PIETRO NENNI, IL RICORDO DI RINO FORMICA

di Rino Formica | Era il 2 giugno 1960, festa della Repubblica. Si era nel pieno della crisi del Governo Tambroni e Nenni convocò il Comitato centrale del Partito per offrire alla DC una soluzione democratica ai rischi di una drammatica involuzione politica. Fu durante quel Comitato centrale che Raniero Panzieri, il leader teorico del movimentismo, interruppe le conclusioni di Nenni, gli contestò la “malattia del capo” e lo accusò di voler riportare il Psi con il suo revisionismo ideologico, alla situazione pre-1921. Panzieri così si rivolse a Nenni: “Credi tu, compagno Nenni, che l’esperienza della generazione che va da te a Morandi a noi più giovani sia stata inutile?” Nenni così rispose: “No, però la sintesi che cercavamo delle due esperienze, la socialista e la comunista, non l’abbiamo trovata e tra il ’55 e il ’56 abbiamo sbattuto il muso contro le contraddizioni che credevamo di aver risolto”. Nenni attraversò il novecento, il secolo delle ideologie dense ed impietose, nella consapevolezza che i sistemi di idee hanno la forza per offrire delle visioni del mondo, ma non sempre riescono a sanare la rottura tra il dominio del totale ed il rispetto della frantumazione e dell’individuale. Fu così che Nenni accettò i vincoli delle alternative secche imposte dalle ideologie, ma seppe anche riservare all’azione il compito creativo di forzare il corso delle cose al fine di modificare l’equilibrio delle forze in campo. L’ideologia imponeva la rigidità delle parole: padrone (democrazia/dittatura, socialismo/capitalismo, mercato/pianificazione, fascismo/comunismo). Al contrario, l’azione politica manovrata e variabile serviva a ridare forma a ciò che l’ideologia deformava e mutilava. Una lucida ossessione segnò la vita di Nenni: cambiare il quadro istituzionale, mutare gli equilibri sociali, accelerare i tempi del cambiamento con il sostegno creativo del movimento.All’interno di queste coordinate Nenni individuò nel principio di unità il punto non eliminabile per dare concretezza alla lotta politica. Nenni fu unitario per l’intero corso della sua vita. Fu unitario nel ‘21-‘26 quando si battè per l’unità antifascista. Fu unitario nell’emigrazione in Francia quando approdò all’unità tra riformisti e massimalisti. Fu unitario nella sinistra con i Fronti popolari anni ’30. Fu unitario quando negli anni ’60 volle sanare la frattura di Palazzo Barberini per influire sul revisionismo comunista. I processi unitari che Nenni auspicò o fallirono in parte o non produssero gli effetti positivi sperati. A questo tormento Nenni dovette aggiungere il dramma delle lacerazioni socialiste. Le scissioni dei riformisti nel 1923, di Palazzo Barberini del 1947, del PSIUP del 1964 e dell’unificazione nel 1969. Su i processi unitari falliti e sui danni provocati dalle scissioni, le ricerche storiche sono numerose e non sempre serene e veritiere. Nella comunità degli storici del ‘900 politico, ha prevalso la tendenza militante. Essa non poteva non partire che dalla frattura più significante e lacerante del movimento socialista: la separazione nel 1921 a Livorno dei comunisti dai socialisti. Da questo evento comincia una lotta di eliminazione a sinistra che ha conosciuto momenti di tregua (la lotta antifascista, i fronti popolari, le emergenze nazionali) e che è proseguita negli anni della costruzione dello Stato repubblicano sino alla grande slavina degli anni ’90. Come riuscì Nenni a compiere il miracolo di tenere ferma la prospettiva della ricomposizione unitaria della frattura di Livorno senza ammainare la bandiera dell’autonomia di pensiero e di azione del socialismo italiano? Nenni guardava il quadro internazionale e lo proiettava su lo schermo della vita nazionale. In questa contingenza si immergeva in forma totale ma non in maniera definitiva. Restava attento ad ogni mutamento della realtà per poter spostare l’asse della sua attenzione. Angelo Tasca che conosceva la storia umana e politica di Pietro Nenni, così sintetizzò questa espressione di arte e di scienza politica: “Il matrimonio di Nenni con l’ideologia è un matrimonio di stima. Con l’azione è un matrimonio d’amore”. Se Nenni non avesse avuto questa capacità di saper legare il principio di unità alle espressioni di ribelle autonomia, non avrebbe potuto donare alla sua Patria la Repubblica, l’incontro storico di governo tra radicalità socialista e popolarismo cattolico ed una politica estera di pace fuori dalle trappole del pacifismo unilaterale. I primi 25 anni di storia repubblicana coincidono con il ciclo sempre ascendente della vita nazionale. Nell’avanzare della situazione generale del Paese c’è lo spostamento in avanti della frontiera del movimento della sinistra italiana. Il decennio 1959-1969 fu il più felice periodo della Repubblica. Esso fu segnato dall’incontro di Governo fra Moro e Nenni. Fu rotto l’incantesimo del continuismo, della lenta evoluzione e della immodificabilità del carattere nazionale. Si provò che era possibile formare una maggioranza riformista tra cattolici e socialisti; che la politica poteva guidare il processo di secolarizzazione della società e che le forze politiche erano in condizioni di liberare la società civile. Ma cosa soffocò questo processo virtuoso? Certamente le resistenze conservatrici e l’ostilità della sinistra non coinvolta, ma fu il rifiuto delle burocrazie partitiche e sindacali ad utilizzare il vento che soffiava nella società per introdurre dosi rilevanti di revisionismo nel pensiero e nella dottrina dei partiti per operare un profondo rinnovamento generazionale nelle classi dirigenti. Il pensiero vecchio fu rispolverato e la cooptazione dei fedeli sostituirono il rinnovamento radicale. Ma questa è un’altra storia. Per ora ci preme rilevare che l’incontro di due strategie (quella dell’allargamento delle basi popolari dello Stato in Moro, e quella del riscatto sociale delle masse sofferenti di Nenni) fu il momento topico della Repubblica. Solo una ostile storiografia dominante ha coperto di ombre e di polvere il periodo ’59-’69. Nenni con il suo ultimo scritto su Almanacco Socialista il 1 gennaio 1980 aveva ammonito:” L’anno ’80 in cui entriamo e il decennio che con esso si apre saranno decisivi. Tutto è in questione, tutto è posto di fronte all’alternativa di rinnovarsi o di perire”. Non possiamo conoscere il suo severo giudizio sul trentennio che abbiamo vissuto senza la Sua guida, ma riteniamo di non aver tradito la Sua grande lezione umana e politica. Tre sono i punti fermi del Suo insegnamento: 1) L’unità è una immensa risorsa, ma se è unità formale …

IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE

Nella Foto l’allora Ministro della Sanità Luigi Mariotti di Enzo Giannini | Breve compendio su obiettivi e norme di riferimento Riferimenti Legge 23 dicembre 1978, n. 833 – Istituzione del servizio sanitario nazionale in Gazz. Uff. del 28 dicembre 1978, n. 360 Decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 22 9 Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale in Suppl. ordinario alla Gazz. Uff. del 16 luglio, n. 165 Organizzazione Mondiale Sanità – World Health Report 2000 Decreto del presidente del consiglio dei ministri 12 gennaio 2017 Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502. (17A02015) in Gazz. Uff. del 18 marzo 2017 n. 65 IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE Prima della istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) il sistema assistenziale-sanitario era basato su numerosi “enti mutualistici” o “casse mutue”. Il più importante era l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie (INAM). Ciascun ente era competente per una determinata categoria di lavoratori che, con i familiari a carico, erano obbligatoriamente iscritti allo stesso, fruendo in questo modo dell’assicurazione sanitaria per provvedere alle cure mediche e ospedaliere. Tale prestazione era finanziata con i contributi versati dagli stessi lavoratori e dai loro datori di lavoro. Il diritto alla tutela della salute era quindi correlato non all’essere cittadino ma all’essere lavoratore (o suo familiare), con conseguenti casi di mancata copertura. Potevano tuttavia capitare sperequazioni tra gli stessi assistiti, a causa della disomogeneità delle prestazioni assicurate dalle varie casse mutue. Questo sistema era complessivamente e popolarmente chiamato mutua, termine che in Italia è stato utilizzato per tantissimo tempo anche dopo il suo superamento. La legge 13 marzo 1958, n. 296 – emanata durante il Governo Fanfani II – istituì per la prima volta in Italia il ministero della Sanità, scorporandolo dal ministero dell’Interno. Il primo titolare del dicastero fu Vincenzo Monaldi. Con la legge 12 febbraio 1968, n. 132 (cosiddetta “legge Mariotti”, dal nome del ministro Luigi Mariotti, esponente del Partito Socialista Italiano), fu riformato il sistema degli ospedali, fino ad allora per lo più gestiti da enti di assistenza e beneficenza, trasformandoli in enti pubblici (“enti ospedalieri”) e disciplinandone l’organizzazione, la classificazione in categorie, le funzioni, nell’ambito della programmazione nazionale e regionale, ed il finanziamento. La legge 23 dicembre 1978, n. 833 soppresse il sistema mutualistico ed istituì il “Servizio Sanitario Nazionale”, con decorrenza dal 1º luglio 1980. Come funziona il SSN Attraverso il SSN viene data attuazione all’art. 32 della Costituzione italiana, che sancisce il “diritto alla salute” di tutti gli individui. Si pone dunque come un sistema pubblico di carattere “universalistico”, tipico di uno Stato sociale, che garantisce l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini, finanziato dallo Stato stesso attraverso la fiscalità generale e le entrate dirette, percepite dalle aziende sanitarie locali con ticket sanitari (cioè delle quote con cui l’assistito contribuisce alle spese) e prestazioni a pagamento. Esso è costituito sostanzialmente dai vari servizi sanitari regionali, dagli enti e istituzioni di rilievo nazionale e dallo Stato, volti a garantire l’assistenza sanitaria ovvero la tutela o salvaguardia della salute dei cittadini, qualificata dalla legge italiana come “diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana.” Secondo una ricerca dell’OMS del 2000, l’Italia aveva il secondo sistema sanitario migliore al mondo in termini di efficienza di spesa e accesso alle cure pubbliche per i cittadini, dopo la Francia. Nel 2014, secondo una classifica elaborata da Bloomberg, risultava terza nel mondo per efficienza della spesa. In base al principio di sussidiarietà, il servizio sanitario è articolato secondo diversi livelli di responsabilità e di governo: livello centrale – lo Stato ha la responsabilità di assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute, mediante un forte sistema di garanzie, attraverso i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA); livello regionale – le Regioni hanno la responsabilità diretta della realizzazione del governo e della spesa per il raggiungimento degli obiettivi di salute del Paese. I principi del Servizio Sanitario Nazionale Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è un sistema di strutture e servizi che hanno lo scopo di garantire a tutti i cittadini, in condizioni di uguaglianza, l’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie, in attuazione dell’art.32 della Costituzione, che recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Principi fondamentali I principi fondamentali su cui si basa il SSN sin dalla sua istituzione, avvenuta con la legge istitutiva del 1978, sono l’universalità, l’uguaglianza e l’equità. Universalità Significa l’estensione delle prestazioni sanitarie a tutta la popolazione, in osservanza del nuovo concetto di salute introdotto con la legge di istituzione del SSN. La salute, a partire dal 1978, è stata intesa infatti non soltanto come bene individuale ma soprattutto come risorsa della comunità. Il SSN applica questo principio attraverso la promozione, il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, con una organizzazione capillare sul territorio nazionale, i cui servizi sono erogati dalle Aziende sanitarie locali, dalle Aziende ospedaliere e da strutture private convenzionate. Tutti garantiscono, in modo uniforme, i Livelli essenziali di assistenza (Lea) alla popolazione. Universalità Significa l’estensione delle prestazioni sanitarie a tutta la popolazione, in osservanza del nuovo concetto di salute introdotto con la legge di istituzione del SSN. La salute, a partire dal 1978, è stata intesa infatti non soltanto come bene individuale ma soprattutto come risorsa della comunità. Il SSN applica questo principio attraverso la promozione, il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, con una organizzazione capillare sul territorio nazionale, i cui servizi sono erogati dalle Aziende sanitarie locali, dalle Aziende ospedaliere e da strutture private convenzionate. Tutti garantiscono, in modo uniforme, i Livelli essenziali di assistenza (Lea) alla popolazione. Uguaglianza I cittadini devono accedere alle prestazioni del SSN …

LA BREVE E CORAGGIOSA VITA DI FANNY

di Lorenzo Spignoli | E’ il 30 agosto del 1918. La Russia ribolle ancora degli eventi scatenati dalla rivoluzione d’ottobre dell’anno precedente. Le elezioni per l’Assemblea Costituente hanno dato la maggioranza ai socialisti rivoluzionari ma i bolscevichi controllano più armati e hanno anche le idee più chiare. L’Assemblea viene sciolta ed il potere è esercitato da chi ha più determinazione e meno scrupoli. I disegni di Lenin vanno compiendosi pur se devono ogni giorno scontrarsi con una realtà caotica e violenta. Al termine di quella giornata cupa e fredda, il capo bolscevico visita la fabbrica Michelson, alla periferia di Mosca. Nei suoi grandi spazi interni tiene un infuocato comizio che termina facendo vibrare nell’aria la frase “Abbiamo una sola scelta: vittoria o morte!” Poi Lenin si avvia verso l’auto che lo attende nel cortile. Dispone di una Rolls Royce nera e di un autista ma non ha con sé guardie del corpo. Un gruppo di operai lo ferma. Hanno ancora domande da porre, vogliono altre notizie su cosa sta accadendo nel loro sterminato paese. Mentre è circondato da un grappolo di persone che subito si è ingrossato, si leva una voce femminile che lo chiama per nome. Lui si gira ed esplodono tre colpi d’arma da fuoco. Due lo colpiscono, al collo e alla spalla sinistra. Cade svenuto. Qualcuno indica una piccola donna che stringe nelle mani una borsa e un ombrello. La immobilizzano. Lenin viene caricato sull’auto che, velocemente, si dirige verso il Cremlino. I medici accorsi  tamponano le ferite. Rinunciano a estrarre i proiettili, a questo si provvederà quattro anni dopo. Lenin sopravviverà all’attentato pur se la sua salute ne sarà compromessa. Alla fabbrica arrivano gli agenti della Ceka e portano via la donna. Vanno verso la Lubjanka. Lei ha 28 anni seppur ne dimostri di più, è semicieca e tossisce di continuo. Dichiara di chiamarsi Fanny Kaplan e ammette subito di aver sparato lei a Lenin. “L’ho fatto da sola – aggiunge -. Non dirò da chi ho ottenuto il revolver. Non darò dettagli. Considero Lenin un traditore della rivoluzione. Se lui sopravviverà, la realizzazione degli ideali socialisti sarà rinviata di decenni.” Fanny, come tanti altri rivoluzionari russi, ha più nomi, fra i quali non è facile districarsi. Quello di battaglia è Dora, alcuni la conoscono come Fania Efimovna e alla  nascita era stata battezzata Feiga Chaimovna Royblat. Era nata nel 1890 a Volinsk, nell’Ucraina occidentale, da una famiglia ebrea. Il padre era insegnante, lei aveva quattro fratelli e tre sorelle. Aveva aderito giovanissima all’anarchia. Si era innamorata del terrorista anarchico Viktor Garsky. Nel 1906, a 16 anni, era stata arrestata dalla polizia zarista per aver attentato alla vita del governatore di Kiev. Assieme ad una complice aveva portato una bomba nel suo ufficio. Il governatore, però, aveva capito tutto ed era fuggito in un’altra stanza. La bomba era esplosa e lei era rimasta ferita agli occhi. Era stata poi condannata all’ergastolo. Aveva conosciuto prigioni e campi di lavoro forzato della Siberia. La prigionia le aveva regalato un peggioramento delle condizioni degli occhi e la tubercolosi, ma anche la conoscenza della reclusa Maria Spiridonova, che l’aveva convertita agli ideali del socialismo rivoluzionario. Nel 1917, quando il sistema stava ormai per crollare, era stata liberata. Tornata a casa, aveva scoperto che la sua famiglia si era trasferita negli Stati Uniti senza lasciare traccia alcuna. Era stato allora che aveva rinunciato al suo nome ed era diventata Fanny Kaplan. Si era spostata a Mosca, poi in Crimea, dove sperava di fermare la tisi e riguadagnare un po’ di vista. Qui aveva conosciuto un medico che si era preso cura di lei con gentilezza e dedizione. Da più parti si era parlato di una breve ma intensa storia d’amore fra di loro. Lui aveva 15 anni più di lei e il suo nome era Dmitrij. Era uno dei fratelli di Lenin. Fanny era tornata a Mosca e si era messa a frequentare un gruppo della sinistra socialrivoluzionaria guidato da Grigori Ivanovich Semenov. Era la primavera del 1918 e i socialisti rivoluzionarti avevano appena lasciato il governo. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato il trattato di Brest Litovsk che stabiliva la pace con gli imperi centrali. I bolscevichi l’avevano sottoscritto nonostante la contrarietà degli alleati. A Mosca Fanny aveva incontrato nuovamente Viktor, il suo primo amore, che propugnava la necessità di uccidere Lenin.. Anche il gruppo Semenov nutriva questa idea. Il 30 agosto scattò il piano. Abbiamo già detto come le cronache abbiano tramandato il tutto. Sappiamo che, nella ricostruzione fatta al momento, molti elementi potevano sollevare dubbi consistenti. L’orario dell’attentato nei verbali di polizia fu fissato alle 22,00 la Pravda scrisse alle 21,00 e l’autista di Lenin alle 23,00. In ogni caso faceva scuro e non c’erano certo le condizioni di visibilità migliori per una tiratrice semicieca che prima di allora aveva impugnato ben poche volte un revolver. Alcuni storici, negli anni successivi, hanno espresso il dubbio che a sparare sia stata un’altra donna e che Fanny si sia sacrificata assumendo la responsabilità dell’attentato. L’arma usata, una piccola Browning, non fu rinvenuta subito, ma saltò fuori a distanza di giorni. Non fu effettuata alcuna perizia balistica. I colpi esplosi erano stati 3 ma nel tamburo da 6 restavano ancora 4 proiettili intatti. Fanny fu portata in una cella del Cremlino. Alle 4,00 del mattino del 3 settembre, in un cortile interno del palazzo, senza che fosse stata emessa alcuna sentenza, fu uccisa con un colpo alla nuca mentre il motore acceso di un’auto copriva il rumore dello sparo. Il poeta di regime Demyan Bedny era stato condotto sul luogo affinché traesse ispirazione dall’esecuzione per un qualche componimento. Bedny non avrebbe mai scritto nulla sul fatto. Forse vide solo un gracile fagotto umano squassato dalla tosse che, in modo evidente, non riusciva a mettere a fuoco nulla di ciò che aveva attorno, e che andava incontro alla morte come a una liberazione. Eppure Fanny era stata una ragazza attraente, vivace e coraggiosa. Forse si sacrificò per …

