PERCHE’ IL FASCISMO NON SIA PIU’, OGGI COME IERI, L’AUTOBIOGRAFIA DELLA NAZIONE

di Franco Astengo | Il 28 ottobre ricorre l’anniversario della Marcia su Roma: data simbolicamente assurta ad inizio del regime fascista. A distanza di tanti anni, esattamente novantasei, ci troviamo alle prese con evidenti rigurgiti fascisti nella pratica di vere e proprie provocazioni poste in atto in termini di simbologia e richiamo diretto, come abbiamo potuto notare proprio in questi giorni in alcuni episodi accaduti, per esempio, a Savona. Ma veri e propri rigurgiti fascisti si avvertono anche a livello di schemi culturali, di comportamenti a livello di massa, di opzioni politiche concrete portate avanti da soggetti che si collocano al governo del Paese e appaiono incontrare apparenti irresistibili fortune elettorali e di consenso da parte dell’opinione pubblica, senza ricevere quel contrasto che meriterebbero. Ricordando che il fascismo salì al potere pur rappresentando un’esigua minoranza parlamentare sulla base proprio di una mancata opposizione e di un accompagnamento “furbesco” attuato da coloro che pensavano di addomesticarlo anestetizzandolo nella gabbia del potere. L’attuale situazione, nella quale si stanno riproducendo soprattutto i temi più deteriori del razzismo deve essere affrontata attraverso l’espressione costante della negatività dei principi che il fascismo ha rappresentato realizzandone la costante comparazione con ciò che sta concretamente accadendo. Per questo motivo la conoscenza assume un valore fondamentale ed è in questo senso che attraverso le note che seguiranno si cercherà di offrire un contributo attraverso un tentativo (certo parziale e appena abbozzato) di ricostruzione storica del peggior fenomeno che ha attraversato la storia d’Italia e d’Europa. Questa sommaria ricostruzione è destinata anche a tener desta l’attenzione sui rischi che sta correndo in questo momento la nostra democrazia avvolta in un pessimo clima politico, morale e culturale. Il termine fascismo nasce con i Fasci siciliani (1891 – 1893), ma la prima fortuna politica di questo appellativo si colloca tra il 1914 e il 1919, a partire dai Fasci di azione rivoluzionaria, che propagandavano l’intervento italiano nella prima guerra mondiale, precedendo quindi l’adunata dei Fasci di combattimento di Milano del 23 Marzo 1919, atto di nascita del movimento mussoliniano. Il fascismo nasce, quindi, come punto di aggregazione di reduci dalla guerra rimasti ai margini nel processo di riorganizzazione della vita pubblica nell’immediato dopoguerra, riorganizzazione fondata sui nuovi grandi partiti di massa e sulla convivenza tra questi e gli antichi ceti notabilari dell’Italia liberale. I reduci di guerra, in particolare del corpo degli Arditi, si mossero così sulla base di contorni politici piuttosto vaghi, all’insegna di slogan che oggi potremmo riassumere come quelli della “rottamazione” o del “tutti a casa”. Il fascismo, in questo modo si inserì, nei primordi, in un filone di generico ribellismo, schierandosi tuttavia da subito su di una linea violentemente anti-socialista e anti – democratica, all’insegna di una non meglio precisata “selezione di valori”. Il fascismo respinse ogni egualitarismo e in tale senso la paternità ideologica del fascismo deve essere attribuita, in larga parte, al nazionalismo. In tempi come quelli attuali di crisi verticale del quadro internazionale il tema del nazionalismo, dovrebbe fare una qualche impressione in un lavoro comparativo svolto da sinceri democratici. Non a caso proprio il nazionalista Alfredo Rocco sarà, più tardi, l’autentico “architetto” del fascismo diventato regime. Nella sua prima formulazione l’ideologia dei fasci apparve debitrice anche verso movimenti come il futurismo e l’arditismo, esaltatori dell’italianità della guerra e della giovinezza, e portatori di un generico rifiuto della “normalità” borghese (in questo senso, sempre riferendoci agli esordi, esiste una possibilità di comparazione sul piano internazionale con l’Action Francais di Maurras). Dopo il fiasco elettorale del novembre 1919, dall’autunno del 1920, grazie ai massicci finanziamenti di organizzazioni agrarie, soprattutto in Val Padana, il fascismo assunse, sul piano organizzativo, il volto dello squadrismo. Uno squadrismo tollerato, quando non aiutato dalle istituzioni dello Stato. Sul piano ideologico il fascismo lasciò cadere le pregiudiziali contro la monarchia e la chiesa cattolica. L’ambiguità ideologica diventerà, da questo punto in avanti, una costante del pensiero fascista che si articolerà in una complessa varietà di posizioni. Lo stesso Mussolini, del resto, non nasconderà mai il proprio “relativismo” sul terreno filosofico – politico. La linea di oggi è quella del “né di destra, né di sinistra”, mentre si punta decisamente verso l’elettorato di destra sia da parte della Lega, sia da parte del M5S: ma non possiamo dimenticare precedenti illustri con la “vocazione maggioritaria” proclamata prima da Veltroni e poi da Renzi. Tornando alle origini del fascismo: davanti al ripiegare del movimento socialista il fascismo si schierò in modo esplicito all’estrema destra. I liberali, ormai in pieno disfacimento, credettero di poter compiere un’operazione d’inserimento del fascismo nelle istituzioni attraverso un processo di progressiva integrazione e assorbimento “nella legalità” e ne favorirono, attraverso la presentazione di liste di “Blocco Nazionale”, l’ingresso in Parlamento con le elezioni del maggio 1921. Un’analisi rivelatasi, alla fine, del tutto fallace. Con l’ingresso in Parlamento il fascismo si avviò alla trasformazione in partito che venne formato (con la denominazione Partito Nazionale Fascista) nel Novembre del 1921. Il PNF teorizzò, da subito, quello che sarà definito “doppio binario”, quello legale e quello insurrezionale e l’ascesa al potere avvenne in una forma a metà dei due versanti con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Giunto al potere, mentre si dedicava all’edificazione delle strutture istituzionali di un regime poi giudicato a posteriori d’imperfetta vocazione totalitaria, il fascismo affrontò l’elaborazione di un apparato teorico – politico. Ma l’intellettualità fascista era costituita, in primo luogo, non da ideologi ma da organizzatori. Lo stesso filosofo Giovanni Gentile, entrato nel primo governo Mussolini e autore di quella che è stata definita la “più fascista delle riforme” quella della scuola, svolse lungo il ventennio un ruolo di straordinario organizzatore culturale. Un ruolo di organizzatore culturale che gli consentì di egemonizzare gran parte del ceto intellettuale italiano. Sul piano teorico Gentile fu un convinto sostenitore della continuità tra il liberalismo classico, incarnato nell’Italia della “destra storica”, e il fascismo: la “storicità” del fascismo (cui si contrapponeva il bolscevismo con la sua “antistoricità”) avrebbe dovuto dimostrare, partendo dalla volontà di conciliare le esigenze dell’individuo e …

