2 GIUGNO 1946 LA REPUBBLICA ITALIANA

Il 2 giugno 1946 si svolse infatti il referendum sulla forma istituzionale dello Stato, che con il voto popolare condusse alla nascita della Repubblica e alla elezione di un’Assemblea Costituente, a conclusione di un complesso periodo di transizione segnato dalle azioni di movimenti e partiti antifascisti e dall’avanzata degli alleati in un Paese diviso e devastato dalla guerra. Gli italiani, e per la prima volta le italiane, convocati alle urne per scegliere tra Repubblica e Monarchia e per eleggere i deputati dell’Assemblea Costituente cui spetterà il compito di redigere la nuova carta costituzionale, furono chiamati a cooperare alla fondazione di una idea di cittadinanza repubblicana che trovò nella Costituzione una delle massime espressioni. Esaurito il ventennio di dittatura fascista, per la prima volta la società italiana viveva l’esperienza di libere elezioni a suffragio universale maschile e femminile, seppure in un Paese allora ancora profondamente diviso sulla questione istituzionale. Esisteva una spaccatura profonda, fortemente disegnata su basi geografiche, tra il Nord a maggioranza repubblicana ed il Sud a maggioranza monarchica,  nonostante che gli eventi dell’ultimo ventennio –  ed in particolare la sconfitta, il proclama di armistizio reso noto l’8 settembre 1943 dal Capo del Governo Pietro Badoglio, la fuga dalla Capitale dei vertici militari, dello stesso Badoglio, del Re Vittorio Emanuele III e di suo figlio Umberto, lo stato delle forze armate italiane lasciate allo sbando, la guerra civile che divideva l’Italia – avessero oramai reso improrogabile la scelta di una profonda cesura con il passato. La questione istituzionale emergeva con forza e imponeva l’esigenza di superare Scheda elettorale per il referendum drasticamente un modello politico-culturale che affidava alla continuità dinastica della monarchia sabauda la tutela ed il mantenimento dei valori nazionali più tradizionali e conservatori. Il 9 maggio 1946 il re Vittorio Emanuele III (cui si imputava la responsabilità di avere consentito l’irrompere del fascismo) abdicò in favore del figlio Umberto, già nominato Luogotenente nel giugno 1944. Una decisione rivelatasi sin dal suo nascere tardiva e assolutamente inadeguata rispetto alle aspettative dei partiti aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale. Fu questo il periodo in cui un anelito di libertà e progresso si andarono diffondendo in Italia. Cancellate le “leggi fascistissime” – che avevano consentito la liquidazione di tutti i partiti all’infuori di quello fascista, lo scioglimento dei sindacati socialisti e cattolici, la soppressione della libertà di stampa, fino alla trasformazione di fatto dell’ordinamento giuridico del Regno d’Italia in uno stato autoritario -, risorsero le organizzazioni politiche e sindacali, i giornali si moltiplicarono con la creazione di nuove testate, le associazioni culturali ripresero vita. L’affluenza al voto fu altissima. Nel 1946 gli aventi diritto al voto erano 28 milioni (28.005.449), i votanti furono quasi 25 milioni (24.946.878), pari all’89,08%. I voti validi 23.437.143, di questi 12.718.641 (pari al 54,27%) si espressero a favore della Repubblica, 10.718.502 (pari al 45,73%) a favore della Monarchia. I giornali, e il dato è confermato dai risultati diramati dal Ministero dell’Interno, registravano un’affluenza alle urne che di provincia in provincia variava dal 75% al 90% degli aventi diritto. Nella realtà, guardando alla concretezza dei numeri, la frattura dell’elettorato sulla questione istituzionale fu radicale. Le ragioni furono certamente fondate sulle incognite politiche e socio-economiche che la scelta repubblicana per molti rappresentava, ma anche legate alle disparità con cui la dura esperienza della guerra aveva toccato le diverse zone del Paese e i diversi strati della popolazione, oltre che dettate dal radicamento di una istituzione comunque identificata da molti con la propria idea di nazione. Il passaggio dalla monarchia alla Repubblica avvenne in un clima di tensione, tra polemiche sulla regolarità del referendum, accuse di brogli, polemiche sulla stampa, ricorsi e reclami. In virtù dei risultati ed esaurita la valutazione dei ricorsi, il 18 giugno 1946 la Corte di Cassazione proclamò in modo ufficiale la nascita della Repubblica Italiana. L’Italia cessava di essere una monarchia e diventava una Repubblica. Il 2 giugno 1946 gli italiani votarono anche per l’Assemblea costituente. Il risultato elettorale vide l’affermazione dei tre grandi partiti di massa: la Democrazia cristiana conquistava la maggioranza relativa dell’Assemblea (35,21 %), mentre il Partito socialista e il Partito comunista raggiungevano insieme il 39,61 %. I tre maggiori partiti ottenevano complessivamente circa il 75% dei suffragi. Si affermavano le forze politiche legate alla tradizione popolare del movimento cattolico e del movimento socialista. Le elezioni evidenziavano anche il massiccio ridimensionamento delle forze di ispirazione liberale, che sino all’avvento del fascismo avevano dominato la vita politica nazionale. Le donne ebbero un ruolo ed un peso determinanti, votarono infatti 12.998.131 donne, contro 11.949.056 di uomini. Già all’inizio  del 1945, con il Paese diviso dalla Linea Gotica ed il Nord sottoposto all’occupazione tedesca, il Governo Bonomi aveva emanato un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne (decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n.23), in  risposta alla forte mobilitazione delle associazioni femminili interessate al voto : il Comitato femminile della Democrazia Cristiana – CIF, l’Unione Donne Italiane – UDI, il Gruppo femminile del Partito Repubblicano, la Federazione Italiana Laureate Diplomate Istituti Superiori – FILDIS, i Gruppi femminili degli altri partiti aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale. In realtà il voto del 2 giugno costituiva il punto di approdo di un processo di transizione che in Italia si era avviato già a partire dalla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943. Il processo di liberazione dalla occupazione tedesca e la ripresa democratica con i governi del CLN, che guidarono il Paese fin dalla primavera del 1944, vennero subito a coagularsi attorno ai due obiettivi fondamentali: la soluzione della questione istituzionale e l’approvazione della nuova Costituzione da parte di un’assemblea liberamente eletta. In un primo momento, il 25 giugno 1944, pochi giorni dopo la liberazione di Roma, il Governo Bonomi stabiliva che alla fine della guerra sarebbe stata eletta a suffragio universale, diretto e segreto, un’assemblea Costituente per scegliere la forma dello Stato e dare al Paese una nuova costituzione (DLLgt. 151\ 1944). Successivamente, il 16 marzo 1946, il governo De Gasperi, dopo aver sancito il suffragio universale e  riconosciuto il diritto di …