ANDREA COSTA DOPO LA SCONFITTA DI DOGALI

Dichiarazioni del deputato socialista Andrea Costa alla Camera dei Deputati dopo la sconfitta di Dogali. 3 Febbraio 1887 Riproduciamo integralmente il discorso del deputato socialista Andrea Costa, con le interruzioni suscitate, nel corso della discussione parlamentare dopo la sconfitta di Dogali. In questa occasione l’opposizione al governo e le critiche alla politica coloniale furono condivise da quasi metà dei deputati; la condanna radicale di Costa rimase invece isolata (una dozzina di voti su più di trecento). Tuttavia la violenza delle interruzioni testimonia che le parole di Costa pesavano assai più per il seguito che avevano nel paese che per i pochi voti di un parlamento da cui era escluso il proletariato. «Né un uomo, né un soldo» divenne il tema dell’opposizione socialista alla politica coloniale. Il discorso è in Atti parlamentari, Discussioni della Camera, 3 febbraio 1887. Da “Il colonialismo italiano” La prima guerra d’Africa Costa Andrea. Signori! Poche e franche parole, non perché manchino gli argomenti, ma perché tengo anch’io conto delle condizioni della Camera, e capisco che in questi momenti ognuno di noi deve sforzarsi più che possa di esser breve. Fin da quando nel maggio del 1885 si discusse la politica coloniale del governo (dico del governo, perché fu incominciata e continuata all’insaputa del Parlamento, ed il Parlamento non fu chiamato se non a mettere la sabbia su ciò che si era fatto), fin d’allora, io ed alcuni amici, riconoscendo che l’Italia, l’Italia vera, l’Italia che lavora e che produce, lungi dal desiderare una politica coloniale, voleva invece rivolte tutte le sue attività al suo miglioramento agricolo ed industriale, al suo progresso morale e politico; fin da allora, dico, noi presentammo un ordine del giorno in cui, opponendoci a tutte le velleità di spedizioni africane, che ci hanno dato i bei frutti che ora vediamo, proponevamo il richiamo delle truppe nostre dall’Africa. Ora, di fronte all’avvenimento doloroso di cui diede un pallido cenno due giorni fa l’onorevole presidente del Consiglio, e per cui il cuor nostro sanguina come il vostro, di fronte a questo doloroso avvenimento, il nostro grido è lo stesso di due anni fa. Noi vi diciamo oggi, come allora: cessate da queste imprese pazze o criminose; richiamate le nostre truppe dall’Africa. E non ci lasciamo impressionare dalle frasi altisonanti di onore della bandiera, di prestigio militare, o che so io: tutta questa roba qui (Oh!oh!) è di quella che si adopera sempre per far passare la merce molte volte avariata. (Rumori a destra – Sì, sì, all’estrema sinistra). Io non ho bisogno infatti di insegnarvi la storia; voi la sapete quanto o più di me, e sapete quante volte questi argomenti siano stati adoperati per fini più o meno ignobili. La patria? Ma dove la vediamo noi nelle imprese africane? E la bandiera? La bandiera della patria la vedo sui campi di battaglia per la libertà e per la indipendenza, la vedo nelle imprese civili che fanno risalire sempre più la nazione verso le altezze dell’ideale; non la vedo, non la posso vedere nell’impresa africana. E l’onore della bandiera? Non è da questa parte che si deve render conto dell’onore della bandiera e del prestigio militare, ma dalla parte di coloro che siedono al governo o che il governo sostennero e sostengono; e davvero mal si invoca l’onore della bandiera quando, incominciando da Lissa e Custoza, questo onore è stato trascinato nel fango sino a Saati.¹ (Vive proteste a sinistra, al centro e a destra). Presidente (Con forza). Onorevole Costa, io non posso tollerare una simile affermazione; se la nostra bandiera è stata qualche volta sfortunata è stata però sempre onorata. (Vivi applausi da tutte le parti della Camera). Ascolti la voce del patriottismo, onorevole Costa! (Bene!). Costa Andrea. È appunto per patriottismo ben inteso che io parlo, giacché non credo che sia patriottico il perseverare nell’impresa d’Africa. (Vive proteste a destra). Presidente. Onorevole Costa, ella può esprimere la sua opinione, ma non offendere i sentimenti degli altri. Costa Andrea. Credo che quei signori non abbiano il diritto di pretendere che io abbia sentimenti diversi da quelli che ho. (Rumori adestra). Noi siamo altrettanto patrioti quanto loro … Voci a destra. No! No! Voci a sinistra. Sì! Sì! Costa Andrea. … e patrioti nel vero senso della parola. Giacché gli è appunto perché amiamo il nostro paese (Denegazioni a destra) che non lo vogliamo vedere impegnato in imprese pazze o criminose (Vive proteste adestra e al centro) dove, a quel che dite voi stessi, si può perdere anche l’onore … Presidente. Ella, onorevole Costa, può dire imprese avventurose non mai criminose. Del resto il patriottismo non è il monopolio di nessuno, ed io non dubito che esso sia sentimento comune a tutta la Camera. (Approvazioni). Costa Andrea. Onorevole presidente, se quei signori avesseroverso di me la stessa tolleranza che io ho verso di loro, creda bene che non si verificherebbe ciò ch’ella deplora … (Rumori). Presidente. Continui, onorevole Costa, continui il suo discorso. Costa Andrea. Risponderò ad un’altra obiezione che mi si fa,e che è la più grave, inquantoché non viene solamente da quei banchi, ma vienealtresì dai banchi dell’opposizione e pur troppo, mi duole il notarlo, anche daalcuni miei amici dell’estrema sinistra. Si dice: infine in Africa ci siamo e bisogna restarci. Noi non possiamo, dopo una sconfitta, andarcene via con le pive nel sacco! Ora, signori miei, io capirei questo ragionamento, quando uno qualunque di voi potesse venirmi a dire che quando avremo accordato questi cinque milioni emandato nuovi soldati in Africa, saremo sicuri di vendicare l’onore d’Italia edi ritornare gloriosi e trionfanti. Ma io vi domando, o signori che sedete al banco dei ministri, a voi onorevole Genala, che sbagliate di un miliardo (Commenti), a voi onorevole Di Robilant,² che confondete quattro predoni con un esercito agguerrito, potete darci voi questa sicurezza che, quando avremo votato i cinque milioni, saprete rivendicare l’onore d’Italia? (Bene! all’estrema. sinistra). No, o signori, voi non mi potete dare questa sicurezza: ed io alla mia volta, non vi darò un centesimo! (Rumori e risa ironiche). …

