IL VANGELO SOCIALISTA

Quarant’anni orsono, il 27 agosto 1978, comparve sull’Espresso un lungo articolo di Bettino Craxi dal titolo: “Il vangelo socialista” in risposta ad un precedente intervento di Enrico Berlinguer sul leninismo. Il contenuto segnò una forte divisione tra le due anime della sinistra di allora ed in verità, come ricordato da Massimo Pini in: ”Craxi, una vita un’era politica” le idee del testo furono stese da Luciano Pellicani, ex comunista e docente di sociologia politica, in una raccolta di contributi in onore di Willy Brandt. Inoltre fece epoca l’introduzione forte del pensiero di Proudhon nel pantheon socialista. “La storia del socialismo non è la storia di un fenomeno omogeneo. Nel corso di travagliate vicende sotto le insegne del socialismo si sono raccolti e confusi elementi distinti e persino reciprocamente repulsivi. Statalismo e antistatalismo, collettivismo e individualismo, autoritarismo e anarchismo, queste e altre tendenze ancora si sono incontrate e scontrate nel movimento operaio sin da quando esso cominciò a muovere i suoi primi passi come unità politica e di classe. In certe circostanze storiche le impostazioni ideologiche diverse sono addirittura sfociate in una vera e propria guerra fratricida. È così avvenuto che tutti i partiti, le correnti e le scuole che si sono richiamate al socialismo, si sono poste in antagonismo al capitalismo, ma ciò non è quasi mai stato sufficiente ad eliminare divisioni e contrapposizioni. I modelli di società che indicavano come alternativa alla società capitalistica erano spesso antitetici. La profonda diversità dei «socialismi» apparve con maggiore chiarezza quando i bolscevichi si impossessarono del potere in Russia. Si contrapposero e si scontrarono concezioni opposte. Infatti c’era chi aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l’azione dominante dello Stato e c’era chi auspicava il potenziamento e lo sviluppo del pluralismo sociale e delle libertà individuali. Riemerse così il vecchio dissidio fra statalisti e antistatalisti, autoritari e libertari, collettivistici e non. La divisione si riflesse a grandi linee nell’esistenza di due distinte organizzazioni internazionali. I primi, eredi della tradizione giacobina, si raggrupparono sotto la bandiera del marxismo-leninismo, mentre i secondi volevano rimanere nell’alveo della tradizione pluralistica della civiltà occidentale. A partire dal 1919 il socialismo, anche dal punto di vista organizzativo, sarà attraversato da due grandi correnti e da molti rivoli collaterali, che si potrebbero meglio definire solo analizzando la storia dei singoli partiti. Non sono pochi a ritenere che la scissione, vista nelle sue grandi linee, viene da lontano. C’è chi ne vede le radici nella stessa Rivoluzione francese, durante la quale, mentre era in atto la guerra contro l’Antico Regime, si scontrarono due concezioni della società ideale; quella autoritaria e centralistica e quella libertaria e pluralistica. Già nelle analisi di Proudhon per esempio si tenta l’individuazione delle radici etico-politiche del conflitto latente, che lacerava la sinistra. In Proudhon c’è infatti un’appassionata difesa non solo delle radici ideali della protesta operaia contro lo sfruttamento capitalistico ma anche una percezione acuta della divaricazione sostanziale tra la società socialista e la società comunista. Da un lato il comunismo che vuole la soppressione del mercato, la statalizzazione integrale della società e la cancellazione di ogni traccia di individualismo. Dall’altra il socialismo, che progetta di instaurare il controllo sociale dell’economia e lavora per il potenziamento della società rispetto allo Stato e per il pieno sviluppo della personalità individuale. Proudhon considerava il socialismo come il superamento storico del liberalismo e vedeva nel comunismo una «assurdità antidiluviana» che, se fosse prevalso, avrebbe «asiatizzato» la civiltà europea. Lo stesso Proudhon ci ha lasciato una descrizione profetica di che cosa avrebbe generato l’istituzionalizzazione del rigido modello statalista e collettivistico: «la sfera pubblica porterà alla fine di ogni proprietà; l’associazione provocherà la fine di tutte le associazioni separate e il loro riassorbimento in una sola; la concorrenza, rivolta contro se stessa, porterà alla soppressione della concorrenza; la libertà collettiva, infine, dovrà inglobare le libertà cooperative, locali e particolari». Conseguentemente sarebbe nata «una democrazia compatta fondata in apparenza sulla dittatura delle masse, ma in cui le masse avrebbero avuto solo il potere di garantire la servitù universale, secondo le formule e le parole d’ordine prese a prestito dal vecchio assolutismo riassumibili: Comunione del potere Accentramento Distruzione sistematica di ogni pensiero individuale, cooperativo e locale, ritenuto scissionistico Polizia inquisìtoriale Abolizione o almeno restrizione della famiglia e, a maggior ragione, dell’eredità Suffragio universale organizzato in modo tale da sanzionare continuamente questa sorta di anonima tirannia, basata sul prevalere di soggetti mediocri o perfino incapaci e sul soffocamento degli spiriti indipendenti, denunciati come sospetti e, naturalmente, inferiori di numero». Qui, come si vede, Proudhon indica che cosa non doveva essere il socialismo e contemporaneamente che cosa sarebbe diventata la società se fosse prevalso il modello collettivistico basato sulla statizzazione integrale dei mezzi di produzione e sulla soppressione del mercato. La storia purtroppo ha portato qualche elemento di fatto a sostegno della sua previsione. Il socialismo di Stato, messi in disparte tutti i valori, le istituzioni e i principi della civiltà moderna, li ha sostituiti con un modello di vita collettivistico, burocratico e autoritario, cioè con un sistema pre-moderno. E ciò è tanto vero che molti rappresentanti della cultura del dissenso spingono la loro critica sino al punto di vedere nel comunismo, così come storicamente si è realizzato, una vera e propria «restaurazione asiatica». Ma, per venire ad analisi più recenti, ricordiamo che molti altri intellettuali della sinistra europea hanno sviluppato questo filone critico. Da Russell a Carlo Rosselli a Cole ci perviene un unico stimolo che ci invita a non confondere il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva. Il superamento storico del liberalismo con la sua distruzione Il carattere autoritario di ciò che viene chiamato il «socialismo reale o maturo» non è una deviazione rispetto alla dottrina, una degenerazione frutto di una data somma di errori, bensì la concretizzazione delle implicazioni logiche dell’impostazione rigidamente collettivistica originariamente adottata. L’esame dei fondamenti essenziali del leninismo non può che confermare tale tesi. Fino alla pubblicazione di «Che fare?» Lenin fu sostanzialmente un marxista ortodosso: credeva che …