GIACOMO MATTEOTTI. L’ITALIA NEL CONTRASTO PER LE RIPARAZIONI

a cura di  Stefano Caretti L’ITALIA NEL CONTRASTO PER LE RIPARAZIONI La rottura dell’Intesa, e quindi la separata occupazione della Ruhr, è avvenuta proprio quando le diverse tesi alleate sulla questione delle riparazioni e dei debiti stavano convergendo. Per lo che è da ritenere che essa sia stata determinata da prevalenti scopi politici anziché dal fine economico delle riparazioni. D’altra parte, ogni ritardo nella definizione economica della questione rappresenta per sé stesso un danno per l’Europa, e per l’Italia in particolare, peggiore di qualunque più sfavorevole risoluzione positiva. Anzi la posizione attuale dell’Italia -non aderente all’Inghilterra, verso la quale rimane debitrice di una forte somma in oro; non utilmente partecipante all’avventura della Ruhr, perché la Francia vi può perseguire fini di imperialismo politico-economico, a noi non comuni né convenienti; e non più percipiente dalla Germania mutilata le prime quote di riparazioni – è la più difficile fra tutte. Per dimostrare le premesse di queste proposizioni, giovano alcune notizie di fatto. La Commissione delle riparazioni aveva fissato nel 1921 la somma dovuta dalla Germania in 132 miliardi di marchi oro; e quando oggi si parla di ridurre la somma a una cinquantina di miliardi, vi è una parte dell’opinione pubblica che vivamente si allarma del confronto, del salto tra le due quantità. Ma vi è un primo errore da rimuovere. 1132 miliardi sono in valore nominale, non attuale. Una somma dovuta oggi non è eguale ad un’altra, di eguale ammontare, che sia però dovuta tra venti anni. Dei 132 miliardi, 50 sarebbero in Buoni di serie A e di seria B da emettersi subito, per fruttare un interesse del 5 per cent e per essere ammortizzati in 36 annualità: valgono quindi rea14 mente e attualmente cinquanta miliardi’. Gli altri 82 miliardi, Buoni di serie C, dovrebbero essere emessi quando la Commissione stimi la Germania in condizione di assumersene il servizio. Se si suppone che la Germania non possa pagare più di tre miliardi annui di marchi oro, la emissione non potrebbe attuarsi che dopo ammortizzati i primi cinquanta, cioè nel 1958: ma 82 miliardi da emettersi nel 1958 equivalgono a poco più di 14 emessi oggi; per valer 20 o 30 dovrebbe verificarsi la più ottimista ipotesi, che già tra dieci o vent’anni la Germania possa pagare più di quattro miliardi oro all’anno. Anche dunque nel primo giudizio della Commissione, e con una valutazione puramente economica estranea a interferenze politiche, i 132 miliardi nominali si riducono a 64 attuali (se non anche a parecchio meno, per la considerazione che l’interesse del 5 per cento è forse insufficiente). Il computo e la riduzione corrispondono, per fortuna, anche a un più giusto criterio nel merito della questione. 1132 miliardi sono stati calcolati dalla Commissione sui conti presentati dalle diverse nazioni (per oltre 200 miliardi!) e comprendenti le pensioni ai militari e i sussidi alle famiglie, oltre i danni materiali arrecati ai privati nelle zone devastate dalla guerra. Ma il Trattato contemplava propriamente e solo «i danni alle popolazioni civili», non le pensioni e i sussidi; così che la riduzione dei 132 miliardi a 50 corrisponderebbe forse anche alla vera somma dei danni materiali arrecati ai privati nelle zone devastate della Francia, del Belgio e dell’Italia: al fabbisogno per le ricostruzioni. A codesta riduzione però, purtroppo, i Governi alleati, che avevano illuso le rispettive nazioni con fantastiche indennità tedesche, non arrivarono che dopo alcuni anni e attraverso la resistenza tedesca ai pagamenti che essa doveva fare alla scadenza di ogni rata. Anche più lentamente andava maturando presso i Governi la questione dei debiti interalleati, e anch’essa solamente per la resistenza, anzi per la impossibilità, dei debitori a pagare. L’Italia doveva quasi 20 miliardi di lire oro all’Inghilterra e America; la Francia 25; il Belgio 4. L’Inghilterra, creditrice di 25 miliardi dai tre alleati, ne doveva a sua volta 21 all’America; la quale così ne aspettava dall’Europa più di 45. L’impossibilità del pagamento suggerisce ai debitori che si tratta di debiti e di spese fatte nell’interesse comune della stessa guerra; e che chi più ha preso a prestito, forse più ha dato di sangue. Nel concetto più equo di un consorzio generale di tutti i belligeranti per riparare ai danni della guerra, appare chiaro che ogni Stato, vincitore o vinto, pagherà le proprie spese per le pensioni militari e simili. Francia, Belgio, Italia hanno avuto le proprie terre devastate dalla guerra. L’Inghilterra e l’America, che non hanno sofferto invasioni, contribuiscono condonando i debiti di guerra. La Germania, che ha portato la guerra in casa altrui, contribuisce risarcendo i danni ai privati che hanno sofferto per l’invasione. Il primo documento nel quale l’unione delle due questioni, riparazioni e debiti, e la riduzione delle riparazioni a somma più reale e corrispondente ai veri danni risarcibili, assumono forma concreta, è il piano esposto da Loucheur nel dicembre 1921 nella conversazione con Lloyd George ai Chequers, in Londra: «I Buoni A e B, riuniti in una sola categoria (di 50 miliardi di marchi oro), siano versati ai paesi che hanno subito danni materiali. DEBITI E RIPARAZIONI La questione dei debiti interalleati e delle riparazioni è una delle più vitali per il nostro bilancio. Si può dire che da essa dipenda la più o meno rapida capacità di assestamento e la possibilità del pareggio. Il nostro debito verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti ascende ormai, con gli accumulati interessi, a 23 miliardi oro; equivale, cioè, all’incirca al nostro debito interno in lire carta; e tutti e due insieme assorbirebbero forse più di un terzo della totale ricchezza nazionale. Se noi dovessimo pagare regolarmente i soli interessi dell’uno e dell’altro, non basterebbero i due terzi di tutte le imposte italiane che gettano circa 11 miliardi all’anno. Le riparazioni tedesche dovute all’Italia, secondo le conclusioni della Commissione e il concordato di Spa, ammontano nominalmente a poco più di 13 miliardi marchi oro; ma poiché la maggior parte di essi sarebbe da emettere solo tra molti anni, il valore effettivo ed attuale si riduce a poco più di 6 miliardi. Non basta: …