UN MODERNO RIFORMISMO PER GOVERNARE IL CAMBIAMENTO

CONFERENZA PROGRAMMATICA – Rimini 1982 Le Conclusioni di Bettino Craxi «E’ con particolare soddisfazione che mi accingo a concludere questa Conferenza programmatica nazionale. Essa rappresenta un successo del lavoro del Partito, del suo spirito di unità e di collaborazione, della sua volontà di lotta. Quattro giornate di lavoro serrato e favorito dall’ambiente di serenità e di amicizia che abbiamo trovato attorno a noi. Ringrazio per questo i compagni emiliani, i compagni riminesi, l’Amministrazione comunale di Rimini che ci hanno accolto in questa capitale internazionale dell’ospitalità e che ricordiamo anche come terra di antiche tradizioni di lotta politica e sociale. Ringrazio i compagni che si sono prodigati nella organizzazione della conferenza e che ci hanno circondato di colori, di garofani, di attenzioni oltre che di servizi efficienti ed impeccabili». Ringrazio tutti i compagni relatori, il compagno Covatta che ha coordinato il loro lavoro. I compagni della Direzione che hanno assicurato il successo della iniziativa e tutti gli amici che sono intervenuti liberamente c che ci hanno aiutato ad approfondire i problemi. Ringrazio gli ospiti egli invitati italiani e stranieri che hanno seguito con attenzione i nastri Lavori e con essi gli organi di informazione che hanno scritto di noi, dando ampia cronaca dei nostri lavori e commenti politici vari. Di questi ultimi mi ha colpito un commento formulato dai soliti noti, secondo cui non ci saremmo occupati di politica. Noi che di politica ce ne intendiamo, facciamo fatica a tradurre questo giudizio nel suo vero senso: che peccato che non si siano messi a litigare. E’ dura a riunire la tendenza che ostinatamente ci ha accompagnato in tutti questi anni e che vuole a tutti i costi vederci attraverso lenti deformate e vuole presentarci attraverso descrizioni ed immagini spesso deformi. Esse esprimono la parte peggiore di settori politici che si sono a lungo cullati e forse ancora si cullano nella speranza e nell’illusione di non dover fare i conti con noi, di fermare il corso del rinnovamento socialista, di imbrigliarlo o di sporcarlo ricorrendo a tutti i mezzi, o di provocare, se possibile, una nostra clamorosa ricaduta nelle antiche pratiche di divisione, di logoramento masochistico di lotte intestine. Ma le cose per noi sono cambiate. Sono cambiate nel partito e sono cambiate per il partito nel paese. Abbiamo saltato in questi anni molti ostacoli, irrobustendo il partito, il legame tra i suoi dirigenti, la coscienza collettiva del nostro ruolo storico e via via che il paese ci ha riconosciuto e ci ha incoraggiato anche la coscienza della nostra forza e delle nostre possibilità. Molte cose sono destinate a cambiare Molte cose sono cambiate e molte altre sono destinate a cambiare. I conti con noi si devono e si dovranno fare. E chiunque saprà parlarci con spirito costruttive; e con un tono di rispetto troverà in noi una grande disponibilità ed un eguale spirito costruttivo verso ogni iniziativa che sia suscettibile di allargare l’area della comprensione e dell’unità di tutte le forze del rinnovamento e del progresso per sospingere in avanti a processo di cambiamento che deve essere avviato e realizzato. Vedete, un tempo eravamo grandi importatori di materiali che provocavano tra di noi lacerazioni e divisioni: oggi, tutto questo è finito, semmai ora esportiamo. Questa assise di Rimini ha dato una nuova eloquente testimonianza, della vitalità, della tensione, della ricchezza di idee e di apporti che fa progredire il rinnovamento socialista, che non ha trionfi da celebrare ma solo tanta strada da percorrere con pazienza e con tenacia. Esso ha saputo superare difficoltà e momenti critici perché ha saputo sempre rispondere con puntualità alle prove di verità, di solidarietà, di responsabilità alle quali è stato chiamato abbiamo saputo dire la verità a noi stessi sui nostri limiti, sulle nostre carenze, sui nostri errori. Abbiamo detto la verità sulle zone malate del paese ma anche su quelle sane, vitali e produttive. Dalla analisi dei fatti abbiamo ricavate verità che contrastano apertamente con dogmi, formule e pregiudizi che pure tanta parte hanno avuto ed hanno nella vetero-sinistra tanto rumorosa o sferzante, quanto velleitaria e poco concludente. Abbiamo affrontato questioni spinose quando si è trattato di levare il velo sul terrorismo demonizzato ma non smascherato o quando si è trattato di affrontare l’opera corrosiva di quelli che sono stati efficacemente definiti “giornalisti dimezzati”, non per offendere la libertà di stampa ma per contrastare la deformazione partigiana e faziosa, manipolatrice della verità, o quando abbiamo chiamato in causa la responsabilità di magistrati in servizio politico permanente effettivo che gettano discredito su di una magistratura che noi vogliamo autorevole, stimata, indipendente, bene organizzata e ben protetta. Non c’è stata una sola grande e buona causa che richiedeva sostegno e solidarietà attiva che abbia visto, assenti o indifferenti i socialisti, sia pure nella scarsezza dei loro mezzi, delle loro possibilità nella larga insufficienza delle loro organizzazioni. Solidarietà sociale, umana e civile. Solidarietà attiva ed operante verso gruppi sociali in lotta per giuste rivendicazioni, verso esseri umani in difficoltà e in pericolo, verso chi era ingiustamente attaccato o ingiustamente perseguitato. Responsabilità innanzi tutto verso noi stessi, con un tentativo costante, anche se non sempre riuscito, dl conciliare gli elementi di continuità con gli elementi di rinnovamento, di mantenere il carattere aperto e libero del nostro costume interno e di ricercare i punti di saldatura e di incontro positivo, di correggere senza strappare. Responsabilità verso l’insieme del movimento socialista, nelle sue diverse espressioni ed articolazioni ed anche nelle sue diverse identità, che è chiamato a serrare le fila della sua collaborazione e della sua sempre maggiore unità ed il cui rafforzamento è condizione fondamentale per far avanzare la evoluzione ed una chiarificazione di fondo in tutta la sinistra italiana. Responsabilità verso le forze politiche democratiche e verso le istituzioni manifestando sempre una grande lealtà e un grande rispetto, riaprendo dialoghi che si erano chiusi ed avviandone di nuovi, non concedendo mai alla polemica più di quanto era necessario per rintuzzare la polemica degli altri, non cedendo alla tentazione delle posizioni facili, della demagogia, della fuga dal reale, e …