L’INDIMENTICABILE 1956

di Francesco Bianchi L’anno 1956 racchiuse in sé il succedersi di una serie di eventi interni ed internazionali di grande importanza per la sinistra italiana, che rivelarono le aspirazioni individuali e collettive, le ambiguità, le contraddizioni, lo smarrimento, la delusione ed i limiti nei comportamenti dei leader di partito, dei dirigenti, degli intellettuali e dei militanti di sinistra. Il lavoro che segue è un tentativo di ricostruzione e di sintesi, attraverso la descrizione dei fatti, del dibattito che si originò all’interno della sinistra italiana in quell’anno. Furono mesi intensi, che posero soprattutto la questione comunista al centro dell’attenzione internazionale : il ’56 fu in primo luogo l’anno del XX Congresso del PCUS (che si tenne a Mosca nel febbraio), del “rapporto segreto” di Kruscev (che fu reso noto al pubblico mondiale soltanto nel giugno) e di tutto quello che ne seguì con le drammatiche crisi dell’autunno in Polonia ed in Ungheria. Alla caduta del mito di Stalin ed agli interrogativi che si affacciarono sulla natura del regime sovietico, seguirono altri eventi non meno traumatici, che investirono altri paesi del blocco socialista: in Polonia la crisi che si aprì in giugno con l’insurrezione degli operai di Poznan, trovò una soluzione nell’ottobre con l’ascesa al potere di Gomulka, mentre in Ungheria, le manifestazioni popolari si trasformarono in scontri sanguinosi che furono placati solamente con l’intervento dei carri armati sovietici. A distogliere l’attenzione del mondo dai fatti ungheresi e dai problemi del mondo comunista fu l’attacco di Francia, Gran Bretagna ed Israele all’Egitto in seguito alla decisione di Nasser di nazionalizzare il Canale di Suez. Il 1956 fu dunque prevalentemente un anno di crisi politica internazionale, che nella sua accezione più ampia comprese una crisi nella ideologia, nell’economia, nella diplomazia e nella strategia militare. In Italia, le ripercussioni di questi importanti avvenimenti, animarono il dibattito politico e culturale e segnarono profondamente il rapporto tra i partiti della sinistra italiana. All’interno del PCI, l’atteggiamento di cautela e di reticenza di Togliatti si protrasse dal febbraio al giugno ’56, quando la pubblicazione del “rapporto segreto” lo spinse a formulare una analisi sui “crimini” di Stalin e sul “culto della personalità”. Il dibattito si aprì in modo profondo, soprattutto nel mondo intellettuale e studentesco di sinistra. Fu proprio da loro che Togliatti e la dirigenza comunista ricevettero le critiche più dure per i giudizi e le posizioni del partito rispetto al XX Congresso, al “rapporto segreto”, ai fatti polacchi ed ungheresi. I rapporti tra il PCI ed il PSI si andarono progressivamente deteriorando con il passare dei mesi (e soprattutto degli avvenimenti), raggiungendo il “punto di rottura” con i fatti ungheresi. Mentre il PCI giudicò l’intervento sovietico come una “dolorosa necessità”, per respingere il “putsch controrivoluzionario” che era in atto in Ungheria, i socialisti condannarono apertamente l’atteggiamento sovietico. Nel quadro di una possibile riunificazione socialista, i contatti tra PSI e PSDI si caratterizzarono durante tutto l’anno da continui riavvicinamenti e brusche rotture, raggiungendo le più ottimistiche speranze di una veloce riunificazione con l’incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat. All’interno del PSI, la corrente autonomista, spingeva da diversi anni per una maggiore autonomia nei confronti del PCI, nella direzione dell’apertura a sinistra e della riunificazione con il PSDI; nel PSDI invece, la corrente di sinistra chiedeva la fine della politica governativa con la DC ed una veloce riu-nificazione con il PSI. Gli avvenimenti internazionali (XX Congresso del PCUS, “rapporto segreto” di Kruscev, fatti polacchi ed ungheresi), chiedevano in qualche misura ai leader dei partiti politici della sinistra italiana di anticipare delle rotture e di portare delle revisioni alle linee politiche dei loro partiti : riuscirono a cogliere in pieno l’esatta portata e le conseguenze possibili degli eventi del 1956. Il PCI, il PSI ed il PSDI si aprirono, sotto la spinta degli avvenimenti, a delle radicali trasformazioni, o rimasero ancorati alle loro posizioni del decennio precedente? E’ attraverso la ripresentazione dei fatti del 1956 e del dibattito che originarono nella sinistra italiana, che questo lavoro cerca di dare qualche risposta a queste domande, attraverso i giudizi e le posizioni che i protagonisti espressero negli editoriali dei quotidiani, negli articoli delle riviste, in testimonianze, documenti e studi. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

“IL CENTRISMO”