PRIMA GUERRA MONDIALE

di Franco Astengo Stanno per compiersi i 100 anni della “Vittoria Mutilata” e sicuramente ci si appresta a ricordare, con grande sfoggio di retorica, “L’Italia di Vittorio Veneto”. In questi giorni, invece,ricorrono i 103 anni dalle “radiose giornate di maggio” e dell’ingresso dell’Italia nella “inutile strage” come la definì Benedetto XV. In 3 anni e mezzo circa di guerra su di un fronte di 420 km all’Italia sacrificarono la vita 650.000 soldati e 1.000.000 furono feriti: la più grande concentrazione di spargimento di sangue tra tutti i fronti del conflitto. Un massacro determinato, prima di tutto, dalla tattica del Comando Italiano che considerava i soldati di fanteria, asserragliati in una assurda guerra di trincea e in gran parte contadini meridionali analfabeti, come pura carne da macello. Questi fatti debbono essere ricordati, così come devono essere tenute sempre presenti le incancellabili responsabilità di Casa Savoia che poi si macchierà anche dei crimini del fascismo e della responsabilità di aver condotto l’Italia in un altro conflitto mondiale in alleanza con il nazismo e nel quale furono coinvolte come mai prima d’allora le popolazioni civili e il suolo italiano fu invaso da eserciti di invasione. Inoltre deve essere sottolineato sempre come la scelta di trascinare il nostro popolo nella tragedia fu attuata attraverso un colpo di stato che vide protagonista all’epoca quella che si autodefiniva “classe politica liberale”. Dunque il 24 Maggio 1915: “mormorò il Piave” e gli italiani furono gettati, grazie ad un vero colpo di stato militar-monarchico, nella fornace divoratrice della prima guerra mondiale. L’Italia non era obbligata a entrare in guerra dagli stessi trattati internazionali sottoscritti fin dal 1882 con la Triplice Alleanza. Infatti il fatto che l’Austria non avesse consultata l’Italia  prima di dichiarare guerra alla Serbia alla fine del luglio 1914 aveva significato che a rigore l’Italia era sciolta dai suoi obblighi. Così mentre l’Europa mobilitava i suoi eserciti e nel corso dell’Agosto 1914 prese a scivolare verso la catastrofe, l’Italia annunciò la sua neutralità. E molti, compresi Giolitti e una maggioranza di deputati, pensavano dovesse rimanere neutrale. Erano convinti che il Paese fosse economicamente troppo fragile per sopportare un conflitto di grandi dimensioni, tanto più a così breve distanza dall’invasione della Libia (1911). Giolitti suggerì che l’Italia aveva da guadagnare “parecchio” contrattando con entrambe le parti la sua rinuncia a combattere. Ma il Presidente del Consiglio del momento, Salandra, e il suo ministro degli Esteri, Sonnino, condussero negoziati segretissimi con i governi di Londra e Parigi da un lato e di Vienna e Berlino dall’altro (nello spirito di quello che Salandra chiamò “sacro egoismo”) con l’intenzione di accertare quale prezzo l’Italia poteva spuntare per il suo intervento nel conflitto. Gli interventisti costituivano un fascio di forze eterogenee che agivano per motivazioni diverse. C’era una minoranza di idealisti liberali. C’era il Re, che aveva ricevuto un’educazione militare e che voleva ridurre l’influenza di Giolitti, così come suo nonno aveva tentato di liberarsi di quella di Cavour. La maggior parte dei massoni e degli studenti universitari dotati di più viva coscienza politica erano interventisti, e gli irredentisti naturalmente lo erano “in toto”. Il partito nazionalista, non appena cominciò a svanire la sua originaria speranza di una guerra contro la Francia, fece fronte comune contro la Germania, dato che per esso una guerra qualsiasi era meglio che nessuna guerra. I futuristi pure erano decisamente per la guerra, vista come un rapido ed eroico mezzo per raggiungere potenza e ricchezza nazionale: nel settembre del 1914 interruppero a Roma un’opera di Puccini per bruciare sul palcoscenico una bandiera austriaca. Marinetti dichiarò che i futuristi avevano sempre considerato la guerra come l’unica fonte di ispirazione artistica e di purificazione morale e che essa avrebbe ringiovanito l’Italia, l’avrebbe arricchita di uomini d’azione e l’avrebbe infine costretta a non vivere più del suo passato, delle sue rovine e del suo clima. Strani compagni di viaggio di questi elementi d’avanguardia erano i conservatori che  continuavano la tradizione francofila di Visconti Venosta e di Bonghi,  ma anche Salvemini e i socialisti riformisti, i quali volevano una guerra condotta con generoso idealismo, nel nome della libertà e della democrazia, contro la Germania che aveva invaso il Belgio violandone la neutralità. I socialisti rivoluzionari con a capo Mussolini furono sorpresi di essersi venuti a trovare nello stesso campo neutralista in compagnia dei loro tre principali nemici, Giolitti, Turati e il Papa. Ma nell’ottobre 1914 Mussolini modificò il suo atteggiamento in “neutralità condizionata” per abbracciare infine nel novembre la tesi opposta dell’interventismo dichiarato. Può darsi che questo sconcertante cambiamento fosse dovuto al denaro francese, ma senza dubbio influì su Mussolini la convinzione che la guerra avrebbe potuto preparare il terreno alla rivoluzione e abituare le masse alla violenza e alle armi. De Ambris, Corridoni e gli altri superstiti del sindacalismo rivoluzionario aderirono a questa visione. Arrivarono poi, nella primavera del 1915, quelle poi definite “le radiose giornate di maggio”: il contributo offerto in quei giorni da D’Annunzio con i suoi infiammati discorsi di Genova e di Roma e da De Ambris e Corridoni con le agitazioni suscitate in quel centro nevralgico che era Milano risultavano decisive per il colpo pensato dalla minoranza interventista. Per la propaganda il governo fece ricorso ai fondi segreti, e la polizia aveva da lungo tempo imparato sotto Giolitti l’arte di organizzare “manifestazioni popolari spontanee”. Come poi osservò Salandra, queste manifestazioni erano guidati in massima parte da studenti universitari che, poi, nell’immediato dopoguerra tornati dal fronte come ufficiali avrebbero formato il nucleo più importante degli Arditi e delle squadre d’azione fasciste, educati come erano stati nella violenza e nell’idea della sopraffazione dei subalterni che aveva rappresentato la caratteristica più evidente dei rapporti gerarchici vigenti nell’esercito italiano dove si erano verificati fenomeni di decimazione della truppa in caso di insubordinazione. D’Annunzio, tornato dalla Francia dove si era nascosto per sfuggire ai creditori, fu informato preventivamente del Trattato di Londra e adeguatamente retribuito per la sua opera di propaganda e concluse i suoi discorsi di Genova (4 Maggio, allo scoglio di Quarto) e di Roma (12 e …

