitolata “Ai miei amici di Romagna”, in cui indicava la necessità di una svolta tattica del socialismo, che doveva passare dalla «propaganda per mezzo dei fatti» a un lavoro di diffusione di principii, che non avrebbe presentato risultati immediati, ma avrebbe ripagato sul medio periodo. La lettera fu pubblicata nel n. 30 del 3 agosto 1879 de “La Plebe”. La presa di posizione di Costa determinò nel movimento socialista italiano una prima separazione dei socialisti dagli anarchici. Nel 1881 questi organizzò il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, che sosteneva, fra l’altro, le lotte dei lavoratori, l’agitazione per riforme economiche e politiche, la partecipazione alle elezioni amministrative e politiche. Il partito di Costa incontrò grandi difficoltà, anche se egli riuscì ad essere eletto alla Camera nel 1882: fu il primo deputato socialista della storia d’Italia. Anche il Partito Operaio Italiano di Costantino Lazzari e Giuseppe Croce si presentò alle elezioni del 1882, ma senza successo. Frattanto il movimento operaio si organizzava in forme più complesse: Federazioni di mestiere, Camere di lavoro, ecc. Le Camere di Lavoro si trasformano in organizzazioni autonome e divengono il punto di aggregazione a livello cittadino di tutti i lavoratori. Su queste basi nel 1892 nasce a Genova il Partito dei Lavoratori Italiani che fonde in sé l’esperienza del Partito Operaio Italiano (nato nel 1882 a Milano), della Lega Socialista Milanese (d’ispirazione riformista, fondata nel 1889 per iniziativa di Filippo Turati) e di molte leghe e movimenti italiani che si rifanno al socialismo di ispirazione marxista. La scelta di Genova come città in cui svolgere il congresso il 14 e 15 agosto del 1892, tra le altre cose, fu dovuta alla contemporanea presenza delle manifestazioni Colombiane per il quattrocentenario della scoperta delle Americhe: le ferrovie infatti in tale occasione avevano concesso degli sconti sui biglietti per il capoluogo ligure, che vennero sfruttati dai convenuti al congresso (la maggior parte dei quali provenivano dalle regioni del nord). La decisione generò attriti con i rappresentanti della locale Confederazione operaia genovese, inizialmente tenuti fuori dall’organizzazione dell’evento, e mediaticamente si rivelerà controproducente, essendo in quei giorni l’interesse dei quotidiani e delle riviste concentrato proprio sugli eventi (gare ginniche e regate) correlati alla grande esposizione colombiana, che finiranno per mettere in ombra il congresso.  Al congresso si presenteranno circa 400 delegati, rappresentanti d’interessi e posizioni non sempre allineate tra di loro. I fondatori ufficiali della nuova formazione politica furono Filippo Turati e Guido Albertelli. Altri promotori furono Claudio Treves, Leonida Bissolati, Ghisleri, Enrico Ferri, che erano provenienti dall’esperienza del Positivismo. Turati ed altri (Camillo Prampolini, Anna Kuliscioff, Bosco, ecc..) furono a Genova fin dal 13 e proprio la sera di quel giorno si riunirono per discutere delle proposte da presentare nel congresso dei giorni seguenti. Gli esponenti anarchici, commentando al tempo questa riunione preparatoria, la descrissero come una riunione che aveva come tematiche …

MILANO, 10 AGOSTO 1944. L’ECCIDIO DI PIAZZALE LORETO

Il 10 agosto 1944 un plotone della legione Muti, comandato dal capitano Pasquale Cardella, fucila quindici partigiani scelti tra i detenuti nel reparto tedesco del carcere milanese di San Vittore. Sono: Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo Del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Giovanni Galimberti, Vittorio Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti, Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo, Vitale Vertemati. L’ordine è impartito dal comandante della sicurezza tedesca, il capitano della Gestapo Theodor Saevecke e girato, per la parte operativa, al colonnello Pollini della Guardia nazionale Repubblicana. Al momento di portare i quindici sul luogo della fucilazione, alle 4,30 del mattino, furono loro distribuite delle tute da operai per far credere che li avrebbero trasferiti a lavorare per la Todt. Sul libro matricola del carcere c’è infatti l’annotazione “Partiti per Bergamo”. All’epoca piazzale Loreto era il punto di convergenza del pendolarismo milanese verso le fabbriche della Brianza e di quello della provincia verso Milano; quindi i nazisti lo scelsero perché volevano trasmettere un duro monito alla popolazione e alla Resistenza: il maggior numero possibile di persone doveva vedere e sapere. Quella di piazzale Loreto fu una strage compiuta con scelte cinicamente studiate: per il luogo: negli orari di punta dei giorni lavorativi, il transito dei pendolari raggiungeva diverse decine