GIACOMO BRODOLINI, IL MINISTRO DEI LAVORATORI

di Alessio Sacquegna Come Giacomo Leopardi e il tenore Beniamino Gigli, nasce a Recanati (in provincia di Macerata) il 19 luglio 1920 una delle personalità politiche più influenti del panorama italiano del novecento: Giacomo Brodolini. Dopo l’infanzia marchigiana egli si trasferisce con la famiglia a Bologna, dove consegue nel 1939 il diploma di maturità. La chiamata alle armi giunge immediata: in qualità di ufficiale di complemento servirà l’Italia nelle campagna di Albania (1939) e – all’indomani della dichiarazione di guerra di Mussolini del 10 giugno 1940 – in quella di Grecia. Viene richiamato in Patria per essere inviato in Sardegna. Nell’isola si circonda di amicizie militanti nell’orbita antifascista, tra tutti quella di Emilio Lussu, e così si compie la sua formazione politica. Ritorna nel continente l’8 settembre 1943, in seguito al proclama del nuovo capo di governo, Pietro Badoglio, che annuncia l’entrata in vigore dell’Armistizio di Cassibile; fino alla fine del conflitto il giovane Brodolini opera tra i ranghi partigiani. Nel 1946 consegue la Laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università di Bologna, argomentando la sua tesi su Gustavo Modena, singolare figura di patriota-attore. Nello stesso anno inizia la sua militanza tra le file del Partito d’Azione, diventando preso uno dei nomi prestigiosi dell’area marchigiana. Allo scioglimento del Partito d’Azione, avvenuto l’anno successivo, vede Brodolini sostenere l’ala socialista e maggioritaria dell’ex organo politico, nella quale orbitano lo stesso Emilio Lussu e Riccardo Lombardi. Entra così nel Partito Socialista Italiano, diventando nel 1948 Segretario Provinciale di partito ad Ancona. In questo periodo svolge un’intensa attività politica che gli garantisce nel 1950 la chiamata a Roma dall’allora Vicesegretario del P.S.I. Rodolfo Morandi, il quale lo nomina Segretario nazionale della Federazione Italiana Lavoratori del Legno, Edilizia e Affini (F.I.L.L.E.A.) della C.G.I.L., rimanendo in carica fino al 1955. Contemporaneamente al suo mandato in F.I.L.L.E.A., viene eletto nel 1953 alla Camera dei Deputati, dove rimase fino al 1968, allorché fu eletto Senatore. Dopo la carica in F.I.L.L.E.A. viene nominato Vicesegretario della C.G.I.L., con Giuseppe Di Vittorio che invece ricopre la carica di Segretario Generale. Nel 1960 decide di ritornare all’attività di partito e passati tre anni viene eletto Vicesegretario del P.S.I., insieme a Francesco De Martino nuovo Segretario di partito. Entrambi ricoprono questa carica fino al 1966, e nel 1968 – anno in cui avviene la momentanea unificazione di P.S.I. e P.S.D.I. – Brodolini è nuovamente nominato Vicesegretario di questa aggregazione. Si tratta di una stagione politica incandescente: il centro-sinistra organico, inaugurato il 4 dicembre del 1963 dal primo governo Moro, era ormai in una fase di stallo provocata dall’assenza di una seria politica di riforme, sebbene sin dagli inizi di questo ciclo non mancasse un ambizioso programma riformatore, ma che rimaneva ora sulla carta a causa dell’iniziale stretta creditizia invocata dapprima dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli e attuata dal ministro del Tesoro Emilio Colombo, e in seguito frenata da rilevanti resistenze conservatrici. Questo complessivo fallimento, che si ripercuote per tutto il decennio, sfocia infine in una sfiducia del centro-sinistra in occasione delle elezioni politiche del 19 maggio 1968. Caduto il governo monocolore Leone II, il 12 dicembre viene nominato Mariano Rumor in qualità di Presidente del Consiglio; il nuovo governo ritorna al centro-sinistra organico, affiancato ai socialisti, e Giacomo Brodolini viene incaricato Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Nonostante la malattia gravava sulla sua salute, in pochi mesi Brodolini introduce delle fondamentali riforme nel mondo del lavoro: l’elaborazione dello Statuto dei lavoratori, il superamento delle gabbie salariali e la ristrutturazione del sistema previdenziale. Il suo impegno politico e la sua azione riformatrice viene però drammaticamente interrotta dal suo decesso, avvenuto a Zurigo l’11 luglio 1969, in seguito ad un tumore. Il suo operato è ricordato da Giuseppe Saragat, l’allora Presidente della Repubblica, che gli conferisce la Medaglia d’Oro al Valor Civile: “Esempio altissimo di tenace impegno politico, dedicava, con instancabile e appassionata opera, ogni sua energia al conseguimento di una più alta giustizia sociale, dando, prima come sindacalista, successivamente come parlamentare e, infine, come Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, notevolissimo apporto alla soluzione di gravi e complessi problemi interessanti il mondo del lavoro. Colpito da inesorabile male e pur conscio dell’imminenza della sua fine, offriva prova di somma virtù civica, continuando a svolgere, sino all’ultimo, con ferma determinazione e con immutato fervore, le funzioni del suo incarico ministeriale, in una suprema riaffermazione degli ideali che avevano costantemente ispirato la sua azione. Luglio 1969”   Il pensiero e l’azione politica di Brodolini Brodolini era un convinto assertore del movimento dei lavoratori: riteneva infatti che questi, riconquistata una propria unità e dotatosi di una strategia di sviluppo, avrebbe svolto un ruolo di primo piano nel cambiamento delle strutture produttive e nell’assetto democratico del Paese. Senza un forte movimento dei lavoratori, non vi sarebbe stata alcuna possibilità di avviare un serio programma riformistico. Al fine di perseguire gli obiettivi di progresso democratico e di riforma nasce nel 1967 per volontà di Brodolini la rivista quadrimestrale Economia & Lavoro. La rivista, che tratta argomenti di politica economica, sociologia e relazioni industriali, e oggi diretta dalla Fondazione Giacomo Brodolini e pubblicata da Carocci editore, funge sin da subito come strumento di dibattito tra le forze politiche, sociali, culturali ed economiche del Paese. Logorato dal tumore e appena diventato Ministro del lavoro e della previdenza sociale, la sua azione politica non fu solamente garantita dall’attuazione di riforme indelebili per la storia d’Italia, bensì fu sostenuta da un instancabile sostegno nei confronti delle classi lavoratrici meno tutelate. È il caso della tipografia Apollon, situata nell’area industriale della Tiburtina a Roma. Nel giugno 1968 erano state recapitate lettere di licenziamento a tutti i lavoratori, poiché la proprietà aveva deciso la chiusura della fabbrica per vendere l’area fabbricabile ai costruttori di edifici residenziali. Inizia una lunga lotta che culmina nell’occupazione della fabbrica fino al luglio del 1969, quando la proprietà è costretta a riaprire l’attività. Era la sera del 31 dicembre quando la televisione trasmette il servizio in cui racconta che il nuovo Ministro del lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, ha trascorso la notte precedente con i …