CHI SONO I BARBARI

di Carlo Felici Secondo certa stampa internazionale alquanto embedded con il sistema finanziario speculativo attualmente vigente, in Italia sarebbero arrivati i barbari al governo. Fioccano addirittura i paragoni con i goti di Alarico ed i lanzichenecchi del 1527, che misero a ferro e fuoco Roma devastandola e ponendo fine al suo Rinascimento. Ma è davvero così? Chi erano i barbari allora? E chi sono oggi? Non è questa la sede per una dettagliata dissertazione storica, ma alcune cose si possono ricordare, almeno in sintesi, cose che tra l’altro, anche un ragazzino delle scuole medie ricorda, almeno se ha un buon insegnante di storia. I barbari nella stragrande maggioranza dei casi arrivarono su invito diretto delle autorità romane ed agirono per conto proprio ribellandosi, solo dopo che esse ebbero traditi i patti con loro contratti. Accadde con Alarico, rifiutato a Ravenna che ripiegò su Roma, con i Vandali, che traditi da Bonifacio invasero l’Africa, con Teodorico che si insediò in Italia e fu poi tradito dall’imperatore di Bisanzio. Persino con i mercenari imperiali di Carlo V, traditi dal papa. In moltissimi casi il loro arrivo segnava la fine di un sistema fiscale vessatorio fino all’inverosimile che serviva ad ingrassare un apparato imperiale corrotto ed un esercito sempre più esoso, quindi non poche furono le volte in cui vennero accolti dalle popolazioni rurali come dei veri e propri liberatori. In taluni casi il loro sistema amministrativo era migliore e più efficiente di quello imperiale, prova ne è che l’Italia di Teodorico brillò per prosperità e sviluppo in tutto il Mediterraneo, tanto da fare concorrenza ad un impero corrotto e decadente come quello bizantino che non esitò a spazzare via i goti scatenando una lunga guerra che devastò completamente il nostro paese, riducendolo ad essere una povera colonia e, con l’arrivo dei longobardi, chiamati proprio al loro servizio dai bizantini, dividendolo da allora per i successivi altri più di mille anni. Insomma i barbari non erano poi più incivili dei cosiddetti romei. E ora? L’Italia ha trascorso almeno 25 anni di decadenza e di progressiva barbarie, dalla caduta della prima repubblica e dall’entrata in una eurozona in cui la speculazione sui prezzi, la riduzione dei salari, il precariato, la corruzione, la speculazione finanziaria e la progressiva ed inesorabile perdita dei posti di lavoro hanno fatto da padrone nel nostro scenario politico e sociale. Tutto ciò a fronte di un falso bipolarismo, tradottosi negli anni in un monopartitismo dialettico, nella dialettica cioè di due schieramenti politici falsamente opposti, ma sostanzialmente uniti nel demolire lo stato sociale, precarizzare il lavoro, allungare a dismisura l’età pensionistica, privatizzare i servizi e strozzare i cittadini di tasse, oltre che belluinamente capaci di far schizzare il debito pubblico a livelli vertiginosi. L’atto finale, o forse sarebbe il caso di dire l’arma definitiva, avrebbe dovuto essere la demolizione della Carta Costituzionale. Con il varo di pseudoriforme che avevano l’unico scopo di rendere quest’opera rovinosa ancora più efficacemente tragica e dirompente per tutto il popolo italiano. Chi ha fatto tutto questo è stata una consorteria di persone di dubbia esperienza politica ma di grande obbedienza rispetto alle cosiddette direttive dei mercati, sono stati i sacerdoti della metafisica del contingente speculativo e finanziario, quello che ha messo in ginocchio un intero paese come la Grecia, sebbene salvarla, con tutta la sua non numerosissima popolazione, costasse meno che salvare una grossa banca. Cosa c’è di più barbaro che ridurre un intero paese al suo minimo di crescita demografica, con i giovani in fuga impossibilitati ad avere un lavoro stabile e, con esso, una famiglia, cosa di più rovinoso che demolire il sistema scolastico costringendo alla mobilità permanente una intera classe di docenti alla mercé dei loro dirigenti, cosa di più bestiale che abolire l’articolo 18 e consentire di nuovo licenziamenti a profusione come se gli anni 60 con tutte le loro conquiste civili e sindacali non fossero mai esistiti, e cosa può esserci di più demenziale e barbarico che dimezzare la sovranità popolare legando l’elezione dei senatori a quella di amministratori locali spesso più famosi per i loro intrallazzi che per la fedeltà alle istituzioni. Cosa infine di più barbaro dell’infischiarsene della volontà popolare e procedere senza degnare del minimo rispetto gli esiti referendari, specialmente su questioni basilari come quella riguardante un bene comune vitale come l’acqua. Ricordiamo solo che i Romani facevano avanzare la loro civiltà, costruendo acquedotti per irrigare e dissetare, e terme per l’igiene pubblica praticamente gratis per tutti. Come i peggiori barbari, i governanti degli ultimi anni hanno preso ordini dall’assolutismo dei mercati per imporre tasse e provvedimenti che hanno reso più povero e indebitato il nostro paese, oltre che più incivile, eppure non hanno avuto la dignità dei veri barbari che un tempo erano molto più legati ai loro popoli dei nuovi barbari di ora, per ribellarsi agli ordini dell’impero del turbocapitale. Ne sono stati invece i funzionari più efficienti, con i loro bizantinismi legislativi e con la prosopopea di voler essere l’unico argine all’abisso dell’abbandono da parte dello stesso impero parassitario che fa finta di aiutare chi è in difficoltà per poi spremerlo meglio, con grande perizia di usuraio. Oggi questi valvassori piangono e agitano lo spauracchio della barbarie in piena sintonia con quei potentati che hanno saputo servire con perfetta autoreferenziale efficienza, pur avendo provato ad arginare quella che essi considerano una barbarie, con una legge elettorale che più barbara non poteva risultare. Ma tant’è, pare che il popolo se ne infischi della barbarie, o forse sa di poterla riconoscere senza più tante fole propagandistiche. L’Italia è sempre rinata dalla barbarie, anche nelle condizioni peggiori, pensiamo a Roma che si affermò proprio reagendo alla barbarie di lotte senza fine tra i popoli italici e mediterranei, al Rinascimento che uscì dalle tenebre di una barbarie che aveva devastato per un millennio il nostro paese, al Risorgimento quando gli italiani seppero ricostruire, dopo più di mille anni di barbare lotte intestine, la loro unità territoriale, alla Resistenza, quando essi furono capaci di ricostruire la loro civiltà democratica …

ENZO TORTORA A TRENT’ANNI DALLA MORTE

di Nicolino Corrado Giorgio Bocca lo definì: “IL PIU’ GRANDE ESEMPIO DI MACELLERIA GIUDIZIARIA DEL NOSTRO PAESE”. La “via crucis” di Enzo Tortora durò quasi quattro anni: dal 17 giugno 1983, data dell’arresto per traffico di droga e associazione per delinquere di stampo camorristico, al 18 maggio 1988, giorno della morte per cancro ai polmoni. Su mandato di cattura della Procura della Repubblica di Napoli, Tortora fu prelevato dai carabinieri in piena notte, alle quattro del mattino, come un grande criminale, all’Hotel Plaza di Roma. Fu trattenuto nella caserma di via Inselci fino alla tarda mattinata: con un’accurata regia, fu fatto uscire in manette solo dopo che operatori televisivi, fotografi e giornalisti si erano ammassati davanti all’edificio, tra gli insulti e gli sputi della folla, la stessa che fino al giorno prima l’aveva acclamato. Tortora rimase in carcerazione preventiva per sette mesi, prima a Regina Coeli e poi a Bergamo. I “pentiti” C’è una valanga di accuse strampalate e deliranti a base del provvedimento giudiziario: ha rubato i fondi raccolti per i terremotati dell’Irpinia, ha comprato uno yacht con i soldi dello spaccio di cocaina… Provengono da una frotta di “pentiti”, una quindicina di figuri, molti dei quali, stranamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è comparsa sui “media”. Ma chi sono questi “pentiti” che sparano accuse a palle incatenate al solo scopo di ottenere sconti di pena? Il primo è Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a rilasciargli un certificato. “Schizoide e paranoico” secondo le perizie mediche, é colui che indica la strada agli altri. Viene scarcerato nel 2012. Poi c’è Pasquale Barra, “’o animale”, sessantasette omicidi tra cui quello di Francis Turatello nel super-carcere di Bad-e-carros: ne fa a pezzi il cadavere e ne mangia il cuore. Viene ascoltato dai magistrati diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Muore in carcere nel febbraio del 2015, ma in regime di favore, perché rientrante in un programma di tutela. Gianni Melluso detto “Gianni il bello”. Più volte in carcere, da ultimo per sfruttamento della prostituzione. Fa il nome di Tortora solo sette mesi dopo l’arresto del presentatore. Dopo le accuse a Tortora in carcere fa quello che vuole, si incontra con la fidanzata, messa incinta e sposata con testimoni due giornalisti. Le accuse di questi signori all’inizio sono vaghe e contrastanti, ma poi diventano sempre più dettagliate: ciò perché i pentiti possono parlare tra di loro e scambiarsi le reciproche versioni, ad esempio durante i processi quando si ritrovano tutti nella stessa cella. I giornalisti Il sistema dell’informazione scaglia nel fango l’immagine e la storia professionale di Tortora. Il giornalismo italiano erutta tutto il proprio cannibalismo verso un uomo che fino a quel giorno era stato pur sempre un collega. I giornalisti contribuiscono ad accrescere la confusione intorno a questo processo, mettendo in circolazione notizie false o comunque non verificate. Ad esempio, “Il Messaggero” di Roma titola in modo spudoratamente bugiardo: “Tortora ha confessato”. Nessuno lo difende, sopratutto nella sinistra filocomunista, area in cui il garantismo viaggia a corrente alternata: vale con gli amici ma non con i nemici. Sono gli stessi ambienti che contestano in blocco la magistratura “borghese”, che scrivono appelli e raccolgono firme contro le istituzioni e i “questurini massacratori”. Arriva a scrivere la radical-chic Camilla Cederna: “Se uno viene preso in piena notte qualcosa avrà fatto”. Tra i pochi che lo difendono Enzo Biagi, che chiede: “Scusate, ma se per caso fosse innocente?”. Tortora è un presunto colpevole davanti al tribunale dell’opinione pubblica, non è un presunto innocente come stabilisce la Costituzione. I magistrati In spregio ai più elementari principi dello Stato di diritto, Tortora è interrogato per la prima volta da un magistrato dopo oltre un mese dall’arresto; la seconda dopo altri tre mesi, la terza e ultima dopo ulteriori sei mesi; sempre per pochi minuti e su fatti a lui sconosciuti. I magistrati di Napoli non ordinano verifiche, riscontri, intercettazioni (che invece abbonderanno oltre ogni misura dopo il “caso Tortora”). Costruiscono il loro impianto accusatorio solo sulle dichiarazioni dei “pentiti”, anche se sono in contraddizione tra di loro. I sostituti procuratori titolari delle indagini sono Lucio Di Pietro, detto “il Maradona del diritto”, e Felice Di Persia. Nel processo contro la camorra in cui viene coinvolto Tortora chiedono e ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona che ridurranno i rinviati a giudizio a 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello le assoluzioni saranno 114 su 191). La procedura penale avrebbe consentito un processo senza gogna, ma nel dibattimento il pubblico ministero Diego Marmo definisce Tortora un “un uomo della notte, ben diverso da come appariva a ‘ Portobello’”, ” cinico mercante di morte”; arriva ad affermare che Tortora, nel frattempo diventato euro-deputato radicale, sia stato eletto grazie ai camorristi: “Tutti lo sanno che quei voti sono della camorra”. Il processo di primo grado inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l’arresto, e termina il 17 settembre 1985 con la condanna del presentatore a dieci anni di reclusione e a una multa di cinquanta milioni di lire. I cronisti giudiziari appiattiti sulle tesi della Procura brindano alla notizia. Il presidente della corte, Luigi Sansone, scrive una monumentale sentenza di duemila pagine in sei volumi, uno dei quali dedicato esclusivamente a Tortora per il quale, stravolgendo il diritto penale, formula un principio “ad personam” di inversione dell’onere della prova: “L’imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui”. Tortora si dimette dal Parlamento europeo e, dagli arresti domiciliari, ricorre in appello. Alla fine viene creduto. Il 15 settembre 1986, la Corte d’Appello di Napoli lo assolve (con sentenza poi confermata in Cassazione), dopo aver disposto finalmente i riscontri delle dichiarazioni dei “pentiti”, perché “non ci si può fidare solo ed esclusivamente” di esse, e aver censurato il comportamento dei giudici …

