SANDRO PERTINI Studente, Partigiano, Presidente

*Stefano Rolando: un ricordo di Sandro Pertini Faccio questo intervento pensando a tanti ragazzi, oggi, che pensano che la politica, la storia, il bene comune, siano valori da non disprezzare. Ce ne sono ancora. Come ce ne sono stati nel passato. E a tutti – come successe a me – questa tensione può riservare straordinarie sorprese. Poteva succedere nel nostro paese – forse una volta più piccolo, più coeso, più legato da valori fondanti – che un ragazzo di sedici anni, gemello della Costituzione, già appassionato di politica e di storia, direttore del giornaletto degli studenti del suo liceo (foglio nato negli anni della Resistenza),  si imbattesse – a Milano – in un mito delle battaglie per la democrazia e la libertà. Un mito a cui dare del tu, a cui fare domande, con cui intavolare un dialogo non retorico, con chiarificazioni sul passato e il presente. Un mito parlante, autorevole, disposto a dialogare. Che disse: “e adesso vienimi a trovare a Roma!”. Poteva succedere. Dalla trepidante visita alla Camera dei Deputati, di cui era vice-presidente e in cui disponeva di uno studio-alloggio allestito con fantasioso disordine dalla Carla – una visita a Montecitorio vissuta la prima volta con lo spirito della “religione della patria” – al giorno della sua scomparsa, quel legame non venne mai meno. Attraversando le due straordinarie esperienze di Sandro Pertini alla presidenza della Camera e alla presidenza della Repubblica, in tante forme di assistentato, viaggi, festività trascorse in casa e in famiglia, occasioni di scrittura e tante, tante domande sempre con una risposta, sempre senza l’imbarazzo dei alcuna diplomazia. Fino al giorno del’estremo congedo. Un giorno speciale – il 28 febbraio 1990 – con Carla Pertini che stringeva al petto un’urna che conteneva non tanto cenere quanto la vita di un eroe, di un patriota, di uno statista, di un marito e che raccontava ai presenti e all’Italia che la realtà e i simboli possono incrociarsi non solo per vendere merci ma anche per sorreggere memoria, identità e valori. A Stella San Giovanni  – nell’aspra altura ligure, somigliante al carattere del suo illustre figlio – quel congedo si caricò di impegni. Difficili da rispettare. Perché difficile è la testimonianza civile di questi tempi. Questo il mio rapporto con Pertini socialista (che mi ha mosso a vivere questa esperienza dal 1976 al 1985, quando chiamato da Giuliano Amato come direttore generale a Palazzo Chigi ritenni non compatibile il ruolo di funzionario dello Stato con l’appartenenza a un partito), con Pertini presidente e – in tante occasioni – con Pertini uomo e maestro. Sono fiero – tra le tante esperienze – di avere consentito la raccolta di tutti i suoi discorsi da presidente della Camera e della Repubblica in due volumi editi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri  che ebbero in Norberto Bobbio un efficace e illuminante presentatore alla prima edizione del Salone del Libro a Torino. Della fortuna di questa amicizia feci un cenno in un libro scritto nel 2008 e che si intitolava “Quarantotto” (una data di nascita ma anche una metafora di carattere) e dove ho raccolto anche alcuni episodi di vita e testimonianze storiche (tra cui quella della Liberazione di Milano). “Il bilancio della mia generazione – quella dei ventenni nel sessantotto – non è tutto positivo, molti hanno trasgredito rispetto ai doni ricevuti, molti hanno rinunciato ai valori di una educazione civile, molti hanno barattato la loro irrequietezza con la violenza, con gli affari, con l’ambiguità. Chi ha avuto la fortuna di maestri di etica pubblica ha avuto il sentiero più tracciato e ha avuto la possibilità forse di una maggiore coerenza per la quale non ha da vantarsi ma da ringraziare”. Limito qui ad alcune citazioni il ricordo della sua figura. Della lotta contro il regime fascista e poi di liberazione  Sandro Pertini, come si è già detto,  è stato uno dei protagonisti principali. Non tanto un teorico, un intellettuale, un ideologo. Ma – nella prosecuzione del modello risorgimentale – un combattente che, grazie alla credibilità acquisita, si è trasformato in paradigma, in esempio, in metafora educativa. Complessivamente 18 anni tra esilio, arresti, galera e confino. Come intitolava un bellissimo libro di Vico Faggi – quasi una sceneggiatura teatrale costruita su documenti giudiziari e di polizia – pubblicato nel 1970 da Mondadori con prefazione di Saragat, Sei condanne e due evasioni, una gioventù consacrata al principio di rivolta contro la confisca della libertà e della democrazia in Italia di un giovane borghese, avvocato di buone maniere e di perenne eleganza, non testa calda ma coerente testimone dell’idea turatiana – dunque pacificamente riformista ma anche indomabilmente ribelle se conculcata – della sua adesione giovanile al socialismo. Un combattente, per mostrare alla sua generazione quello che avevano cercato di dimostrare i Mille di Garibaldi o i Trecento di Pisacane: yes we can. La lunga motivazione della Medaglia d’oro al Valor Militare concessa a Pertini per la lotta di liberazione dice nelle due righe conclusive: Uomo di tempra eccezionale, sempre presente in ogni parte d’Italia ove si impugnassero le armi contro l’invasore. La sua opera di combattente audacissimo della resistenza gli assegnava uno dei posti più alti e lo rende meritevole della gratitudine nazionale nella schiera dei protagonisti del secondo Risorgimento d’Italia. Le tre citazioni che ho scelto sono molto limitative. Ma anche molto indicative. –          la formazione turatiana –          la difesa della Costituzione –          l’etica pubblica   La formazione socialista-turatiana. In esilio a Nizza, come muratore (ma al momento disoccupato perché licenziato a seguito di un processo per avere insultato per strada a Nizza un fascista di Savona), scrive a Filippo Turati (a cui dava del lei, chiamandolo Maestro): Da un anno – Maestro – sono in esilio e ogni buona e alta speranza che qui con me avevo portata va oggi morendo nel mio cuore. Mi guardo attorno e non vedo che poveri naufraghi, che ancora non si sono riavuti dal primo sgomento o peggio vedo dei piccoli uomini che sembrano solo preoccuparsi di miserie e non pensano alla tragedia (e …