«PERTINI, L’UOMO NUOVO DI OTTANT’ANNI CHE CURO’ L’ITALIA»

di Maurizio Breda «Quando lo elessero ero a Montecitorio e a un certo punto mi trovai accanto al vecchio ex presidente Saragat, nei corridoi del Transatlantico. I cronisti gli chiesero: “Ma chi è, davvero, questo Pertini?”. “La risposta è semplice”, disse lui. “Un eroe”. Ritratto perfetto, perché richiamava il coraggio dell’antifascista che aveva pagato con esilio e carcere la propria coerenza, ma anche il rigore morale di uno che non si era mai compromesso con la politica di piccolo cabotaggio. Il giorno successivo, dopo aver ascoltato il suo discorso d’insediamento, Almirante, leader di quei missini che non l’avevano votato, confessò: “Ha costretto pure noi ad applaudirlo”. E gli italiani, benché avesse ormai ottant’anni, lo percepirono subito come un uomo nuovo e cominciarono a dimostrargli un affetto mai riservato a nessun altro». Antonio Maccanico ricorda Pertini, di cui fu consigliere e segretario generale al Quirinale. Il suo racconto comincia dall’8 luglio del 1978, quando «un Laerte con il cuore di ragazzo», «un solitario cavaliere dell’Ideale» – definizioni di allora – diventa il settimo capo dello Stato con un enorme consenso parlamentare, 832 voti su 995. E’ un risultato che spiazza certe manovre dei partiti e che l’opinione pubblica vive come se fosse stato «richiamato dalla riserva» uno dei pochi nomi spendibili. Ma soprattutto, quella scelta inaugura un’esperienza che impone al vertice del Paese uno stile diverso, rimasto pietra di paragone. Esternazioni, interventismo, supplenze, rapporto diretto con la gente (che lo vede come un «difensore civico» più che il solito «grande papavero») fanno parlare di «Repubblica pertiniana». Un modello profeticamente meticcio, che la politica patisce, che per i critici non è né del tutto parlamentare né presidenziale, e dietro il quale si riparano i suoi successori per qualche loro contestato «scatto in avanti» nell’interpretare il ruolo. Una formula che Maccanico ora spiega come «non premeditata» e comunque «necessitata», «a mezza strada tra le funzioni di garanzia e gli impulsi equilibratori che la Costituzione prevede per i momenti di debolezza della politica». Come succede «in quei mesi difficilissimi», riflette il grand commis di Stato, già ministro e oggi parlamentare della Margherita. «Bisogna riandare indietro, per capire. Il prestigio della presidenza della Repubblica era lesionato dalla vicenda Leone. Il terrorismo imperversava e Moro era appena stato ucciso. C’era l’incubo di una grave crisi economica e la prospettiva politica della solidarietà nazionale era saltata, mentre la questione morale si profilava come un’emergenza». Insomma: un contesto disastroso, nel quale non poteva bastare la presenza decorativa di un taglianastri al Quirinale. «Fu così che Pertini utilizzò gli strumenti istituzionali di cui disponeva, finché l’Italia uscì dal tunnel. Se li permise, consapevole di una forza in più di cui disponeva: la popolarità». Già, il carisma del «partigiano Sandro», un ateo amico del Papa, fu la sua fortuna con gli italiani e la sua disgrazia presso certi settori del Palazzo. Quando ai funerali delle vittime della strage di Bologna la tv lo inquadra, lui è un passo avanti alle altre autorità, con la mano destra appoggiata su una bara quasi a rimarcare una esplicita continuità tra il popolo rabbioso giù nella piazza e le istituzioni sul palco, e la politica si preoccupa. Qualcuno si spinge a psicanalizzare il rapporto edipico tra il vecchio con la pipa (un nonno? un padre?) e gli italiani, e recrimina: sì, in questo modo Pertini rilegittima il Quirinale, ma non rischia forse di delegittimare le altre istituzioni? «Non è andata così – obietta Maccanico -. I suoi sette anni sono stati semmai terapeutici per tutti. La verità è che faceva e diceva ciò che pensava, e che era sempre sintonizzato con il sentimento comune. Basta pensare al dopo-terremoto in Irpinia, quando fece saltare un prefetto avendo scoperto che la Protezione civile di fatto non esisteva perché in 10 anni le Camere non avevano approvato i regolamenti di attuazione» . «Per la prima volta in Italia la gente sente dire da uno che sta molto in alto quello che dicono i vicini di casa», scrive il Times , bocciando chi lo accusa di «esagerare» con un anticonformismo calcolato e dunque demagogico. E’ la critica che gli muovono quando veglia l’agonia di un bimbo caduto in un pozzo, Alfredino Rampi, e le ultime ore del leader comunista Berlinguer, del quale porta a Roma la salma sul suo aereo. «In quei casi agì sotto la spinta dell’emotività, proprio come un nonno o un fratello. Ben diversamente da quando fece delle scelte politiche, momenti nei quali fu invece freddissimo», dice l’ex segretario generale del Colle. «In poco tempo erano scomparsi dalla scena Moro, La Malfa e Berlinguer, che stavano costruendo il nuovo equilibrio politico della solidarietà nazionale, un disegno che lui aveva condiviso con l’obiettivo di far evolvere il Pci su una posizione occidentale. Pertini cercò di costruire un assetto nuovo, quello che poi divenne il pentapartito, con gli incarichi a Spadolini e Craxi, e quindi con governi in grado di reggere una crisi del sistema che il terrorismo e la questione morale esplosa con lo scandalo P2 stavano portando al collasso. Risultato: riuscì a stabilizzare la politica e fu tonificante per la credibilità delle istituzioni. Pur con tutti i difetti che gli si vogliano trovare, ed essendo uomo di carattere difetti ne aveva, non mi pare poco». Ha ragione Maccanico. Quei meriti glieli riconobbe persino un polemista ruvido come Montanelli. Alla morte di Pertini scrisse: «Quando entrò al Quirinale portò con sé solo una collezione di pipe e una ventata d’aria fresca. Ce n’era urgente bisogno… Chi incarna lo Stato ha il dovere di farlo amare, oltre che rispettare. Nessuno ci è riuscito meglio. Rimpiangeremo tutto, di lui». SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ALLORA COME ALLORA: RICORDANDO IL TRENTA GIUGNO 1960