TURATI EBBE RAGIONE NEL ’19 E NEL ’21 PERCHE’ INIZIO’ AD AVERLA A GENOVA

di Gaetano Arfè Credo di essere rimasto il solo ancora in attività di servizio del folto gruppo di allora giovani compagni che trent’anni or sono fu impegnato nelle celebrazioni del sessantesimo anniversario del partito. Parecchi si sono dispersi, alcuni sono scomparsi nel pieno di una maturità ancora verde non senza aver lasciato segno nella storia del socialismo italiano: Gianni Bosio Bosio, Raniero Panzieri, Giovanni Pirelli. “Eravamo nel 1952, uno degli anni grevi del frontismo. Nel partito militavano ancora dei superstiti del congresso di Genova del 1892. Molti erano quelli che avevano iniziato la loro attività negli anni prefascisti. La maggioranza, era composta da compagni entrati nelle file socialiste nella scia della Resistenza o subito dopo. Quello che si sapeva della storia del socialismo italiano era allora assai poco. Nel modus operandi, come dicono i criminologi, dello squadrismo era pratica costante quella di assaltare, previo disarmo, spesso, gli occupanti, da parte della forza pubblica, le sedi delle organizzazioni politiche, sindacali e cooperative, di devastarle e di erigere roghi con quanto vi era contenuto. E’ la sorte che toccò anche all’Avanti! nella civilissima Milano, che toccò, non molto lontano di qui, a Ravenna, alla sede delle cooperative di Nulla Baldini, sottratto alle fiamme, a forza, dagli stessi squadristi di Balbo. Un patrimonio documentario insostituibile andò così irrimediabilmente perduto. Negli anni successivi non furono pochi i compagni più noti e più esposti che dovettero disfarsi del materiale — carte, opuscoli, giornali cimeli — di cui erano in possesso e la cui scoperta in casa poteva significare, significava, via libera al carcere o al confino. La storia del movimento operaio —ma anche di tutti gli altri partiti e movimenti che non fossero quello fascista — era di fatto vietata. Il solo libro di rilievo, ancora oggi in circolazione, e non sulla storia, ma sulla preistoria del movimento socialista italiano era stato l’opera di uno storico, Nello Rosselli, destinato a cadere sotto il pugnale dei fascisti francesi, su mandato del governo fascista italiano. Un periodo rimasto a lungo ignorato Tutto quello che si sapeva del mezzo secolo trascorso dal congresso di Genova alla caduta del fascismo era fatto di notizie frammentarie, tratte da libri che non erano di storia, ma di cronaca o di una pubblicistica dove presenti se non dominanti erano gli echi di antiche polemiche, e anche quei libri erano di difficile reperimento. Si potrebbe addirittura dire che per la più gran parte dei militanti la maggior fonte era costituita dalla viva voce dei vecchi compagni, da scritti che apparivano nella stampa di partito, dai richiami alla storia, non ispirati a rigore scientifico dei dirigenti del parti-to. Né aveva contribuito a chiarirci le idee un non contestato «Quaderno di Rinascita, curato personalmente da Togliatti, che aveva anche redatti i testi di collegamento interpretativo dei vari saggi, nel quale la preistoria del socialismo italiano si prolungava fino al 1921, e nel quale la storia del partito socialista, tutta subalterna, in oscillazione permanente tra opportunismo e massimalismo, rimaneva un intreccio di errori e di colpe fino all’anno di grazia 1934, quando la sigla del primo patto d’unità d’azione apriva ai socialisti italiani la via della redenzione. Era questa la situazione nella quale cominciammo a muoverci senza altra guida che quella di attenerci alle regole della serietà e dell’onestà. Non avevamo una interpretazione da proporre e da convalidare. Volevamo soltanto, per la parte che competeva raccogliere quanto potesse servire alla ricerca storica e al tempo stesso contribuire a mobilitare il partito in uno sforzo collettivo rivolto a una presa di possesso della propria storia, a risvegliare e a rendere consapevole, si direbbe oggi, la propria memoria storica. Il piano di lavoro comprendeva il reperimento del materiale conservato presso i compagni; una raccolta di testimonianze e interviste dalla viva voce dei protagonisti, di canti popolari e di lotta; i registi degli atti ufficiali, della direzione del partito e dei congressi, nonché delle organizzazioni sindacali nazionali; una cronistoria del partito dal congresso di Genova al referendum repubblicano del 2 giugno sulla base di schede tratte dai giornali, e in primo luogo dell’Avanti! da pubblicare divise per periodi, ciascuna parte preceduta da un saggio introduttivo, la compilazione di monografie locali dove fosse possibile. Quel programma, coordinatore. Bosio, fu in gran parte realizzato, non senza incidenti e inconvenienti di varia natura. La mobilitazione del partito ci fu e fu imponente. Manifestazioni dí massa si svolsero in ogni parte d’Italia, culminate in quella, grandiosa di Genova. Da più parti vecchi compagni si riunirono per mettere insieme le loro memorie, e ne venne una fioritura di opuscoli, purtroppo non raccolti, commoventi spesso nella loro ingenuità, ricchi di notizie preziose, pregevoli alcune, opera di giovani studiosi che avevano saputo valersi della collaborazione dei vecchi militanti. Non fu portata a termine la compilazione dei regesti degli atti ufficiali, anche se la più gran parte del lavoro era stata compiuta: ne restano le tracce in un volume che raccoglie i documenti relativi alla CGL, nei volumetti delle Edizioni Avanti! sui congressi del partito in una mia storia del primo periodo di vita della Federazione Giovanile Socialista. La svolta autonomistica del congresso di Venezia del 1957 ha tra le sue premesse anche questa prima presa di coscienza collettiva da parte del partito della ricchezza antica e della nobiltà della propria tradizione che in tale occasione ebbe a realizzarsi. E non si tratta, io credo, di una interpretazione forzata. La riprova la si può trovare, a me pare, nei tentativi compiuti da parte di alcuni compagni del gruppo dirigente di allora di contenere le manifestazioni del sessantesimo del congresso di Genova dentro i limiti della ortodossia frontista. Una iniziativa non andata in porto La cronologia non fu varata, nonostante che con uno sforzo miracoloso organizzato e diretto da Bosio, si fossero raccolte circa quarantamila schede, perché il dirigente incaricato di tenere i rapporti con noi, pretendeva che i saggi introduttivi fossero tutti composti da membri della Direzione, posto che l’interpretazione della storia — Zdanov insegnava — era cosa troppo delicata perché fosse affidata a degli studiosi …