di Claudio Bellavita Il periodo centrista in Italia si identifica con la figura di De Gasperi: furono centristi, cioè basati sulla collaborazione tra DC, PSDI, PLI e PRI i suoi ultimi 5 governi: il IV, costituito dopo la scissione del psi al congresso di palazzo Barberini e tutti i successivi nella I legislatura, fino all’VIII e ultimo, unico monocolore Dc, costituito dopo che le elezioni del 1953 che non videro scattare la “legge truffa” elettorale, che voleva dare una maggioranza stabile aumentando i seggi della coalizione che prendeva più del 50% dei voti. Fin da allora gli elettori italiani si sono sempre dimostrati refrattari agli imbrogli elettorali che periodicamente i loro governanti tentano di fare trasformando le minoranze in maggioranze in nome della stabilità dei loro governi. In sostanza il centrismo nacque come conseguenza dell’inizio della guerra fredda nei confronti dell’URSS che realizzò una serie di colpi di stato nei paesi dell’est europeo, rendendo difficili le loro comunicazioni con l’Europa occidentale. Tragico fu l’errore di Nenni di dissociarsi dal resto dei socialisti europei mantenendo il patto di unità d’azione col PCI, che, forte di una più efficiente organizzazione, riuscì il 18 aprile 1948 a eleggere molti più parlamentari del PSI, che nelle elezioni della Costituente aveva preso più voti del PCI. Contro l’imminente decisione di Nenni Saragat promosse la scissione di palazzo Barberini (fine 1947) e con lui si schierarono molti personaggi di spicco, tra questi ricordo Romita, Silone, Calamandrei, Franco Venturi, Ivan Matteo Lombardo, Codignola, Mondolfo, Zagari. Il suo partito, col 7,07% dei voti, si collocò al terzo posto nelle elezioni della camera, dopo la DC (48,51%) e il Fronte popolare (30,98%). Sul risultato delle elezioni italiane del 18 aprile 1948 ebbero molta influenza: – L’avvio nel 1948 del Piano Marshall che regalava agli stati europei le macchine utensili che gli industriali che potevano permettersi di pagarle ordinavano agli USA per far ripartire o migliorare la loro produzione. Gli stati europei utilizzavano i soldi versati dai loro industriali nella ricostruzione delle opere pubbliche distrutte dalla guerra e anche, come avvenne in Italia, nella costruzione di case popolari: da noi ci fu il popolare piano “Fanfani Casa”, che a detta degli stessi impresari privati costruiva case migliori di quelle che loro facevano per il libero mercato (dichiarazioni di liberali al Consiglio Comunale di Torino). – Il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia, con il suicidio (assistito?) del maggior esponente democratico, Jan Masaryk il 10 marzo 1948. – La decisa presa di posizione della Chiesa contro il comunismo, con le scomuniche di papa Pacelli, che fece addirittura scendere in campo una “madonna pellegrina” che fece il giro d’Italia accolta ovunque da scolaresche, autorità locali e tripudi giornalistici. – Una qualche influenza sul voto siciliano lo ebbe anche la strage di Portella della Ginestra il primo maggio del 1947, che determinò in Sicilia lo spostamento di molti voti che nelle elezioni della Costituente erano andati alle sinistre. – Dagli Usa ci fu anche un’ondata di lettere dagli emigrati di origine italiana ai loro parenti che si preparavano a votare. A rafforzare la scelta elettorale del 18 aprile ci fu subito dopo, nel giugno, il blocco di Berlino Ovest da parte dell’URSS per protestare contro la decisione di adottare come valuta locale il marco tedesco occidentale: si tentò di strangolare Berlino impedendo per 462 giorni l’accesso di viveri, farmaci e carburanti, ma gli USA diedero prova di un’incredibile efficienza attuando un ponte aereo che arrivò fino a 1398 aerei al giorno. I cui piloti, per la gioia dei bambini berlinesi “bombardavano” la città con sacchetti di caramelle legati a piccoli paracadute. In Italia, il centrismo ebbe una solida maggioranza alla Camera, dove la Dc da sola aveva la maggioranza assoluta, mentre al Senato pesavano i 106 “senatori di diritto” non eletti ma nominati in quanto ex parlamentari del Regno, oppure antifascisti condannati ad almeno 5 anni dal tribunale speciale del fascismo, che fossero stati successivamente nominati alla Consulta o eletti alla Costituente : equo raccordo nella successione tra due diversi regimi. Il centrismo fu un periodo di ricostruzione materiale del paese e di faticoso ingresso nel patto Atlantico. Scarse le riforme, lentissima la semplice attuazione della costituzione e pesanti gli interventi di una magistratura tutta entrata in carriera sotto il fascismo. Ancora più pesanti gli interventi della polizia nelle lotte operaie e soprattutto nelle dimostrazioni promosse dai comunisti contro il patto atlantico. Questo clima peggiorò ancora quando nel novembre 1952 i repubblicani vinsero le elezioni presidenziali con Eisenhower , che come molti generali USA di quegli anni era persona di buon senso, ma che nominò ambasciatrice in Italia una Trump in gonnella: Clara Luce, che esigeva l’ingresso dei fascisti nel governo (richiesta avanzata anche dal papa per il comune di Roma, e avendola respinta, De Gasperi non fu più ricevuto in Vaticano) e l’annullamento delle commesse americane alle fabbriche i cui operai davano la maggioranza alla CGIL. – (a proposito di sindacati: nel PSI c’era l’espulsione per chi aderiva a un sindacato diverso dalla CGIL, fin quasi all’unificazione col PSDI). Con ogni probabilità dobbiamo dir grazie alla Luce se in Italia si è insediata la P2, il cui capo, l’affarista Licio Gelli, poteva rilasciare il NOCS Nato, indispensabile per accedere alle più alte cariche militari, diplomatiche e civili: ma purtroppo son stati pochi finora gli storici italiani che han verificato le carte USA sui rapporti con l’Italia nel primo dopoguerra, carte che ormai dovrebbero essere accessibili. Il centrismo cominciò a cambiare , tra molti sussulti interni della DC, dopo la caduta di De Gasperi. Fanfani attuò lo sganciamento dell’IRI e dell’ENI dalla Confindustria, costituendo il ministero delle partecipazioni statali (il contrario di quel che fece la Margherita 40 anni dopo, svendendo ai privati le partecipazioni statali), e riuscì a insediare la Corte costituzionale e poi il consiglio superiore della magistratura, modificando l’equilibrio dei poteri all’interno della magistratura stessa. E’ probabile che i tentativi golpisti del Piano Solo di De Lorenzo siano stati soprattutto una faccenda interna alla dc: Segni e Cossiga contro …