di Franco Astengo Mai come quest’anno è necessario tenere viva la memoria dei fatti del Luglio ’60 partendo dallo sciopero generale di Genova svoltosi il 30 giugno di quell’anno Il ricordo del 30 Giugno 1960 genovese e i susseguenti fatti del luglio successivo verificatasi in tutta Italia ( si registrarono morti nelle strade di Licata, Reggio Emilia, Palermo, Catania) appare così di grande importanza proprio nel momento in cui sarebbe indispensabile ritrovare tutta la nostra capacità d’impegno e di vigilanza democratica proprio perché si cerca di negare non solo l’evidenza della storia ma gli stessi i valori  di democrazia e di antifascismo che ne sono direttamente collegati sul piano politico ed etico. Ribadendo che continuiamo a considerare l’antifascismo un valore in sé assolutamente non   negoziabile riportiamo di seguito, ancora una volta,  un testo attraverso il quale si cerca di riproporre la memoria di quei fatti fornendo una interpretazione storica oltre ad una cronologia degli avvenimenti di quei giorni.   30 GIUGNO 1960: LA RIVOLTA DI GENOVA E LA VITTORIA DELLA DEMOCRAZIA Era l’Italia del 1960. Il Paese si trovava in pieno miracolo economico, ma il benessere nascondeva profonde lacerazioni socio-politiche. Si stava provando, con fatica, a uscire dagli anni’50 e a far nascere il centrosinistra. Un giovane democristiano, Fernando Tambroni esponente della corrente del presidente della Repubblica Gronchi, assumeva la Presidenza del Consiglio sostenuto da una maggioranza comprendente il partito neofascista, il MSI. Quell’MSI che stava tornando alla ribalta con la sua ideologia e la sua iniziativa: quell’MSI che decise, alla fine del mese di Giugno, di tenere il suo congresso a Genova, Città medaglia d’oro della Resistenza. L’antifascismo, vecchio e nuovo, disse di no. Comparvero sulle piazze i giovani dalle magliette a strisce, i portuali, i partigiani. La Resistenza riuscì a sconfiggere il rigurgito fascista. Ma si trattò di una vittoria amara, a Reggio Emilia e in altre città la polizia sparò sulla folla causando numerose vittime. Questi i fatti, descritti più nel dettaglio attraverso la cronologia che troverete in calce a questo articolo. Fatti accaduti in quell’intenso e drammatico inizio d’estate di cinquantasette anni fa: è necessario, però, tornarvi sopra per riflettere, partendo da un dato. Non si trattò semplicemente di un moto di piazza, di opposizione alla scelta provocatoria di una forza politica come quella compiuta dall’MSI di convocare il proprio congresso a Genova e di annunciare anche come quelle assise sarebbero state presiedute da Basile, soltanto quindici anni prima, protagonista nella stessa Città di torture e massacri verso i partigiani e la popolazione. Si trattò, invece, di un punto di vero e proprio snodo della storia sociale e politica d’Italia. Erano ancora vivi e attivi quasi tutti i protagonisti della vicenda che era parsa chiudersi nel 1945, ed è sempre necessario considerare come quei fatti si inserissero dentro una crisi gravissima degli equilibri politici: una crisi inserita anche in un mutamento profondo dello scenario internazionale, nei quali si muovevano i primi passi del processo di distensione ed era in atto il fenomeno della “decolonizzazione”, in particolare, in Africa, con la nascita del movimento dei “non allineati”. Prima ancora, però, dovrebbe essere valutato un elemento, a nostro avviso, di fondamentale importanza: abbiamo già accennato all’entrata in scena di quella che fu definita la generazione “dalle magliette a strisce”, i giovani che per motivi d’età non avevano fatto la Resistenza, ma ne avevano respirata l’aria entrando in fabbrica o studiando all’Università accanto ai fratelli maggiori; giovani che avevano vissuto il passaggio dall’Italia arretrata degli anni’40-’50 all’Italia del boom, della modernizzazione, del consumismo, delle migrazioni bibliche dal Sud al Nord, di una difficile integrazione sociale e culturale. Allora i moti del Luglio’60 non possono essere considerati semplicemente un punto di saldatura tra le generazioni, anzi rappresentavano un momento di conflitto, di richiesta di cambiamento profondo, non limitato agli equilibri politici. Un punto di analisi, questo, non ricordato di frequente: al riguardo del quale abbiamo pensato di presentare un testo, a nostro giudizio illuminante, scritto da Raniero Panzieri e apparso, il 25 Luglio del 1960 proprio nel momento in cui i nuovi equilibri politici si andavano formando (il governo Tambroni si era dimesso e Amintore Fanfani si apprestava a varare quel ministero che Aldo Moro avrebbe definito delle “convergenze parallele”: per la prima volta, infatti, il PSI si sarebbe astenuto, come i Monarchici, sull’altro versante. Si trattava del prodromo del governo organico di centrosinistra che poi lo stesso Moro avrebbe presieduto nel dicembre del 1963). L’articolo di Panzieri (che non aveva ancora aperto la serie dei “Quaderni Rossi”) uscì sulla rivista della federazione torinese del PSI, “La Città” e ne riportiamo di seguito uno stralcio particolarmente significativo: ” E’ dunque necessario conquistare, al livello delle forze politiche organizzate, una consapevolezza precisa e seria del movimento reale del Paese. E per questo occorre, innanzi tutto, riconoscere i tratti del processo democratico che da lungo tempo è andato maturando nella nostra società, al di fuori, in gran parte, dalle linee e dagli obiettivi perseguiti dai partiti di sinistra. Ciò che è caratteristico di questo processo è che, nonostante la sua estraneità ai partiti, non ha per nulla i connotati tipici della “spontaneità”: il suo grado di coscienza è fortemente sottolineato dalla capacità delle giovani leve operaie di “servirsi” del sindacato unitario (soprattutto) e anche dei partiti di classe, nella stretta misura in cui la partecipazione e il sostegno delle organizzazioni operaie esistenti sono necessari all’affermazione di uno schieramento unitario di classe. Perciò l’estraneità organizzativa ai partiti di decine di migliaia di giovani operai, che sono state la punta avanzata del movimento, deve essere valutata come un rapporto di spinta, di azione critica esercitata da forze consapevoli, ora in modo chiaro, ora in forme incerte e travagliate, di rappresentare esigenze e scopi di lotta più complessi e più avanzati di quelli offerti dalle organizzazioni e di dover esercitare con la loro autonomia una pressione perché queste si adeguino ai rapporti di classe… …..Ma questi elementi possono prendere rilievo e consistenza durevole soltanto in una prospettiva politica generale. E proprio questa prospettiva …

GENOVA 1960. PERTINI IN PIAZZA DELLA VITTORIA

Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa. Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologia di reato. Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza. Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà. Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria  dei  nostri  morti,  riaffermando  i  valori  della  Resistenza.  Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui. La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero. Noi, oggi qui, riaffermiamo questi principi e questo amor di patria perché pacatamente, o signori, che siete preposti all’ordine pubblico e che bramate essere benevoli verso quelli che ho nominato poc’anzi e che guardate a noi, ai cittadini che gremiscono questa piazza, considerandoli nemici della Patria, sappiate che coloro che hanno riscattato l’Italia da ogni vergogna passata, sono stati questi lavoratori, operai e contadini e lavoratori della mente, che noi a Genova vedemmo entrare nelle galere fasciste non perché avessero rubato, o per un aumento di salario, o per la diminuzione delle ore di lavoro, ma perché intendevano battersi per la libertà del popolo italiano, e, quindi, anche per le vostre libertà. E’ necessario ricordare che furono quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria, purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani. Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si  inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune. Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di    tornare alla ribalta? Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni prima. Un secondo errore fu l’avere spezzato la solidarietà tra le forze antifasciste, permettendo ai fascisti d’infiltrarsi e di riemergere nella vita nazionale, e questa frattura si è determinata in quanto la classe dirigente italiana non ha inteso applicare la Costituzione là dove essa chiaramente proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma di un partito fascista ed è andata più in là, operando addirittura una discriminazione contro gli uomini della Resistenza, che è ignorata nelle scuole; tollerando un costume vergognoso come quello di cui hanno dato prova quei funzionari che si sono inurbanamente comportati davanti alla dolorosa rappresentanza dei familiari dei caduti. E’ chiaro che così facendo si va contro lo spirito cristiano che tanto si predica, contro il cristianesimo di quegli eroici preti che caddero sotto il piombo fascista, contro il fulgido esempio di Don Morosini che io incontrai in carcere a Roma, la vigilia della morte, sorridendo malgrado il martirio di giornate di tortura. Quel Don Morosini che è nella memoria di tanti cattolici, di tanti democratici, ma che Tambroni ha tradito barattando il suo sacrificio con 24 voti, sudici voti neofascisti. Si va contro coloro che hanno espresso aperta solidarietà, contro i Pastore, contro Bo, Maggio, De Bernardis, contro tutti i democratici cristiani che soffrono per la odierna situazione, …