ALTERNATIVA SOCIALISTA E UNITA’ NAZIONALE

Alternativa socialista e unità nazionale La strategia diretta alla creazione di una alternativa socialista si conferma come la strategia di fondo del partito. Il 40° Congresso delineò con l’idea di alternativa una strategia sostitutiva a quella che aveva guidato il Psi negli anni sessanta. Tuttavia il 40° Congresso lasciò vaga e indeterminata questa idea senza fissarne le condizioni di possibilità; si soffermò piuttosto sugli ostacoli che la rendevano per il momento impraticabile. Dobbiamo parlarne con franchezza perché sia sgomberato il campo da ambiguità e dal pericolo di doppiezze. Attorno all’idea strategica di una alternativa socialista e della sinistra nascono diverse problematiche che nessuna parola d’ordine può facilmente sciogliere e nessun atteggiamento velleitario può semplificare. Ognuna di esse richiede risposta adeguata, deve essere analizzata secondo i dati della realtà. Le forzature nella storia sovente riservano delle pessime sorprese. Abbiamo dato e vogliamo continuare a dare un contributo di chiarificazione con l’intento di rendere più nitida la nostra prospettiva. Innanzi tutto quale socialismo? Il lavoro del progetto si è mosso in questa direzione ponendo con i piedi per terra il problema di una transizione graduale verso forme di socialismo nella società italiana come risposta razionale e corrispondente agli interessi generali della collettività di fronte alla decadenza ed alla crisi della società capitalistica e dei suoi valori tradizionali. Non una utopia; non una idea salvifica, ma neppure il dominio di una nuova classe burocratica. Un socialismo nella democrazia e nella libertà nel quale possano riconoscersi e possano sostenerlo con il loro apporto tutti coloro i quali vivono del proprio lavoro e anche coloro che operando con responsabilità imprenditoriali nel settore privato dell’economia lavorano nel medesimo tempo per sé e per gli altri. Una alternativa con chi? Una alternativa imperniata sulla forza politica e sindacale della sinistra ma operante attraverso la realizzazione di un vasto consenso maggioritario. Ciò comporta l’idea che abbiamo sottolineato con insistenza di tappe necessarie e di chiarificazioni successive. Il Progetto contiene la definizione di «alleanza riformatrice». Deve potersi realizzare una vasta convergenza di forze riformatrici, di ispirazione diversa, laiche e cattoliche, ugualmente impegnate a far avanzare attraverso le riforme una prospettiva socialista di tipo occidentale ed europeo. Un processo di costruzione alternativa non avanza necessariamente attraverso le politiche del muro contro muro in una ricerca esasperata dello scontro e dell’alba purificatrice. Fedele alle regole della democrazia esso può accettare la politica del negoziato e del compromesso traendo da questo l’utilità dei risultati parziali. Valgono i rapporti di forza, valgono le condizioni generali che non si determinano a tavolino. Non è un caso che abbiamo parlato di un processo storico-politico. Lo abbiamo fatto per non confinare l’idea di una alternativa socialista da un lato nel campo delle ipotesi irraggiungibili e delle semplici vocazioni e dall’altro per segnalare il necessario rapporto con i dati reali con i quali operiamo. In quale contesto internazionale? Il punto non può essere controverso e non possono esserci riserve. Esso non può che essere quello dell’Europa occidentale, dei suoi valori, delle sue istituzioni, delle sue alleanze. Sarebbe ingenuo sottovalutare la problematica che investe il comunismo occidentale e non affrontare, come troppo spesso si fa, le questioni del suo orientamento strategico, della coerenza e dello sviluppo e del suo processo revisionistico e della sua autonomia impropria. Esse pesano e peseranno, in modo positivo o in modo negativo sul processo di chiarificazione essenziale per delineare le possibilità di una alternativa vincente e maggioritaria, a seconda degli impulsi che prevarranno e della condotta di marcia che verrà adottata. Se questi sono i fattori sui quali impegnare la nostra analisi e la nostra iniziativa per chiarire sempre meglio a noi stessi e agli altri i termini generali della posizione socialista, sarebbe come voltare la testa dall’altra parte se non rilevassimo in tutta la loro drammaticità e pericolosità i connotati della crisi che il Paese attraversa, non concentrassimo su di essi tutta la nostra attenzione e il nostro impegno, non ne traessimo tutte le necessarie conseguenze politiche. Non da oggi siamo in una fase politica di emergenza. L’abbiamo così definita sin da quando cominciavano a profilarsi i caratteri di eccezionalità della crisi produttiva, che metteva a nudo la fragilità e lo stato di corrosione delle strutture pubbliche, vedeva accrescersi lo squilibrio nella finanza pubblica e il dilagare della violenza e del disordine nel Paese. L’aggravamento di questa situazione è stato progressivo e costante in corrispondenza con l’incertezza, la provvisorietà e il carattere anomalo ed arretrato della guida politica. Lo sforzo di solidarietà nazionale e di ampia convergenza che abbiamo costantemente sollecitato ha cominciato a prendere corpo con ritardo in mezzo a mille remore ma non per questo esso è oggi meno utile e produttivo. Abbiamo posto il problema di un governo per l’emergenza sin dall’inizio della legislatura ripiegando sul regime delle astensioni attraverso il quale tuttavia ha potuto manifestarsi una ampia volontà diretta ad impedire che una situazione di stallo determinata dall’equilibrio delle forze e dal contrasto dei diversi orientamenti portasse prima alla paralisi e poi a interruzioni traumatiche della legislatura. La medesima impostazione unitaria è stata la base dell’intesa del luglio scorso imperniata su di una convergenza programmatica che anche se per taluni aspetti generica ed insufficiente, non ha spezzato i fili della collaborazione e dell’incontro tra le forze politiche. La lunga crisi dei mesi scorsi ha portato a soluzioni più organiche e più incoraggianti. Non si è dato vita al governo di emergenza, come era stato richiesto da noi, dai comunisti e dai repubblicani, ma ci si è mossi in questa direzione. Posto con chiarezza sul terreno il problema di un rapporto diretto ed aperto tra la Dc, i Partiti intermedi e i due maggiori Partiti della sinistra la situazione è rimasta in bilico per più settimane in un confronto aspro tra chi indicava la sola possibile via di uscita nello scontro aperto e chi ha propugnato la via del compromesso. Il pericolo di una soluzione traumatica della crisi dello scioglimento anticipato della legislatura, di una corsa dissennata verso l’avventura, è stato sventato. E prevalsa la linea della ragionevolezza …

IN NOME DELL’AVANTI!