INCONTRO DI NENNI E SARAGAT A PRALOGNAN

Circostanze dell’incontro e le dichiarazioni di Saragat Le ferie estive avevano già fatto dimenticare la questione dell’unificazione socialista, quando, la domenica del 26 agosto, si diffuse improvvisamente la notizia dell’incontro Nenni-Saragat. Effettivamente, il 25 agosto 1956, l’on. Saragat, accogliendo l’invito rivoltogli da Nenni agli inizi del mese, da Courmayeur, dove si trovava in vacanza, si recò a Pralognan, nell’Alta Savoia, luogo di villeggiatura del Segretario del PSI, e per 5 ore consecutive (dalle 11 alle 16), all’Hòtel du Glacier, presente l’on. Chiaramello, discusse con lui il problema dell’unificazione. Secondo quanto dichiarò l’on. Saragat, ad Aosta, la sera stessa del 25 agosto, ad un corrispondente de «La Stampa» di Torino, l’incontro fu «estremamente cordiale e positivo, e nel corso del colloquio furono esaminati gli aspetti fondamentali di una politica estera ed interna, su una base socialista e democratica, e su tutti i problemi si è constatata una convergenza dei rispettivi punti di vista. In particolare, Nenni si sarebbe impegnato in forma precisa sui due punti fondamentali seguenti: a) qualsiasi attività di politica estera italiana deve essere fissata entro il quadro della solidarietà delle nazioni democratiche occidentali; b) un partito socialista non formerà mai un governo con i comunisti. Prime dichiarazioni di Nenni Queste dichiarazioni di Saragat provocarono dovunque una profonda impressione, suscitando i più svariati commenti ed interpretazioni, e mettendo in imbarazzo l’on. Nenni, il quale, si affrettò a precisare, o meglio, ad attenuare la portata delle parole di Saragat. In un’intervista, concessa il 27 agosto a E. Corrodi, inviato di de il «Corriere della Sera», Nenni confermò gli «elementi positivi» dell’incontro con Saragat, e una a certa «concordanza di obiettivi» tra lui e il leader del PSDI. Abbiamo avuto l’impressione -dice E. Corrodi- che tale concordanza riguardasse anche la sostanza dei due punti fondamentali, segnalati da Saragat, sebbene sia ovvio che l’ultima parola su tali punti spetta agli organi competenti dei loro Partiti. In particolare, Nenni cercò di indicare i motivi e le tappe dell’azione unificatrice dei due partiti socialisti. a) Motivi dell’azione unificatrice. «C’è una situazione dalla quale bisogna uscire. Essa è, a mio giudizio, più grave di quanto non sembri alla superficie, e comporta elementi di disintegrazione, che fanno pensare al 1922, anche se le forze in azione non sono esattamente quelle di allora. C’è in corso – come reazione a codesta situazione – il processo di unità socialista. Il PSI si è posto questo problema nell’ultimo suo Comitato Centrale, negli atti e nella direzione del Partito, nelle iniziative -non sempre fortunate- delle federazioni, per quanto si riferisca alla formazione delle Giunte comunali. Non è una cosa facile. Colossali interessi cercano di sbarrare la via all’unità socialista. Uno dei mezzi a portata di mano è di porre il problema in termini di scandalo o di teatro …». b) Tappe dell’unificazione. «A giudizio degli organi direttivi del PSI, la via che può condurre all’unità socialista implica: a) la ricerca di concreti motivi di riavvicinamento negli atti immediati, che stanno di fronte a noi; b) una comune piattaforma per le elezioni del 1958 o del 1957, se venissero anticipate; c) la riunificazione come conclusione di un incontro sul piano della democrazia e degli interessi dei lavoratori». Nuove dichiarazioni di Nenni Quanto alle possibili conseguenze del suo incontro con Saragat all’interno del Paese, e quanto alle sue posizioni rispetto al Patto Atlantico e al PCI, Nenni precisò il suo pensiero in un’intervista, concessa il 30 agosto, al settimanale di sinistra francese, «France-Observateur», di cui riportiamo i tratti più importanti. Possibili conseguenze dell’incontro Nenni-Saragat. «Dal mio incontro con Saragat, può derivare, in primo luogo, l’anticipazione delle elezioni generali (che verrebbero fatte nel 1957 anziché nel 1958) … Non so se vi saranno presto dei cambiamenti in seno al Governo, ma l’evoluzione di Saragat può tuttavia determinare una rottura assai rapida della coalizione…» (A questo proposito ricordiamo che Saragat in data 29 agosto, ha escluso in modo assoluto che si verifichino dimissioni in seno al Governo fino al prossimo congresso del PSDI, che dovrebbe aver luogo nella primavera del 1957). Inoltre, [l’evoluzione di Saragat] può precipitare una evoluzione in seno alla DC. Oggi, in Italia, non vi è un pericolo fascista, in quanto tale, ma un pericolo clericale, sotto una forma nuova, più intelligente. Si assiste, cioè, a un duplice fenomeno: da una parte, considerevole evoluzione di certi ambienti cattolici (professori e studenti); dall’altra, un opposto irrigidimento della gerarchia clericale, che vuole arrestare tale evoluzione. Con la scusa di lottare contro il pericolo comunista, essa vuole lottare contro la società moderna…» Posizione dl Nenni rispetto al Patto Atlantico. «Noi rimaniamo neutralisti, ma la nostra posizione rispetto al Patto Atlantico ha subito un’evoluzione, così come è accaduto per lo stesso Patto Atlantico, il quale oggi non è più ciò che era nel 1949. Vi sono, oggi, dei fatti nuovi, ha nostra evoluzione rispetto al Patto Atlantico poteva già venire valutata in una recente riunione del nostro Comitato Centrali. Ma l’Italia lavorerà sempre contro la divisione del mondo in due blocchi» Posizione di Nenni rispetto al PCI. La stampa borghese si è precipitata a gridare allo scandalo e ad annunciare la nostra rottura con i Comunisti. Nelle attuali circostanze un fronte popolare è inconcepibile in Italia. Nel 1948 la nostra alleanza con i Comunisti aveva finito per dare alla DC 13 milioni di voti: oggi sarebbe ancora peggio… Ma non vi è rottura con i Comunisti. Si riprendano le mie recenti dichiarazioni al Comitato Centrale del PSI, e si veda come io abbia che l’istituzione di un nuovo patto di unità d’azione con Togliatti era inutile, e che i nostri rapporti dovevano stabilirsi su fatti reali. Questa resta la mia posizione. Può darsi che i nostri amici comunisti non siano entusiasti dell’evoluzione dei miei rapporti con Saragat, ma ciò susciterà problemi piuttosto di forma che di sostanza. Non faremo che quanto occorre fare nell’interesse della classe operaia. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove …

SACCO E VANZETTI

Le autorità giudiziarie e politiche americane del Massachusetts, trascinano la decisione sulla sorte dei due martiri, da una settimana all’altra. Sperano forse che il digiuno ed il tormento le tolgano dall’imbarazzo del decidere? O che l’ondata di ottimismo succeduta alle ore di ansia e di sdegno, agevoli la consumazione del delitto? Sappiano i lavoratori che oggi più di ieri la sorte di Sacco e Vanzetti è affidata alla loro protesta. Nulla è stato fatto finché tutto non sarà stato fatto. Il capitalismo americano non abbandona facilmente la preda prescelta alle proprie vendette. E ricordino che combattere per la salvezza di Sacco e Vanzetti significa lottare in favore di tutte le vittime politiche, per la ripresa proletaria in tutto il mondo, per il l proprio avvenire! Avanti!  21 Agosto 1927 Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, pugliese il primo e piemontese il secondo emigrarono negli Stati Uniti nel 1908. Vissero e lavorarono nel Massachusetts facendo i mestieri più disparati come consuetudine in quegli anni per gli immigrati, (alla fine Sacco calzolaio e Vanzetti pescivendolo), professando le loro idee socialiste di colore anarchico e pacifista. Nell’aprile del 1920 in un clima permeato da pregiudizi e da ostilità verso gli stranieri, furono accusati di essere gli autori di una rapina ad una fabbrica di calzature in cui rimasero vittime un cassiere e una guardia armata. Il processo istituito contro di loro non giunse mai alla certezza di provare accusatorie sicure, ma fu fortemente condizionato dall’ansia di placare un opinione pubblica furiosa e avvelenata dalla violenza, a cui bisognava dare dei colpevoli e dal pretesto fornito dall’evento per la scalata al successo personale del giudice Thayer e del pubblico ministero Katzann. Di certo Sacco e Vanzetti pagarono per le loro idee anarchiche, idealiste e pacifiste (al momento dell’intervento americano del conflitto del 15-18 si rifugiarono in Messico per non essere arruolati) e per il fatto di far parte di una minoranza etnica disprezzata ed osteggiata come quella italiana. Non da meno pesarono le azioni violente e terroristiche dell’altra ala del pensiero anarchica dei primi anni del secolo (ad es. Gaetano Bresci e Giovanni Passanante) e non ultime alcune contraddizioni della linea difensiva. Dopo circa un anno di processo il 14 luglio 1921 furono condannati alla sedia elettrica. Sacco e Vanzetti ribadirono fino all’ultimo la loro innocenza, ma nonostante nel 1925 un pregiudicato, tal Celestino Madeiros si accusasse di aver partecipato alla rapina assieme ad altri complici; scagionando completamente i due italiani e nonostante appelli e manifestazioni di solidarietà e di richiesta di assoluzione da parte dell’opinione pubblica mondiale, la notte del 23 agosto 1927 Sacco e Vanzetti furono giustiziati sulla sedia elettrica. Nel 1977 dopo che il caso era stato più volte riaperto, il governatore del Massachusetts, Michael S. Dukakis, riabilitò le figure di Sacco e Vanzetti, scrivendo nel documento che proclama per il 23 agosto di ogni anno il S.&V. Memorial Day che “il processo e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti devono ricordarci sempre che tutti i cittadini dovrebbero stare in guardia contro i propri pregiudizi, l’intolleranza verso le idee non ortodosse, con l’impegno di difendere sempre idiritti delle persone che consideriamo straniere per il rispetto dell’uomo e della verità”. A noi di tutta la vicenda (che per la durata della prigionia e i contorni della fine assume quasi caratteri martirologici) preme far rilevare l’estrema coerenza e convinzione nei valori professati da Sacco e Vanzetti, mai rinnegati fino alla fine e non ultimo il forte legame di amicizia che li tenne uniti e spiritualmente vicini per tutta la loro esistenza, anche nel momento in cui salirono sulla sedia elettrica, con un coraggio, uno stoicismo ed una umanità su cui tutti dovremmo riflettere e confrontarci. Perché in ogni caso la vera memoria ha un futuro dentro ognuno di noi. Fonte: saccoevanzetti.com SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’ORDINE SOVIETICO REGNA A PRAGA