MARIA GIUDICE SOCIALISTA PER FEDE

Nella foto Maria Giudice in carcere con Umberto Terracini La socialista rivoluzionaria Maria Giudice (1880-1953) sarà in futuro nota per essere stata la madre dell’autrice di “L’arte della gioia”, in Francia già un best seller. Ma ancora non è così, e mentre Goliarda Sapienza è conosciuta più all’estero che in Italia, il nome di sua madre appare nei testi storiografici sul socialismo italiano precedente al fascismo, ed è una voce sia nel Dizionario Biografico degli Italiani che in “Le donne Italiane… del ‘900”, curato da Miriam Mafai. In quest’ultimo, nonostante imbarazzino le lacune (non è detto che fu la prima donna a dirigere la Camera del lavoro di Torino né si accenna al lungo periodo siciliano), Maria Giudice viene giustamente alla luce per il suo antimilitarismo e antifascismo, e non solo come “figura minore” del socialismo del tempo. Ancora giovanissima, maestra a Voghera, cura “La Donna che piange” in appendice alla rivista socialista “L’uomo che ride”, e tra il 1902 e il 1924 scrive su varie riviste socialiste. Nel 1904 nasce il primo dei suoi otto figli, i cui primi sette nati dalla libera unione con Carlo Civardi: al momento del parto si trova esiliata in Svizzera, dove fonda, insieme ad Angelica Balabanoff, il giornale “Su compagne!”. Rientrata in Italia, dopo 15 mesi, cura la rubrica “la posta di Magda” in “La difesa delle lavoratrici”. Nel 1916 la sua “carriera” politica ha un’incredibile impennata dovuta al fatto che gli uomini sono richiamati alle armi e le donne li devono sostituire in tutte le professioni, persino quelle direttive! Cosi la troviamo a capo della sezione socialista provinciale e della Camera del lavoro di Torino, e a dirigere, subito prima di Gramsci, il giornale “Il Grido del popolo”. Il breve periodo di questa sua direzione sembra caratterizzato dal “ritorno alle masse” e da una decisa opposizione alla guerra. Ai comizi in piazza invita le donne a manifestare per la pace e a rifiutarsi di svolgere lavori di ausilio alla guerra (trasporti, industrie belliche, etc). Nel 1917 verrà condannata per propaganda disfattista a 3 anni di carcere, che diventeranno 1 grazie all’amnistia del 1918. Quello che più colpisce a proposito di Maria Giudice, donna non carismatica ma caparbia, è la sua capacità di farsi capire dalle donne e uomini del proletariato, ai quali Maria sapeva parlare, con un linguaggio semplice e rivolto ai reali interessi di chi l’ascoltava. Nella monografia a lei dedicata Vittorio Poma scrive: “dovunque si rechi la Giudice raccoglie consensi e suscita entusiasmi. Colpisce il tono suadente e famigliare dell’argomentare, il linguaggio semplice ma vibrante, la fermezza e il vigore nell’affermare i principi. Chi corre ad ascoltarla rimane colpito dalla tempra di questa donna che, affascinata e rapita, parla del socialismo come di una religione, gli occhi lucidi di gioia se di fronte a lei gli operai e le operaie sfiancati dal lavoro chiedono una parola di aiuto e di speranza. Quando le domandano ingenuamente: ‘Cos’è il socialismo?’ risponde sorridente: ‘È una dottrina, una idea; è soprattutto una fede.” Maria Giudice è stata una personalità complessa, ricca di luci ed ombre: una idealista che per trent’anni si è dedicata interamente alla politica attiva; una pensatrice politica dai toni talvolta manichei, tesa a “leggere più nel libro della vita che in quello della teoria”; e soprattutto una donna persuasa che fosse possibile che il mondo cambiasse grazie all’impegno di persone come lei. Maria non si aspettava che una forza miracolosa si levasse e spazzasse tutte le ingiustizie bensì lavorava seriamente affinché questa forza divenisse coscienza prima individuale e poi collettiva. Nella rubrica “piccola, breve, umile, ma libera e consapevole” che teneva in “La difesa delle lavoratrici” il 3 marzo 1912 scriveva: “Così s’intesserà davvero fra di noi, quella ideale catena che, ora fragile e breve, andrà man mano rafforzandosi e prolungandosi in una raccolta e modesta ma costante e cosciente preparazione del futuro nucleo di coloro che – educati seriamente alla palestra del socialismo – l’avranno prima fatto trionfare in loro stessi, per poi imporlo al mondo tutto”. E ancora: “non si fanno le rivoluzioni se non vi sono le masse pronte e coscienti”. Nel 1920 si trasferisce in Sicilia in cui la lotta socialista era fermata a colpi di lupara mafiosa che proprio nel 1919 uccidevano il sindacalista Giuseppe Rumore e subito dopo il capolega Nicolò Alongi. Ma a Maria non mancavano entusiasmo e temerarietà e così, investita del compito ufficiale di “sanare il profondo divario fra i gruppi dirigenti del sindacato da una parte e la classe lavoratrice dall’altra”, si trasferisce a Catania, con cinque dei suoi sette figli, nella casa di Peppino Sapienza, un avvocato socialista, fondatore di “Unione” e direttore di “L’idea”. Dopo quattro anni di intensa e non facile attività politica (di cui otto mesi trascorsi in carcere in seguito alla rivolta di Lentini del 1922) Maria dà alla luce la futura autrice di ‘L’arte della gioia’. Nei testi di Goliarda, Maria Giudice appare sia come madre sia come personaggio storico: una socialista importante, un’antifascista che ha portato avanti la sua resistenza dai margini, contrapponendosi fin dagli inizi alle leggi antilibertarie e alla politica e cultura rappresentate da Mussolini; una donna dalla esasperata fede politica alla quale sacrifica se stessa e i figli. Durante il Ventennio il nome di Maria Giudice è iscritto nel casellario politico giudiziario, ma per via dei molti figli (“di cui due in tenerissima età”) le viene concesso di rimanere nella casa di Catania, da cui però non può spostarsi. Relegata in casa si dedica a ciò che negli anni della militanza giovanile non aveva avuto tempo di fare: studiare letteratura, latino e storia. Ma non rinuncia a lasciare tracce e testimonianza della sua “fede” insegnando ai molti giovani che bazzicavano casa Sapienza, tra figli e amici, a perorare la “causa degli umili” e ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti dei mali sociali. A non rincorrere la felicità personale. Scriveva nel 1924: “Oh, io mi vergogno di essere una madre felice. Oh, io mi adiro con tutte le madri felici. …