[avatar user=”Felice Besostri” size=”thumbnail” align=”left” link=”http://www.felicebesostri.it/” target=”_blank” /] di Felice Besostri In nome dell’Avanti! socialisti uniti per cosa e su cosa? Cento anni di storia dell’Avanti! hanno un filo rosso che coincide con quello dell’estensione della democrazia e della sua difesa. Non ci sarebbe stata partita vinta per una maggiore giustizia sociale senza la battaglia per un parlamento eletto a suffragio universale e diretto e prima ancora per l’elezione popolare delle amministrazioni locali. Contro le leggi elettorali liberticide a cominciare dalla legge Acerbo memorabile l’opposizione intransigente dei socialisti, di tutti, ma in particolare del Socialista Giacomo Matteotti del PSU. Nello stesso filone si iscrive la battaglia socialista per la Repubblica e la Costituente e l’opposizione alla legge truffa. Tuttavia in un paese non immemore come il nostro tutti si sarebbero ricordati che dal pensiero socialista ha avuto origine uno degli articoli più avanzati della nostra Costituzione, come il secondo comma dell’art. 3 Cost., per il quale: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” I socialisti non hanno mai accettato la contrapposizione tra diritti collettivi e individuali, come quella tra libertà e socialismo. Sono stati i protagonisti dello Statuto dei Lavoratori e del Servizio Sanitario nazionale e delle leggi sul divorzio e sull’interruzione della gravidanza. Sempre da iniziative con i socialisti in prima fila si è data attuazione all’istituzione delle Regioni, di cui non si poteva immaginare la degenerazione centralista soffocatrice dell’autonomia municipale e provinciale che ha raggiunto il suo apice con le leggi Delrio e delle regioni amministrate dal PD di unioni comunali imposte dall’alto e con organismi non più elettivi, nonché  la riforma della finanza locale e dell’art. 81 Cost.: tutte controriforme che non sarebbero mai passate se non fosse stata distrutta  la presenza politica socialista nel Parlamento e nelle assemblee regionali. Nella storia dei socialisti vorrei ricordare un episodio, apparentemente minore, come la prima udienza pubblica della Corte Costituzionale il 23 aprile 1956. Si trattava di espungere degli articoli di un Testo unico di Pubblica Sicureza  adottato dal fascismo: nel collegio difensivo due grandi giuristi e avvocati come il socialista Giuliano Vassalli e il liberasocialista Piero Calamandrei.  Ricostruire un’area socialista significa pensare alla sua pluralità, quando dello stesso partito facevano parte Nenni, Santi, Basso e Saragat, cui si sarebbero aggiunti provenendo dall’azionismo De Martino e Lombardi. Una pluralità che manca alla sinistra nel suo complesso nelle varie articolazioni con la quale si è presentata senza successo alle elezioni degli ultimi 15 anni. Le elezioni europee del 2019 dovranno essere il banco di prova della sua rigenerazione e riscatto non solo negli interessi dei ceti popolari, che dalla sinistra non si sentono più rappresentati non solo in Italia, ma della stessa Europa, sempre più lontana dalle idee del federalismo europeista e socialista, di cui Eugenio Colorni coautore del manifesto di Ventotene, insieme con Ignazio Silone, direttore dell’ Avvenire dei Lavoratori di Zurigo, è stato un illustre esponente. Con i risultati del 4 marzo non ci sarà sinistra e, pertanto, nemmeno socialisti nel prossimo Parlamento  in rappresentanza dell’Italia.  Rettamente interpretati i Trattati Europei e la Carta dei Diritti fondamentali dell’UE, che ci si dimentica che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati, requisito che manca al Fiscal Compact, non sono in contraddizione con la nostra Costituzione. Ricordando cosa è costato nei singoli stati nazionali conquistare un parlamento eletto a suffragio universale, non possiamo snobbare le prossime elezioni europee, ma farne l’occasione per rafforzare i ruolo del Parlamento europeo, nel quale sono direttamente rappresentati i cittadini UE (art. 10 TUE), rispetto alla Commissione e al Consiglio Europeo. Questo obiettivo si raggiunge con un’alta partecipazione alle elezioni e con una maggiore presenza dei partiti e movimenti politici interessati ad una coesione sociale, che accompagni lo sviluppo, invece di essere sacrificata sull’altare della finanza internazionale e dei suoi interessi. Lo stato di divisione e rassegnazione della sinistra a livello europeo, in tutte le sue componenti, deve essere superato e questo è l’impegno prioritari di una cultura politica socialista, che unisca i suoi valori storici, le sue radici, con la capacità di progettare il futuro, perché, come diceva il compagno Pierre Mauroy, i socialisti sono gli ” Héritiers de l’avenir”,  gli eredi dell’avvenire. E’ un’espressione paradossale, ma i paradossi non sarebbero tali se non contenessero un nucleo forte di verità, e francamente meglio essere eredi dell’avvenire, che di un passato, che saremmo costretti ad accettare con beneficio d’inventario, di una sinistra morta, perché senza futuro. Meglio pensare al “Socialismo come nostalgia del Futuro” ” Sozialismus als Sehnsucht nach der  del Zukuntf“, che al socialismo già realmente esistente, come l’unico socialismo possibile, sepolto con le macerie del crollo del Muro di Berlino. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL PSI NEL SOCIALISMO EUROPEO E NELL’INTERNAZIONALE

Il partito colloca la sua azione nell’ambito del socialismo dell’Europa occidentale e dell’Internazionale socialista e sviluppa relazioni bilaterali proprie anche fuori del quadro dell’Internazionale socialista. Il suo rinnovato impegno in questo campo credo sia sostenuto dal più largo consenso del Partito. Mi permetto di osservare che le polemiche che sono riecheggiate a proposito di assi preferenziali nell’ambito della solidarietà socialista europea trovano scarso riscontro nella realtà dei fatti. Le nostre relazioni con i Partiti socialisti e socialdemocratici europei non sono né una novità né una improvvisazione: esse hanno oggi una base comune e un’eguale grado di intensità e sono diverse in rapporto alle diverse esperienze e alle diverse condizioni storiche in cui si è sviluppata l’azione del movimento socialista e democratico in Europa. C’è una affinità e una impronta propria che accomuna i Partiti socialisti dell’Europa latina e mediterranea che hanno anche visto in quasi tutti i Paesi un diverso e più contrastato sviluppo del movimento operaio, diviso nella componente socialista e nella componente comunista. C’è un legame che nasce dalla storia e dalla influenza originaria ideologica e pratica fra i Partiti della classe operaia e dei lavoratori tedeschi ed austriaci con il socialismo italiano. Una solidarietà che ha sempre operato anche nei momenti difficili e di più aspro dissenso tra il Psi e il resto del socialismo europeo, che ci tiene uniti e vicini al movimento laburista britannico. L’amicizia, il rispetto e il più vivo interesse per le sue notevoli esperienze riformatrici caratterizza il nostro rapporto con il socialismo scandinavo e il Partito laburista olandese. L’eurosocialismo di cui si è parlato e si parlerà è una realtà in movimento, una realtà di grandi forze popolari che tendono a convergere su di un terreno e verso prospettive comuni alla cui definizione ciascuno porta il contributo della sua esperienza, il bagaglio che gli è proprio e che deriva dalle lotte condotte nel corso dei decenni nel proprio Paese e sul piano internazionale. In questo noi abbiamo un dato specifico da far valere: non la pretesa di una indimostrabile superiorità, ma il prodotto di una riflessione critica sulle esperienze del movimento operaio italiano e sugli elementi costitutivi, democratici, classisti ed internazionalisti della nostra storia travagliata. Il Psi ha mantenuto sinora relazioni dirette ed amichevoli con Partiti comunisti dell’Est europeo, in Particolare con il partito jugoslavo e quello rumeno. Siamo interessati ad estenderle e ad allacciarne di nuove su di un terreno di amicizia franca e leale. Vi sono tradizioni nazionali, di cultura, di amicizia, di buon vicinato, vi sono esperienze nuove e nuove aspirazioni che possono moltiplicare le occasioni di incontro, di dialogo, di cooperazione. Non abbiamo e non intendiamo avere rapporti con la fazione al potere in Cecoslovacchia. Praga continua ad essere una ferita aperta nel cuore dell’Europa. I normalizzatori non hanno normalizzato l’opposizione socialista cecoslovacca. Non possono normalizzare i nostri sentimenti. A dieci anni di distanza dall’invasione straniera contro un popolo e uno Stato sovrano noi confermiamo la nostra solidarietà e il nostro appoggio a quanti tengono vive le ragioni e la speranza di un socialismo dal volto umano. Abbiamo sviluppato importanti relazioni con partiti e movimenti progressisti e di ispirazione socialista dell’area mediterranea, dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina. Abbiamo sviluppato nuovi contatti con gruppi progressisti ed esponenti del Partito democratico degli Stati Uniti d’America. Abbiamo mantenuto vivi i tradizionali rapporti di amicizia con i comunisti cinesi. Nella sua storia passata e recente il Partito socialista è stato sempre ed intransigentemente un difensore dei diritti dei popoli e dei diritti umani. Oggi è più che mai forte la nostra solidarietà con tutti coloro che lottano per la libertà e contro ogni forma di dittatura e di oppressione. Siamo solidali con chi difende ovunque nel mondo i diritti umani contro la violenza e la degenerazione del potere. Sentiamo come nostra la lotta dei compagni cileni cui siamo legati da vincoli di particolare affetto. Difendiamo i diritti dei popoli ovunque essi non sono riconosciuti, nell’Africa australe come nell’Ogaden, nell’Eritrea, come nel Sahara occidentale, nella tragica vicenda del popolo palestinese. Tratto da Relazione e replica al 41° Congresso del PSI – Torino 29 Marzo-Aprile 1978 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