di Antonio Gambino – Agosto 1968 Inviato de L’espresso Le truppe di Mosca e del Patto di Varsavia sono entrate nel paese da varie direzioni e lo hanno occupato. Il mondo trattiene il fiato. A trent’anni esatti dai giorni di Monaco la vita nazionale della Cecoslovacchia è stata ancora una volta violata, la sua sovranità manomessa e calpestata. Le truppe russe, polacche, tedesco-orientali, ungheresi e perfino bulgare, sono penetrate, da varie direzioni, nel suo territorio, hanno occupato Praga e le altre città più importanti, si sono schierate al confine con il mondo occidentale. Le notizie della prime ore della mattina di mercoledì 21 agosto (quelle in cui scriviamo) non dicono di più. Ma esse contengono l’essenziale della situazione, mostrano che ancora una volta il piccolo popolo cecoslovacco è vittima di un’aggressione brutale e ingiustificata, è al centro di avvenimenti tragici, certamente destinati ad avere ripercussioni mondiali di portata incalcolabile. Che la tensione tra Praga e Mosca non fosse finita con le formule di compromesso di Cierna e di Bratislava era apparso chiaro fin da principio: evidentemente, quello che si era chiuso all’inizio di agosto era solo il primo round di una partita complessa e lunga. Ma contro la ipotesi di una invasione armata sovietica, diretta ad eliminare con la forza il gruppo dirigente stretto intorno a Dubček e a porre fine alla sua politica rinnovatrice, militavano obiezioni precise: in primo luogo la differenza (sulla quale avevano in particolare insistito i comunisti italiani nei loro colloqui con i dirigenti dei Pcus) tra l’esplosione ungherese del 1965 e l’andamento controllato della evoluzione cecoslovacca. Più in generale, un certo ottimismo (diffuso sia in Occidente che nella stessa Cecoslovacchia) nasceva dall’impossibilità di credere che nel 1968, dopo anni di insistenza sui temi della coesistenza pacifica e di un nuovo assetto continentale (fondato sullo slogan paragollista: “l’Europa agli europei”), i dirigenti di Mosca potessero nuovamente ricorrere ai metodi della tradizione zarista per richiamare all’ordine quelli che essi (oggi non meno che all’epoca di Stalin) considerano gli Stati vassalli e satelliti dell’Urss, la fascia protettiva esterna della grande madre Russia. Queste speranze sembravano fermate dall’improvvisa diminuzione degli attacchi contro la Cecoslovacchia, da parte della stampa sovietica, tedesco-orientale e polacca, avvenuta nella prima metà di agosto. Il periodo di tregua non era però durato a lungo. Già da una settimana i giornali e le riviste di Mosca avevano ricominciato il loro martellamento, aggiungendo alle vecchie accuse contro gli intrighi dei “capitalisti” e dei gruppi antisocialisti interni nuove “rivelazioni” a proposito dei progetti dei “revanscisti di Bonn” per staccare l’ex regione dei Sudeti dal territorio cecoslovacco. Questa ripresa della polemica costituiva, evidentemente, un fenomeno preoccupante. Dopo che Dubček e Breznev avevano chiarito nei quattro giorni di colloqui di Cierna le rispettive posizioni, gli attacchi continui contro la Cecoslovacchia non potevano infatti essere più visti come un mezzo di pressione e di minaccia, sulla cui efficacia non ci si poteva più fare molte illusioni, ma potevano solo costituire la premessa per un intervento armato. Ed in effetti è proprio sul motivo di un pericolo esterno, oltre che sul preteso appello degli stessi dirigenti di Praga, che Mosca ha insistito per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale la sua aggressione. Un comunismo primitivo I motivi sostanziali sono altri. Essi vanno ricercati innanzi tutto nel fatto che in Cecoslovacchia il regime comunista non solo, come in tutto il resto dell’Europa orientale, ha radici precarie, ma non ha neppure quella forma di giustificazione storica che gli si può riconoscere invece in Romania, in Bulgaria, e perfino in Ungheria e in Polonia, per aver contribuito ad eliminare situazioni arretrate e spesso dichiaratamente feudali. Usciti dal lungo periodo di compressione dello stalinismo e del novotnismo (periodo che ha assunto a Praga caratteri particolarmente tetri e biechi, proprio nel tentativo di cancellare con la violenza la realtà profonda del paese), i cechi e gli slovacchi hanno cominciato un moto evolutivo, di ricerca della propria identità nazionale e culturale, destinato evidentemente ad andare oltre ad ogni schematismo e ad ogni disciplina di partito. Se a tal moto fosse stato permesso di proseguire è certo che, in un tempo più o meno breve, un popolo che prima della seconda guerra mondiale era tra i più moderni e civili di Europa avrebbe finito per rigettare in ogni sua forma quel comunismo autoritario e primitivo che, nato trenta anni prima in un paese infinitamente più arretrato, alla fine della seconda guerra mondiale era stato imposto anche a Praga, in base alla logica della guerra fredda e dei blocchi militari. In un simile sfondo, era difficile che Dubček e i suoi amici potessero offrire a Breznev garanzie esaurienti e credibili. Anche se nelle scorse settimane il Patto di Varsavia non è stato mai in discussione, e non vi era alcun motivo di dubitare del desiderio di Praga di non mutare il sistema di alleanze nè di alterare l’equilibrio continentale, era inevitabile che questi temi sarebbero venuti, col passare del tempo, in primo piano. L’equilibrio di Stalin Né si poteva credere che il germe revisionista, una volta che ad esserne intaccati non erano paesi periferici come la Jugoslavia e la Romania, avrebbe risparmiato gli altri Stati satelliti: in primo luogo l’Ungheria e la Polonia. Infine, in ogni momento, il processo avrebbe potuto avere ripercussioni incontrollabili in Germania orientale, che ancora oggi costituisce il pilastro del cordone protettivo sovietico ma che, per il suo carattere di Stato artificiale, ne è al tempo stesso il punto più debole. Anche al di là delle loro intenzioni, insomma, i leader rinnovatori di Praga mettevano in crisi l’intero equilibrio europeo, concepito e realizzato da Stalin quasi 25 anni fa. Equilibrio la cui lungimiranza e astuzia è stata da molti tanto spesso lodata ma esso, come tutte le costruzioni imposte con la forza (la Germania spaccata in due, le frontiere polacche spostate di cento-duecento chilometri verso ovest, in territori almeno in parte da tempo legati alla storia tedesca, in modo da creare una permanente ragione di dipendenza di Varsavia da Mosca, ecc.), ha una ineliminabile fragilità …

