STRAGE DI BOLOGNA: PER NON DIMENTICARE

di Franco Astengo | Non lasceremo trascorrere anche questo 2 agosto 2019 senza rinnovare il ricordo della tragica strage della Stazione di Bologna: quell’esplosione tremenda, quell’orologio fermo alle 10,25 del mattino, quelle vittime ignare colpite dal fulmine nel crocevia delle vacanze. Sarà come per tanti altri fatti della storia d’Italia più recente, che non intendiamo far cadere nell’oblio: fatti che ci ricordano il doppio stato, i segreti, i misteri che hanno resto la nostra democrazia, quella scritta nella Costituzione Repubblicana, monca, distorta, lontana dai reali bisogni delle grandi masse. Correva l’anno 1980 fu messa alla prova la democrazia e che si concluse con i 35 giorni alla Fiat e la marcia dei cosiddetti “quarantamila”. In quel 1980 si mise in evidenza, almeno agli occhi degli osservatori più attenti ma inascoltati, non tanto il “ritorno” al terrorismo fascista (che pure si era verificato) ma l’esigenza di una “teoria politica del terrorismo” che, almeno da Piazza della Fontana in avanti, aveva rappresentato uno degli elementi costitutivi della gestione del potere nel nostro Paese. Furono svolti alcuni tentativi di analisi in questa direzione, di collegamento tra il terrorismo stragista di evidente matrice “nera”, i servizi segreti, la massoneria occulta della quale la Loggia P2 appariva come l’espressione più evidente . Il 1980, sempre per cercare di non dimenticare, fu anche l’anno in cui Sergio Turone e Gherardo Colombo scoprirono gli elenchi di Castiglion Fibocchi che comprendevano anche le prove del collegamento tra P2 e Mafia, attraverso logge coperte siciliane provviste anche di diramazioni nel Ponente Ligure: tanto per ricordare che, quanto alla mafia al nord, nessuno ha scoperto nulla di nuovo. Altri denunciarono il fatto che, in quella direzione, non si fosse mai svolta una valutazione di fondo: il Centro di Riforma dello Stato, diretto da Pietro Ingrao, convocò un convegno su questo tema, proprio ad Arezzo; alcuni coraggiosi tentarono analisi anche in sede locale. Intanto che le indagini sulla strage marcavano il passo qualcuno rispose che sarebbe stata sufficiente la riforma dei servizi segreti e che una collocazione diversa della sinistra nel quadro politico (c’erano già stati il “governo delle astensioni” e la “solidarietà nazionale”) avrebbe rappresentato un’ulteriore garanzia per il successo dell’operazione di riforma che tendeva a cambiare il modo di agire d’interi pezzi dello stato e che, comunque, il terrorismo nero, cui si era accompagnato quel tipo di attività dei servizi di sicurezza fosse ormai in declino, se non addirittura in via di estinzione. Di fronte a questa sconcertante analisi che pure, a sinistra, ebbe piena cittadinanza, si replicò – pur nel rischio di rimanere profeti inascoltati – al riguardo della necessità di vedere lo stragismo attraverso una nuova lente, da parte di una sinistra istituzionalmente matura e capace di vedere lo spessore del meccanismo statuale, che riproduceva abilmente se stesso attraverso l’espansione dei corpi separati, aggiungendo come, almeno da Piazza della Fontana in avanti, analizzando i passaggi procedurali si poteva ben vedere come vi fosse stata una gestione politica dei procedimenti. La sinistra, all’epoca, sulla base di queste analisi avrebbe dovuto elaborare un’idea di riforma dello Stato non attraverso una serie di “elemosine riformistiche”, ma realizzando, non tanto e non solo una magari ottima serie di proposte di legge, ma lavorando a realizzare una trasformazione radicale del quadro politico. Al centro, insomma, doveva ritornare, secondo questa ipotesi, il tema della “volontà politica”. Ciò non avvenne, per molteplici ragioni che non ho qui lo spazio per analizzare e che comunque riguardano l’intero corso della storia d’Italia, e abbiamo così assistito – da quel fatidico 2 agosto 1980 – al realizzarsi progressivo di quel meccanismo di autoritarismo, negazione della democrazia, affermazione di poteri occulti contenuti proprio nel documento sulla “Rinascita Nazionale” elaborato nel 1975, proprio dalla Loggia P2 di Licio Gelli, che in tempi successivi tornò a sostenere che la strage non c’era mai stata. Memoria, quindi, assolutamente da mantenere accompagnata da un’analisi di ciò che è stato allora rispetto alla realtà del nostro sistema politico e di ciò che sta avvenendo adesso in un quadro di pericolosa presenza di tentativi limitazione dell’agibilità democratica. Vale la pena ogni volta che si scende alla stazione di Bologna, fermarsi a leggere i nomi scolpiti nella lapide che ricorda quel tragico giorno: un utile esercizio della memoria di un momento fondamentale nella storia d’Italia, non soltanto di tragedia per le famiglie delle vittime ma di dramma per la qualità della nostra democrazia. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL GIOVANE PERTINI COMBATTENTE PER LA LIBERTA’

da sinistra l’attore Gabriele Greco che interpreta il giovane Pertini con il Prof. Stefano Caretti (Centro Studi e Documentazione Sandro Pertini) Due anni di girato. Tra tre province: quelle di Foggia, Benevento e l’Irpinia. Le riprese de: “Il giovane Pertini, combattente per la libertà”, tratto dal libro di Stefano Caretti, del regista Giambattista Assanti, si sono appena concluse, e si è passati “da subito” al montaggio. Del presidente della Repubblica più amato, Sandro Pertini, Assanti vuol far conoscere la storia anche alle più giovani generazioni. Tanto è vero che lo vedranno anche nelle scuole, quando il film uscirà. Cioè il prossimo mese di  Settembre. Un appassionato viaggio tra Taurasi, Montefusco, sulle colline della provincia, Vieste, in Puglia, Benevento, Ferrazzano, San Croce sul Sannio e Colle Sannita. Dover sono stati ricostruiti i luoghi in cui nonno Sandro, come affettuosamente lo chiamano, ancora oggi gli italiani, faceva sentire il suo peso di oppositore durante gli anni della dittatura fascista. Il film di Assanti si apre con un colpo di vento che, aprendo una finestra del suo settennato, nel 1978, gira una pagina di un vecchio diario datato 1929. Quando Sandro Pertini, allora giovane socialista, venne condotto al carcere di Santo Stefano. Fino ad arrivare a tutte le lettere scritte, dal futuro Capo dello Stato, anche nei primi momenti della Liberazione. L’opera è un biopic evocativo che parte con una soggettiva di Sandro Pertini (Raffaele Pisu) appena eletto Presidente della Repubblica Italiana per tornare indietro a raccontare il giovane che sta dietro il grande statista, nonché partigiano, e ricordare l’ardore che ha accompagnato la sua fede verso il socialismo e le grandi rinunce affettive che tutto questo ha comportato. Il carteggio da cui è stata tratta la storia del film inizia nel 1924 e si conclude nel 1945 a liberazione avvenuta. Le lettere che Sandro Pertini scriveva, già in esilio in Francia, raccontano il suo entusiasmo di fervido socialista e la sua abnegazione nei confronti dell’allora Partito Socialista Italiano. Attraverso i suoi scritti e le sue testimonianze, partecipiamo alla sua avventura di fuggiasco, detenuto e poi confinato politico. I suoi scritti, per altro molto sofferti, con la madre Maria Muzio (Dominique Sanda), raccontano delle sue amicizie vissute con alcuni dei suoi compagni socialisti (Claudio Treves, Filippo Turati, Adriano Olivetti, Ferruccio Parri) e del suo grande amore per la fidanzata Matilde, sacrificato a causa dei quattordici lunghi anni di prigionia e confino. ll film ha inizio durante i primi giorni di insediamento di Pertini a capo dello Stato, nel luglio del ’78, quando il vento spalanca la finestra e scompiglia le pagine di un vecchio diario la cui storia comincia in un giorno del 1929, giorno in cui il giovane Sandro viene portato al carcere di Santo Stefano. Attraverso la voice off del protagonista, il film racconta gli episodi più importanti e suggestivi degli anni di prigionia, dal ’29 al ’43. L’intento dell’opera è di romanzare vicende reali nel pieno rispetto della loro credibilità storica (grazie alla collaborazione con il professor Stefano Caretti, uno dei massimi studiosi della vita di Sandro Pertini) e così troviamo accanto alla madre Maria, alla fidanzata Matilde, ad Antonio Gramsci, a Giuseppe Saragat, altri personaggi realmente esistiti come l’agente di custodia Antonio Cuttano, spietato e sanguinario carceriere, autore di violenti pestaggi nel carcere di Pianosa. Al confino si aggiungeranno altre figure importanti che condivideranno il destino di Sandro: un giornalista socialista, Enrico Tucci, che trascorrerà cieco i suoi ultimi giorni, e un bambino, Michele, incontrato a Ventotene, con il quale costruirà un aquilone che si alzerà nel cielo in una mattina d’estate, il 25 luglio del ’43, giorno in cui cadde il fascismo. In una delle sequenze finali Sandro interagisce con due partigiani che lo aiutano, in una strada di Roma, a raccogliere le armi dei tedeschi in fuga: sono Giuseppe Saragat e Carla Voltolina. Col primo condividerà la presidenza della Repubblica e con la seconda l’amore di una vita. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