LA REALTÀ

di Stefano Betti La penisola è paese dai mille campanili. Nell’illusione che bastasse essere il centro della Cristianità per essere qualcuno, subisce per secoli l’esasperato localismo del Medioevo che termina con l’occupazione militare straniera. Perde il contatto con le grandi rotte commerciali a seguito della scoperta dell’America. Non conosce la Riforma protestante, se non marginalmente tramite intellettuali come Giordano Bruno finiti puntualmente sul rogo. Vive l’Illuminismo come fenomeno d’intellettuali importato dall’estero e imposto prima dai sovrani, poi dalle truppe napoleoniche, senza penetrare nella gente comune che lo rifiuta. Il suo Risorgimento è fenomeno di esigue elites che trovano nella volontà sabauda, nei compromessi con i proprietari terrieri e con i capi bastone del meridione degli alleati indispensabili. E gli Altri? In stragrande maggioranza o se ne stanno in disparte a aspettare la fine o sono contro. Carlo Pisacane scannato a Sapri insieme ai suoi compagni ne è il suo apparire evidente. La coscrizione obbligatoria, sconosciuta al sud prima dell’unità, le tasse impietose per compensare le ingenti spese sostenute per le guerre d’indipendenza, il brigantaggio, come conseguenza più della reazione a tutto questo che del revanscismo dei regnanti spodestati e del clero reazionario e, non ultimo, un impianto di Stato centralista che soffoca sul nascere ogni autonomia locale sotto la sferza dei Prefetti, contribuì non poco a non fare gli Italiani. Le divisioni si accentuarono, col sud che conobbe l’inevitabile emigrazione verso le Americhe. E la Chiesa, uno Stato nello Stato che invocava il ritorno del papa re. I Socialisti sono l’unica forza politica che al principio del secolo XX secolo tenta di dare un senso compiuto al paese attraverso il superamento degli individualismi esasperati col concetto universale di classe sociale. Cambiare le cose gradualmente. È il riformismo che si fa carne con le società di mutuo soccorso, le cooperative, i maestri elementari che insegnavano a leggere e scrivere ai figli degli operai e dei contadini e ai loro stessi padri, le rivendicazioni di maggiori tutele sul lavoro, dalla sicurezza all’orario di otto ore al salario minimo e i sindaci socialisti a capo dei Municipi che permettevano alla gente di avvicinarsi alle istituzioni, non più lontane anni luce. Medici condotti, insegnanti, avvocati, veterinari, tutti a disposizione per un gigantesco sforzo collettivo per fare sul serio gli italiani. La storia fa saltare tutto.  Il paese proverà forzosamente a amalgamarsi con la prima guerra mondiale, dove in trincea, senza capirsi quando parlavano, uomini di Bergamo e Caltanissetta furono costretti a dividere un quotidiano fatto, più che degli ordini dati in italiano dagli ufficiali, di paura e di morte. Nell’orrore dell’inutile strage, gli uomini nel fango si riconobbero come uguali. Poi il Fascismo generato dalla pancia piccolo borghese, come reazione a un dissennato Massimalismo che, in attesa messianica dell’Ora x, vigliaccamente finiva per insultare i reduci, a tentare di plasmare un paese nella irrealizzabile pretesa di rinverdire i fasti dell’Impero romano. Col Fascismo non nasce alcun uomo nuovo, se non una grottesca caricatura, frutto di una miscela informe di massimalismo interventista e nazionalismo militarista, che si scioglierà come neve al sole di fronte agli eventi avversi della guerra.  (Quando siamo laboratorio di fusione di estremi o presunti tali siamo insuperabili). La storia scorre nel sangue dei vincitori e dei vinti e, soprattutto, nell’arte di arrangiarsi dei più. La Repubblica, nata da un referendum vinto nonostante il sud a maggioranza monarchica, si dà una forma di Stato parlamentare con pesi e contrappesi. Repubblica di mediazioni, compromessi, di micro partitini. Sulla Carta costituzionale, però, rompendo il giogo centralista, si sviluppa un disegno che riconosce e promuove le autonomie locali e il decentramento amministrativo. Siamo uno Stato regionale nell’ambito della Repubblica una e indivisibile e aperto all’Europa. Dovremo però attendere il 1970 per avere le regioni. Il sistema non funzionerà come nelle aspettative. Finanza derivata, con l’amministrazione centrale che decideva alla fine quali risorse assegnare alle regioni in base al colore politico o agli accordi consociativi sotto banco. Clientelismo, sprechi, illeciti comportamenti, duplicazione di funzioni, burocrazia straripante. Le regioni contribuiscono al dissesto, non meno dell’amministrazione centrale e di quella locale. Per tentare di fare gli italiani, almeno dal punto di vista linguistico e di costume, ci penserà nel dopo guerra la televisione con Lascia o raddoppia, la radio con Tutto il calcio minuto per minuto e, non ultimo, la Chiesa con la Messa in volgare. La televisione e la radio, con un italiano perfetto o quasi, cercano di dare collante al paese slabbrato, ancora prigioniero fra un nord industriale e un sud agricolo destinato però a spopolarsi e a rifugiarsi, per chi resta, nell’assistenzialismo clientelare. La democrazia resta incompiuta per via della Guerra fredda e anche dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dei regimi comunisti. Non riusciamo a costruire un sistema realmente bipolare, dove si fronteggiano due proposte, l’una socialista, l’altra di stampo liberale, come nel resto dei paesi d’Europa. Nessuno, a parole, legittima l’altro, salvo trattare sotto banco accordi e inciuci vari. Cosa che è puntualmente accaduta anche per la odierna sedicente terza repubblica. Non funziona la politica. Non funziona il paese. Qualcosa non va. E qui si evidenzia un punto ineludibile della vicenda. Oggi Camillo Benso Conte di Cavour, di fronte alle dure repliche della storia, avrebbe difficoltà a dire che siamo riusciti, a distanza di quasi centosessant’anni, a fare gli italiani.  Un lento processo, a volte contraddittorio, muove il costume da decenni, ma non riesce a estirpare le radici che generano l’egoismo in una realtà strisciante e impalpabile, silenziosa, qualunquista, violenta fra le quattro mura e ora al di fuori. ll deficit di senso civico, di appartenenza a una comunità nazionale che non può valere solo quando gioca la Nazionale di calcio, la distruzione di ogni forma di logica funzionalità di ruoli nella società e del conseguente rispetto di chi li svolge (le aggressioni ai docenti da parte di genitori e di alunni hanno origini lontanissime nelle cause quanto il bullismo fra i ragazzi), la qualità scadente dei servizi pubblici offerti dove, sovente, è alibi la scarsezza delle risorse …

“LA BUONA POLITICA. RIFLESSIONI DI UN SOCIALISTA”, VALDO SPINI

Recensione a cura di Maria G. Vitali-Volant In questo momento di crisi spettacolare nelle istituzioni taliane in seguito delle elezioni del 4 marzo che hanno visto l’avanzata e la vittoria del Movimento 5 stelle e della Lega di Matteo Salvini, oggi al governo, ci sembra opportuno segnalare un libro che si occupa della “Buona politica” (Marsilio). Tenendoci dentro i dubbi, le perplessità e la sensazione di pericolo che questo stravolgimento politico porta con sé, le parole avvedute e serene di Valdo Spini ci suggeriscono una presa di distanza, molte riflessioni e una visione fortemente politica che vanno ben al di là dei fatti contingenti e della violenza che essi contengono. Leggendo questo libro – dice Furio Colombo nell’introduzione – si prova “un sentimento strano, come tornare in un quartiere che conosci bene, ma stenti a orientarti, perché molto è stato abbattuto e molto costruito in un altro modo”. Importantissimo per riflettere oggi su cosa sia stata e cosa possa tornare a essere la politica italiana. La lunga intervista fatta dalla Fondazione Socialismo a Valdo Spini e che figura sui “Quaderni del Circolo Rosselli”, n.2 del 2012, si è trasformata in questo libro essenziale per capire le vicende della storia italiana e del Partito socialista italiano dal 1962 al 1994, “un periodo” – come dice lo stesso Spini nella premessa – “…che ha visto la crisi delle ideologie e la fine di un’organizzazione territoriale della militanza”. L’autore suggerisce come soluzione alla crisi di questo modello : “…Una politica basata sui valori e sui principi in grado di formare un nuovo collante sociale, di restituire una dignità alla politica come servizio reso alla società.” Questo basta per farci entrare in una mentalità e in una missione politica che ci sembrano lontane dai propositi e dalle affermazioni che circolano oggi nel nostro paese che ha visto crisi politiche serissime da più di settant’anni ma mai così virulente come quelle di questi giorni. Chi si preocupa seriamente oggi della politica intesa come servizio alla comunità se non come propaganda elettorale ? Ognuno risponderà a sua guisa e la storia farà il resto, ma ci sembra giusto proporre a questo interrogativo etico, morale e politico la risposta di un protagonista della politica che si è sempre distinto per intelligenza e finezza di analisi nonché per la sua profonda conoscenza della politica come scienza e come “dovere”. Questo patrimonio etico era uno dei valori portanti della sinistra italiana che usciva dalla Seconda Guerra mondiale, dopo le tragedie del fascismo e dal miracolo della Resistenza, con il compito di ricostruire e di battersi per una comunità disorientata e indebolita anche da gravissimi problemi economici e culturali. Protagonisti maggiori il PCI e il PSI, in alterne vicende che tutti noi abbiamo vissuto e che i giovani e giovanissimi di oggi dovrebbero apprendere per capire quello che stiamo vivendo.  Questa sinistra oggi, in Europa e in Italia, sembra l’ombra di Marx accompagnata, suo malgrado ma a causa della sua perdità di identità, dai mostri di Goya: disoccupazione, crisi culturale e sociale ecc. A cui non si sono trovate risposte soddisfacenti e soluzioni partecipate. Nonostante questo si avverte fortunatamente una spinta forte della società civile che interpreta la contemporaneità con le sue crisi ma anche con le sue conquiste. Continua Spini: “…Stiamo assistendo allo stravolgimento  dei valori e dei principi della sinistra che porta inevitabilmente a un distacco progressivo tra cittadine e cittadini, da una parte, e la cosa pubblica, dall’altra, che si è trasformato in un’attiva ribellione verso le forme e le rappresentanze della politica… Proprio oggi vale la pena ricordare questa militanza senza retorica e senza rimpianti – la sua – semplicemente per tramandare una sorta di racconto che si sviluppa tra l’esperienza personale e la rivisitazione di una storia collettiva, che vada al di là delle ricostruzioni storiche sul PSI.” Vista la problematica, l’autore chiama in causa il più grande degli scrittori politici italiani – Niccolò Machiavelli – di cui traccia il profilo e le gesta nonché il pensiero politico da “patriota” che denuncia la situazione tragica in cui si trova il suo paese; esattamente come oggi, anche se non si possono fare paragoni. “L’impotenza della politica di fronte all’incapacità di interpretare i fenomeni del proprio tempo e di dar loro uno sbocco positivo e concreto, mi hanno spinto – dice Valdo Spini – a ripensare le vicende che hanno traghettato il nostro paese dalla prima alla seconda repubblica e che, forse, adesso lo porteranno alla terza, con passione e ragione.”  Sembrerebbe un ossimoro eppure il racconto delle vicende italiane che fa l’oggetto di questo libro fa tracimare i sentimenti (la passione) e le sintesi (la ragione) a cui è arrivato Valdo Spini nella sua ricerca di “Uno buono reggimento degli stati” ispirandosi al Machiavelli. Ma chi è il nuovo Principe che si assumerà questo compito? L’autore cita Antonio Gramsci che vide nel partito – comunista – questa entità capace di assorbire le energie della comunità e di restituirle con la saggezza e le capacità politiche che gli sono proprie, sotto forma di provvedimenti rivolti al bene comune. La visione di Gramsci oggi è sfuggita alla messa a fuoco della storia, il partito politico non è più il corpo collettivo che nutre l’alveare: “… Il rapporto ideologia-partito-difesa del popolo si è dissolto…La crisi in corso ha messo in rilievo antiche piaghe e lacune della nostra società, del suo modo di esprimersi, di organizzarsi, in particolare nella sfera politica, ma forse, più in generale, della sua classe dirigente al di quella politico-elettiva.” Nel libro, il saggio introduttivo su Machiavelli, in cui Valdo Spini mette a confronto la figura e l’opera del grande fiorentino con il presente, è di grande interesse anche perché viene costruito col linguaggio e il senso del politico – oltre che dello storico come Spini è per formazione e attività accademica -, un politico  parla all’altro, in un dialogo sbalzato nel tempo ma che apre nuove prospettive sugli studi su Machiavelli e ci introduce nell’ “hic et nunc” della politica italiana. Verso la fine del …