ANCORA IGNORATA LA RICORRENZA DELLA FONDAZIONE DEL PARTITO SOCIALISTA

di Franco Astengo Anche quest’anno non mi pare di aver raccolto segnali di ricordo al riguardo della fondazione del Partito Socialista avvenuta a Genova il 15 agosto 1892, cioè 126 anni fa. Provvedo, indegnamente, con queste poche righe partendo da un assunto di attualità. L’ultimo decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente. L’impoverimento generalizzato e l’inversione delle aspettative sono stati i fenomeni documentati qualche anno fa dal rapporto McKinsey dal titolo “Poorer than their parents? A new perspective on income inequality” (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull’ineguaglianza dei redditi). Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare – secondo lo stesso Rapporto McKinsey – il disagio sociale che alimenta populismi di ogni colore, da Brexit a Donald Trump, al gruppo di Visegrad ai nostri Lega e M5S. Lo studio di McKinsey prendeva in esame le 25 economie più ricche del pianeta. C’è dentro tutto l’Occidente più il Giappone. In quest’area il disastro si compie nella decade compresa fra il 2005 e il 2014: c’è dentro la grande crisi del 2008, ma in realtà il trend era cominciato prima. Fra il 65% e il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio con redditi fermi o addirittura in calo rispetto al punto di partenza. Il problema affligge tra 540 e 580 milioni di persone, una platea immensa. Non era mai accaduto nulla di simile nei 60 anni precedenti, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale. Tra il 1993 e il 2005, per esempio, solo una minuscola frazione della popolazione (2%) aveva subito un arretramento nelle condizioni di vita. Ora l’impoverimento è un tema che riguarda la maggioranza. L’Italia si distingue per il primato negativo. È in assoluto il paese più colpito: il 97% delle famiglie italiane al termine di questi dieci anni è ferma al punto di partenza o si ritrova con un reddito diminuito. Al secondo posto arrivano gli Stati Uniti dove stagnazione o arretramento colpiscono l’81% ei segnali di crescita si stanno verificando in un quadro di protezionismo e di innalzamento di barriere. Seguono Inghilterra e Francia. Sta decisamente meglio la Svezia, dove solo una minoranza del 20% soffre di questa sindrome. Ciò che fa la differenza alla fine è l’intervento pubblico. Il modello scandinavo ha ancora qualcosa da insegnarci. In Italia, guardando ai risultati di questa indagine, non vi è traccia di politiche sociali che riducano le disuguaglianze e si misurino davvero con il tema del lavoro sul quale si riflette soltanto in termini di assistenzialismo (80 euro, reddito di cittadinanza) o di inasprimento delle condizioni di sfruttamento (Job Act). L’altra conclusione del Rapporto McKinsey riguardava i giovani: la prima generazione, da molto tempo, che sta peggio dei genitori. “I lavoratori giovani e quelli meno istruiti – si legge nel Rapporto – sono colpiti più duramente. Rischiano di finire la loro vita più poveri dei loro padri e delle loro madri”. Questa generazione ne è consapevole, l’indagine lo conferma: ha introiettato lo sconvolgimento delle aspettative. Lo studio non si limitava a tracciare un quadro desolante, vi aggiungeva delle distinzioni cruciali per capire come uscirne: se lasciata a se stessa, l’economia non curerà l’impoverimento neppure se dovesse ricominciare a crescere: “Perfino se dovessimo ritrovare l’alta crescita del passato, dal 30% al 40% della popolazione non godrà di un aumento dei redditi“. E se invece dovesse prolungarsi la crescita debole dell’ultimo decennio, dal 70% all’80% delle famiglie nei paesi avanzati continuerà ad avere redditi fermi o in diminuzione. Si confermano quindi le analisi di economisti come Piketty, Atkinson, Stiglitz e le ricerche di un marxista capace di una visione “mondiale” come l’appena scomparso Samir Amin. Eppure nonostante l’emergere di questo quadro desolante poco o niente si sta muovendo soprattutto sul piano della rappresentanza politica di coloro che soffrono delle contraddizioni generate da questo stato di cose: uno stato di minorità e di sfruttamento allargato sull’insieme della società sempre più sfrangiata, sfibrata, preda dei “falchi” dell’innovazione tecnologica che punta alla riduzione nella condizione della schiavitù individualistica mentre appare in piena evoluzione il processo di divorzio tra la politica e la cultura. Oltre cento anni fa la reazione alle condizioni di sfruttamento imposte dalla prima rivoluzione industriale fu ben diversa e vale la pena di raccontarla per sommi capi. In Italia la crescita del movimento operaio si delinea sulla fine del XIX secolo. Le prime organizzazioni di lavoratori sono le società di mutuo soccorso e le cooperative di tradizione mazziniana e a fine solidaristico. La presenza in Italia di Michail Bakunin dal 1864 al 1867 dà impulso alla prima organizzazione socialista-anarchica, ma aperta anche ad istanze più generalmente democratiche e anche autonomiste: la Lega Internazionale dei Lavoratori (opposta all’Associazione internazionale dei lavoratori di Karl Marx). L’episodio anarco -socialista di propaganda più noto è quello del 1877 (un gruppo di anarchici tentò di far sollevare i contadini del Matese) In merito alla formazione dei socialisti in Italia (che a tutti gli effetti si configuravano come prima realtà partitica moderna) è interessante notare l’eredità mazziniana e della struttura di “partito” che, decenni addietro, si era data la Giovane Italia di Mazzini. Essa infatti, pur scevra da costrutti dottrinali ideologici per come li intendiamo noi, basava la propria attività su tre punti fondamentali: proselitismo, coordinamento centrale e autofinanziamento del movimento. I socialisti, volontariamente o meno, si strutturarono quindi in maniera simile, poggiando le basi su una concettualità ideologica, e formando così il primo partito moderno italiano. Intanto la Lega Internazionale dei Lavoratori nel 1874 si era sciolta e l’anima più moderata, guidata da Andrea Costa, sosteneva la necessità di incanalare le energie rivoluzionarie in un’organizzazione partitica disposta a competere alle elezioni. Tra i più convinti sostenitori di questa linea troviamo Enrico Bignami e Osvaldo Gnocchi Viani, fondatori nel 1876 della “Federazione Alta Italia dell’Associazione Internazionale …