INTERVISTA A RINO FORMICA SU MOONDO

Riceviamo da “Domani Socialista” e gentilmente pubblichiamo | Rino Formica è uno straordinario protagonista della storia recente ed attuale del nostro paese, un dirigente politico di lungo corso, che si racconta in una lunga intervista che Moondo pubblicherà in 3 puntate. Insieme al Direttore Giampaolo Sodano ed al Prof. Mario Pacelli, Formica ripercorre alcuni momenti importanti della storia recente del nostro paese e fa un’analisi dei problemi attuali della politica italiana. La politica estera SODANO: Hai avuto sempre una particolare attenzione alle dinamiche delle relazioni internazionali. Quale è stata la tua analisi e quale la politica estera del partita socialista? FORMICA: Fu la politica delle alleanze perché stavamo all’interno del sistema atlantico, e quindi di contrapposizione dei due blocchi. L’obiettivo era penetrare nelle aree dell’est, nel blocco ideologico comunista, per tutelare la chiesa del silenzio e dall’altra parte espandersi nel terzo mondo che si trovava in una condizione assolutamente minoritaria e trascurabile: si trattava di tutto il mondo asiatico, del mondo africano. La politica dell’Italia era una politica complessa che non si poteva fare senza il consenso dell’intero arco costituzionale: perciò bisognava garantire il partito comunista, che doveva garantire la democrazia cristiana e viceversa, mentre il partito socialista doveva cucire insieme le garanzie tra democrazia cristiana e partito comunista. Questo legame di politiche così radicalmente diverse sul piano dei legami internazionali dei grandi partiti era dato dal fatto che tutte e tre le forze fondamentali del sistema politico italiano – la democrazia cristiana, il partito comunista, il partito socialista – erano legate nella Costituzione da un vincolo patriottico: il vero compromesso fu non tanto un compromesso di natura sociale ed economica che è nella carta costituzionale, quando un compromesso politico, patriottico tra le grandi forze nel senso che nessuna di esse avrebbe tradito la difesa del proprio paese in caso di attacco esterno. Il blocco atlantico non avrebbe dovuto attaccare l’est, l’est non avrebbe dovuto attaccare l’ovest. Qualora questo fosse accaduto c’era l’impegno a svolgere un’attività di tutela patriottica da parte di tutte le forze politiche: mai mettere gli italiani contro gli altri italiani. Nella metà degli anni 80 comincia a percepirsi che l’ordine mondiale, l’equilibrio dei due blocchi ideologici, la tutela del terzo blocco di intervento congiunto tra il blocco ideologico dell’est e il blocco ideologico dell’ovest per stabilizzare le situazioni, cominciava a scricchiolare. Sia nel blocco dell’est che nel blocco dell’ovest, cioè sia in Russia che in America, si pensava che la situazione sarebbe cambiata: i russi pensavano che le contraddizioni capitalistiche del mondo occidentale avrebbero fatto cadere il pilastro dell’America; l’America riteneva che a cadere sarebbe stato il pilastro dell’Unione Sovietica, previsione che si è poi realizzata. L’implosione interna avvenne  perché il regime sovietico non era in condizioni di portare contemporaneamente avanti lo sviluppo militare e quello sociale. A questo poi si sono aggiunti altri elementi: non irrilevante è la comparsa di internet, con la caduta  dei muri della comunicazione. SODANO: Internet è di grande importanza rispetto ai tanti cambiamenti politici, però arriva molto dopo. L’analisi che tu hai fatto risponde ad una domanda: l’equilibrio internazionale scricchiola e di questo scricchiolio se ne avverte l’eco in quel paese di frontiera che è l’Italia. Tuttavia secondo te questo da solo spiega la morte di fatto della prima repubblica, che vuol dire la crisi della democrazia liberale dei primi 50 anni? FORMICA: Sì, perché la democrazia parlamentare che è il nostro principio costituzionale fondamentale, era stata autolimitata: la norma era una democrazia parlamentare autolimitata. La fine della condizione di paese di frontiera e di quel contesto internazionale che imponeva reciproci limiti alle forze politiche italiane avrebbe fatto cadere questa condizione di democrazia parlamentare autolimitata, quella che nel dibattito politico di allora era la democrazia  incompiuta. La democrazia parlamentare incompiuta era stata accettata dai partiti, con la convention ad excludendum: una forza rilevante del Parlamento che negli anni ‘70 aveva raggiunto più di un terzo del corpo elettorale accettò di non essere forza di governo. L’accettazione da parte del partito comunista non fu limitata solo alla partecipazione diretta al governo e non fu vincolante per la gestione del potere locale e per l’esercizio del potere legislativo in Parlamento. C’è un’illuminante intervista di Ingrao del ‘76 su uno dei primi numeri di “Repubblica”, dove Ingrao, divenuto Presidente della Camera dei Deputati, fa un’apologia, non solo del Parlamento, ma del Parlamento come Governo, una visione nella quale il governo era una istituzione, formalmente corretta, ma assolutamente insufficiente dal punto di vista della elaborazione legislativa e di garanzia dell’alleanza atlantica quanto alla permanenza del paese nell’alleanza stessa. PACELLI: Se si volesse sintetizzare il tuo discorso si potrebbe dire che gli equilibri internazionali e la necessità di garantire tutti fu la ragione fondante dei Governi che si successero nel tempo fino alla Presidenza Ingrao: la convention ad excludendum servì  per rassicurare gli alleati ma in realtà non c’era  mai stata. FORMICA: Non è che non ci sia mai stata: non è mai avvenuta nella sua forma più pienamente realizzabile. Nella carta costituzionale ci sono due principi fondamentali: è sancita la natura antifascista della Repubblica, che impedisce che il fascismo, le organizzazioni fasciste, il partito fascista,  possano tornare, ma al tempo stesso si stabilisce che le idee fasciste debbano  essere rispettate, tanto è vero che in una norma transitoria della carta costituzionale fu stabilito che la limitazione del diritto di elettorato attivo e passivo di coloro che avevano avuto parte nel fascismo valeva solo per cinque anni. In tal modo non è stato impedito di avere idee di carattere fascista o sovversive, anarchiche, rivoluzionarie. La libertà nella Costituzione è totale: è l’organizzazione di chi ha queste idee che è messa in discussione. La Costituzione stabilisce che il nostro valore fondativo è la Repubblica. E’ una forma di Stato che non è modificabile, però le idee monarchiche hanno diritto di cittadinanza. Non puoi però pretendere che si torni alla monarchia. Nella Costituzione  ci sono due principi: la base valoriale antifascista e la irrevocabilità del dogma Repubblica: la forma di stato non è revocabile. Proponiamo la …