ERNESTO ROSSI: IL DIRITTO A UNA VITA CIVILE PER IL SOLO FATTO DI ESSERE UOMINI

Ernesto Rossi (Caserta, 1897 – Roma, 1967), economista, fu tra i fondatori di Giustizia e Libertà, e pagò l’opposizione al fascismo con nove anni di carcere e quattro anni di confino. Tra gli autori del Manifesto di Ventotene, tra i fondatori del Partito d’Azione, sottosegretario alla Ricostruzione nel governo Parri, da allievo prediletto di Salvemini combatté nel dopoguerra le degenerazioni della giovane repubblica con la milizia politica e una intensa attività  di giornalista e saggista. Tra le sue opere più note, ricordiamo Abolire la miseria (1946, ristampata di recente da Laterza), I padroni del vapore (Laterza, 1955, ristampato da Kaos, 2001). Ripubblichiamo qui brani di un suo saggio su “Sicurezza sociale”, dal Dizionario di economia politica a cura di Claudio Napoleoni (Edizioni di Comunità, Milano 1956, pp. 1433-1437) * * * I. La miseria, malattia sociale La introduzione nel linguaggio corrente del termine «sicurezza sociale» ha corrisposto ad una profonda trasformazione, avvenuta durante gli ultimi decenni, nel concetto di pubblica assistenza. Non si vuole più un sistema di sussidi e di aiuti ad una ristretta minoranza della popolazione qualificata col marchio ignominioso della povertà; non ci si contenta più, neppure, di un sistema di prestazioni in favore dei salariati, quando non possano più guadagnare per loro conto da vivere per cause indipendenti dalla loro volontà; si vuole arrivare a garantire il diritto ad un minimo di vita civile «dalla culla alla tomba» a tutti i cittadini, per il solo fatto di essere uomini, partecipi della medesima organizzazione statale. Questa modificazione è il frutto di una più approfondita conoscenza delle cause della miseria e delle sue deleterie conseguenze su tutta la vita sociale. Le inchieste, eseguite specialmente in Inghilterra, nei quartieri più poveri delle grandi città, hanno dimostrato che la miseria è una vera malattia infettiva, in quanto la causa maggiore della miseria è la miseria stessa: chi ne è colpito contagia i figli, non potendo mantenerli alle scuole e nell’apprendistato per prepararli alle professioni più remunerative, e allevandoli in un ambiente malsano tanto per la loro vita fisica che per la loro vita spirituale. Uomini che vivono promiscuamente in una sola stanza – maschi, donne, vecchi, bambini, sani, malati – in alloggi senza luce, senza acqua potabile, senza latrina, nei «bassi», nelle baracche, nelle grotte, nei grandi alveari delle case popolari, non possono conservare alcun senso di dignità  umana e, col loro esempio, fanno perdere tale sentimento anche a coloro con i quali entrano in più immediato contatto; non hanno più la forza per resistere alle innumerevoli tentazioni delle moderne metropoli: sono fatalmente condotti alla mendicità, all’alcoolismo, alla prostituzione, al delitto. Ormai si è da tutti riconosciuto che, per combattere efficacemente questa malattia sociale, occorrono misure profilattiche, dirette a rimuovere le cause della miseria in generale, e misure terapeutiche in soccorso delle particolari persone colpite dalla malattia. Poiché ogni malato può diventare un centro di infezione pericoloso per i sani, le misure terapeutiche sono anche misure preventive, e quando si deve giudicare la convenienza o meno di un qualsiasi soccorso ai poveri, occorre esaminare quali ne sono i prevedibili effetti anche dal punto di vista profilattico. Nel campo della pubblica assistenza le conseguenze dirette e lontane dei singoli atti sono molto spesso opposte e più rilevanti di quelle che tutti vedono immediatamente: ad esempio, le provvidenze in favore dei poveri, a lungo andare, accrescono il numero dei poveri se incoraggiano l’ozio, e le provvidenze in favore dei disoccupati aumentano il numero dei disoccupati, se riducono lo stimolo a cercare lavoro, a cambiare residenza e mestiere. E’ evidente che, a parità  delle altre condizioni, qualsiasi indirizzo di politica economica che aumenti la ricchezza generale, riduce il numero dei poveri, in quanto la maggiore ricchezza rende possibile investimenti maggiori di capitali, che accrescono la produttività  del lavoro e quindi elevano anche i salari dei lavoratori delle ultime categorie. In questo senso lato possono essere considerate misure profilattiche contro la miseria anche la stabilità  monetaria, la buona distribuzione del credito, la riduzione degli sperperi della pubblica amministrazione, la lotta contro l’analfabetismo, la diffusione della istruzione classica e professionale, il perfezionamento dei servizi dei trasporti, delle comunicazioni e della energia, il controllo delle industrie monopolistiche, le riforme agrarie, la eliminazione degli ostacoli al libero movimento degli uomini, delle merci e dei capitali, gli interventi dello Stato per diminuire la intensità  delle fluttuazioni cicliche e ripartire sulla intera collettività  il costo della dinamica economica. Ma, fino a quando la ripartizione dei fattori produttivi fra i possibili impieghi, e la distribuzione dei beni di consumo nella soddisfazione dei diversi bisogni, continuerà  ad avvenire attraverso il meccanismo del mercato – che determina automaticamente i prezzi quali posizioni di equilibrio dell’offerta e della domanda, e remunera soltanto chi partecipa al processo produttivo, in relazione alla produttività  del suo apporto – ci sarà  sempre un certo numero di persone che (per età, per condizioni di salute, per mancanza di impiego, per infingardaggine, per eccessivi carichi familiari, per incapacità  di prestare i servizi effettivamente richiesti) non saranno in grado di guadagnarsi un reddito sufficiente per tenere la testa al disopra del livello della miseria. Una politica governativa produttivistica può ridurre al minimo questo numero: non può eliminarlo completamente. A tali persone è necessario provvedere con interventi dello Stato. I governi che non vi provvedono sono costretti a spendere in gendarmi, giudici, carceri, ospedali, molti più quattrini di quelli che risparmiano nella pubblica assistenza; sprecano gran parte dei fondi che destinano alla salute pubblica e alla pubblica istruzione; rendono difficile ogni normale svolgimento delle istituzioni democratiche, e inconsapevolmente preparano gli strumenti di cui gli avventurieri si servono, durante i periodi di crisi politiche, per abolire tutte le libertà  e instaurare la dittatura. II. La pubblica assistenza soltanto a chi merita di essere aiutato L’esperienza ha dimostrato che non è possibile curare la miseria assistendo soltanto coloro che provano di averne effettivo bisogno, e che meritano di essere assistiti. La rilevazione del reddito è una operazione difficilissima e molto costosa. Soltanto in rari casi si arriva ad accertare direttamente tutte le …

DI VAGNO E LA RIVINCITA SUL FASCISMO

di Cesare Preti* La Rivista storica del socialismo è una pubblicazione periodica edita dalla Biblion di Milano che, malgrado il primo termine della testata, sarebbe improprio definire rivista: esce infatti in volumi saggistci con cadenza semestrale. Ha alle spalle una storia a dir poco gloriosa, in quanto una prima serie di essa venne pubblicata dal 1958 al 1967 sotto la direzione di Stefano Merli e Luigi Cortesi, due tra i maggiori storici del dopoguerra, ed ebbe allora un notevole ruolo nel preparare il terreno intellettuale sul quale attecchì il seme del ’68 italiano. Di recente ha ripreso le pubblicazioni, con una nuova serie inaugurata nel 2016 sotto la direzione di Paolo Bagnoli. E si può ben dire che a oggi abbia riconquistato lo spazio che le era proprio nel panorama dei periodici scientifici di campo storico del nostro Paese. Nell’ultimo volume, datato al primo semestre 2018 ma uscito di fatto nello scorso maggio, è ospitato un saggio dell’autore di questa nota, che si occupa di Giuseppe Di Vagno senior, della sua storia e del delitto di cui fù vittima. Uno dei delitti politici che hanno insanguinato la storia Italiana del ventesimo secolo, e un momento chiave nelle vicende che portarono alla presa del potere del fascismo, agli inizi degli anni Venti. Al centro vi è, quindi, la vicenda umana, memorabile prima, tragica poi, di un politico dalle molte doti. Nato a Conversano nel 1889, Di Vagno frequentò la Sapienza romana, luogo nel quale oltre il diritto (si laureò in giurisprudenza) conobbe il socialismo. In Puglia, a Conversano e a Bari, dal 1911 al 1921, fù consigliere provinciale per il Partito socialista italiano e segretario dell’Ente provinciale dei consumi. Nel consiglio provinciale sedette al fianco, e lavorò gomito a gomito, con Gaetano Salvemini e Piero Delfino Pesce, occupandosi di provvedimenti che andavano incontro ai bisogni delle masse bracciantili e operaie. In quegli stessi anni conobbe anche Giuseppe Di Vittorio, con il quale condivise lotte, militanza e amicizia, tanto che Di Vittorio fu colui che accorse per primo quando Di Vagno fu colpito a morte a Mola, ed era con lui quando spirò. Alle elezioni politiche del maggio del 1921, Di Vagno fù eletto alla Camera dei deputati, conseguendo un notevole successo personale (oltre 741mila), il che lo rese oggetto di fiduciose aspettative popolari ma anche di feroci odi politici da parte di chi, in quelle aspettative, vedeva il pericolo maggiore per i propri privilegi. La sua breve esperienza parlamentare, maggio-settembre, perciò, fu tutt’altro che ordinaria, in quanto fin dalla sua proclamazione come deputato iniziò la caccia all’uomo da parte degli squadristi, determinati a eliminare un parlamentare socialista troppo popolare e troppo capace di organizzare le masse contadine contro gli abusi degli agrari. Nel giro di pochi mesi, riuscì a scampare ad almeno due, forse tre, agguati orditi contro di lui in vari luoghi del suo collegio elettorale, Bari-Foggia. Ma fu a Mola, la sera del 25 settembre 1921, dove Di Vagno si era recato per un comizio, che venne raggiunto e ucciso da un gruppo di giovani squadristi, esecutori materiali di un delitto le cui ragioni ultime passavano ben al di sopra le loro teste. Fu insomma il primo deputato, e il primo deputato socialista, ucciso dalla montante marea fascista, che con l’atto criminale alzava il tiro verso le istituzioni centrali dello Stato. Ed è qui che si apre il saggio oggetto di quest’articolo, saggio che fa il pulito intorno agli studi relativi al delitto Di Vagno e al processo di edificazione della memoria storica dì esso. Operazione che nell’immediatezza dei tragici eventi vide al lavoro la parte responsabile del delitto stesso (che andò al potere circa un anno dopo i fatti, ma che era già riuscita a far prevalere la sua narrazione del presente), la quale cercò di minimizzare ed edulcorare la portata dell’accaduto, al fine soprattutto di non fare emergere i contrasti interni al fascismo che il delitto svelava. Da ciò la versione della sequenza degli avvenimenti che portarono a morte Di Vagno che relegava il tutto a una faida di sapore e significato locale, legata al più a contrasti politici di respiro solo municipale. Narrazione che ancora nel primi decenni del secondo dopoguerra andava per la maggiore e che finì per giustificare il destino storiograficoa cui sembrava assegnata la vicenda: quello riservato agli eventi minori, materia per chi si occupa dl memoria civica. Da tale destino, la questione Di Vagno è stata riscattata solo negli ultimi decenni. Da questo punto di vista, oltre alle ricerche di Leuzzi e Lorusso, evento fondamentale sono state le pagine dedicate ad essa da parte di tre finissimi storici, Simona Colarizi, Mario Spagnoletti e Leonardo Rapone. I loro lavori convergono nel legare il delitto al cosiddetto patto di pacificazione con socialisti, auspicato dal presidente della Camera, Enrico De Nicola, che mediò al fine di far terminare le violenze politiche fasciste. Patto firmato da Mussolini il 3 agosto 1921, nell’ufficio del presidente della Camera, ma avversato dai ras dello squadriamo agrario, tra i quali il capo del fascismo dauno, Giuseppe Caradonna, forse il più oltranzista in questa contrarietà. Squadristi che si riunirono a Todi, con Dino Grandi e Italo Balbo, in un incontro lo stesso giorno della firma, per concertare la loro violenta opposizione a esso, tanto profonda da spingerli a ipotizzare la sostituzione di Mussolini alla guida del fascismo. Opposizione di cui però fu vittima Di Vagno, attraverso un delitto voluto per inviare un messaggio a Mussolini e a De Nicola. Come lo scontro all’interno del fascismo, in quel 1921, fu, temporaneamente risolto, è noto: 8 novembre 1921, durante il terzo congresso nazionale dei Fasci Italiani di combattimento, fu fondato il Partito nazionale fascista, strumento per controllare lo squadrismo. Di contro, il giorno dopo, 9 novembre, venne defininitivamente cancellato unilateralmente da parte del fascismo il patto di pacificazione con i socialisti. Fonte: La Repubblica *L’autore Cesare Preti è docente di filosofia e coordinatore del comitato scientificodela Fondazione Di Vagno. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia …

L’ACCORDO DE GASPERI-GRUBER

di Filippo Bovo Il 5 settembre 1946, a margine della Conferenza di Pace di Parigi, veniva firmato il celebre Accordo De Gasperi-Gruber sull’autonomia del Trentino Alto Adige. Il 5 settembre 1946, a margine dei lavori della Conferenza di Pace, i ministri degli Esteri italiano Alcide De Gasperi e austriaco Karl Gruber firmarono l’accordo che portava il loro nome e che doveva tutelare la condizione della minoranza linguistica tedesca del Trentino Alto Adige. Come si era giunti alla stesura di questo importante accordo? Dopo la Prima Guerra Mondiale il Trattato di Saint-Germain aveva assegnato all’Italia uscita vincitrice il Trentino Alto Adige, popolato in prevalenza da abitanti di lingua tedesca, prevalentemente nell’Alto Adige ma anche, in misura minore, nel più meridionale Trentino. Il governo fascista, giunto in sella pochi anni dopo, adottò una svariate misure volte ad italianizzare in modo più o meno forzoso la popolazione locale. L’uso della lingua tedesca in pubblico e il suo insegnamento vennero per esempio vietati, mentre altri provvedimenti come l’obbligo d’italianizzare i cognomi miravano a disperdere l’identità etnica e culturale tedesca. A ciò si dovevano aggiungere altre misure di natura militare come l’edificazione del Vallo Alpino in Alto Adige, insieme ad una forte industrializzazione che coinvolgeva i settori bellici e dell’aeronautica. Infine vi era la politica demografica del regime fascista, che mirava a trasferire quanti più italiani possibile soprattutto in Alto Adige e a spingere molti cittadini di etnia e di lingua tedesca ad abbandonare le loro terre per andare a vivere in Germania. Dopo l’8 settembre 1943 il Trentino e l’Alto Adige vennero occupati dalle truppe tedesche, e ceduti alla Germania dalla neonata Repubblica di Salò. Iniziò, sotto l’occupazione nazista, una pagina dolorosa ben rappresentata per esempio dal Lager di Bolzano. Molti altoatesini e trentini si arruolarono o furono arruolati, spesso obbligatoriamente, in due reparti al servizio della Wehrmacht: gli SS-Polizeiregiment “Bozen” ed il Corpo di Sicurezza trentino. Dopo la fine della guerra le popolazioni di lingua tedesca, ladina ed in parte anche quella trentina, sperarono in una riannessione all’Austria. Vennero raccolte ben 155.000 firme che furono poi sottoposte al governo austriaco: Vienna spingeva infatti per un referendum. L’idea venne però rapidamente scartata, malgrado il benestare sovietico, e con l’assenso degli Alleati si giunse così ad un accordo fra l’Italia e l’Austria: per l’appunto, il De Gasperi-Gruber. Il testo dell’accordo venne accluso al Trattato di Pace italiano del 10 febbraio 1947 con la seguente formula: “le potenze alleate e associate hanno preso nota degli Accordi… convenuti dal governo austriaco ed italiano il 5 settembre 1946”. Col ricorso a tale formula si rispettavano allo stesso tempo la richiesta di De Gasperi di presentare l’accordo come un libero impegno dell’Italia e l’esigenza di Karl Gruber di avere una garanzia internazionale della sua attuazione. Il trattato venne prontamente rispettato ed attuato dall’Italia, che ripristinò l’uso ufficiale del tedesco nelle scuole e nei luoghi pubblici e reintrodusse i toponimi tedeschi, oltre a permettere il ritorno nel Trentino e nell’Alto Adige di molte persone di lingua ed etnia tedesca che negli anni del fascismo erano state spinte ad emigrare in Germania. Ciò non bastò comunque a placare tutti gli animi: in alcuni ambienti austriaci e tirolesi non si accettava tanto di buon grado l’assegnazione del Trentino Alto Adige all’Italia. Le rivendicazioni austriache portarono così nel 1960 alla Risoluzione 1497 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e poi un anno dopo alla Risoluzione 1661 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Sempre in quegli anni iniziava a manifestarsi il fenomeno del terrorismo separatista altoatesino, una pagina breve seppur molto dolorosa della storia italiana. Malgrado tutto ciò, l’Accordo De Gasperi-Gruber ha funzionato resistendo alle sfide del tempo e facendo del Trentino Alto Adige un valido e ben gestito esempio di autonomia politica e regionale, una delle aree certamente più benestanti e meglio governate dell’intera Europa. Fonte: opinione-pubblica.com Decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato 28 novembre 1947, n. 1430 Accordo Degasperi-Gruber.pdf L’articolo su la Stampa di Torino: L’Austria di Kurz riscrive il Risorgimento: “Cavour e Mazzini oppressori nazionalisti” SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SE LA CITTA’ CALA LE BRAGHE DI FRONTE A UNA GIUNTA CHE GETTA CLOROFORMIO SUI DELITTI DEL FASCISMO