LA RESISTENZA CONTRO IL FASCISMO: L’INDISPENSABILE MEMORIA DELL’ESTATE 1944

di Franco Astengo Il ricordo della strage di Sant’Anna di Stazzema, avvenuta il 12 agosto del 1944, si è svolto mentre appare in corso una vera e propria offensiva di recupero del fascismo, non solo da parte dei gruppi che inneggiano al ventennio, ostentano simboli nazisti, rifugiano la loro ignoranza in incredibili celebrazioni. Il recupero del fascismo si verifica a ben altri livelli, da parte delle stesse forze di governo, attraverso le espressioni di razzismo, sopraffazione, dominio di classe e di genere, arroganza del potere che riempiono le nostre cronache quotidiane. Il clima che si respira è quello di un allentamento sul piano culturale, di presa di distanza dai fondamenti dell’antifascismo, delle ragioni profonde sulla base delle quali nacque la nostra Repubblica. Sono stati anni di duri attacchi reazionari da questo punto di vista: attacchi al Parlamento, al sistema costituzionale, di delegittimazione della democrazia. Occorre combattere contro l’apparente ineluttabilità di un progressivo degrado. Siamo di fronte ad una scelta, da rinnovare per le generazioni anziane, da attuare per le giovani generazioni: si tratta di opporre la Resistenza al fascismo. Come scrive Claudio Pavone nel suo fondamentale testo del 1991: “ Eventi grandi, eccezionali, catastrofici pongono i popoli e gli uomini davanti a drastiche opzioni e fanno quasi di colpo prendere coscienza di verità che operavano senza essere ben riconosciute o la cui piena conoscenza era riservata a pochi”. Ebbene oggi si presenta uno di questi passaggi della storia. Da questo punto di vista la memoria deve rappresentare uno strumento indispensabile per compiere appieno le scelte necessarie. Per queste ragioni rinnoviamo il ricordo di ciò che accadde nell’estate 1944, settantaquattro anni fa, nella fase più difficile e anche più epica di quel grande moto popolare che fu la Resistenza. Una memoria che dobbiamo fare in modo che assuma il tratto di una vera e propria ripresa di identità per le nuove generazioni: 1) SANT’ANNA DI STAZZEMA e le altre stragi compiute dai nazifascisti nella zona della linea gotica All’inizio dell’agosto 1944 Sant’Anna di Stazzema era stata qualificata dal comando tedesco come “zona bianca”, ossia una località adatta ad accogliere sfollati: per questo la popolazione, in quell’estate, aveva superato le mille unità. Inoltre, sempre in quei giorni, i partigiani avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò, all’alba del 12 agosto 1944, tre reparti di SS salirono a Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant’Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide[10], gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro in quanto civili inermi, restarono nelle loro case. In poco più di mezza giornata vennero uccisi centinaia di civili di cui solo 350 poterono essere in seguito identificate; tra le vittime 65 erano bambini minori di 10 anni di età. Dai documenti tedeschi peraltro non è facile ricostruire con precisione gli eventi: in data 12 agosto 1944, il comando della 14ª Armata tedesca comunicò l’effettuazione con pieno successo di una “operazione contro le bande” da parte di reparti della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS nella “zona 183”, dove si trova il territorio del comune di S. Anna di Stazzema; l’ufficio informazioni del comando tedesco affermò che nell’operazione 270 “banditi” erano stati uccisi, 68 presi prigionieri e 208 “uomini sospetti” assegnati al lavoro coatto. Una successiva comunicazione dello stesso ufficio in data 13 agosto precisò che “altri 353 civili sospettati di connivenza con le bande” erano stati catturati, di cui 209 trasferiti nel campo di raccolta di Lucca[13]. I nazistifascisti rastrellarono i civili, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra, bombe a mano, colpi di rivoltella e altre modalità di stampo terroristico. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni(23 luglio-12 agosto 1944). Gravemente ferita, la rinvenne agonizzante la sorella maggiore Cesira (Medaglia d’Oro al Merito Civile) miracolosamente superstite, tra le braccia della madre ormai morta. Morì pochi giorni dopo nell’ospedale di Valdicastello. Infine, incendi appiccati a più riprese causarono ulteriori danni a cose e persone. Non si trattò di rappresaglia (ovvero di un crimine compiuto in risposta a una determinata azione del nemico): come è emerso dalle indagini della procura militare di La Spezia, infatti, si trattò di un atto terroristico premeditato e curato in ogni dettaglio per annientare la volontà della popolazione, soggiogandola grazie al terrore. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona. La ricostruzione degli avvenimenti, l’attribuzione delle responsabilità e le motivazioni che hanno originato l’Eccidio sono state possibili grazie al processo svoltosi al Tribunale militare della Spezia, conclusosi nel 2005 con la condanna all’ergastolo per dieci SS colpevoli del massacro; sentenza confermata in Appello nel 2006 e ratificata in Cassazione nel 2007. Nella prima fase processuale si è svolto, grazie al pubblico ministero Marco de Paolis, un imponente lavoro investigativo, cui sono seguite le testimonianze in aula di superstiti, di periti storici e persino di due SS appartenute al battaglione che massacrò centinaia di persone a Sant’Anna. Fondamentale, nel 1994, anche la scoperta avvenuta a Roma, negli scantinati di Palazzo Cesi-Gaddi, di un armadio chiuso e girato con le ante verso il muro, ribattezzato poi armadio della Vergogna, poiché nascondeva da oltre 40 anni documenti che sarebbero risultati fondamentali ai fini di una ricerca della verità storica e giudiziaria sulle stragi nazifasciste in Italia nel secondo dopoguerra. Prima dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, nel giugno dello stesso anno, SS tedesche, affiancate da reparti della X MAS, massacrarono 72 persone a Forno. Il 19 agosto, varcate le Apuane, le SS si spinsero nel comune di Fivizzano (Massa Carrara), seminando la morte fra le popolazioni inermi dei villaggi di Valla, Bardine e Vinca,nel comune di Fivizzano . Nel giro di cinque giorni uccisero oltre 340 persone, mitragliate, …

TRA POTERI OCCULTI E PROGETTI AUTORITARI: IL RICORDO DEL 2 AGOSTO 1980 NEL MOMENTO PIU’ DRAMMATICO DELLA STORIA REPUBBLICANA