di migliaia di lavoratori; per l’orario: inizio della giornata lavorativa e infine per le vittime che non furono scelte a caso. Tra i quindici è rappresentato l’intero arco delle forze che partecipò alla Resistenza: azionisti, socialisti, comunisti, cattolici. Libero Temolo della Pirelli, Umberto Fogagnolo e Giulio Casiraghi della Ercole Marelli, Angelo Poletti della Isotta Fraschini sono gli organizzatori degli scioperi del marzo 1943 e del 1944. Vittorio Gasparini, attivista cattolico prima nelle organizzazioni giovanili e poi nella Fuci, collabora con i servizi segreti del comando della V Armata americana, gestendo in piazza Fiume (ora piazza della Repubblica), un centro radio clandestino. Domenico Fiorani raccoglie direttamente da Enrico Falck i finanziamenti che porta ai raggruppamenti partigiani dislocati in montagna. Eraldo Soncini collabora con il colonnello Carlo Croce nell’ottobre 1943 sul San Martino sopra Varese, per organizzare il primo atto di resistenza armata al nazifascismo. Salvatore Principato contrasta il fascismo sin dalle origini, lavorando prima con Turati e Anna Kuliscioff, poi con i fratelli Rosselli. I quindici martiri di piazzale Loreto sono l’anima di una Milano che opponendosi al fascismo spera nella libertà e nella democrazia. Quell’eccidio avviene qualche giorno dopo un misterioso attentato a un camion tedesco parcheggiato in viale Abruzzi 77. L’attentato, nel quale non rimane ucciso nessun soldato tedesco, non rientra, per l’imperizia dimostrata, nel modus operandi della 3° GAP guidata da Giovanni Pesce. Non può essere, dunque, ricondotto alla comunque esecrabile categoria della rappresaglia. L’eccidio di piazzale Loreto rientra piuttosto in una logica e in un disegno efferato. La strage arriva a conclusione di un mese nel quale le esecuzioni per mano dei repubblichini si sono succedute l’una dopo l’altra; il 15 luglio 1944 vengono fucilati tre ferrovieri a Greco, il 31 luglio 1944 è la volta di cinque partigiani al Forlanini, il 21 luglio 1944 cinque patrioti sono uccisi a Robecco e 58 abitanti vengono deportati, nove dei quali non faranno ritorno dalla Germania. Il 28 agosto 1944 a Milano, in via Tibaldi i mutini fucilano altri quattro partigiani. Una scalata del terrore dunque. In quei giorni “La Fabbrica” – giornale clandestino del Partito Comunista Italiano – chiamava i milanesi a prepararsi all’insurrezione. Erano giorni nei quali sembrava che la guerra volgesse al termine; tutti i fronti erano in movimento, avanzava dall’est l’esercito sovietico, avanzavano in Francia le armate angloamericane. Pareva dunque che la guerra si avviasse a conclusione e i nazisti una cosa temevano soprattutto: che nell’Italia occupata l’avanzata degli alleati si accompagnasse con l’insurrezione del popolo. Avevano davanti l’esperienza di Firenze, dove l’insurrezione aveva reso pesante e difficile la ritirata dell’esercito tedesco. I tedeschi vogliono avere le spalle coperte ed impedire che si sviluppi un moto insurrezionale che possa compromettere la ritirata dell’esercito incalzato dagli alleati. Con queste fucilazioni si pensava che quella strategia del terrore esercitata su innocenti, sulla popolazione civile, potesse isolare i combattenti della Resistenza. L’eccidio di piazzale Loreto ottenne invece l’effetto opposto. L’ordine di fucilazione di Saevecke, condannato all’ergastolo per quell’efferato crimine, dal Tribunale militare di Torino il 9 giugno 1999, viene eseguito dal plotone della Muti che lo attua alle 5,45 del mattino del 10 agosto 1944 e lo conclude alle 6,10. Alle 5,45 in piazzale Loreto c’è già un ufficiale tedesco scortato da quattro soldati. L’ufficiale fa mettere gli ostaggi contro una palizzata e, disposti i militi della Muti a semicerchio, ordina immediatamente il fuoco. “Avvenne una sparatoria disordinata – scriverà il capo della Provincia Piero Parini – I disgraziati si erano intanto un po’ sbandati in un estremo tentativo di fuga e quindi furono colpiti in tutte le parti del corpo.” Eraldo Soncini pur ferito, riesce a scappare e a rifugiarsi nello stabile di via Palestrina 9, dove è raggiunto e ucciso dai militi repubblichini. L’ufficiale nazista che controlla l’esecuzione dell’ordine, ligio alle disposizioni di Saevecke, dispone che i corpi martoriati restino esposti per l’intera giornata. I cadaveri, dopo un energico intervento del cardinale Schuster, verranno rimossi soltanto nel pomeriggio. A quei tempi, da piazzale Loreto passavano i tram bianchi che scendevano, stracolmi di viaggiatori, dai paesi della Brianza. I tram furono fermati dalle Brigate Nere e i lavoratori furono costretti a scendere e a sfilare davanti a quel povero mucchio di cadaveri, guardati a vista dai fascisti armati fino ai denti, pronti ad arrestare qualsiasi persona che avesse tentato di protestare o che solo avesse osato compiere un atto di pietà. Nel giro di un’ora il racconto della carneficina e dei volti truci dei mutini di guardia ai cadaveri si diffonde in tutte le fabbriche e nella città. Chiunque abbia un parente, un amico o un compagno arrestato o alla macchia si precipita col cuore in gola, pregando di non ritrovarlo nel mucchio. Lo stesso capo della provincia, Parini, conclude che l’impressione in città perdura …