UN 2 GIUGNO PER LA DEMOCRAZIA REPUBBLICANA

Immagine di copertina fonte Quirinale.it di Franco Astengo | La democrazia repubblicana nata dalla Resistenza e inverata dalla Costituzione si trova sotto attacco:  succede ancora una volta com’è capitato anche in tempi recenti. La minaccia di oggi è molto pesante, alimentata da pulsioni razziste di natura di vera e propria destra estrema e dall’idea che dall’”antipolitica” potesse sorgere un nuovo sistema nel quale le grandi contraddizioni sociali fossero cancellate e sarebbe stato possibile governare “per il popolo” saltando quelle intermediazioni politiche e sociali che rappresentano, invece, un’assoluta necessità della democrazia. Di nuovo allora, proprio in quest’occasione, è il caso di entrare nel merito del significato profondo di ciò che accadde il 2 giugno 1946, snodo decisivo della nostra vita democratica: punto conclusivo della Resistenza e di principio per il progetto della Costituzione. La nascita della Repubblica Italiana ha rappresentato un evento preciso e datato, e occorre studiarlo valorizzando il fatto che si trattò di una scelta affidata direttamente alle elettrici e agli elettori, dopo lunghi anni in cui gli uomini non avevano esercitato il diritto di voto e le donne non erano mai state chiamate alle urne. La valutazione circa il valore della scelta referendaria va quindi inserita, oggi a oltre settant’anni di distanza, in un contesto ampio dando maggior rilievo di quanto non ne sia stato dato in precedenza agli aspetti istituzionali legati allo strumento usato del referendum. In quel voto furono investite, da entrambe le parti quella repubblicana come quella monarchica, grandi cariche emotive popolari la cui presenza non può essere trascurata nel tentativo di comprensione storica del fatto. E’ cresciuta nel corso degli anni l’attenzione al vissuto degli italiani negli anni della nascita della Repubblica, alle loro condizioni di vita sociale ed economica ed è cresciuta anche l’attenzione verso i “vinti” (spesso nella deteriore dimensione del “revisionismo storico” che pure va analizzato come fenomeno sociale e culturale). Accenniamo, anzitutto, agli aspetti istituzionali della scelta del 2 giugno 1946, perché fu proprio che attraverso la scelta del Referendum l’Italia voltò pagina davvero senza alcuna possibilità di una sorta di “ripresa di continuità” con l’Italia dei notabili liberali pre-fascisti. La Repubblica è dunque nata in Italia a seguito di un referendum, con uno strumento per sua natura bipolare. Forse la predominante attenzione, in molte ricostruzioni riferite agli anni successivi, alla “consociazione tramite la partitocrazia” come elemento caratterizzante del sistema politico italiano, ha reso meno sensibili storici e analisti politici al momento fortemente bipolare rappresentato dal referendum istituzionale. Ma, paradossalmente, quella scelta bipolare, in cui una parte perse e l’altra ha vinse senza possibilità di compromessi, è stata il frutto di un compromesso dell’Italia Repubblicana con l’Italia monarchica. Lo strumento referendario, per sua natura bipolare e non consociativo e nel caso specifico di tipo propositivo, servì essenzialmente alla difficile saldatura tra l’Italia repubblicana che stava nascendo e l’Italia monarchica, garantendo il consenso popolare al nuovo ordinamento. Una risposta necessaria alla realtà di allora, una realtà nella quale c’erano tante cose e tanti vissuti contraddittori difficilmente compatibili: c’erano le forti appartenenze popolari che mobilitavano il Paese, più che in ogni altro momento della sua storia, ma lo dividevano anche in profondità; c’era l’esperienza della Resistenza, con i suoi eroismi e le sue crudeltà; c’era la frattura creata dalla Repubblica sociale. Tornando alla valutazione relativa alla realtà istituzionale rappresentata, in quel momento, dal referendum si può dunque affermare che, forse più dell’elezione dell’Assemblea Costituente, proprio il referendum servì a realizzare una nuova saldatura, a creare le condizioni per una nuova cittadinanza per tutti gli italiani. La conferma di ciò ci deriva anche da un’analisi riguardante la campagna elettorale per l’Assemblea Costituente; nella stessa scelta dei candidati, da parte dei partiti, dove prevalse il criterio più propriamente “politico“. La scelta istituzionale divenne così per i partiti che la sostennero con accanimento, quelli della sinistra comunista, socialista, laica un’occasione per porre i problemi di contenuto e non una mera scelta di bandiera. Emerge, così, un’ulteriore linea di ricerca: quella del ruolo dei partiti come fattori di educazione politica, e di riflesso, della condizione del cittadino italiano nell’esercizio della sovranità popolare e più concretamente del diritto di voto: il problema della sua informazione, della sua educazione alla politica, dei condizionamenti sulle sue scelte e quindi della libertà di voto. Nelle contraddizioni di quella fase si può parlare del ruolo dei partiti come di un fattore fondamentale del recupero di un senso della cittadinanza, dell’adesione ai partiti come forma personale di appartenenza alla collettività politica nazionale: si determinò così il modo di essere cittadino dalle origini della Repubblica almeno per tutto il quarantennio successivo. Una memoria da non disperdere e un monito per l’oggi nel momento in cui si tende a spezzare quel dato costitutivo di una cittadinanza politicamente attiva per ridurla a un servizio passivo di semplice indiscriminata raccolta del consenso ed emarginare, politicamente e socialmente, quanti intendono opporsi a questo progetto: creando così una rottura profonda nella realtà della vita civile del Paese. Per questo motivo vale la pena ricordare il 2 Giugno al di fuori della ripetitività delle celebrazioni ufficiali, facendo della memoria il punto fondamentale di opposizione a un progetto di svolta autoritaria che sta ponendo in forte discussione le fondamenta della nostra convivenza politica e sociale. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