di Paolo Rumiz C’era da aspettarselo, date le premesse. Trieste va a ricordare l’abominio delle leggi razziali con un aborto di manifestazione. Un ritrovo di pochi intimi accanto a una lapide ben nascosta nel sottopasso del Municipio che i triestini conoscono come “el pisadòr“, leggi pisciatoio. Così, tra una festa della sardella e una Barcolana. Conclusione: con l’eccezione della Curia, della parte meno tremebonda della comunità ebraica, di qualche solitario liberale e di pochi uomini d’onore, la città che in una piazza osannante (sette ovazioni oceaniche) ha visto la proclamazione del razzismo come legge di Stato, calerà le braghe di fronte a una giunta che non gradisce la memoria. Il putiferio è nato da un manifesto, quello del liceo Petrarca, che chiama le cose col loro nome. Ma cosa c’è di forte, di duro, di estremo nella verità storica, e cioè che dei triestini furono complici attivi dei nazisti nell’espulsione e poi nella schedatura degli ebrei in vista dell’annientamento, e non pagarono mai il conto con la scusa dell’italianità da difendere contro gli slavo-comunisti alle frontiere? Meglio non ricordare che una parte della città ha tratto durevoli vantaggi economici e di carriera dal provvedimento fascista. Qualcuno magari potrebbe azzardare un nesso tra le ronde di oggi e le squadracce di ieri. Non sia mai. Il fatto è che quel nesso è svelato non dal manifesto, ma dalla reazione della giunta. Se non ci fosse un legame, non si sarebbe mostrata tanta coda di paglia e si sarebbe commemorato senza problemi l’infausto settembre che ci ha portati alla guerra, alla sconfitta e alla dannazione. Il Sindaco si illude di poter tenere a bada i più estremi dei suoi compagni di coalizione. Beato lui. Anche mio zio Giorgio Pitacco, irredentista della prima ora e poi podestà di Trieste nel Ventennio, si illuse di controllare l’avanguardismo del manganello e dell’olio di ricino. Fu sconfitto. Sappia anche Dipiazza che i suoi galletti in giunta non hanno niente a che fare con la Destra occidentale, schierata a difesa dello stato di diritto e dei valori democratici. È gente per cui il potere mondiale è ancora “in mano a ebrei e massoni” (parole pronunciate sei anni fa a un comizio leghista dal vicesindaco Polidori, che però in questa occasione ha preso le distanze dal sindaco, definendo quelle inserite nel manifesto contestato delle «semplici foto che testimoniano un momento storico»). È un movimento illiberale, amico di Putin, vicino a post-comunisti come Orbàn. Non italianissimo, ma balcanico nell’anima. So di rappresentare una minoranza. Vedo già le critiche sul web: il razzista sono io, perché il mio è un discorso che divide, eccetera. Non me ne frega niente. Su temi come questo è sacrosanto fare parte per se stessi e scavare un fossato visibile tra chi è per la libertà e chi è contro. Basta con questa melassa che proclama “vogliamoci bene“, se poi il 3 novembre si accolgono i portatori di odio in piazza per ricordare la fine della Grande Guerra. Non voglio avere nulla a che fare con chi – fosse anche la metà degli italiani – ritiene che blindare i porti sia cosa giusta. Tra le sparate sui porti chiusi e il cloroformio sulla memoria del fascismo esiste un nesso trasparente. Chiudere le coste non significa solo tradire la nostra storia marinara e il nostro passato di “trasmigratori” (eufemismo mussoliniano). Significa prima di tutto far credere alla gente che i pericoli per il Paese siano tutti esterni. Significa impartire l’ennesima autoassoluzione agli italiani, alimentare in essi sterili vittimismi ed esentarli da ogni esame di coscienza. Come dire: tranquilli ragazzi, il male è fuori di noi. Riguarda stranieri, diversi, omosessuali, streghe, eccetera. Liberatorio. Chiediamocelo. Come mai questa Italia taglieggiata dalle camorre e da eserciti di evasori, desertificata dalla grande distribuzione, divorata dall’incuria, governata da idioti talk show, saccheggiata dalle banche, bastonata dalle tasse, massacrata dalla burocrazia, spietata con i deboli e debole con i forti, come mai questa Italia espropriata del senso delle istituzioni e dei diritti del lavoro, derubata del futuro e della memoria nazionale, sedata dagli smartphone, ricattata da servizi deviati, ostaggio di sette innominabili e da inamovibili gerontocrazie, schiacciata da confraternite di fannulloni raccomandati, non pensa che ai gommoni dei disperati? L’immigrazione senza regole è un problema serio. Siamo tutti un po’ stanchi di società parallele che mettono a rischio i nostri valori. Ma dove sono tutti gli altri problemi? I ponti crollano, il Paese va in tilt per una nevicata e abbandona le sue montagne per un terremoto, la barbarie galoppa sul web, le storie degli onesti sono derise o oscurate dai giornali, l’ignoranza dilaga mentre stimati capifamiglia picchiano gli insegnanti dei loro figli per un cattivo voto, i giovani devono cercare lavoro lontano dalla patria, emigranti anch’essi, ma questo Paese, anziché guardare ai propri difetti, se la prende con gli stranieri. Il vicesindaco leghista va a farsi fotografare mentre intima a un bivacco di stranieri di sgomberare dalle Rive. Benissimo. Ma dov’è Polidori quando nelle notti triestine si scatena una movida che tiene sveglia mezza città? Dove sono le sue ronde? Vedono la droga, gli schiamazzi, la musica sguaiata fino all’alba, la volgarità, i giovani tramortiti dall’alcol, i tassisti cui tocca recuperare ragazzine schiantate sui marciapiedi? Che esempio diamo ai migranti se la nostra bella città si riduce a un divertimentificio senza radici, senza anima e senza storia? Mio Dio, è così chiaro. Siamo di fronte a un colossale depistaggio a scopo elettorale. Gli imprenditori della paura urlano su twitter per dirottare sull’uomo nero – il più perfetto dei capri espiatori – la rabbia della gente che altrimenti li colpirebbe. Sparano rancori etnici, come nella vecchia Jugo, per non ammettere la loro incapacità e non dire che domani toccherà a noi emigrare, come i nostri nonni. Indicano colpevoli, anziché soluzioni. Proclami anziché fatti. E il popolo ci casca. Sconfortante. Goebbels aveva ragione. Pensiamoci. L’Italia è l’unico Paese europeo che ha non uno ma due giorni della memoria. Bene, dirà qualcuno. Peccato che entrambi siano interpretati alla rovescia. Non per chiedere scusa, …