IL DELITTO MATTEOTTI: PETROLIO, SAVOIA E FASCISMO

di Gianni Lannes | Giacomo Matteotti è famoso per essere uno dei primissimi martiri politici dell’antifascismo, ucciso dopo l’omicidio in Puglia del deputato socialista Giuseppe Di Vagno. Eppure il vero movente di quel delitto è ancora poco noto all’opinione pubblica. Il 30 maggio 1924, Matteotti pronunciò alla Camera parole di fuoco per contestare i risultati delle elezioni datate 6 aprile, in cui si richiedeva di invalidare l’elezione almeno di un gruppo di deputati illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli perpetrati dagli squadristi. Il 10 giugno Matteotti esce di casa da via Pisanelli, al civico 40, per recarsi alla Biblioteca della Camera per ultimare il testo di un discorso, quando sul Lungotevere Arnaldo da Brescia viene raggiunto da un commando della Ceka fascista (antesignana dell’Ovra) al comando di Amerigo Dumini, che lo sequestrano, lo caricano con violenza su una Lancia Kappa noleggiata da Filippo Filippelli, direttore del quotidiano fascista «Corriere Italiano», e partono a gran velocità in direzione di Ponte Milvio. In auto scoppia un violento alterco, e il fascista Giuseppe Viola accoltella Matteotti, che muore. Il corpo verrà seppellito a Macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano a 25 chilometri da Roma. La salma in decomposizione verrà ritrovata il 12 agosto 1924 da un cantoniere. Il primo giudice istruttore che si occupa del caso è l’integerrimo magistrato pugliese (originario di Rodi Garganico) Mauro Del Giudice, che infatti viene prima minacciato dal regime fascista, e infine prontamente estromesso dalle indagini. Nel 1926 si svolgerà a Chieti un processo farsa in cui il pubblico ministero Del Vasto, durante la requisitoria, divide il capo di accusa in due momenti ben distinti. Il primo è l’ordine di sequestro, il secondo è l’uccisione. I due capi di imputazione non vengono collegati, e quindi chi ha dato l’ordine del sequestro non ha dato quello di uccidere; chi ha ucciso lo ha fatto involontariamente. La cosa ancora più farsesca è che a difendere gli esecutori fu incaricato Roberto Farinacci, ras di Cremona, esponente di spicco dell’ala oltranzista e in seguito filonazista del fascismo, e all’epoca segretario nazionale del Pnf, che trasforma l’udienza in un processo politico all’antifascismo italiano. La magistratura però sarà decisamente mite con gli imputati: il 24 marzo 1926, infatti, la Corte d’Assise riconosce gli squadristi Cesare Rossi e Giovanni Marinelli colpevoli dell’ordine di sequestro e Filippo Filippelli per avervi cooperato. Però, essendo i loro reati estinti per l’amnistia del 31 luglio 1925, verranno subito rimessi in libertà. I sequestratori Viola e Malacria sono assolti per non aver commesso il fatto; Volpi, Dumini e Poveromo invece sono condannati a cinque anni 11 mesi e 20 giorni, che, sempre in virtù dell’amnistia, si ridurranno a solo altri due mesi di prigione. Giustizia – per modo dire, proprio come ai tempi odierni – è stata fatta. Non dimentichiamo che la magistratura, dopotutto, è un ingranaggio della sovrastruttura statale, e serve a conservare il sistema vigente e la sua struttura. Il Regime passò infatti questo momento critico, apprestandosi ad avviarsi verso il totalitarismo. Ma la domanda è: che c’entra tutto questo con una storia di tangenti? Qual era il vero messaggio che sarebbe trapelato dalle future dichiarazioni dell’esponente del Partito socialista unitario? Nel 1921 il Movimento dei fasci di combattimento – nato a Milano in piazza San Sepolcro nel 1919 – diventa il partito fascista, che auspica la presa del potere, e archivia l’iniziale fase populista, movimentista e trasversalista. Tutto questo ha una spesa. Numerosi quadri del Pnf si dedicarono al traffico dei residuati bellici, attività che non coinvolge solo il fascismo. Quantità di armi cedute ufficialmente per rottamazione a finte cooperative di reduci, che nella pratica, però, vengono ricollocate sulla piazza europea a prezzo di mercato con evidente margine di guadagno. Nel Pnf si distinguono Carlo Bazzi, direttore di «Nuovo Paese», e uno dei protagonisti dell’affare Matteotti, Amerigo Dumini, arrestato per esportazione illegale d’armi al neonato Regno di Jugoslavia. Ma il business delle armi però è per così dire un osso più che spolpato, dato che non è monopolio dei soli fascisti. Filippo Filippelli, giornalista e faccendiere fascista, anch’egli implicato nel caso Matteotti, capisce che bisogna muoversi in altre zone per pescare capitali. Uno è quello di muoversi nell’ambito dei grandi appalti, delle infrastrutture pubbliche, dei finanziamenti per grandi opere ed in particolare nel commercio floridissimo del petrolio. Nel 1922, l’anno in cui Mussolini forma il suo governo, l’80% del mercato petrolifero del Regno d’Italia era gestito dagli americani della Standard Oil tramite la Società Italo-Americana del Petrolio, mentre il restante era fornito dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell, come ci spiegano sia lo storico Mauro canali che il giornalista ed ex dirigente dell’Eni Benito Li Vigni. Nel 1923 la Anglo-Iranian Oil Company, società petrolifera di proprietà del governo di Londra, decide di scalzarne una fetta con un’efficace concorrenza, peraltro gradita. Peccato che Gelasio Caetani, ambasciatore italiano a Washington, si fece portavoce di un’altra azienda statunitense, la Sinclair Oil, precedentemente sostenuta da alcuni dei principali gruppi finanziari di New York, come la banca di John Davidson Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil, la quale, con quello che si può definire come un colpo di mano, riesce a spuntare col neonato governo fascista – una coalizione di centro-destra composta dalle varie anime del liberalismo conservatore italiano, dai fascisti, dai nazionalisti e dai cattolici popolari – una Convenzione a costi più alti dell’azienda inglese. Non saranno pochi fra i deputati delle opposizioni a chiedersene il perché, e la cosa insospettì l’Anglo-Iranian Oil Company. Nonostante questo il governo continua le trattative, arrivando ad una Convenzione, fatta approvare ad un Consiglio dei Ministri poche settimane dopo le elezioni del 1924. La Sinclair Oil, con questa Convenzione, ottenne così l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti nel territorio italiano, come in Emilia e in Sicilia. La Sinclair ottenne molti vantaggi per poter effettuare scavi in tutta la penisola, come una durata novantennale della concessione e l’esenzione dalle imposte. In cambio di tangenti, la Sinclair avrebbe inoltre ottenuto di …