UCCISO CALOGERO MORREALE, 35 ANNI, SINDACALISTA E DIRIGENTE SOCIALISTA

di Marco Sassano Cronaca di un delitto «Se credono che ammazzando mio figlio ci mettono paura e che rinunceremo alla nostra battaglia, non hanno capito niente. Proprio per il dolore che provo sono pronto ad andare in piazza e a tenere un comizio ai compagni, ho sessantasette anni e hanno tentato di ammazzarmi venticinque anni fa, ora mi hanno ucciso il figlio, ma se è necessario, comincio da capo. Non ci fanno paura». Con la voce resa roca dalla sofferenza, con gli occhi gonfi di pianto rappreso, con il volto incavato ed abbronzato di un uomo che per tutta la vita ha lavorato e lottato sui campi, così parla Pietro Monreale, padre del compagno Calogero, barbaramente ucciso da due killer, ieri pomeriggio, mentre tornava a casa, a Roccamena, dove l’aspettavano la moglie e due figli, di tre e quattro anni. Calogero Morreale, segretario della sezione socialista del centro agricolo palermitano, e responsabile dell’alleanza contadini, e stato freddato a bordo della sua 500, con sette colpi dí pistola a tamburo e con una scarica a distanza ravvicinata attraverso il parabrezza. Tutti i proiettili hanno raggiunto il capo del compagno uccidendolo sul colpo. «Sono arrivati all’omicidio -dice il compagno, Santo Stagno. sindaco di Roccamena, che è amministrata da una giunta di sinistra- per intimorire noi e tutta la popolazione. Il disegno dei mafiosi che hanno ordito l’assassinio è quello di ripetere a Roccamena, quanto sperimentarono a Sciara, con il delitto Carnevale, che riuscì a far scomparire per un lungo periodo eli tempo il partito. I tempi però sono profondamente mutati. Non ci facciamo intimidire. Il cadavere del segretario socialista è stato scoperto, circa mezz’ora dopo il delitto, da due contadini Giuseppe Calamia e suo figlio. La 500 era bloccata in mezzo alla strada, con la terza marcia ingranata. Non vi era traccia di sbandamento. E’ dunque probabile che Calogero Morreale abbia riconosciuto gli uomini che gli stavano per tendere l’agguato e, non presentendo nulla, abbia rallentato avvicinandosi. E’ a questo punto che gli assassini si sono avvicinati al parabrezza ed estratte le armi, hanno esploso i colpi. Che si tratti di professionisti del crimine balza chiaramente agli occhi se si tiene presente che i sette colpi di pistola sono stati sparati a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro, quasi a forma di un perfetto cerchio, nonostante il forte rinculo dell’arma. L’agguato contro il dirigente socialista è avvenuto lungo una strada che attraversa i possedimenti di un discusso e potente personaggio, Giuseppe Garda di Monreale, il cui nipote Franco Morreale, fu sequestrato nel settembre scorso e per il cui riscatto venne pagata la cifra di un miliardo. Di quelle stesse terre, venticinque anni fa (allora era di proprietà del feudatario Mirto Staracio Serafino) era affittuaria la famiglia Morreale, che proprio per l’impegno politico del capofamiglia nelle lotte per l’occupazione delle terre, venne cacciata e completamente defraudata. E’ proprio sino da quel periodo che va inquadrato l’impegno attivo di tutta In famiglia Morreale, i membri militano sia nel PSI che nel PCI, contro i potenti mafiosi della zona. Ecco perché ha una sua precisa logica l’affermazione del sindaco dl Roccamena, quando dichiara che «questo omicidio trova la sua radice nelle battaglie per l’occupazione delle terre incolte. E’ di quell’epoca il tentato omicidio del padre di Calogero. Fu nel 1949, che alcuni mafiosi aspettarono il dirigente politico sotto casa, armati dl lupara. Solamente il suo spirito d’osservazione (si accorse anche al buio, degli uomini che l’aspettavano) gli permise di salvarsi. Riconobbe i due assalitori. Si ricorda bene: e Uno -dice- era il figlio naturale del mafioso Leonardo Giordano, l’altro è ancora vivo, sta a Monreale, e si chiama Gioacchino Cascio. Feci anche una denuncia ai carabinieri ma non ne fecero nulla. Anzi sparì addirittura il foglio di carta bollata». La battaglia della famiglia Morreale contro la mafia di Roccamena (uno dei pilastri del quadrilatero mafioso della Sicilia occidentale, Insieme a Corleone, Alcamo e Borgetto) continuò negli anni, ad esempio, con la ferma denuncia delle reiterate intimidazioni messe in atto dall’ex feudatario del territorio di Contessa, Petraro a, che era stato preso In affitto trentennale dal Consorzio di Bonifica del medio e alto Belice. Pare che proprio in seguito a questa vicenda. Il figlio di Giuseppe Garda (il proprietario delle contrade Gambari e Balate a cavallo delle quali è avvenuto il delitto) Baldassarre, è stato Inviato e si trova tuttora, al soggiorno obbligato a Bologna. A tutto questo si aggiunge l’impegno sindacale. Le dure lotte che hanno portato in questi anni, i contadini di Roccamena, a modificare totalmente il panorama agricolo della zona, passando dalle colture estensive a quelle Intensive, In particolare della vite. E tutto ciò ha ovvia-mente dato forza Al movimento cooperativistico, di cui Calogero Morreale era uno dei principali sostenitori. Ma il delitto va inquadrato anche nella situazione del centro siciliano. Bisogna infatti ricordare che la giunta di sinistra, nata dalle elezioni amministrative di due anni or sono, ha spazzato via Il retaggio di omertà e di complicità con i grandi proprietari, lasciatale dalla precedente giunta che era diretta da democristiani e missini. Lo scontro elettorale era stato assai duro, ed il Partito Socialisti aveva condotto un’aspra battaglia contro la DC cittadina, in cui, negli anni, si era arroccata, come dice Il sindaco, la mafia della zona. Vinsero socialisti e comunisti. Era dal ’56 che non avveniva. Ed anche allora c’era stata una furibonda reazione mafiosa che era giunta al punto di sequestrare tre consiglieri comunali di sinistra, provocando un’ovvia ondata di panico. Con l’assassinio del dirigente socialista si vuole forse ripetere questo infame disegno? Ma il Paese, anche qui, nella profonda Sicilia, è radicalmente cambiato. Questo pomeriggio è giunto a Roccamena il sostituto procuratore della Repubblica Messineo, uno dei più preparati magistrati palermitani. In sua presenza, nella casetta del custode del cimitero, ancora sconvolto dal terremoto del ’69, si è svolta l’autopsia. Poi la salma è stata trasportata prima nella umile abitazione di via Quattro Case, dove una folla di cittadini ha sostato per tutto il giorno. In serata, è stata …