di Franco Astengo Ricordiamo la strage del 2 agosto 1980 nel momento in cui l’Italia attraversa, probabilmente, il punto più basso della sua storia repubblicana sia sotto l’aspetto della convivenza civile, con settori sociali pronti a ricevere impulsi di natura razzistica, sia sotto l’aspetto dell’espressione di cultura politica. Una società italiana sfibrata da decenni di malgoverno sembra pronta ad affidarsi ad avventure di tipo autoritario in un quadro di grande confusione politica e morale. L’Espresso in edicola in questi giorni ricorda la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Nelle pagine del settimanale si riepilogano le principali tappe della striscia di sangue lasciata dalle “stragi di Stato” che hanno attraversato la storia d’Italia tra il 1969 e il 1980: Piazza della Fontana (17 morti), piazza della Loggia 8 morti), Peteano (3 morti) Bologna (85 morti). L’articolo di Biondani e Tiziani non cita le stragi sui treni che vogliamo ricordare anche in questa sede: Italicus (12 morti) , San Benedetto Val di Sambro (16 morti, attentato verificatosi però nel Dicembre 1984 successivamente alla strage di Bologna). Sono emersi nuovi documenti rispetto a quella tragica stagione che può essere collegata a quella delle stragi mafiose del 1992 e del 1993 e alle vicende della trattativa Stato – Mafia e ai massacri di Falcone e Borsellino. Si rafforzano ancora tre elementi sui quali la natura “duale” dello Stato italiano è rimasta opaca: la protezione da parte di agenti dei servizi segreti ai neo fascisti dei Nar; il collegamento tra rappresentanti dei servizi segreti deviati e la loggia P2 di Licio Gelli e l’attualità permanente di un pezzo di istituzioni (come sostengono i familiari delle vittime) che rema contro la verità. Siamo alla progenie della situazione attuale nella quale si stanno – appunto – costruendo condizioni ideali per l’applicazione dei progetti che servizi segreti deviati e massoneria occulta avevano in serbo per il nostro Paese da tanto tempo e che erano sempre stati frustrati da una reattività sia sociale, sia politica che ancora il 4 dicembre 2016 aveva fornito dimostrazione di una qualche vitalità e che oggi sembra proprio essersi spenta in una confusione che appare assieme morale e culturale. Non lasceremo però trascorrere anche questo 2 agosto 2018 senza rinnovare il ricordo della tragica strage della Stazione di Bologna: quell’esplosione tremenda, quell’orologio fermo alle 10,25 del mattino, quelle vittime ignare colpite dal fulmine nel crocevia delle vacanze. Così come non lasceremo passare questo tragico anniversario senza sottolineare ancora un’analisi che collega quella tragica stagione con la realtà odierna. Quei fatti ci ricordano il doppio stato, i segreti, i misteri che hanno reso vulnerabile la nostra democrazia e la stessa Costituzione Repubblicana, mai attuata fino in fondo e attaccata a più riprese. Qualche anno fa la dichiarazione più provocatoria, a proposito di quel fatto, venne proprio da lui, dal Maestro Venerabile, da Licio Gelli in persona: “Si è trattato di un mozzicone di sigaretta, la bomba non è mai stata trovata”. Una frase che rappresenta l’impunità del “doppio Stato” o della “tela di ragno” (come la definì Flamigni, a proposito del delitto Moro). Il “doppio Stato” come elemento di continuità e snodo fondamentale della storia del nostro Paese. Correva l’anno 1980, l’anno nel quale fu messa alla prova la democrazia e che si concluse con i 35 giorni alla Fiat e la marcia dei cosiddetti “quarantamila” (1980: L’anno che cambiò l’Italia, dal titolo del libro di Diego Novelli) In quel 1980 si mise in evidenza, almeno agli occhi degli osservatori più attenti ma inascoltati, non tanto il “ritorno” al terrorismo fascista (che pure si era verificato) ma l’emergere di una “teoria politica del terrorismo” che, almeno da Piazza della Fontana in avanti, aveva rappresentato uno degli elementi costitutivi della gestione del potere nel nostro Paese. Una “teoria politica del terrorismo” che si accompagnò direttamente con una ripresa di dominio da parte del padronato che – appunto – nella vicenda FIAT spezzò la resistenza operaia in nome di una presunta “modernità” carica di sfruttamento e sopraffazione. Furono svolti alcuni tentativi di analisi in questa direzione, di collegamento tra il terrorismo stragista di evidente matrice “nera”, i servizi segreti, la massoneria occulta della quale la Loggia P2 appariva come l’espressione più evidente . Dodici mesi dopo nel 1981, sempre per cercare di non dimenticare, fu l’anno in cui Gherardo Colombo scoprì gli elenchi di Castiglion Fibiocchi che comprendevano anche le prove del collegamento tra P2 e Mafia, attraverso logge coperte siciliane provviste anche di diramazioni nel Ponente Ligure: tanto per ricordare che, quanto alla mafia al nord, nessuno ha scoperto o sta scoprendo nulla di nuovo. Nella lista sono rappresentate tutte le forze politiche tranne i comunisti. L’elenco dei nomi restò segreto per due mesi. I magistrati avevano mandato tutta la documentazione al presidente del Consiglio FORLANI e questi s’era ben guardato dal diffonderla. Alla fine alcuni giornalisti dentro al Parlamento, sapevano della lista giunta alla Commissione che indagava su Sindona, e da varie indiscrezioni appresero che stava per essere divulgata sui giornali con i relativi nomi. FORLANI il 20 maggio (la scoperta era avvenuta il 17 marzo) é costretto a rendere nota la lista di 962 presunti iscritti alla loggia P2 tra cui Longo, De Carolis, Miceli, Berlusconi, Rizzoli, Di Bella, Sindona, Calvi, Vittorio Emanuele di Savoia, Tassan Din, due generali, Lo Prete e Giudice, Maurizio Costanzo, Fabrizio Cicchito (entrambi i due si confessarono in pubblico e ammisero lo sbaglio “Sì lo confesso: sono un cretino” disse Costanzo). Franco Di Bella però dovette lasciare la carica di direttore del Corriere della Sera, e assieme a lui, altre eccellenti firme lo seguirono (Chissà perchè, visto che “non c’era nulla di male” come dissero molti iscritti, dopo, nelle varie commissioni d’indagini). Il clamore è enorme, perchè nella lista sono compresi tre ministri (Foschi, Manca e Sarti), il segretario di un partito di governo (LONGO del Psdi), vari deputati, senatori, funzionari di partito, ambasciatori, sindaci, imprenditori, industriali, giornalisti, scrittori, sindacalisti, magistrati, presidenti di tribunali, questori, prefetti, commissari, segretari di ministri, personaggi di società pubbliche e una lunga …

IN MORTE DI GIOVANNI JAURÈS

L’ultimo articolo di Jean Jaurès Nell’Humanité che ci giunge oggi, troviamo l’ultimo articolo scritto da, Giovanni Jaurès, poche ore prima che egli cadesse ucciso dalla mano di un fanatico nazionalista.   L’articolo intitolato: Sangue freddo necessario Il più grande danno nell’ora attuale non è, se così posso dire, negli avvenimenti in se stessi. Non è neanche nello disposizioni reali delle Cancellerie per colpevoli che possano essere: esso non è nella volontà reale dei popoli; esso è nella nervosità che guadagna terreno, nell’inquietudine che propaga, nelle impulsività immediate che nascono dalla paura, dalle incertezze angosciosa, dall’ansietà prolungata. A questo panico folle le masse possono cedere e non è certo che i Governi non cedano a loro volta. Essi passano il loro tempo (delizioso trastullo) a impressionarsi gli uni con gli altri e a tranquillizzarsi gli uni con gli altri. E ció, che essi non si ingannino, può durare delle settimane. Coloro che immaginano che la crisi diplomatica possa, e debba essere risoluta in qualche giorno, si sbagliano. Come le battaglie delle guerre moderne, si sviluppano su un fronte immenso, e durano, sette o otto giorni, così lo battaglie diplomatiche, che mettono ora in gioco tutta un’Europa e un apparato formidabile e molteplici di nazioni potenti, abbracciamo necessariamente parecchie settimane. Per resistere alla prova, bisogna che gli uomini abbiano dei nervi, d’acciaio o piuttosto una ragione ferma, chiara e calma. E’ l’intelligenza del popolo, e al suo pensiero che dobbiamo oggi fare appello se vogliamo che egli possa rimanere padrone di se, respingere il panico, dominare i suoi nervi e sorvegliare il movimento dei nomi e delle cose, per evitare alla razza umana l’orrore della guerra. Il pericolo é grande, ma, esso non é invincibile, se noi conserviamo la chiarezza dello spirito, la fermezza dei propositi, se noi sappiamo avere nello stesso tempo, l’eroismo della pazienza e l’eroismo dell’azione, La visione netta del dovere ci darà la forza per compierlo. Tutti i militanti socialisti iscritti alla Federazione della Senna, sono convocati domenica mattina, alla sala di Wagram, ad una riunione nella quale sarà esposta la situazione internazionale, dove sarà precisata l’azione che l’Internazionale attende da noi. Altre riunioni tradurranno in pratica il pensiero e la volontà del proletariato e prepareranno la manifestazione certamente magnifica che preludierà ai lavori del Congresso internazionale. Ciò che sopra tutto importa, è la continuità dell’azione, o la perpetua vigilanza del pensiero e della coscienza operaia. Là è la vera salvaguardia. Là è la garanzia dell’avvenire.   L’ultimo discorso di G. Jaurès a Bruxelles Cittadini, io dirò ai miei compatrioti, ai compagni del partito in Francia, con quale, emozione io ho sentito – io che sono denunciato come un senza patria, con quale emozione ho inteso acclamare qui il ricordo della Grande Rivoluzione. Ma noi non siamo qui per abbandonarci a queste emozioni, ma per unire le nostre forze di ragione e di sentimento per evitare la guerra. Si direbbe che le diplomazie hanno giurato di atterrire i popoli: ieri, verso le quattro si propagò nei corridoi della Camera una voce secondo la quale stava per scoppiare. La voce era falsa e fummo rassicurati. Quando venti secoli di cristianesimo sono passati sui popoli, quando da cento anni hanno trionfato i princìpi dei Diritti dell’Uomo, come avviene che sia possibile che milioni di uomini, possano, senza sapere perché, senza che i dirigenti lo sappiano, scannarsi a vicenda? Quando vado nelle strade e nei sobborghi, io mi domando come, in ogni cuore di donna, ove vibrano i sentimenti materni, potrebbero agitarsi ben presto per volontà dei giovani il più oscuri terrori! Ciò che mi angoscia di più, è l’inintelligenza della diplomazia. Osservate i diplomatici dell’Austria-Ungheria: essi hanno compiuto un capolavoro. Quali siano state le follie degli altri dirigenti: al Marocco, in Tripolitania, nei Balcani, colla brutalità della sua Nota, col suo miscuglio di violenze e di gesuitismo, la diplomazia austro-ungarica sembra voler passare al secondo piano. E la Germania? Se essa ha conosciuto la nota austro-ungarica, essa non può essere scusata di non aver impedito un passo simile. Se si potesse leggere nel cuore dei governanti, non si potrebbe vedere se essi sono veramente contenti di ciò che hanno fatto. Vorrebbero essere grandi: conducono i popoli al limite dell’abisso, ma all’ultimo momento essi esitano. Di questa esitazione noi dobbiamo profittare per la causa della pace. Il nostro dovere di socialisti francese è semplice: noi non abbiamo bisogno di imporre al nostro Governo una politica di pace. Egli la pratica. Io che non ho giammai esitato di raccogliere sul mio capo l’odio dei nostri sciovinisti, a cagione della mia volontà ostinata, e che non indietreggerà giammai di riavvicinamento franco-tedesco, io ho il diritto di dire che in questo momento il Governo francese vuole la pace e lavora per la conservazione della pace. Il Governo francese è il migliore alleato della Pace insieme col Governo inglese che ha preso l’iniziativa della conciliazione. E dà alla Russia dei consigli di prudenza e di pazienza. Quanto a noi, il nostro dovere è di insistere perché parli in modo affinché la Russia si astenga. Ma se, per disgrazia, la Russia non ne tenesse conto, il nostro dovere è di dire: NOI NON CONOSCIAMO CHE UN TRATTATO. IL TRATTATO CHE CI LEGA ALLA RAZZA UMANA. Ecco, il nostro dovere è esprimerlo! Noi ci siamo trovati d’accordo coi compagni della Germania che domandano al loro governo di esigere che l’Austria moderi i suoi atti. Ecco ciò che ci permette di dire che già una diplomazia socialista che si fa strada e che lavora non per straziare i cuori, né turbare le coscienza. Noi li abbiamo intesi parecchie volte i nostri nazionalisti dire: Ah! Come saremmo tranquilli se in Francia avessimo dei socialisti tedeschi moderati e calmi. Ebbene, ieri, i socialisti francesi furono a Berlino e manifestarono in numero di centomila. Uomini, umani di tutti i paesi, ecco l’opera di pace e di giustizia che noi dobbiamo compiere! Il proletariato ha già il sentimento della sua forza e con una fermezza maggiore, milioni e milioni di proletari, …