UN SOCIALISTA ITALIANO

di Paolo Franchi | Articolo – Anno 2000 Adesso i ricordi si affastellano e non aiutano a formulare, ove mai fosse possibile, un giudizio equanime, si sarebbe detto un tempo, sulla figura e l’opera di Bettino Craxi. Ma bastano almeno a confortarci in una convinzione per noi antica e radicata, che non ha nulla da spartire né con le aule di giustizia né con i fariseismi compunti di queste ore. Piaccia o no (e sicuramente a molti di quelli che lo odiarono ben prima della comparsa della “questione morale”, e oggi sono tutto un cordoglio, la cosa non piace affatto) Bettino è stato, dai primi passi in politica, un uomo della sinistra italiana. Diciamo meglio: un uomo del socialismo italiano, segnato dalle vicende del socialismo italiano – dalle sue grandezze come dalle sue miserie – fin da quando, ragazzino, incollava sui muri di Milano i manifesti del Fronte Popolare. Di quel Fronte del quale suo padre, Vittorio, viceprefetto della Liberazione, fu, come tanti socialisti, candidato sfortunatissimo anche perché, nella comune sconfitta, il Pci, infinitamente più organizzato del Psi, colse l’occasione per regolare una volta per tutte i conti a sinistra. Di quel Fronte che il suo padre politico, Pietro Nenni, fortemente volle, anche se poi, a disastro consumato, annotò amaro nei Diari: sotto bandiera comunista non si vince in Occidente. Socialista, dunque, e socialista autonomista, e, diciamola tutta, socialista dichiaratamente anticomunista. Così socialista, così autonomista, così anticomunista da meritare al pari di Giuseppe Saragat e più di Pietro Nenni, che stalinista lo fu, se non un posto tra gli antenati, almeno la considerazione e il rispetto di un partito, i Ds, il cui segretario, Walter Veltroni, tiene a spiegare come e perché il comunismo e la liberta siano incompatibili. E il cui presidente Massimo D’Alema scandisce dalla tribuna del congresso: “La ragione stava dalla loro parte”: e “loro” sono i socialisti di tutte le razze, di destra e di sinistra, che nel secolo delle rivoluzioni alzarono bandiera democratica, riformista, talvolta libertaria, sempre antistalinista. Invece, niente, almeno sino alla morte. Per via di Tangentopoli e delle condanne penali? Si, certo. Ma anche perché il socialista autonomista Craxi, per il Pci che non c’è più, ma sopravvive nell’anima di tanti diessini, ha costituito da subito il simbolo del male, e lo rappresenta, in realtà, tuttora. Si capisce: Bettino è stato l’unico leader del Psi dopo il 1948 che sia riuscito a riequilibrare i rapporti di forza a sinistra e addirittura a giungere a un passo dal sorpassare elettoralmente il Pci-Pds. Restando però dalla questione comunista ossessionato per tutta la vita. Come può capitare solo a chi su questo decisivo terreno per tanti anni è stato in assoluta minoranza, anche nel suo partito, divenendone segretario (ma all’inizio segretario, appunto, di minoranza) proprio quando, dopo le elezioni del ‘76, apertamente ci si chiede se il Psi possa avere ancora un futuro. Alberto Asor Rosa, sulle colonne dell’Unità, dice di no: il Pci di Berlinguer, spiega, ha fatto il miracolo di tenere insieme Lenin e Prampolini, la rivoluzione e il riformismo. Occuparsi ancora del Psi, dunque, significa solo perdere del tempo. Quasi nessuno ha il coraggio di sostenere questa tesi così apertamente, ma sono in tanti a pensarla come lui, nel Pci, certo, ma anche nella Dc, e persino tra i socialisti. Primum vivere, è il motto con cui Bettino tiene insieme chi non ci sta, gli autonomisti come lui, ma anche i colonnelli della sinistra lombardiana, e almeno per un certo periodo gli ex demartiniani di Enrico Manca. Ma primum vivere non significa solo scommettere su se stesso e su quella povera cosa, anche se onusta di storia, che è e resta il Psi. Vuol dire anche scommettere che il compromesso storico, quello vero, non si farà mai, e che il partito comunista, se resterà comunista, al governo non ci andrà, con tutto il suo trentacinque per cento dei voti. E anzi, finita (e fallita) la solidarietà nazionale, sarà esposto a un declino magari lento, ma ineluttabile.Craxi, non c’è dubbio, questa scommessa la fa, perché è la sua scommessa. E le tiene fede tanto negli anni della solidarietà nazionale quanto negli anni della collaborazione-competizione con la Dc e di Palazzo Chigi. Ma dentro ci mette anche una speranza, o un sogno, che coltiva in fondo al cuore persino contro l’evidenza dei fatti da quando era giovanotto, e battagliava nella sezione di Sesto San Giovanni con i compagni “carristi” e con Lelio Basso.La speranza, o il sogno, di mettere in piedi, con le buone e con le cattive, un Psi sufficientemente forte e coeso da poter levare, il giorno in cui la crisi comunista fosse finalmente scoppiata, la bandiera dell’unità socialista. La speranza, o il sogno, di essere ancora in campo, e da protagonista, il giorno in cui i comunisti avrebbero ammesso, come pure aveva fatto il fondatore del partito Umberto Terracini, che si, a Livorno, nel ’21, le cose giuste le aveva dette Filippo Turati, non Bordiga, non Togliatti, non Gramsci. La speranza, o il sogno, di poter diventare lui il leader di un movimento che tenesse insieme le diverse anime del socialismo italiano, e le congiungesse in qualche modo nella vieille maison socialista ai laici, ai radicali, a componenti del mondo cattolico, persino a pezzi della sinistra extraparlamentare.Senza tenere conto di questa speranza, o di questo sogno, che coesiste contraddittoriamente con il duro realismo dell’uomo di partito che vuole mettere da subito se stesso e i socialisti al centro della scena, ma sa pure quanto sia arduo guadagnare mezzo punto in un’elezione, non si capirebbe l’uomo degli euromissili e di Sigonella, e nemmeno il duello feroce tra quest’uomo ed Enrico Berlinguer. Un duello personale, politico e ideologico (“Siamo e resteremo sempre leninisti!”, risponde a muso duro Berlinguer quando nel ’78 Bettino, per incalzare il Pci, riscopre addirittura l’attualità di Proudhon), che diventerà sempre più aspro, fino ad esplodere, incontenibile, quando il primo presidente del Consiglio socialista, al quale i comunisti riservano sin dall’inizio un’opposizione assai più aspra di quella tradizionale ai governi …

MAI COSI’ ATTUALE LA SCISSIONE DI PALAZZO BARBERINI

di Gaetano Arfé | Articolo del 2001 Ai fini della comprensione delle radici storiche della crisi nella quale versa oggi tutta la sinistra italiana di ispirazione socialista la riflessione sulla scissione di palazzo Barberini assume, a distanza di cinquantaquattro anni, un’attualità che non ebbe mai prima d’ora.  Allora si trattò di affermare nei confronti dello stalinismo le ragioni dell’autonomia socialista, minacciata ma viva e reattiva, si tratta oggi di riportarle faticosamente alla luce, di ripensarle dopo mezzo secolo di sofferte esperienze, di immetterle per quel che hanno di vitale nel circolo della cultura politica, nel momento in cui l’autonomia ideale, e quindi politica, della sinistra di governo non è più insidiata dal comunismo staliniano ma appare sempre più intimidita e, per certi aspetti, egemonizzata da una ideologia che ha in Silvio Berlusconi il suo più efficace predicatore. E’ un fatto che la originalità italiana rispetto all’Europa delle più antiche e maggiori rappresentanze politiche di quello che fu il movimento operaio si manifesta oggi in forma di deteriore e provinciale anomalia con la presenza di quattro formazioni politiche di ispirazione socialista, occultate da anonime sigle, chiuse, ciascuna d’esse in rigida autarchia e con l’assenza dalla scena politica di un partito socialista quale esiste nei normali paesi europei. La storia della scissione di palazzo Barberini è la storia di un tentativo, audace, storicamente fallito e tornato politicamente attuale, di comporre in dialettica unità, nel comune segno della indipendenza dal gioco delle politiche di potenza, le forze del movimento operaio socialista, per farne, in un quadro di solidarietà europea la forza dirigente del processo di ricostruzione di un paese uscito dalla più grande catastrofe della sua storia. Tra le interpretazioni che allora se ne dettero tralascio quella della rivalità personale tra Saragat e Nenni. Un tratto essi ebbero in comune -e lo direi di De Gasperi e di Togliatti e di tutta la classe dirigente maturata nella lotta antifascista- e fu la incapacità di subordinare agl’interessi personali le scelte politiche.  Trovò invece diffusione e credito, e ha lasciato il segno, quella, faziosa, con punte volgarmente calunniose partorita da sinistra. Si parlò allora di una operazione diretta a rompere l’unità della classe operaia, ideata e condotta dietro pressione o addirittura su mandato del governo americano, della destra italiana, dei potentati economici interessati a restaurare il loro traballante potere. La realtà politica è sempre gravida di elementi contraddittori e i fattori allora operanti a favore della scissione furono molteplici e di varia e contrastante natura. E’ vero che a propagandarne la necessità fu la grande stampa che allora si chiamava padronale, che il governo degli Stati Uniti la vide con favore, che i sindacati americani non fecero mancare aiuti finanziari, generosamente offerti, peraltro, anni prima anche alla emigrazione socialista in Francia negli anni del fascismo trionfante. Ed è vero che la legittima preoccupazione di isolare un partito comunista potentemente radicato in tutte le organizzazioni di massa, da quelle sindacali e quelle resistenziali e al tempo stesso scoperto strumento di una strategia che aveva a Mosca il suo centro di direzione, si associava all’obiettivo di rompere l’unità del movimento operaio nel momento in cui si imponevano scelte decisive su quelli che sarebbero stati gl’indirizzi della politica di ricostruzione economica del paese. Su altro versante contribuirono a suscitare un senso di rivolta in larga parte della base socialista le pesanti e sistematiche interferenze comuniste nel loro partito che arrivarono fino alla infiltrazione nella compagine di quello che allora si chiamava il PSIUP di militanti comunisti forniti di doppia tessera e fu pratica che continuò in anni successivi anche nei confronti del partito di Nenni. La documentata denuncia che di questo fenomeno scrisse e lesse allora Matteo Matteotti può, a mio avviso, ritenersi largamente attendibile ed è integrabile con documentazioni ufficiali di parte comunista venute successivamente alla luce. Tutto questo nulla toglie al fatto che i promotori e gli organizzatori della scissione furono animati tutti da un movente etico-politico, quello di porre un argine al dilagare del comunismo di confessione staliniana, e da una intuizione la cui validità è stata confermata dalla storia e con la quale i nipotini di Togliatti ancora si trovano a dover fare i conti -e li fanno malamente-; che in Italia come in ogni paese dell’Europa occidentale un partito operaio a direzione comunista avrebbe avuta preclusa per tempi indefiniti la via al potere o anche alla partecipazione al potere. Il partito che nasce a palazzo Barberini non è nelle intenzioni dei suoi costruttori un partito di socialismo moderato, è un partito classista che si dà come obiettivo ultimo la socializzazione dei mezzi di produzione di scambio, che non esclude nelle dichiarazioni di suoi autorevoli esponenti, anzi auspica, che una volta affermata, organizzata e consolidata l’autonomia dei socialisti, una politica unitaria del movimento operaio possa essere ripresa. Il marxismo, liberamente interpretato, cultura e non dogma, è la sua dottrina, in esso è il fondamento teorico della sua autonomia ideale e programmatica. E’ un dato, anche questo, che mette conto di sottolineare in una Italia dove il marxismo sembra essere diventato una diabolica eresia da estirpare con metodi da Santa Inquisizione. Marxista è Giuseppe Saragat, continuatore critico e più volte eretico della tradizione riformista. La sua formazione era stata fortemente influenzata dall’austro-marxismo e all’ “umanesimo marxista”, in esilio aveva dedicato un pregevole saggio di recente ripubblicato a cura di Gian Piero Orsello. Nell’esilio francese era stato, con Pietro Nenni, tra i protagonisti della operazione rivolta a superare dottrinalmente e organizzativamente la frattura tra riformisti e massimalisti e ne era stato il brillante teorico. La politica di unità d’azione coi comunisti dopo il VII congresso del Komintern, lo aveva visto in prima fila e, fino al patto Ribbentrop-Molotov del 1939, era stato tra i sostenitori più decisi della politica di solidarietà con l’URSS.  E’ in questa fase che egli rivede il suo giudizio sullo Stato sovietico, introducendo tra i criteri di giudizio quello, mai più abbandonato, del totalitarismo. Ma nel 1941, quando i comunisti, solidali come sempre con la loro patria ideale, ritornano alla politica …