CARLO E NELLO ROSSELLI, UN SACRIFICIO E LE RADICI DELLA DEMOCRAZIA

Antifascisti di “Giustizia e Libertà”. Al centro: Carlo Rosselli, Giovanni Bassanesi e Ferruccio Parri (1930)   LA FAMIGLIA Carlo Rosselli nasce a Roma il 16 Novembre 1899. E’ il secondo di tre fratelli: Aldo nasce il 21 Luglio 1895 a Vienna, durante il soggiorno dei coniugi Rosselli nella capitale dell’Impero austro-ungarico e della musica; Nello (ovvero Sabatino) a Roma il 29 Novembre 1900. La madre, Amelia Pincherle Moravia, di origine ebrea veneziana, scrittrice e il padre Giuseppe (detto Joe) Rosselli Nathan, anch’egli ebreo e di professione musicologo, si separeranno dopo soli sette anni di matrimonio. Joe infatti si invaghisce di una cantante lirica. Nel 1903, Amelia con i tre figli si trasferisce a Firenze, dove, anche per la presenza degli zii Pellegrino Rosselli e della moglie Janet Nathan riesce a superare le difficoltà di organizzare una nuova vita da sola e con tre bambini. Il ricordo del padre rimarrà piuttosto flebile nelle memorie dei tre fratelli Rosselli, che trovano nei coniugi Giulio e Giorgina Zabban, chiamati confidenzialmente Zio Giù e Zia Gi e, successivamente in Gaetano Salvemini, le loro guide nella vita. Un legame profondo unisce i fratelli alla madre Amelia, che impartisce loro un’educazione severa, all’insegna del patriottismo e della intransigenza morale, “con principi etici austeri e mazziniani” (Mazzini muore in casa Rosselli nel 1872, sotto lo pseudonimo di Mr. Brown) ma, allo stesso tempo, “temperata dalla dolcezza ebraica”. Amelia introduce ben presto i figli nel mondo culturale fiorentino: Aldo, Carlo e Nello frequentano i Nathan, peraltro imparentati con i Rosselli, il giurista Alessandro Levi, cugino di Amelia, la famiglia Ferrero, la famiglia Moravia (lo scrittore Alberto è cugino di Carlo), i Treves, (una sorella di Levi è moglie di Treves), oltreché gli zii Anna e Gabriele Pincherle. Il 9 Settembre 1911, il padre Joe muore di nefrite. Lascia ai figli una cospicua eredità che, in futuro, servirà anche a finanziare l’attività politica di Carlo. Carlo e Nello, dopo aver terminato gli studi elementari alla scuola privata “Bembaron”, frequentano il Ginnasio al “Michelangiolo” di Firenze. Durante la seconda ginnasio, all’età di undici anni, Carlo si ammala di flebite e per due anni rimane quasi immobile. In questo periodo, si dedica con passione allo studio del pianoforte. Data la salute cagionevole, Carlo non può terminare gli studi classici e per questo la madre decide di iscriverlo all’Istituto tecnico, che terminerà senza troppa fatica. Aldo, viene mandato invece a lavorare come garzone nella bottega di un falegname, anche per temperare il suo carattere troppo irrequieto e, in seguito, iscritto al Collegio “Tolomei” di Siena. Nel 1914, a diciannove anni, si iscriverà alla Facoltà di medicina a Firenze. La formazione culturale dei giovani Rosselli coincide tuttavia con uno dei periodi più drammatici della storia del Novecento italiano: lo scoppio della prima guerra mondiale. LA PRIMA GUERRA MONDIALE. LA MORTE DI ALDO Il 30 Luglio 1914 scoppia la prima guerra mondiale. Inizialmente, il Governo italiano decide di non partecipare allo scontro e di dichiararsi neutrale. Il 24 maggio 1915, l’Italia entra in guerra. La famiglia Rosselli è animata da un acceso spirito patriottico e favorevole all’entrata in guerra dell’Italia, anche per l’influenza della zio Gabriele Pincherle, fratello di Amelia, senatore di formazione giolittiana e di Guglielmo Ferrero, fervente interventista. Aldo, che potrebbe prestare servizio presso la Croce Rossa in quanto figlio maggiore di madre vedova, decide di arruolarsi volontario in fanteria. Dopo pochi mesi viene inviato al fronte dove, il 27 marzo 1916, a ventuno anni muore in seguito a ferite riportate alla testa. Gli sarà conferita la medaglia d’argento al valore. Nel 1917, appena conclusi gli studi superiori, Carlo e Nello vengono richiamati alle armi, rispettivamente nel corpo degli gli alpini e in artiglieria. Carlo viene inviato a Caserta a frequentare un corso per sottoufficiali, proprio pochi giorni prima della disfatta di Caporetto. La vita militare segnerà la formazione culturale e politica del giovane Rosselli, che commenta così questa esperienza: “A contatto col popolo, molti conobbero e apprezzarono la massa. Ne compresero i dolori, le lacune, le mirabili virtù. Io stesso ricordo con commozione la scoperta che ne feci e il grande amore che mi prese per essa“. Carlo crede nella “lezione della guerra”, nella possibilità cioè che si concretizzi un avvicinamento tra la borghesia ed il popolo, tra i giovani militari borghesi ed i cosiddetti “popolani”. Ciò che il giovane Rosselli auspica è la costituzione di un fascio di combattenti che faccia risorgere l’Italia dallo stato di crisi generale in cui stava versando. E’ palese la critica rivolta all’azione dei partiti ritenuti incapaci di difendere il Paese e l’amor di patria. Queste tematiche vengono commentate negli anni successivi al primo conflitto mondiale in alcuni contributi scritti per la rivista culturale “Vita”, pubblicata a Firenze da Jean Luchaire e successivamente sulla salveminiana “L’Unità”. In una lettera inviata alla madre da Lipari il 16 Novembre 1928, Carlo scrive: “… Poi l’uragano. Aldo, l’attesa tormentosa prima di potersi lanciare nella tormenta, lo strazio fatale dei tuoi dolori e dei tuoi timori. La guerra, infine, grande scuola di vita, incubatrice, illuminatrice, formatrice. Almeno per me che partii ragazzo e tornai uomo”. IL DOPOGUERRA, L’INCONTRO CON SALVEMINI, IL SOCIALISMO La guerra finisce. Nel novembre 1919 in Italia si svolgono le prime elezioni con il sistema proporzionale a suffragio allargato che segnano una schiacciante vittoria dei socialisti. Carlo ha sostenuto la lista democratica-repubblicana combattente e, come molti giovani amici commilitoni, non condivide le posizioni massimaliste di Giacinto Menotti Serrati, che rappresentano la maggioranza del Partito Socialista Italiano, né, tantomeno, il fanatismo del nascente movimento fascista. Dopo essere stato trattenuto al Comando di Asiago fino al 18 febbraio 1920, giorno del suo congedo, torna a Firenze, ma il giovane Rosselli appare disorientato. Il suo atteggiamento verso la guerra sta infatti mutando rispetto al periodo bellico e all’esperienza militare, sia per gli esiti della Conferenza sulla pace, nella quale gli interessi delle singole potenze vengono anteposti ai valori per cui tanti italiani hanno combattuto, sia per l’influenza esercitata su di lui da scrittori pacifisti francesi quali Henri Barbousse …