RODOLFO MORANDI UN DIRIGENTE DELLA CLASSE OPERAIA

Nella foto (a destra) Rodolfo Morandi con Tullio Vecchietti Il seguente articolo, apparso sull’ultimo numero del periodico “La conquista” sotto il titolo «Azione giovanile del PSI», è l’ultimo scritto dì Rodolfo Morandi. Si spegne a Milano il 26 Luglio 1955. In presenza dei risultati del sesto Convegno, che ha avuto una risonanza esterna del tutto eccezionale, il Partito dovrà valutare con molta serietà il potenziale politico della nostra azione giovanile, voglio dire le grandi possibilità che questa ha dimostrato di avere come strumento di una rinnovata politica di alleanze e della politica del dialogo. Sarebbe errato tuttavia pensare che l’azione giovanile possa svilupparsi con il dovuto mordente senza che un contenuto specifico sia attribuita ad essa. Ciò significa che maturo è il problema di dare espressione operante ad una politica giovanile del Partito. Intanto rappresenta un notevole passo avanti l’avere portato la questione dei rapporti tra Partito e movimento giovanile a sfogare su un nuovo piano di meditata concretezza. Un sano avvertimento è stato dato alle nostre Federazioni da Perugia perché si cessi dal rimasticarla in stanchi termini “pedagogici”, venuti giustamente a noia ai giovani. Proprio! Io non mi scandalizzo affatto che essi abbiano lasciato chiaramente Intendere la loro insofferenza, per questo continuo dire che i giovani non debbono discostarsi dal Partito e niente possono senza il Partito, che è poi un modo discreto di far loro capire che il Partito non ha nulla da apprendere da essi, dalle loro tormertose esperienze, dal loro interiore travaglio. Bisogna avanzare coraggiosamente per la via imboccata a Perugia. Ma, a parer mio, questo richiede per prima cosa che si desista da parte del movimento giovanile dal ricercare motivi di differenziazione e di caratterizzazione, puramente esteriori, nel quadro dell’azione e delle campagne del Partito. Diversamente si ritorna al punto di partenza. Converrà dunque tenere un pò più a freno l’inventiva (la ricerca quasi ossessiva della iniziativa giovanile…), ed applicarsi con il massimo impegno alle questioni che, benché siano da anni permanente oggetto di denunzia, non per questo si vedono avviate a soluzione. E’ qui che l’azione giovanile potrà saldarsi organicamente con l’azione del Partito e in essa confluire con profitto senza perdere delle sue caratteristiche, ma anzi conferendo loro spicco maggiore di quel che non sia oggi. Tutti sanno di quali questioni si tratti. Si tratta dei problemi che travagliano la gioventù italiana dei nostri tempi: l’occupazione (la qualificazione nel lavoro la legislazione sociale e l’Intervento dello Stato nell’in tenesse delle generazioni più giovani: lo sport e la ricreazione; la scuola e l’insegna mento universitario). Non è che manchi, da parte del Partito, il riconoscimento dell’importanza che tali problemi rivestono. Quel che manca è un più sicuro possesso di essi é la capacità di volgere questi temi e questi interessi in azione di massa. Ecco il compito specifico che spetta alle forze giovanili, le quali debbono intervenire nell’azione politica del Partito con il preciso scopo di integrarla e potenziarla. Allora soltanto il concorso del movimento giovanile acquisterà valore sostanziale. Allora soltanto il Partito diverrà capace di esprimere realmente una politica giovanile. Ora vorrei attentarmi a dire come io vedo, allo stato ancora di abbozzo, prendere figura e acquistare una sua propria individualità l’azione giovanile del Partito. Abbiamo alle viste Il quarto Congresso della C.G.I.L. Dal prossimo settembre il Partito sarà chiamato a pronunziarsi sulle grandi questioni che interessano il mondo del lavoro, in connessione con i problemi di indirizzo e di organizzazione dei sindacati. Ecco l’occasione di inserirsi per sostenere e agitare, dal di dentro, la esigenza che i sindacati si facciano più sensibili alle aspirazioni della gioventù lavoratrice, non accontentandosi di dichiarazioni, di parole d’ordine, di campagne librate nel vuoto, ma invece ammodernando le proprie strutture e aggiornando i propri metodi di organizzazione e di lotta, per dotare di mezzi adeguati l’azione a pro della gioventù. Su questi interessi il movimento giovanile deve disporsi a vivacemente richiamare la nostra corrente, perché assuma su di sé di patrocinarli sulla base di proposizioni concrete e di proposte attuabili. Siamo nel pieno di rinnovate discussioni in materia di «socialità» e di intervento dello Stato nei rapporti di produzione. E’ questo pure il nocciolo della nostra politica di alleanze e del dialogo con i cattolici. Ebbene, bisogna individuare dei punti ben definiti di orientamento, in un campo così vasto e così mal delineato, ottenendo di fare emergere i problemi che incombono sulla gioventù, per esercitare una spinta decisa in direzione di essi. I partiti e le organizzazioni di massa sono gravati dalla mole dei problemi generali che questo ciclo decennale ha sollevati, ma avvertono bene la necessità di semplificare e rinnovare la loro tematica, e in particolare di dirigersi con parole suggestive alla gioventù, così come agli strati femminili della popolazione, giacché se si vuole forzare la stretta che impedisce il passo alle grandi riforme di struttura, occorre seminare nuovi fermenti nella massa captata dall’avversario quale preda della guerra ideologica. Nel campo dello sport e della ricreazione il Partito non è pervenuto ancora a strumentare un’azione ispirata a modernità di concezioni. E’ cosciente oggi peraltro di questa sua grave carenza. Il movimento giovanile deve dunque farsi avanti con volenterosa disposizione, e prestare le sue energie per quella prima opera di reperimento, di collegamento e di orientamento, che si può oggi con certezza di riuscita intraprendere, solo che si crei un centro pulsore. Già non sarebbe cosa di poco conto che il movimento giovanile si applicasse con serietà e con metodo a combattere ed a eliminare le deviazioni e distorsioni, cui proprio i giovani prestano inconsciamente materia nelle organizzazioni di base del Partito. La scuola, per il fatto che troppo scarsa è l’adesione che i nostri partiti e le nostre organizzazioni sindacali trovano tra gli insegnanti, ha finito per diventare una questione che ricorre bensì in ogni occasione come motivo di lamento, ma in modo tale da lasciare in noi il senso quasi di trovarci a una incolmabile distanza da essa. Avviene che il movimento giovanile abbia una sua presa sugli studenti universitari e sia, meglio del …