PAOLO ROSSI, CHE FU UCCISO 55 ANNI FA ALLA SAPIENZA

Ero con Paolo Rossi quando sulle scalinate di Lettere alla Sapienza fu aggredito e ucciso dai fascisti. Aveva 19 anni. Poi conobbi il padre, pittore, che aveva fatto il partigiano nell’appennino umbro. Mi regalò questa foto che conservo con amore da più di 50 anni. [Prof. Franco Maria Fontana] di Vittorio Emiliani | Non è soltanto per affetto che va ricordato, a 50 anni dalla scomparsa, il ventenne studente di architettura Paolo Rossi, cattolico, non violento, iscritto alla Federazione Giovanile Socialista e all’Unione Goliardica, colpito con un pugno di ferro da aggressori fascisti alla Sapienza e poi precipitato da un muro alto cinque metri. Ma anche per rammentare a tanti giovani inconsapevoli quanto fu difficile conquistare negli Atenei, pur in pieno centrosinistra, spazi di libertà, di discussione pacifica. I genitori di Paolo, entrambi pittori, erano stati nella Resistenza trasmettendo ai figli quel messaggio. Non vollero sapere chi fossero gli autori di quel delitto certo non internazionale. Pretesero però che una sentenza spazzasse via (e così fu) le menzogne della Polizia che, rimasta a guardare l’ennesima aggressione «nera», aveva attribuito la morte ad una malattia del ragazzo (invece sanissimo, uno sportivo, un alpinista). Vergogna subito avallata da un rettore di antica fede mussoliniana, l’economista Giuseppe Ugo Papi, che stava tollerando una serie agghiacciante di atti squadristici, il letterato Walter Binni non volle neppure pronunciarne il nome nell’appassionata orazione funebre, mentre 51 professori di ruolo offrirono al presidente della Repubblica le loro cattedre rifiutandosi di insegnare «in un’atmosfera appestata dal teppismo tollerato e quindi indirettamente istigato», scrisse un anno dopo Bruno Zevi, «dalle massime autorità accademiche». «La mia unica colpa è quella di aver combattuto, sempre, i docenti di sinistra», protestò protervo Papi quando fu rimosso. I funerali furono imponenti. Vicino ai famigliari, Pietro Nenni al quale i lager nazisti avevano portato via la figlia «Vivà». Ferruccio Parri aveva parlato al sit-in degli studenti che si apprestavano ad occupare Lettere e altre facoltà rischiando l’espulsione da tutti gli Atenei. Anche Paolo VI ebbe parole commosse di cordoglio. Nell’ultima fotografia si vede chiaramente Paolo trattenere un compagno che vuol reagire duramente alla violenza squadrista. Alcuni degli aggressori dovevano essere implicati, tre anni più tardi, nelle «trame nere» con le quali si cercò di scardinare lo Stato democratico. Anche per questo Paolo Rossi non va dimenticato. Anzi andrà ricordato, con passione civile ogni 27 aprile, almeno con un fiore, primo caduto di una nuova Resistenza romana. Fonte: Corriere della Sera Paolo Rossi è ricordato nella canzone Giulio Cesare di Antonello Venditti, in cui una strofa recita, in riferimento all’anno 1966, “Paolo Rossi era un ragazzo come noi”. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

PERCHE’ C’E’ ANCORA LA MINACCIA FASCISTA

Interventi di Riccardo Lombardi, Aldo Aniasi, Leo Valiani, Giorgio Amendola Trent’anni sono passati dalla conclusione vittoriosa della lotta di liberazione. La democrazia italiana in questo periodo è cresciuta ma si trova di fronte a gravi problemi di fondo che ne investono la struttura e che non sono soltanto conseguenza della difficile situazione economica. Perché le conquiste ottenute con la Resistenza e con l’eliminazione del regime fascista risultano oggi minacciate? Quali sono i motivi: della virulenta ripresa neofascista alla quale da tempo assistiamo? Sono stati commessi errori politici da parte delle forze che componevano, lo schieramento antifascistà? Abbiamo rivolta questa domanda ai compagni Riccardo Lombardi e Aldo Aniasi, allo storico Leo Valiani, e a Giorgio Amendola del Pci. Ecco le loro risposte. Riccardo Lombardi La conclusione vittoriosa della Resistenza, non poteva instaurare, «ipso facto» la democrazia, ma solo inaugurare, con un evento decisivo e irreversibile, un processo bisognoso di tempi lunghi per potersi pienamente dispiegare. Era certamente illusorio supporre che con quell’evento fossero estirpate le radici che avevano fatto proliferare la mala pianta; ma non fu illusione porre le premesse perché ciò potesse avvenire. A mio giudizio la sconfitta e l’eliminazione del «regime fascista» non significò, né lo poté, la sconfitta « del fascismo » cioè di quel grumo vischioso di debilità culturali, di frustrazione, di violenza che sedimenta in tutte le società (non soltanto in quelle arretrate) come forza subalterna disponibile per ogni disegno eversivo nei momenti di forte tensione innovativa. E’ ciò che si è verificato puntualmente in Italia, ove il fascismo, per lunghi anni fenomeno quasi folcloristico pur nel suo minaccioso potenziale eversivo, ha sviluppato una carica aggressiva in concomitanza e come reazione alla grande spinta democratica dalla fine degli anni 60 senza esprimere altro disegno che il servilismo abietto verso altrui disegni — interni e internazionali che fossero — purché disegno retrivo, conservatore reazionario. La lotta contro il fascismo non può perciò ridursi alle pur necessarie misure di polizia. Essa coincide con la lotta per l’avanzamento della democrazia, ciò che in Italia almeno è indistinguibile da una lotta coerente che punti a sbocchi socialisti. E’ questa la ragione di una sorta di diffidenza verso manifestazioni antifasciste aventi un rituale taglio unitario troppo rivolto al passato più che al presepte per evitare di porre l’accento più sulle imprese di provocazione e di violenza del fascismo che, non sulla sua natura eversiva anche quando per avventura alla violenza non ricorre. Certamente errori, da parte delle forze politiche della Resistenza, furono compiuti e si continua a compierli. Superfluo ricordare le conseguenze di una epurazione ridicola e del resto difficile una volta consolidato il principio e la pratica della continuità dello Stato. Superfluo ricordare la sciagurata discriminazione antisocialista e anticomunista che ha deliberatamente inquinato di personale dotato di vocazione obiettivamente e spesso dichiaratamente fascista le strutture essenziali dello Stato. Superfluo ricordare la tolleranza accordata ad organizzazioni fasciste considerate come riserva di forze utilizzabili contro una supposta eversione di segno opposto. Sono questi non errori, ma colpe di cui scontiamo oggi le conseguenze: senza di essi infatti la minaccia fascista non sarebbe stata di certo cancellata, ma essa non avrebbe mai potuto impunemente assumere le forme di terrorismo organizzato di questi anni. Aldo Aniasi Le domande che ci pone l’ «Avanti!» nel trentesimo anniversario della conclusione vittoriosa della lotta di liberazione sono tutte in negativo: esse pongono l’accento sulla Resistenza incompiuta, sulla Costituzione inattuata, sulle responsabilità per l’attuale stato di cose. Io vorrei ricordare perché nel ’43 prendemmo le armi contro i fascisti e gli invasori nazisti. Quella fu una scelta, necessaria e giusta per far riacquistare all’Italia la libertà e per porre su condizioni nuove la crescita dei nostro paese; e la caratteristica aperta di rivoluzione nazionale, popolare della Resistenza fu un motivo di grande soddisfazione per gli italiani oppressi da vent’anni di dittatura e può essere considerato oggi un richiamo alle forze unitarie che diedero vita alla stagione democratica che di lì a qualche anno si sarebbe concretizzata nella Repubblica e nella Costituzione. Fu allora, nell’occasione del confronto sulla Carta costituzionale, che noi socialisti riprendemmo e impostammo un discorso preciso sull’indipendenza nazionale, sulle libertà e sui diritti civili, sul diritto allo studio ed al lavoro, sulla democrazia nelle Istituzioni, sulle autonomie locali. Questa impostazione di fondo che a noi derivava da una duplice politica, è stato il filo rosso conduttore delle nostre battaglie di questi trent’anni di lotte. Lotte che hanno chiamato spesso in prima fila, in difesa delle istituzioni e delle conquiste democratiche della lotta partigiana, proprio quelle forze che con più impegno si erano battute per la rinascita del paese nella libertà e nella democrazia: ma lotte spesso dure, che sono costate sangue di lavoratori, che ci impongono certamente, a trent’anni dalla Liberazione, un ripensamento critico di quanto in questo arco di tempo è accaduto. Abbiamo sbagliato, non abbiamo capito, abbiamo sottovalutato? Le forze (o meglio, parte delle forze) che componevano nel 1945 lo schieramento antifascista hanno commesso degli errori? Non si tratta di mandare, condannare o assolvere, secondo immagini dantesche, questa o quella forza politica: certo é che ci sono delle responsabilità precise per quanto non è stato realizzato in questi anni, e noi le abbiamo denunciate queste responsabilità, Ma quando esse facevano riferimento a responsabilità nazIonali (DC, destre, capitalismo nazionale, pubblico e privato) sta quando esse avevano intrecci con il capitalismo internazionale. Ma un ripensamento critico e positivo di quanto non è stato fatto, dei pericoli che corra no le istituzioni democratiche, della ripresa neofascista ci impone di guardare anche ai limiti della nostra azione: alla sopravvalutazione del «vento del nord» rispetto alle forze conservatrici, al ritardo con cui ci siamo collocati rispetto al movimento. E la prova, le prove più eclatanti di questi ritardi delle forze politiche rispetto alle esigenze, alla maturazione delle masse popolari ce le hanno date nel 1968 e nel 1969 gli operai delle fabbriche e gli studenti delle università: fu un campanello di allarme quello, un invito a riguardare al passato, uno stimolo a battersi con rinnovato impegno per portare …