SANDRO PERTINI COMMEMORA IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CILENA SALVADOR ALLENDE

Italia – 26 settembre 1973 PRESIDENTE.1. (Si leva in piedi, e con lui i deputati e i membri del governo). Onorevoli colleghi, ricordiamo il capo di Stato Salvador Allende caduto per la libertà. Suo padre, sempre vicino ai contadini del suo paese e che per riscattarli dalla loro antica miseria si era battuto tutta la vita, fu lasciato morire nella più triste solitudine. Salvador Allende, ventenne, era in carcere per aver manifestato in favore degli operai delle miniere sfruttati da società straniere. Gli fu negato di assistere il padre agonizzante; gli fu solo consentito di visitarne la tomba. Sulla tomba del padre Salvador Allende fece un giuramento: «Non potrò vivere, se non mi sforzerò di fare qualcosa per cambiare questo paese». Allende non aveva che ventidue anni. Da allora ha inizio la sua lotta per sollevare dalla miseria la sua gente. Il Cile era il paese più ricco in materie prime dell’America latina e tra i più miseri per reddito individuale. Dominavano una borghesia agraria dalla mentalità feudale; funzionari avidi di privilegi; dirigenti di miniere assoldati dalle società sfruttatrici statunitensi. Salvador Allende, laureatosi in medicina, divenne il medico dei poveri. Uomo politico, ministro in un governo del fronte popolare, considerò quale primo problema da risolvere quello dell’indipendenza economica del suo paese «capace – affermava – di arricchire gli altri, mentre restava sempre più povero». Assunse la Presidenza del Senato lanciando questa parola d’ordine, cui resterà sempre fedele: «Con la ragione, democraticamente, ma senza cedimenti». Era un socialista che aspirava al socialismo dal volto umano. Non volle mai ricorrere alla forza, perché pensava che non vi può essere socialismo senza libertà. Vinse le elezioni presidenziali del 1970 e Presidente della Repubblica fu confermato dal Congresso. Fedele ai princìpi che informarono tutta la sua vita e che mai volle rinnegare si trovò contro anche i suoi amici, rappresentanti della media borghesia, pronti a scendere a compromessi, e i militanti di movimenti di estrema sinistra, che organizzarono la guerriglia. Nel suo discorso di insediamento alla Presidenza della Repubblica, dinanzi al Congresso, disse: «Vogliamo sostituire il regime capitalista. Sappiamo che ciò non è stato possibile fino ad ora democraticamente. Ma adesso ci proveremo». Salvador Allende nazionalizza le miniere di rame. Le compagnie minerarie statunitensi pagavano il rame al Cile meno della metà di quanto lo vendevano sul mercato mondiale. Realizza una radicale riforma agraria. Ridistribuisce il reddito nazionale per elevare le condizioni di vita dei ceti più poveri. Costruisce case per i baraccati. Solleva dalla nera miseria un vasto strato della popolazione. Tutto fa con il consenso del Congresso. Dicevano le donne del popolo: «Oggi possiamo dar da mangiare ai nostri figli. Prima, quando il Cile era “il paese dell’abbondanza” e i negozi del centro erano pieni, dovevamo ingannare la fame dei nostri figli con la “segatura di osso”, quella poltiglia che si suole formare ai lati della segatrice a nastro che usano i macellai». Errori sono stati commessi? Ma quando si devono spezzare incrostazioni create in lunghi anni dallo sfruttamento e dall’egoismo di caste privilegiate e di società straniere, non è opera facile ed errori sono non solo possibili, ma anche inevitabili. Ma un errore Salvador Allende non ha mai commesso; egli non ha mai tradito la democrazia e la classe lavoratrice del suo paese. Non errori resero vana l’opera d’Allende, bensì l’ostilità accanita delle società statunitensi e della borghesia agraria, che diffondendo il panico tra la popolazione organizzarono una sistematica opera di sabotaggio. Allende cercò di dominare la tempesta, restando nella legalità, rispettando le libertà democratiche, non perseguitando alcuno dei suoi nemici. Il sabotaggio organizzato riuscì a mettergli contro anche la media borghesia, alla quale aveva garantito la libertà delle piccole e medie industrie, quella media borghesia che da anni protestava, perché era oppressa dalle società straniere. Ma il sabotaggio organizzato lo stava prendendo alla gola. La strada socialista nella legalità gli veniva sbarrata. L’esasperazione si manifestò negli altri strati della popolazione quando si diffuse la notizia che 20 milioni di dollari venivano impiegati per combattere Allende; che gli agenti stranieri negli ultimi anni erano triplicati e che il Fondo monetario si era rifiutato di aiutare il Cile. Lo sdegno si diffuse quando si seppe che pressioni venivano esercitate sull’esercito – tradizionalmente leale verso il Parlamento – perché non accettasse il comando di generali fedeli ad Allende. Un generale, suo fedele amico, Schneider, fu assassinato da elementi di destra. Il 24 agosto il generale Prats, amico di Allende, è costretto da altri generali ad abbandonare la carica di capo di stato maggiore. Si arriva così al «colpo di Stato», opera di generali che rinnegando il giuramento di fedeltà alla Repubblica e spinti a consumare la loro azione criminosa da forze esterne, di cui sposano gli egoismi, non esitano a schierarsi contro gli istituti democratici e contro gli interessi della loro patria. Affermano di voler ristabilire l’ordine! Ma quando si calpesta la libertà si stabilisce solo l’ordine delle galere e dei cimiteri. Salvador Allende non vuole trattare con i traditori, preferendo rifiutare la vita per amore della libertà. Invita i suoi amici, che vogliono restare al suo fianco, a lasciarlo solo: «Adesso devo rimanere solo. Non posso fare altrimenti». Ed è assassinato da ufficiali, che, cessati di essere soldati di onore, si tramutano in criminali. Egli negli ultimi istanti, solo tra le rovine del palazzo de la Moneda, ebbe certamente dinanzi alla sua mente chiaro questo: che il sacrificio della sua vita era necessario non solo per restare fedele ai suoi princìpi, ma anche perché dal suo sacrificio il popolo lavoratore cileno traesse la volontà e la forza morale di lottare per riconquistare la propria libertà. Cade Salvador Allende al suo posto di lotta, la libertà si spegne nel Cile e si spegne anche la voce del grande poeta Pablo Neruda, il poeta «della dignità umana violata». Questa voce, che aveva denunciato al mondo intero la miseria del suo popolo sfruttato, ora tace per sempre. L’ultima sua poesia fu un atto di accusa contro i generali spergiuri. La sua casa è stata …