LA SCOMPARSA DI PIERRE CARNITI

di Marco Cianca – Corriere della Sera 13 febbraio 2003 Pierre Carniti, ex segretario della Cisl. Il 14 febbraio dell’84 spinse Bettino Craxi a sfidare, e sconfiggere, il Pci di Enrico Berlinguer. Poi rifiutò la presidenza della Rai perché gli volevano imporre un vice, il socialdemocratico Leo Birzoli. E andò via anche dall’Iri non appena si accorse che i suoi progetti per il Sud finivano nelle sabbie mobili della politica e della burocrazia. Un uomo che ha sempre remato controcorrente. Eccolo, vent’anni dopo, il vincitore della battaglia per la scala mobile. «Non ho rimpianti né nostalgie». Sorride, mentre si accende l’immancabile sigaro, un compagno di strada che non ha mai abbandonato nonostante l’ulcera e i problemi cardiaci. Ma furono tre o quattro i punti di scala mobile tagliati? «Non ci fu un taglio, ma una predeterminazione. L’accordo prevedeva una modulazione degli scatti in funzione di un obiettivo. Le cose andarono meglio del previsto. Non tanto per un miracolistico effetto macroeconomico ma perché si dimostrò che l’inflazione ha anche una forte componente psicologica. Alla fine dell’83 avevamo ereditato un’inflazione del 13 per cento. L’obiettivo era di portarla al 10. Arrivò all’8, per cui alla fine i punti di scala mobile che non scattarono furono tre». Lo rifarebbe? «Sì. L’alternativa reale era una politica monetaria restrittiva. Ma quello sarebbe stato l’accordo del boia». Perché il boia? «Perché avrebbe significato, con un forte aumento dei tassi di interesse, strangolare gli investimenti, ridimensionare la crescita e quindi ridurre l’occupazione». Perché il Pci si oppose in maniera così strenua all’accordo? «Già il 7 gennaio la direzione del Pci aveva definito inaccettabile lo scambio politico tra il sindacato e il governo. Era così affermata una doppia teoria: il primato del partito sul sindacato, non perché considerato cinghia di trasmissione ma perché gli si riconosceva un’autonomia limitata, e il primato del Parlamento sull’esecutivo. E’ questa la sfida lanciata da Enrico Berlinguer. Dimostrare che senza il Partito comunista non si poteva fare nulla. Non credo che del merito della questione gli interessasse più di tanto». E Bettino Craxi? «Craxi era disprezzato dal gruppo dirigente del Pci. Già nel ’78 una nota di Antonio Tatò a Berlinguer lo dipingeva come un avventuriero e un bandito. Era detestato dai comunisti e guardato con sospetto dai democristiani. Una volta a Palazzo Chigi ricevette in eredità dal governo Fanfani l’intesa raggiunta nell’83 dal ministro del Lavoro Vincenzo Scotti che, con un’abilità partenopea del taglia e cuci, aveva di fatto ridotto surrettiziamente il grado di copertura della scala mobile. Quell’intesa rinviava appunto all’84 una verifica con le parti». Quindi partì il negoziato. «Sì, ma Craxi non se ne occupò. Non credo che gli interessasse molto. Ci fu una lunga fase di gestazione. La proposta della predeterminazione era nata proprio in casa Cisl. Il teorico ne fu Ezio Tarantelli, poi ucciso dai terroristi, che mi era stato indicato da Franco Modigliani. La Cgil aveva delle riserve ma non sembrava una pregiudiziale insuperabile. Il confronto lo guidò il ministro del Lavoro Gianni De Michelis. Arrivammo al 12 febbraio, tutto sembrava definito e si decise di firmare due giorni dopo. Il 14 andammo a Palazzo Chigi e qui Craxi entrò in scena per la prima volta. Lama, con evidente difficoltà, annunciò che la parte maggioritaria della Cgil, cioè i comunisti, non era d’accordo. Craxi tentò un rilancio per portare a casa un risultato unitario. Lo bloccai subito dicendo che l’intesa doveva essere quella concordata. A toglierci tutti dall’imbarazzo fu lo stesso Lama, il quale specificò che loro non avrebbero firmato alcunché. Il Pci aveva messo il veto». Che fece Craxi? «Non poteva certo accettare di governare con un mandato limitato dai comunisti. E fu costretto, suo malgrado, a firmare l’intesa. L’alternativa sarebbe stata quella di dimettersi». A quel punto partì la campagna del Pci. «Sì, prima in Parlamento, con uno strenuo ostruzionismo. Poi con la decisione di indire il referendum. Lo annunciò Gerardo Chiaromonte in Senato il 7 giugno, giorno della definitiva approvazione del decreto. La sera stessa Enrico Berlinguer, durante un comizio a Padova, viene colpito dall’emorragia cerebrale che nel giro di quattro giorni lo porterà alla morte». Piero Fassino ha scritto che Berlinguer, come un giocatore di scacchi che vede la propria sconfitta, muore prima di subire lo scacco matto. «Non sono d’accordo. Berlinguer era convinto di vincere. Fino al 14 febbraio pensava che l’accordo non si sarebbe fatto. Poi scatenò l’ira di Dio in Parlamento per far saltare il decreto. Quando capì che stava per essere varato ricorse al referendum abrogativo nell’assoluta convinzione che il Paese gli avrebbe dato ragione perché il Pci era l’unico a rappresentare davvero i lavoratori. E così pensavano gli altri dirigenti. Io stesso cercai alla fine di evitare la prova di forza proponendo di far mancare il quorum ma non vollero darmi ascolto. Per la verità anche la Confindustria era convinta che avrebbero vinto i “sì” all’abrogazione». C’è chi sostiene che il vecchio Pci muore allora, ben prima della caduta del muro di Berlino e del cambio del nome. «Muore quando Berlinguer sceglie la via della diversità comunista e agita la questione morale indicando socialisti e democristiani come uomini di malaffare. Il Pci solo contro tutti, in isolamento arrogante e astratto fino al giorno del giudizio universale. Una cosa priva di senso». Lei incontrò Berlinguer privatamente. Un paio d’ore di colloquio in casa di Tatò. «Sì, ma non ci capimmo assolutamente». E Luciano Lama? Combattè una battaglia che non voleva. Quando si ebbero i risultati del referendum disse affranto a chi gli stava attorno: “Aiutatemi a tessere la tela unitaria, non a stracciarla”. «Lama era un riformista. Si può forse dire che se avesse avuto più coraggio le cose sarebbero andate diversamente ma lui era una persona molto leale, con un forte senso di appartenenza politica e sociale. Se ne sarebbe dovuto andare dal Pci e dalla Cgil ma non se la sentì. Quando la direzione del partito decise il referendum lui si pronunciò contro, quasi da solo, eccetto qualche riserva espressa da Giorgio Napolitano e Gerardo …