CIAO, CINO DA MONTE

Il giuramento di un Partigiano: Io, decano dei partigiani italiani – «Alzo ancora una volta con la mano la Costituzione Italiana del 1948 dicendo: “Io giuro ancora su questa ed a quanto sancisce credo”.» – Romano Marchetti (1913-2019) di Andrea Ermano – direttore de «L’Avvenire dei Lavoratori» | Prendendo commiato da Romano Marchetti (1913-2019), nome di battaglia “Cino Da Monte”, decano dei partigiani italiani. Era “sazio di giorni” si legge attorno a certe figure bibliche la cui fuoriuscita dal ‘tempo’ vuol essere presentata come lo spegnersi naturale, in tarda età, di un giusto. Sazio di giorni mi pare un’espressione adeguata alla notizia, triste, della scomparsa di Romano Marchetti, che aveva compiuto centosei anni nel gennaio scorso ed era il decano dei Partigiani italiani, nome di battaglia “Cino Da Monte”. Lo avevo conosciuto verso la metà degli anni Settanta, io ventenne, lui pensionato di fresco. Ora non mi va di confidare a un “coccodrillo” giornalistico la lunga sequenza di convergenze e divergenze e incroci e intrecci di cui si sostanzia un’amicizia durata più di quattro decenni, amicizia che per altro condivido con tante altre persone, vive e morte, compagne e compagni, nei confronti delle quali e dei quali Romano è stato a volte mite, a volte severo, sempre generoso di sé. Qui devo dire solo che senza di lui non mi sarei caricato del mio fardello, quello che la vita mi ha riservato nel compito di coordinare le attività del “Centro Estero socialista” di Zurigo. Senza Marchetti “Cino Da Monte” non avrei compreso, percepito e saputo sentire, con l’intensità necessaria, il significato del “Centro Estero”, che in anni ormai lontanissimi, ma non dimenticati, aveva ispirato l’opposizione al ‘mussolinismo’ fin dai tempi della “Guerra alla guerra” per sfociare dopo l’8 settembre 1943 nella Resistenza contro la barbarie nazifascista. Dal punto di vista storico e in tema di Resistenza italiana, la cultura politica di cui “Centro Estero” di Zurigo a trazione siloniana è stato punto di riferimento indiscusso si è concretizzata non da ultimo nelle repubbliche partigiane dell’Ossola e della Carnia, nonché nella “Brigata Maiella”, che era guidata da Ettore Troilo e che fu l’unica formazione partigiana decorata di medaglia d’oro al valore militare alla bandiera. Durante l’autunno del 1944 il collegamento del “Centro Estero” con la Repubblica dell’Ossola veniva mantenuto tramite i “passatori” che dalla Svizzera importavano armi e viveri nella Zona Libera. Come per la “Brigata Maiella” anche il coordinamento delle operazioni in sostegno dell’Ossola fu assunto da due socialisti di tradizione turatiana: Luigi Zappelli (1886/1948), che era stato sindaco di Ver­bania prima del fascismo e che ritornerà a esserlo dopo la Liberazione, e Gu­gliel­mo Canevascini (1886/1965), che fu Consigliere di Stato ticinese dal 1922 al 1963. Con la Repubblica Libera della Carnia si trattò di un collegamento più ideale che materiale. Il “contagio” partì da Fermo Solari (1900/1988), nome di battaglia “Somma”. Solari discendeva da una antica famiglia carnica di orologiai e si era diplomato ingegnere a Friburgo in Svizzera nel 1926. Fu dal 1942 il principale esponente friulano del Partito d’Azione, divenne poi successore di Ferruccio Parri quale vicecomandante generale del Corpo Volontari della Libertà e nel 1947 fu eletto alla Costituente. Con il “sanguigno” Solari “Somma” entra in contatto Romano Marchetti a Udine nel 1943: «Ho fatto la guerra in Grecia e in Albania come ufficiale degli Alpini, e ne sono uscito… “sedentario”, sia per delle brutte ferite alle gambe sia a causa del tifo, che mi aveva portato in fin di vita. Vengo richiamato dopo un anno circa di convalescenza e sono alla caserma di Udine dall’ottobre del 1942 fino all’inizio del ’43. Verso dicembre o gennaio, un giorno mi trovo nella compagnia deposito cui ero stato assegnato insieme al direttore della casa editrice Idea, Nino Del Bianco; a un certo punto dico “la guerra è perduta, cosa possiamo fare per questa Italia?”. Lui tace, ma l’indomani o dopo qualche giorno mi porta un opuscolo. Del Bianco era già aggregato ad un piccolo gruppo in un certo modo diretto da Fermo Solari, che intendeva prepararsi al fatto che l’Italia doveva ritornare alla democrazia. Fermo Solari aveva scritto l’opuscolo lì a Udine… e l’aveva firmato anagrammando il proprio nome». Così Marchetti in un’ampia intervista da lui rilasciata nel 2005 e disponibile sul sito “Carnia Libera” (vai al sito): «Mi carico di opuscoli, vengo su in Carnia e giro sia a piedi che in bicicletta creando la rete. Ogni tanto veniva da me quello che faceva altrettanto per la Garibaldi, era un reduce di Spagna: “Ugo”, Giovanni Pellizzari, di Preone. Mi attendeva fuori della Chiesa di domenica. Facevo i primi tre giorni della settimana a Udine, perché l’incarico di insegnante allo Zanon [l’Istituto per Geometri, n.d.r.] era solo per tre giorni; gli altri quattro fra Maiaso e, non so, Ovaro, Forni di Sopra, Enemonzo, Villa Santina, Comeglians, la Val Pesarina, Ravascletto, Preone; e soprattutto nella Val Chiarzò: avevo creato una rete. Non proprio una rete, ma qualcosa di simile, ha cercato di fare anche Pellizzari. Però lui aveva meno entratura, direi, mentre io conoscevo un po’ di gente: ad esempio avevo un amico a Paularo che era stato in guerra con me in Grecia, Giovanni Del Negro, oppure a Sutrio avevo preso contatti indirettamente perché conoscevo il figlio di uno di Sutrio, Enzo Moro, che abitava a Tolmezzo, ma andava su e giù. Quasi dappertutto, insomma, la rete era completa. Una delle mie basi era anche l’ambulatorio di Aulo Magrini, in Val Pesarina: mi mettevo in coda come fossi un paziente, e gli portavo gli opuscoli. Un altro contatto era Marco Raber, a Comeglians, che era stato nella milizia forestale». Costruita la “rete”, Marchetti assume la funzione di “Delegato politico” della Brigata Osoppo. Il suo principale merito storico sta senza dubbio nell’unificazione del comando con la Brigata Garibaldi in Carnia: «L’idea di riunire Osoppo e Garibaldi era anche dei comunisti. Molto spesso “Andrea” Mario Lizzero e “Ninci”, l’uno commissario e l’altro comandante di tutte le formazioni del Friuli, me l’avevano anche detto. Ma non occorreva che me lo dicessero: …