IL FALLIMENTO DELLA PACE VITTORIOSA

a cura di  Stefano Caretti | TRATTO DA: GIACOMO MATTEOTTI SOCIALISMO E GUERRA Giacomo Matteotti: Corre per tutti i giornali borghesi la notizia di un libro inglese che muovendo da una profonda critica al trattato di pace di Versailles, prospetta i gravissimi pericoli della situazione economica europea, e propone qualche rimedio. Ad alcuni, chiusi nelle vecchie formule, è parsa una rivelazione. Altri scioccamente insinuò che i socialisti avrebbero saccheggiato le pagine ardite, per farsene uno strumento volgare. Si esagera. Il libro di J.M. Keynes’ non è che un buon documento della profonda crisi cui è stata condotta l’Europa da «una guerra vittoriosa». E la sua rappresentazione dei «quattro» che operarono intorno al tavolo di Versailles (Wilson, il giusto in astratto, lento a pensare, che si lascia vincere dai sofismi concreti; Clemenceau, il vecchio violento, che vede la salvezza della Francia nella oppressione e nella miseria della rivale tedesca; Lloyd George, il raffinato traduttore dell’egoismo capitalistico inglese nelle formule wilsoniane; Orlando, l’irrilevante, incapace di mettersi a contatto con Wilson, così come di spartire il bottino con gli altri due), non è che la drammatizzazione delle concorrenti forze capitalistiche: due che sono arrivate all’acme e vogliono conservare; una che lo raggiungerà per suo conto e ha bisogno di alcune nuove licenze per conseguirlo; la quarta che non sa quello che dovrebbe volere e sente soltanto quel che le è imposto dall’immediata coazione. Ma prima della critica, conviene che noi riproduciamo in pochi paragrafi il lucido pensiero di Keynes. I. La economia europea prima della guerra era fondata su questo: una classe lavoratrice produceva ricchezza, accontentandosi di una alimentazione e di una vita inferiori, mentre la classe capitalistica assorbiva le ricchezze prodotte, ma più per accumularle che per consumarle. Aiutava la facilità e la sicurezza delle comunicazioni e delle importazioni da tutte le parti del mondo; mentre il capitale privato andava cercando dappertutto nuovi investimenti e nuove fonti di produzione. II. La guerra ha rovesciato questo delicato sistema. Le ricchezze sono state distrutte. La classe lavoratrice non si accontenta più di lavorare per gli altri. Il capitalismo, illuso dagli alti profitti, non sa più produrre come prima. Tutti vogliono consumare di più e lavorare di meno. Le comunicazioni e i trasporti commerciali sono divenuti inefficienti. III. La pace avrebbe dovuto mirare a vincere codesti mali della guerra e la disorganizzazione. Invece fu una pace cartaginese, che pensò unicamente a distruggere o ad opprimere il vinto, senza pensare che così preparava anche la rovina del vincitore. IV. La Germania, ancora in armi, aveva accettato di venire a trattative di pace unicamente sulla base dei 14 punti di Wilson. Ma, la Germania disarmata, quasi nessuno dei punti affermati fu mantenuto. Alla affermata «libertà ed eguaglianza dei commerci tra tutte le nazioni», ha corrisposto, per esempio, il sequestro quasi totale della flotta mercantile germanica; la imposizione di una serie di privilegi alleati sui commerci, le ferrovie, i fiumi, ecc., della Germania, senza alcun contraccambio. All’«imparziale assestamento dei diritti coloniali», ha corrisposto la rapina alleata di tutti i diritti pubblici e perfino privati dei tedeschi, tanto nelle colonie quanto in Alsazia e Lorena e perfino in Turchia, in Bulgaria, in Russia, in Cina, ecc., e indirettamente, sotto forma di riparazione, dentro la stessa Germania. Alla «garanzia negativa di ogni annessione o contribuzione o punizione», ha corrisposto la spoliazione del bacino carbonifero della Sarre (cento francesi contro centomila abitanti tedeschi) e della Slesia superiore producenti il 98 per cento di tutto il carbone tedesco, proprio nel tempo stesso in cui si fa obbligo alla Germania di contribuire con molti milioni di tonnellate di carbone agli alleati, ponendo così una causa di irresolubile dissidio tra le esigenze franco-italiane e le tedesche. Al «risarcimento dei danni arrecati dalla guerra ai privati e alle terre invase», ha corrisposto, specialmente sotto la pressione demagogica delle elezioni inglesi, una così stiracchiata interpretazione, che gli Alleati potranno chiedere ben 200 miliardi di indennità, dei quali 25 da pagarsi entro aprile 1921, affidando a una Commissione l’incarico di curarne la percezione, con tali facoltà, da sottoporre la Germania a un vero e proprio regime di sudditanza o di schiavitù. V. Ma la Germania – che è ridotta a possedere ormai meno di due miliardi in oro, meno di tre miliardi in navi, e forse ormai solo cinque d’investimenti all’estero, in parte requisiti o svalutati o estinti o trafugati – non potrà pagare. E non potrà pagare nessuna rata successiva, quando la sua facoltà di lavorare, di produrre e accumulare è spenta o diminuita gravemente per la perdita delle colonie, del commercio marittimo, dell’investimento all’estero, di un terzo del suo carbone, di tre quarti del ferro, per tutte le restrizioni commerciali e doganali, per il debito pubblico ormai altissimo, un deprezzamento della moneta sotto il decimo, i disordini interni, ecc. VI. Così all’Europa, all’Oriente e alla Russia in particolare, viene a mancare, con la Germania, il più grande focolare di organizzazione, di produzione. L’Europa non ha più i mezzi sufficienti per vivere. La carta perde ogni giorno valore. Il debito pubblico ascende. La miseria e la rivoluzione sono alle porte. VII. Quali i rimedi? Secondo Keynes i seguenti: a) Revisione del Trattato di Versailles. Restituzione alla Germania della libertà economica e degli elementi di produzione, per pagare una indennità totale non superiore a 50 miliardi, in 30 anni. b) Cancellazione dei debiti interalleati. L’Italia non abbia più lo spettro di 20 miliardi in oro dovuti agli Anglo-Americani, né la Francia dei suoi 25, né la Russia dei suoi 20, ecc.; rinunziando l’America ai suoi 50 miliardi di crediti, e l’Inghilterra ai suoi 25. c) Mentre la imposta sul capitale provvede a sgravare una parte dei debiti di guerra, un prestito internazionale di almeno 50 miliardi provveda a rimettere in azione tutte le forze produttive del mondo, a condizione che l’Europa dia in cambio all’America la garanzia di non devolverne alcuna parte a nuove guerre o a nuove contese, ma tutti lavorino in una pace concorde, rinnegando nazionalismi e imperialismi. d) Non intervento in Russia e …