I MILLE GIORNI DI ALLENDE

di  Ugo Bertone Cile, 5 settembre 1970: per soli 39.175 preferenze, alle elezioni presidenziali si afferma il cartello delle sinistre di Unidad Popular, che ottiene la maggioranza relativa. Il socialista Salvador Allende diventa il nuovo presidente della repubblica. In mente ha un ambizioso progetto; portare la rivoluzione nel paese senza uscire dai binari della legalità costituzionale. Ben presto, però, la fragilità della maggioranza e la crisi economica provocata dall’ostruzionismo degli Stati Uniti minano le basi del suo governo, che viene anche abbandonato dalla classe media. Dopo tre anni di lotte, nazionalizzazioni e scioperi, sarà l’esercito a far svanire il sogno cileno, con il colpo di stato di Augusto Pinochet. Gli stadi diventeranno lager e la tortura una pratica quotidiana. Alle 2.50 del  5 settembre 1970 un terremoto politico investe l’America latina. Lo spoglio delle schede è finito: Salvador Allende, medico, socialista, candidato di Unidad Popular, al suo quarto tentativo, ha conquistato la maggioranza relativa alle elezioni presidenziali cilene. Su quello strano paese, lungo più di 4 mila chilometri ma largo non più di 200, si accendono i riflettori del mondo. Per la prima volta un marxista può diventare capo di un governo nell’emisfero Ovest grazie a una vittoria elettorale e non a una insurrezione armata. Da Roma e da Parigi, capitali del marxismo occidentale, arrivano a Santiago del Cile legioni di giornalisti, analisti politici, semplici militanti ansiosi di capire come reagirà il laboratorio all’inedita formula cilena. E  l’attenzione è tanto più giustificata se si guarda alle ambizioni di Salvador Allende Gossens, 61 anni, marxista e massone, figlio di un avvocato, dal ’52 ostinatamente impegnato a cercare una “via cilena” al socialismo democratica e pacifica, ma non per questo meno radicale. “Caro Allende, tu con altri mezzi cerchi di ottenere la stessa cosa” gli ha scritto Che Guevara, dedicandogli una copia del suo libro “La guerra di guerriglia“. E il Che ha ragione: anche Allende vuole la rivoluzione, la sovversione degli equilibri economici esistenti, la socializzazione dei mezzi di produzione, ma promette di realizzare queste trasformazioni nel rispetto della costituzione e della legalità. Non è cosa da poco e lui ne è cosciente al punto di dire che “il nostro esperimento non sarà meno importante della rivoluzione russa“. Fantasie? Forse, ma ci credono in molti, anche a Washington. Dieci giorni dopo il voto cileno, il 15 settembre, alla Casa Bianca si tiene una riunione a cui partecipano il presidente Richard Nixon e il direttore della Cia, Richard Helms. “Una possibilità su dieci – avrebbe detto il presidente secondo gli appunti di Helms ma liberiamo il Cile da quel figlio di puttana! Vale la pena di provarci; noi non saremo impegnati direttamente; nessun contatto con l’ambasciata (Nixon era fuori di sé perché i dispacci da Santiago avevano dato per sicura l’affermazione delle destre, n. d. r); dieci milioni di dollari a disposizione e anche di più se necessario; impiego a tempo pieno per i nostri agenti migliori; una strategia: strozzare l’economia; tempo 48 ore per pianificare l’azione”. Un documento, reso pubblico a dicembre ’98 dall’amministrazione Clinton, conferma l’autenticità degli appunti. “Il capo – si legge nel promemoria ha sottolineato che il progetto deve essere pronto per il 18 perché Henry Kissinger in persona vuole avere tutti i particolari della missione CIA”. L’azione degli Stati Uniti è certamente una delle cause che hanno portato alla fine tragica dell’esperienza cilena dopo mille giorni di governo. Ma questa considerazione non deve far trascurare il fatto che il sogno rivoluzionario di Allende nasce già debole in un paese diviso, sia da un punto di vista politico sia da quello delle condizioni sociali ed economiche. E questa fragilità accompagnerà sempre l’esperimento Allende. Tanto per cominciare il candidato delle sinistre non dispone della maggioranza assoluta. Per Allende, nel 1970, ha votato poco più di un milione di cittadini (1.070.334 voti), il 36,2% dell’elettorato, contro gli 821. 501 suffragi” (il 27,4 %) raccolti da Rodomiro Tomic, il candidato della Democrazia Cristiana che si è presentato agli elettori con un programma radicale che prevede espropri a vantaggio degli agricoltori e la nazionalizzazione delle miniere di rame. Soprattutto, però, l’alleanza delle sinistre (comunisti, socialisti, radicali e socialdemocratici) ha battuto di misura Jorge Alessandri, ex primo ministro sostituito nel ’64 dal democristiano Eduardo Frei candidato dalla destra, che ha raccolto 1.031.159 voti, ovvero 39.175 in meno di Unidad Popular. Allende è in testa, insomma, ma di poco. E molti attribuiscono il sorpasso ai danni di Alessandri all’infelice conferenza tv del candidato di destra, apparso tanto vecchio da rasentare il rimbambimento (“Vedete che le mie mani non tremano!” disse lo stesso Alessandri davanti alle telecamere il giorno del voto, cercando con poco successo di rimediare alla magra figura). La grande rivoluzione nasce quindi da una vittoria elettorale risicata, tutt’altro che trionfale a un’analisi approfondita perché le sinistre oltre tutto non sono nemmeno in ascesa. Nelle elezioni del ’70 le sinistre avevano ottenuto infatti, una percentuale di voti inferiore a quella raggiunta nel ’64 (quando Allende ottenne il 38% abbondante nonostante i massicci aiuti della CIA al candidato democristiano) tra i nuovi elettori, nel ’70, Unidad Popular ottiene solo il 13,3 % dei voti. La frana della democrazia cristiana, dopo le delusioni della rivoluzione nella libertà di Edoardo Frei, aveva portato quindi più consensi alla destra che non alla sinistra radicale. Nella stessa Democrazia cristiana, poi, buona parte dell’elettorato e del partito erano senz’altro a destra delle posizioni espresse da Tomic. Unidad Popular, insomma, non rappresentava la maggioranza nel paese. Non solo: il presidente avrebbe dovuto scendere a patti con il parlamento, cui spettava il potere di ricusare il capo dello stato e i ministri, controllato dai democristiani e dalla destra. Ad Allende, infine, sfuggiva il controllo della Contraleria General de la Republica, cui spettava la supervisione sugli atti amministrativi dell’esecutivo, e della magistratura. Minoritario nel paese e nel parlamento, Allende non poteva contare nemmeno sulla compattezza di UNIDAD POPULAR. La via pacifica e parlamentare al socialismo era apertamente osteggiata a sinistra dal Mir; il Movimiento de Izquieerda Revolucionaria, convinto del primato della …

SETTEMBRE ’92: LA LETTERA DI SERGIO MORONI A NAPOLITANO

Egregio Signor Presidente, ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni pri­ma di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita. E’ indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cam­biamento radicale sul modo di essere nel nostro Paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l’espressione. Al cen­tro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che ciò av­venga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruo­ta della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali. Ricordo l’agghiacciante procedura delle «decimazioni» in uso presso alcuni eserciti, e per alcuni versi mi pare di ritrovarvi dei collegamenti. Né mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la «pulizia». Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste stesse regole. Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno tatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distingue­re, ancora prima sul piano morale che su quello legale. Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consu­mi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televi­sive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità perso nale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto all’informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie. A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergono a censori. Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da «pogrom» nei con­fronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma che pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno po­tuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizza­re positivamente le proprie capacità e competenze. Io ho iniziato giovanissimo, a soli 17 anni, la mia militanza politica nel Psi. Ricor­do ancora con passione tante battaglie politiche e ideali, ma ho commesso un errore accettando il «sistema», ritenendo che rice­vere contributi e sostegni per il Partito si giustificasse in un conte­sto dove questo era prassi comune, né mi è mai accaduto di chie­dere e tanto meno pretendere. Mai e poi mai ho pattuito tangen­ti, né ho operato direttamente o indirettamente perché procedu­re amministrative seguissero percorsi impropri e scorretti, che ri­sultassero in contraddizione con l’interesse collettivo. Eppure oggi vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo tangenti, accomu­nato nella definizione di «ladro» oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non avere mai personalmente approfit­tato di una lira. Ma quando la parola è flessibile, non resta che il gesto. Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessio­ne più serie e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servi­re a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di con­danna. Con stima. Sergio Moroni SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it