INTERVISTA DI ORIANA FALLACI A PIETRO NENNI (1971)

Tratto da: Oriana Fallaci, “Intervista con la storia”, Rizzoli, Milano 1977 (1994), pp. 260-284. Chiuso in una torre d’avorio che non gli si addiceva, il gran vecchio partecipava ormai scarsamente alla vita politica cui aveva dedicato tre quarti dei suoi ottant’anni e cui dette tutto ciò che può dare un uomo. Perfino una figlia, morta nel campo di sterminio di Auschwitz dopo aver scritto ai compagni francesi: “Dites à mon père que je n’ai jamais trahi ses idées”. Dite a mio padre che non ha mai tradito le sue idee. Da quella torre d’avorio, che a intervalli era la sua casa di Roma e a intervalli la sua casa di Formia, usciva solo per recarsi in Senato. Lo avevan fatto senatore a vita, e aveva accettato la carica con molte esitazioni: lui che era stato sul punto di venire eletto presidente della Repubblica. Nel Partito socialista ormai contava come una bandiera che si sventola quando fa comodo e che quando non fa più comodo si rinchiude dentro un cassetto. Non era riuscito. Aveva perduto la sua battaglia e l’aveva persa male, in amarezza e inconfessato disgusto. Uscendo dalla sala del congresso, era il 1968, lo avevano udito mormorare: “Qui Nenni non ha più amici”. Peccato. Avrebbe avuto ancora tanto da dire, da salvare. L’età gli aveva dato solo un’effigie da patriarca stanco, pel resto era in ottima forma. Si alzava ogni mattina alle sette, i giornali li leggeva pedalando sulla sua cyclette per un tempo che equivaleva al tragitto di cinque chilometri. A bocce giocava con la foga di un giovinetto: i medici lo guardavano con stupore incredulo. Ma il meglio del meglio, in quell’organismo di leone nato per non arrendersi, restava il cervello. Gli funzionava ancora come un computer. Gran parte del tempo lo passava a studiare, a scrivere. Lavorava a un libro che doveva essere la sua biografia e che, nel suo pudore a parlar di se stesso, finiva col non esserlo. Voleva intitolarlo Testimonianza di un secolo. Molti si chiedevano se, giunto all’ultimo capitolo, egli avrebbe detto ciò che ora non voleva dire o diceva senza chiarezza: cioè che il suo socialismo non era più quello di cinquant’anni fa, e neanche quello di venticinque anni fa. Era ormai un socialismo che rifiutava i dogmi, gli schemi, le formule astratte; in compenso si nutriva di fede cieca nella libertà, nella democrazia, nell’uomo. Eresie imperdonabili per un vero marxista. Se lo agguantavi sul tema, lui sviava l’argomento. O ricorreva a discorsi contorti, vaghe ammissioni che subito dopo ritirava. Ma la verità non gli sfuggiva: s’era accorto che il mondo non è retto soltanto dall’economia, che il capitalismo di Stato non è diverso dal capitalismo privato e sotto vari aspetti è ancor più dispotico perché si sottrae alle leggi della critica, del mercato, della concorrenza. S’era accorto che la dittatura del proletariato è una frase e basta, che contro il padrone Agnelli si lotta e contro il padrone Stato no: come dimostrano gli operai massacrati a Danzica e a Stettino, gli intellettuali imprigionati o messi in manicomio a Mosca e a Leningrado. “Io mi sento più a mio agio a Stoccolma che a Leningrado” diceva. Ed era la sola frase senza compromessi con cui osava interrompere la sua reticenza. S’era innamorato del socialismo svedese che non ha abolito la proprietà privata ma ha dato all’uomo più di quanto abbia dato il socialismo dottrinario e scientifico. E, forse, gli era risorto l’amore giovanile per un’anarchia interpretata come difesa del singolo. Chissà quali tormenti una simile scoperta gli era costata e gli costa. Chissà quali notti insonni, quali angosce causate da scrupolo verso coloro di cui fu maestro. Giunto al termine della sua vita, egli soffriva e soffre un dramma paragonabile al dramma dei teologi che scoprono di non creder più in Dio. O di non credere più nella Chiesa, anche se credono ancora in Dio. Alla sua lucidità, alla sua saggezza, chiesi di parlarmi e illustrarmi ciò che accade nell’Italia degli anni Settanta. E lui lo fece: con una conversazione durata più giorni e frantumata in più incontri. La sua salute non era perfetta, così lo incontravo nella sua casa di Formia, dove si recava per ogni pretesto o weekend, oppure nella sua casa di Roma che era all’ultimo piano di un edificio in piazza Adriana. Di regola parlavamo un poco al mattino, dopo che aveva fatto la sua partita a bocce, e ci interrompevamo al momento di andare a tavola. Qui mangiavamo senza fretta, aiutati da un buon vino francese, e poi lui andava a dormire. Verso le quattro o le cinque si riprendeva: lento come il suo parlare. A ogni domanda rispondeva con lentezza esasperante, staccando ogni parola dall’altra come se dettasse a una segretaria, indugiando sui punti e le virgole, ignorando il tempo dell’orologio. E il tramonto ci coglieva così, in quel procedere prolisso di frasi, di idee che tuttavia mi rapivano al punto di dimenticare d’accender la luce. Ricorderò sempre una seduta che si concluse al buio, e nessuno dei due s’era accorto che fosse sceso il buio. Eravamo nel suo studio di Formia che era una piccola stanza arredata solo con un divano letto, una scrivania, una libreria e due sedie. Entrò Pina, la sua governante, e ci sgridò: “E che? Ora si chiacchiera come i ciechi?”. Altre volte, invece, il tramonto ci colse nel suo studio di Roma che era altrettanto piccolo ma assomigliava piuttosto a un sacrario. Qui, sul divano letto, c’era un grande ritratto ad olio di sua moglie defunta e poi ci sono le fotografie di Vittoria: la figlia morta ad Auschwitz. Ma non fotografie normali, di un giorno felice: fotografie scattate al suo ingresso nel campo di sterminio, col grembiule a righe dei detenuti, il numero in basso. Una di faccia e una di profilo. Mi son sempre chiesta perché. Forse per non dimenticare mai, in nessun momento, e meno che mai al momento di chiudere gli occhi nel sonno e riaprirli, il sacrificio di sua figlia? Nello studio di …