XXXVII CONGRESSO NAZIONALE DEL PSI 1966. L’UNITA’ SOCIALISTA

Nelle Foto: in basso a sinistra Mario Tanassi, al centro Pietro Nenni, seduto a destra Giacomo Brodolini DOCUMENTO CONCLUSIVO VOTATO ALL’UNANIMITÀ 30 Ottobre 1966 Il XXXVII Congresso del PSI sancisce l’unificazione del PSI col PSDI e con gli altri gruppi aderenti alla Costituente Socialista. Ratifica la Carta ideologica e politica, lo statuto e le norme transitorie predisposte dal Comitato paritetico per l’unificazione, prendendo atto del dissenso della minoranza su tali documenti. Raccogliendo l’eredità ideale dei propri martiri, dei combattenti per la libertà e il socialismo, di tutti i militanti che durante lunghi anni, dalla lotta contro il fascismo alla Liberazione, ad oggi, si sono battuti con abnegazione, generosità e coraggio, il Congresso fa appello a tutti i lavoratori, a tutti i democratici amanti del progresso, perché stringendosi attorno al Partito unificato, imprimano una spinta vigorosa al processo di trasformazione e di rinnovamento dello Stato e della società nazionale, per la conquista democratica del socialismo. * Partito Socialista Italiano, Il XXXVII Congresso e l’unificazione socialista, Ed. La Squilla, Bologna, 1976, p. 134. Riunione della Costituente Socialista (Roma, 30 ottobre 1966).   CARTA DELL’UNIFICAZIONE SOCIALISTA APPROVATA AL TERMINE DEI LAVORI 1. Il Partito Socialista che sorge dalla unificazione del PSI e del PSDI prende posto nell’azione politica come una forza nuova al servizio dei lavoratori e della vita civile della nazione e per dare risposta e soluzione ai problemi nuovi della società e dello Stato. Il Partito (PSI-PSDI unificati) continua la tradizione del Movimento Socialista Italiano organizzatosi in Partito fino dal Congresso di Genova del 1892. Esso ne raccoglie, come proprio patrimonio, le esperienze dottrinarie, a cominciare da quella fondamentale del marxismo, e le esperienze politiche maturate in tre quarti di secolo di lotte di classe sempre dure e sovente sanguinose. Nella linea di fedeltà a tale tradizione esso vive e si sviluppa nel continuo adeguamento della dottrina e dell’azione all’evoluzione dei tempi e dei rapporti sociali, caratterizzati dall’incidenza sempre maggiore dei lavoratori nella vita democratica del Paese. Il Partito non richiede ai suoi militanti la adesione ad un credo filosofico o religioso ed accoglie, con pari diritto di cittadinanza, tutte le correnti di pensiero che accettano i principi etici e i postulati politici e sociali ispirati agli ideali di giustizia, di eguaglianza e di pace che il Partito pone a fondamento del proprio programma Il Partito ha il fine di creare una società liberata dalle contraddizioni e dalle coercizioni derivanti dalla divisione in classi prodotta dal sistema capitalistico e nella quale il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti. La dimensione delle forze produttive dell’età contemporanea, la nascita della moderna civiltà industriale di massa, le immense possibilità aperte dalle nuove conquiste del genere umano, pongono in forme sempre più complesse i problemi della libertà e della condizione umana del lavoratore. Il Partito, mentre dà, giorno per giorno, la propria risposta a questi problemi con l’azione incisivamente riformatrice, non smarrisce mai il senso della propria ispirazione originaria fondata sui valori perenni della libertà. Il socialismo è inseparabile dalla democrazia e dalla libertà, da tutte le libertà, politiche civili e religiose, tra loro strettamente solidali e indivisibili, e come esse non può essere realizzato che nella libertà e con la democrazia, così la democrazia non può essere attuata integralmente se non col socialismo. L’esperienza storica insegna, e con particolare eloquenza nel nostro Paese, che tendenze alla involuzione autoritaria e dittatoriale sono sempre presenti nel regime capitalistico, mantiene come suo tratto caratteristico lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, causa di antiche e nuove forme di alienazione della persona umana e di comprensione della sua libertà. La storia dell’ultimo mezzo secolo insegna inoltre che le rivoluzioni proletarie, che pure hanno portato alla abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio, degenerano in dispotismo di partito e di Stato quando venga soffocato il soffio della vita libera e democratica individuale e collettiva. 2. Il Partito promuove l’organizzazione politica dei lavoratori e dei cittadini facendosi interprete delle esigenze di autonomia e di progresso del popolo lavoratore e rifiutando di attribuirsi prerogative di egemonia, di guida carismatica, di tutela paternalistica. Il Partito conduce la lotta contro il sistema capitalista e le ideologie che esso esprime, per superarle e costruire una società nuova, autenticamente democratica. Coi lavoratori e con tutte le forze di progresso continua la lunga marcia per l’avvento dei lavoratori alla direzione dello Stato, che decenni di lotte democratiche ed operaie hanno trasformato, e vanno sempre più trasformando, da strumento di oppressione al servizio del capitalismo, a potenziale strumento di liberazione dei lavoratori, nella misura in cui essi partecipano alla gestione del potere pubblico. Nato un secolo fa come movimento di protesta e divenuto ormai un fattore potente della politica nazionale e mondiale, il socialismo, inteso come opera collettiva e cosciente, faticosa e graduale, di una civiltà da costruire passo per passo nella democrazia e nella libertà, è la grande realtà del presente. L’evoluzione democratica dal capitalismo al socialismo comporta un periodo di transizione che ha il suo naturale quadro istituzionale nella democrazia repubblicana e la sua caratteristica nelle riforme di struttura della società e dello Stato. Rispetto al quadro istituzionale, il Partito è impegnato senza riserva nella difesa e nel consolidamento della Repubblica democratica e laica espressa dalla Resistenza antifascista e nella attuazione integrale della Costituzione repubblicana. Rispetto alle riforme di struttura il Partito afferma che esse debbono corrispondere ad un fine sociale generale e creare condizioni più avanzate, tali da permettere di conseguire nella libertà nuove forme di vita associata ed individuale modificando a favore dei lavoratori i rapporti di potere tra le classi e realizzando una effettiva partecipazione di tutti alla direzione della Società e dello Stato. 3. Le riforme nel campo politico e amministrativo sono inseparabili da quelle della società, del suo ordinamento economico e civile, del rinnovamento del costume, della legislazione che regola gli istituti familiari e la condizione della donna, della estensione della cultura, in modo da eliminare il distacco tra società politica e società civile causa della crisi delle istituzioni democratiche ed alla …