14 LUGLIO 1948: ATTENTATO A TOGLIATTI

di Franco Astengo Settantesimo anniversario dell’attentato a Togliatti: 14 luglio 1948. E’ ancora il caso ricordare quel fatto perché non si smarrisca la memoria di uno degli snodi più importanti nella storia d’Italia del secondo dopoguerra. L’attentato al segretario del PCI, Palmiro Togliatti, scosse profondamente l’Italia e il mondo, in una fase di fortissima contrapposizione fra le due grandi potenze, quella americana e quella sovietica, che avevano appena avviato il confronto della “guerra fredda”. La fase registrava anche un’assoluta fragilità della democrazia italiana, appena ricostruita dopo i vent’anni del fascismo e la tragedia della guerra attraverso il lavoro dell’Assemblea Costituente. Il 18 Aprile di quello stesso 1948 si erano svolte le elezioni per la I legislatura repubblicana in conclusione di una tesissima campagna elettorale che aveva visto contrapposti la visione “liberal-atlantica” della Democrazia Cristiana, appoggiata dalla Chiesa Cattolica che usò tutte le sue possibili sfere d’influenza, e il Fronte Democratico Popolare, formato da comunisti e socialisti. Il risultato delle urne aveva assegnato la maggioranza assoluta alla DC, in un clima di rivendicazioni sociali molto forti dettate dalle precarie condizioni di vita di gran parte della popolazione. La frattura provocata nel Paese dal voto del 18 aprile si stava rivelando in tutta la sua gravità e non contribuì ad attenuarla l’elezione del Presidente della Repubblica. Nelle settimane successive l’attenzione del Parlamento fu polarizzata dalla ratifica dell’accordo con gli Stati Uniti relativo al Piano Marshall siglato a Roma il 28 giugno. Nella discussione generale alla Camera Togliatti intervenne il 10 luglio con un discorso nel quale si sottolineava come quell’accordo prevedesse una serie d’impegni che: “oltre ad aprire prospettive di stentata vita economica e di lenta degradazione della nostra economia, rappresentavano un pericolo per l’indipendenza nazionale perché legavano l’Italia alla politica di guerra dei gruppi dirigenti imperialisti degli Stati Uniti”. Il passo del discorso di Togliatti che fece più scalpore recitava: “Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con l’insurrezione in difesa della pace, dell’indipendenza, dell’avvenire del proprio Paese”. Tre giorni dopo un editoriale del quotidiano socialdemocratico “La Giustizia”, siglato dal suo direttore Carlo Andreoni, bollando la “jattanza con la quale il russo Togliatti parla di rivolta” esprime la certezza che “il governo della Repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non metaforicamente”. Questa prosa virulenta sarà giustamente giudicata emblematica del clima in cui maturò l’attenta di Pallante, attentato del quale in questa sede si tralascia di riportare i particolari di cronaca per rivolgere il massimo dell’attenzione ai risvolti più propriamente politici. Alla notizia dell’attentato a Togliatti la reazione della base comunista fu immediata. Portato al Policlinico Togliatti fu sottoposto a un delicatissimo intervento da parte del professor Valdoni: a metà pomeriggio il segretario del PCI aveva già ripreso conoscenza, ma per diversi giorni la sua vita resterà comunque appesa a un filo, anche per via di gravi complicazioni polmonari. E’ il caso comunque, a distanza di settant’anni di riprendere il filo del ragionamento politico. A distanza di tanti anni è ancora il caso di rivolgersi una domanda: si verificò davvero il rischio di arrivare alla guerra civile e, soprattutto, quale fu l’esito sul piano politico al riguardo delle prospettive in quel momento della situazione italiana? Lo sciopero generale che seguì la notizia dell’attentato a Togliatti è stato giudicato da autorevoli osservatori come “lo sciopero generale più completo e più esteso che si sia mai avuto nella storia d’Italia” (Sergio Turone: Storia del Sindacato in Italia 1943-1969. Dalla Resistenza all’autunno caldo. Laterza 1973.) La base comunista aveva interpretato, senza esitazioni, l’attentato a Togliatti come l’atto estremo di una reazione volta a cancellare il PCI: gli altri si chiusero in casa e le forze dell’ordine apparvero, subito, prive di ordini precisi. Antonio Pallante, l’attentatore fu subito arrestato. I rapporti riservati della polizia, che l’ambasciata USA a Roma ha potuto esaminare, lo descrissero come un isolato fugando immediatamente il sospetto di una trama più vasta. Al processo Pallante dichiarò: “ Sul giornale del PSLI Togliatti era descritto come un uomo infausto, pericoloso per l’Italia, da “inchiodare al muro”. E il capo del PCI annunciava di essere pronto a prendere a calci De Gasperi. Ecco, esaltato da tutto questo, decisi di eliminare il pericolo” (intervista di Antonio Pallante, rilasciata a Pino Aprile di “Oggi” il 19 maggio 1988). Processato nel luglio 1949 e condannato a 13 anni, Pallante uscì dal carcere nel dicembre 1953 e tornò a Catania dove trovò lavoro come guardia forestale. La notizia dell’attentato a Togliatti rimbombò immediatamente in Parlamento, cogliendo tutti di sorpresa. Secchia e Longo seguirono Togliatti al Policlinico. Non ci fu bisogno di proclamare lo sciopero generale, che partì spontaneamente anche nelle sedi più periferiche, esterne al gruppo dirigente centrale, come emerge dalle testimonianze inserite nel volume di Gozzini e Martinelli: “Storia del Partito Comunista Italiano: dall’attentato a Togliatti, all’VIII Congresso” (Einaudi, 1998). Sull’onda di questo quadro, apparentemente tumultuoso e incontrollabile, la Direzione del PCI si riunì in un clima di grande incertezza derivante non soltanto dalle condizioni fisiche di Togliatti, ma anche e soprattutto al riguardo delle valutazioni inerenti il tipo di attacco cui era sottoposto, in quel momento, il Partito. Emerse subito un orientamento unitario: quello di una risposta forte ma ordinata, che predisponesse una linea di difesa organizzativa e militare contro ogni tipo di aggressione. Una seconda linea di dirigenti (Barontini a Livorno, Pellegrini a Venezia, Spano a Genova) fu inviata nelle situazioni che si annunciavano come le più difficili. Fu emesso un comunicato chiedendo le dimissioni del governo e Ingrao preparò per l’Unità un titolo “Via il governo della guerra civile”: entrambi gli atti sottolineavano, oggettivamente, il carattere pacifico della protesta. Al tempo stesso la non definizione di obiettivi immediati fu testimoniata dallo stesso comunicato con cui la CGIL proclamò ( a posteriori) lo sciopero generale “in attesa di ulteriori disposizioni”. A spingere verso la moderazione ci fu, senza dubbio, anche la stessa voce di Togliatti all’atto del ferimento: il suo invito …