DISCORSO DI FRANÇOIS MITTERAND AL CONGRESSO DI EPINAY – 13 giugno 1971

Traduzione a cura di Maria G. Vitali-Volant | Cari compagni, Strutturerò il mio intervento intorno a tre punti: per cominciare: Il perché dell’essere qui. In seguito: che faremo dell’unità? Infine, come realizzarla? Perchè siamo qui? Perché siamo socialisti. E’ presto detto! Non voglio sciorinarvi le definizioni. Questo suppone almeno, qualunque sia la scelta di ognuno, un comportamento di rifiuto istintivo o ragionato – istintivo e ragionato, le leggi della ragione sono anche le leggi del socialismo –, il senso della società intorno a tutte le forme di liberazione, di cui sicuramente la prima, che sovrasta tutte le altre, è la liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo nelle strutture economiche e che questa liberazione si sviluppa attraverso la liberazione culturale.Ma oggi non siamo qui per tenere dei corsi e ci sarebbero professori migliori di me. Cerco solo di capire perché oggi, in questa sala, sono presenti tante donne e tanti uomini.Se si tratta di una festa, ci sto con piacere! Se è per una cerimonia, già siamo sul più noioso, ma mi sta bene. Se è per un rito, le cose si guastano. Se è con il sentimento che siamo dei pionieri, i primi, lo sparuto drappello di guida sul resto della truppa, se abbiamo il sentimento che per la prima volta da 65 anni infine ci stiamo riunendo – eccoci è fatta – , unificando – e lo credo –, al di là delle nostre persone e dei nostri gruppi e tendenze di tutte le correnti del Socialismo, allora ne vale la pena! Le correnti: non voglio neanche di queste fare la lista. Ma per lo meno constato che i Marxisti sono numerosi, i veri e i falsi, che esiste una tradizione prudoniana abbondante, che i personalisti di Emmanuel Mounier sono, colgo l’occasione per dirlo, Dio sia lodato, fra di noi… e che forse per la prima volta quello che succede in seno al mondo cristiano, e particolarmente la Chiesa cattolica, può significare, senza che cadiamo ancora nell’illusione delle grandi masse, l’appuntamento in cui hanno sperato tutti quelli che da almeno 25 anni, e lo hanno detto, sono andati in questa direzione. Quelli che approvo, quelli che disapprovo, quelli che considero anche senza saperlo, o che si chiedono sempre, ignorandolo, se sono loro amico o il loro avversario, tutti hanno auspicato questo momento.Ebbene, se ci siamo riuniti questa mattina, è la festa per noi tutti, noi tutti che siamo venuti per costruire il socialismo. Che faremo dell’unità? Prima di tutto: esistere, semplicemente esistere fisicamente. Esistere significa le strutture, il loro sviluppo, il militantismo – senza parlare di personalità più importanti di altre, perché è sempre molto noioso essere considerati come tali in un congresso di questo tipo – Siamo dei militanti? Non so se io lo sono, quello che so è che passo la mia vita con i miei compagni a cercare di fare esistere fisicamente la nostra organizzazione politica. E questo, non importano le sfumature. Perché noi siamo abbastanza divisi, noi anche, ma siamo tutti dei buoni compagni che stanno cercando di costruire insieme nel nostro piccolo dipartimento, piccolo o medio, non so, il socialismo in azione.E’ per questo che abbiamo preso delle posizioni favorevoli a un certo numero di temi di decentralizzazione, di collegialità di apertura. L’abbiamo detto abbastanza, non ripeterò quello che è stato detto in due giorni, in maniera eccellente, da questa tribuna. Però permettetemi di insistere su questo punto, bisogna anche che noi si esista intellettualmente, attraverso un più ricco apporto teorico e, aggiungerei, per l’idea che me ne faccio, spiritualmente, attraverso una migliore conoscenza dell’uomo e forse anche attraverso una più profonda riflessione sul suo destino nel tempo della sua vita.Questo approfondimento fa che io creda che la mozione B – mi impiccio con le lettere, anche rispetto alla mozione che voto talvolta mi sbaglio – sia la migliore; quella che chiede che la formazione in seno al partito conosca degli sviluppi considerevoli. Esistere, organizzarsi, battersi su ogni tipo di terreno, l’azione del militare politico; mi porto, se volete, volontario per essere il militante che voi chiedete: uno fra 90.000 oggi, uno fra 200.000 domani, uno fra milioni di socialisti che saranno, dopodomani, quelli che conquisteranno la società francese. Allora, cosa faremo con l’unità? E soprattutto, come lo faremo? Ebbene, adesso che il nostro partito esiste, vorrei che la sua missione sia prima di tutto quella di intraprendere un’azione di conquista. In termini un pò tecnici, questo si chiama vocazione maggioritaria.Sono per la vocazione maggioritaria di questo partito. Desidero che esso prenda il potere… Ecco, già presente, il peccato di elettoralismo! Comincio male. Vorrei che fossimo disposti a considerare che la trasformazione della nostra società cominci con la presa di potere, ma essa comincia prima con la presa di coscienza di noi stessi e la presa di coscienza delle masse. Però bisogna anche passare per la conquista del potere. La vocazione “gruppettara”, non è la mia né quella dei compagni che voteranno con me la stessa mozione.Ma conquistare cosa? Conquistare dove? Prima di tutto gli altri socialisti, l’abbiamo già detto! Poi, penso, – come tutto questo mi classifica non so ancora – penso che bisogna prima di tutto ragionare del come conquistare o riconquistare il terreno perduto sui comunisti. Penso che non sia normale che oggi ci siano 5 milioni, e forse anche più, di Francesi uomini e donne che scelgono il Partito comunista riguardo alle lotte e anche sul terreno elettorale, perché hanno il sentimento che sia questo partito che difende i loro interessi legittimi, ovvero la loro vita.Considero che uno dei compiti di conquista del Partito socialista sia di essere, con modestia oggi, lasciando andare le “parole verbali” come dicono i diplomatici, e senza voler fare effetto al congresso, il partito il più rappresentativo di quelli di cui abbiamo parlato prima. Questo non si farà, scusatemi se ve lo dico, se non al prezzo di azioni concrete.Lussante ha ragione, parlo di lui perché ha parlato poco prima di me, ed è su questo terreno che siamo troppo assenti, è su questo terreno …