LUCIA 100 E LODE

di Francesco Greco | Quella che leggerete è una storia commovente, che vi farà venire la pelle d’oca, che apre il cuore alla speranza, al futuro, all’ottimismo della volontà. E che prova quanto la forza dell’amore e la determinazione, possano smuovere le montagne. Il cui messaggio sottinteso, subliminale è: crederci, crederci, crederci, sempre e comunque, inseguire i propri sogni senza mai stancarsi né rassegnarsi, perché “anche quando ti dicono non c’è niente da fare, c’è sempre da fare…”, dicono Donato e Maria Antonietta. Una storia che si trasfigura in un format e contiene nell’intimo una grande lezione per tutti, per chi si arrende ai primi iceberg, e che ha una forte valenza pedagogica, che corona un obiettivo inseguito faticosamente per anni, che ha anche avuto momenti difficili, ma che ora ha toccato il traguardo – la maturità di Lucia dopo che nel corso di studi ha superato verifiche, test Invalsi e persino la performance dell’esperienza scuola-lavoro – grazie all’azione sinergica di più soggetti: la famiglia in primis, poi la scuola (bidelli inclusi), i volontari, i compagni di classe. Lucia Melcarne (al centro nella foto) si è appena diplomata al Liceo delle Scienze Applicate “Salvemini” di Alessano (Lecce) col massimo dei voti: 100/100. Incontenibile la gioia della madre: “Quando mia figlia ha varcato per la prima volta la soglia della scuola – osserva Maria Antonietta Milello – era spaesata, non conosceva nessuno, per lei l’ambiente era del tutto nuovo: non parlava, non interagiva…”. “Autismo” era stata la diagnosi anni fa. Lucia è una ragazza “non verbale”, lo dicono le parole crude della scienza, che però non considerano quelle dettate dal cuore, dallo sguardo, dai gesti quotidiani, dall’amore, dalle sfide impossibili che danno un senso alla nostra vita. “Ci dissero che sarebbe stato difficile inserirla nella società, che non si sarebbe mai fatta capire – aggiunge il papà Donato – quante ingiustizie, quante battaglie, quante delusioni…”, si commuove. Ma parallelamente cresceva anche la forza di volontà, la certezza che la ragazza avrebbe potuto reagire, cambiare, ancorarsi alla realtà, capovolgere quella brutta diagnosi, relativizzarla. Lucia viveva in un suo mondo, blindata nell’incomunicabilità. Con un punto di contatto: la parola scritta. Infatti leggeva, leggeva molto, divorava i libri. Le parole della scienza possono perciò essere relativizzate, illanguidire, perdere la loro forza filologica dinanzi alla sfida in cerca di una nuova dimensione, una password alla fine trovata per farla entrare nel mondo. La forza di volontà, il desiderio di appartenere alla comunità, all’universo, alla sua possente energia cosmica, oltre che alla propria famiglia (il papà è vicesindaco di Alessano e Montesardo, la sorella Maria studia Farmacia a Chieti), può essere una spinta fortissima per superare ostacoli insormontabili ma solo per chi non crede in se stesso. Lucia è stata sostenuta dall’affetto di Antonella Vitali come assistente quotidiana, ha studiato con un’insegnante di sostegno, Lucia Chiarello (a destra nella foto, “l’ha amata come una figlia”, dicono grati i genitori della ragazza), sotto lo sguardo attento e partecipe della dirigente scolastica Chiara Vantaggiato (nella foto a sinistra), che interpreta il suo lavoro in modo moderno, come una mission. E i risultati si vedono: il “Salvemini” è una delle scuole più d’avanguardia, dinamiche e “produttive” della Puglia. Anche i compagni di classe sono stati preziosi nel loro interagire con Lucia, “dando e ricevendo amore – aggiungono felici e orgogliosi Donato a Maria Antonietta – prima timorosi e spaventati per il fatto che la nuova compagna non parlava e non interagiva, poi imparando a conoscerla e amarla. Giorno dopo giorno abbiamo costruito e continuiamo a costruire il modo migliore per nostra figlia, una creatura meravigliosa, carismatica. Ma non ci fermiamo qui: il percorso continua…”. Lucia 100 e lode ora passerà una bella estate al mare. E in autunno forse la aspetta un’altra sfida: l’Università. Ormai il muro dell’incomunicabilità (“The Wall” cantavano i Pink Floyd) è stato mandato in frantumi, e perciò ogni traguardo è possibile… SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it