BETTINO CRAXI: L’EUROPA, L’ITALIA E LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Il clima di disordine economico e monetario, di corsa agli armamenti, di focolai accesi e di minacce, ostacola l’efficace sviluppo della cooperazione internazionale. Eppure, anche distensione e disarmo, tanto necessarie, avrebbero basi ben fragili se non si ottenessero risultati decisivi sul terreno della lotta al sottosviluppo, nel Terzo e nel Quarto Mondo. Tutti i grandi progetti che sono stati immaginati o scientificamente meditati sarebbero destinati ad arenarsi in una situazione caratterizzata dal permanere di rivalità esasperate. Se riconosciamo che il problema della cancellazione dei tratti classisti della società capitalistica è il problema fondamentale del socialismo non possiamo non riconoscere ugualmente che l’eliminazione progressiva delle disuguaglianze tra nazioni ricche e nazioni povere, tra aree sviluppate ad aree, depresse è il tema centrale della lotta della civiltà del nostro tempo. A tutti gli interrogativi che nascono nella prospettiva di una nuova cooperazione internazionale tutti i Paesi europei e l’Europa occidentale nel suo insieme è chiamata a dare una risposta. Incapace di darsi strutture politiche e regole comunitarie adeguate, chiusa in se stessa, divisa da particolarismi e da egoismi nazionali l’Europa rischia di accentuare i tratti della sua decadenza e della sua subalternanza. Essa può esercitare un suo ruolo essenziale ristabilendo una flessibilità multipolare nel sistema politico internazionale. Essa deve dare nuovo spessore e una diversa autorità alle istituzioni comunitarie in grande misura isterilite e inefficaci. Può dare un ordine e un impegno diverso nella definizione delle relazioni su cui impostare il futuro del rapporto Nord-Sud, favorire una base equa delle ragioni di scambio, intensificare e coordinare la cooperazione economica tecnica e culturale, non facendo rinascere sotto nuove spoglie la lotta di conquista e di spartizione delle influenze e dei mercati. Il ruolo dell’Europa è di grande importanza per lo sviluppo delle relazioni con l’Est e lo è in rapporto alle prospettive della regione euro-mediterranea. L’Europa non ha certo una situazione facile nel suo interno. E alle prese con processi inflattivi più o meno temperati con una disoccupazione abbastanza generalizzata, con problemi di riconversione dell’apparato produttivo e di sistemazione monetaria tutt’altro che risolti. Quando il laburista Jenkins pone l’obiettivo ambizioso di un’unica moneta europea con lo scopo di far fare alla comunità un salto qualitativo decisivo trasformandola da una semplice unione doganale in unione economica vera e propria, coglie l’Europa impreparata per i dislivelli marcati tra paese e paese, l’insufficiente preparazione e sviluppo di politiche economiche organiche, la mancanza di un piano generale di rilancio. E tuttavia la capacità dell’Europa di porsi quale soggetto attivo nella determinazione della politica mondiale, come forza di equilibrio e di impulso, è destinata ad accrescersi. Nella fase più immediata l’Europa non può sottrarsi ai doveri più urgenti. Il primo è di assolvere all’impegno di affidare al suffragio universale la elezione di un parlamento europeo. Traguardo al quale il movimento socialista guarda come ad una tappa importante della sua unità e della sua capacità di esprimere gli indirizzi unitari del mondo del lavoro organizzato politicamente e sindacalmente. La lotta contro la stagnazione e la disoccupazione richiede misure di rigore contro gli sprechi, i parassitismi, le opulenze offensive che pure sono ancora tanta parte dello stile di vita europeo e la adozione di politiche, non di austerità indiscriminata nella quale i più deboli diventino ancora più deboli, ma di «austerità egualitaria», alla quale si può opporre solo la cecità dei gruppi privilegiati, dei corporativismi o la miopia dei burocratici dogmatici. Se i Paesi più forti, come osserva il Progetto socialista, la Repubblica federale tedesca in testa, si chiudono in se stessi, in un esasperato ed egoistico bisogno di sicurezza, tutto naturalmente diviene e diverrà più difficile. L’Europa, le sue contraddizioni, le sue differenze, i suoi errori dovranno fare i conti con un ostacolo in più. Il prevalere dei fattori nazionali se continua ad annidarsi e ad agire nei Paesi chiave del sistema europeo, renderà vano e vuoto di contenuti l’ideale europeistico. E’ importante che i Paesi della CEE continuino a sviluppare la politica di cooperazione con i Paesi del Comecon. In pochi anni gli scambi con le due aree economiche sono più che raddoppiati, e con vantaggio reciproco: il Comecon aveva bisogno di acquisire le moderne tecnologie occidentali, i Paesi della comunità avevano bisogno di aprire nuovi mercati di sbocco e di diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie prime. Sono lontani i tempi in cui l’istituto di economia e di relazioni internazionali di Mosca accusava la comunità europea di essere l’espressione della NATO in funzione antisovietica e ne profetizzava il fallimento. Più vicino alla realtà si era collocato il buon senso realistico di Nikita Krusciov che aveva invece invitato «a considerare anche la possibilità di pacifica gara economica non solo tra gli stati, ma anche tra le associazioni economiche di stati con diversi regimi sociali». Questa politica deve continuare, essa è comunque un veicolo di pace. Certo sarebbe stato e sarebbe assai auspicabile che essa potesse accompagnarsi ad un grado ben maggiore di flessibilità nelle relazioni politiche, culturali, umane. La rigidità dei sistemi collettivistici e autoritari presenta talvolta aspetti per noi assolutamente inaccettabili e qualche volta incomprensibili. E logico che a sistemi diversi si muovano delle critiche. E illogico che ogni critica venga scambiata per una aggressione o un atto di ostilità preconcetta. Per dei socialisti che considerano il socialismo una dottrina di liberazione è doverosa la critica di sistemi autoritari che prolungano e rinnovano questo loro carattere benché siano ormai lontani nel tempo i fatti rivoluzionari o traumatici ordinari. Senza eccessive illusioni ma anche senza visioni manichee noi consideriamo auspicabile l’avvio di processi di liberalizzazione che darebbero un impulso totalmente nuovo allo sviluppo delle relazioni Est-Ovest. La nostra simpatia e il nostro appoggio ai fenomeni del dissenso politico culturale nell’Est non nasce da ostilità preconcetta. Noi consideriamo che la rivendicazione di fondamentali libertà civili e la spinta critica verso una società democratica, aperta e pluralistica si muova nella direzione giusta, si muova nella direzione del socialismo. Noi pensiamo che processi di questa natura possano essere sollecitati dall’esterno senza eccessi polemici e consideriamo che il progressivo e …