A 100 ANNI DA ROSA LUXEMBURG

di Nicolino Corrado | Il 15 gennaio 1919, vittima di un’esecuzione sommaria, si spegneva l’ardente esistenza di Rosa Luxemburg. Ebrea nata in Polonia, militò dal 1898 nella socialdemocrazia tedesca, che lasciò nel 1915, in polemica con la decisione di appoggiare l’entrata della Germania nella prima guerra mondiale, per fondare con Karl Liebknecht la “Spartakusbund” (Lega di Spartaco). L’elaborazione teorica Fu la più originale e profonda tra i teorici del marxismo “dopo Marx”. La sua analisi è concentrata sulle nuove forme che ha assunto il capitalismo con il passaggio di secolo. E’ l’epoca dell’imperialismo, dell’espansione coloniale e della formazione dei monopoli.  Secondo la Luxemburg, questa è la fase più matura del capitalismo, quella che lo porterà al suo crollo: l’imperialismo conquista sempre nuovi mercati nei paesi che non sono ancora arrivati al capitalismo, ma questa espansione giunge inevitabilmente a un limite invalicabile; ciò crea le condizioni della crisi definitiva del capitalismo e la transizione, non necessaria ma possibile, dal capitalismo al socialismo, che può avvenire non attraverso la via parlamentare, ma solo con la rivoluzione proletaria (“L’accumulazione del capitale”, 1913). Il marxismo di Rosa Luxemburg si contrappone sia a quello di Karl Kautsky (detto per la sua autorevolezza dottrinaria “il papa rosso”) sia a quello revisionistico di Eduard Bernstein. Rispetto a Kautsky, pur ritenendo inevitabile il crollo del capitalismo, non crede nell’inevitabilità del socialismo, che rimane una delle possibilità oggettive della storia; quando il capitalismo sarà crollato, la scelta sarà tra socialismo e distruzione della civiltà; quindi, l’alternativa sarà “socialismo o barbarie”, secondo la sua celebre parola d’ordine (“Juniusbroschure”, 1915). Kautsky è accusato di considerare il rapporto tra le riforme e la rivoluzione in modo meccanico, con la conseguenza che la meta finale del socialismo resta disgiunta dall’azione politica di tutti i giorni della classe operaia. Se il fine del socialismo viene collocato in un futuro indeterminato, la classe operaia non lotterà per far cadere il capitalismo e rimarrà rinchiusa in una visione fatalista e attendista della transizione alla società socialista. La Luxemburg respinge decisamente anche le tesi di Bernstein, qualificandole come “opportunismo”: le riforme non sono da respingere “a priori”, rappresentando “un pezzo di socialismo” ed anche una “scuola di socialismo”, se non viene spezzato il rapporto dialettico che deve legarle alla “meta finale”, la rivoluzione, che il revisionismo ha cancellato, elaborando una dottrina socialista adatta ai ceti piccolo-borghesi. Nella Germania post-bellica Dopo aver trascorso per la maggior parte in carcere gli anni della prima guerra mondiale a causa della sua propaganda pacifista, Rosa Luxemburg viene liberata nell’ottobre del 1918 con la sconfitta tedesca e riprende l’attività politica nella “Spartakusbund”, nella nuova realtà della Germania post-bellica. La Germania sconfitta è in preda al caos. Moti insurrezionali di soldati e operai esplodono in molte città; unità militari ancora in armi, fedeli solo ai loro comandanti, scorrazzano per il paese. Il potere legale, dopo l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II il 9 novembre 1918 era stato consegnato dall’ultimo cancelliere imperiale, Von Baden, nelle mani del socialdemocratico Friedrich Ebert, presidente del Consiglio dei commissari del popolo, composto esclusivamente da socialisti. E’ il periodo della cosiddetta “rivoluzione di novembre”. Ma nelle città il potere reale era in mano ai consigli degli operai e dei soldati, che occupavano industrie e operavano requisizioni di cibo da distribuire alla popolazione affamata; mancava, invece, il sostegno delle masse contadine, che rimasero in maggioranza ostili ai movimenti rivoluzionari delle città. Dopo la smobilitazione dell’esercito, la MSPD (socialdemocrazia maggioritaria) era l’unica grande forza organizzata presente in tutto il paese. I leaders socialdemocratici erano contrari a una rivoluzione di tipo sovietico, di cui era evidente la deriva terroristica e totalitaria (Ebert dichiarò che non voleva diventare “il Kerensky tedesco”) ed erano favorevoli a una democratizzazione del sistema politico nella cornice di istituzioni parlamentari. Si arrivò così a un compromesso fra i capi della MSPD e lo stato maggiore dell’esercito ex imperiale (guidato dai generali Hindenburg e Ludendorff), di tendenze conservatrici e allarmato per la situazione dell’ordine pubblico, che dichiarò la propria lealtà alla repubblica. Friedrich Ebert, leader della MSPD, partito di maggioranza relativa, sa che la borghesia tedesca è molto tiepida verso il suo governo e che potenti forze reazionarie sono ostili alla repubblica. Perciò, vuole costituire al più presto un regime parlamentare aperto alle richieste socialiste. Gli spartachisti, invece, si opponevano alla convocazione dell’Assemblea Costituente e si battevano per la Repubblica dei Consigli, visti come elementi di base di una nuova “democrazia socialista”. Il movimento operaio é diviso: esistono due partiti socialdemocratici (quello maggioritario, la MSPD, e quello indipendente, l’USPD, la frazione di sinistra staccatasi dalla SPD nel 1917) e una galassia di gruppi radicali tra cui emerge la “Spartkusbund”. Il 9 novembre 1918, in realtà, vengono proclamate due repubbliche tedesche. Una ufficiale, da una finestra del Reichstag, da parte di Philipp Scheidemann, deputato della MSPD e già ministro del governo Von Baden, che ha come modello lo Stato costituzionale e di diritto; l’altra, la “libera repubblica socialista di Germania”, è proclamata nella piazza del Castello di Berlino, dallo spartachista Karl Liebknecht: in essa i tre poteri esecutivo, legislativo e giudiziario sarebbero stati assorbiti, sul modello dei “soviet”, dai Consigli degli operai e dei soldati. La scelta viene compiuta in occasione del Congresso nazionale dei Consigli degli operai e dei soldati, svoltosi a Berlino il 19 dicembre 1918, in cui i socialdemocratici sono in maggioranza, che indice le elezioni dell’Assemblea Costituente, respingendo con 344 voti contro 98 la proposta alternativa di costituire subito una repubblica socialista fondata sui Consigli. La data delle elezioni per l’Assemblea che si riunirà a Weimar è fissata al 19 gennaio1919. La “Spartkusbund” il 30 dicembre 1918 si costituisce in Partito Comunista Tedesco (KPD). Il nuovo partito è deciso a boicottare le elezioni del 19 gennaio 1919, collocandosi in una prospettiva rivoluzionaria. La situazione precipitò tra il 5 e il 6 gennaio 1919: centinaia di migliaia di berlinesi manifestarono contro la destituzione del capo della polizia della capitale, vicino ai gruppi radicali. Il gruppo dirigente comunista decise, a maggioranza, di cogliere l’occasione e di incitare, con …