ALBERTO SIMONINI

Nasce a Reggio Emilia il 19 febbraio 1896, a Villa Ospizio, da Augusto (manovale della stazione ferroviaria) e Faustina Gallinari (contadina). Terminate le scuole elementari, trova lavoro come operaio meccanico. Nel 1912, a Brescia, organizza il primo Circolo giovanile socialista e comincia a collaborare con il settimanale del partito “Brescia nuova“, iscrivendosi alla Federazione giovanile socialista (FIGS). Il 23 luglio subisce una condanna a 3 giorni di carcere per propaganda anitimilitarista. Il 1º maggio 1913, durante la Festa del Lavoro, tiene i suoi primi comizi nei paesi di Ghedi e Montirone, nella provincia bresciana. Diviene segretario della FIGS e supplente nella commissione esecutiva della Camera del Lavoro CGIL. Nel 1914 rientra a Reggio e comincia a collaborare con La Giustizia, periodico fondato da Camillo Prampolini. Il 7 maggio 1915, durante una riunione della FIGS provinciale, approssimandosi l’intervento italiano in guerra, propone lo sciopero generale. Messo in minoranza, si dimette dalla carica di segretario. Nel 1916 Viene chiamato alle armi e deferito al Tribunale speciale di Piacenza per un tentativo di diserzione. Il procedimento viene sospeso e riesumato con un arresto di pochi giorni nel 1919, poi definitivamente estinto per amnistia nel 1920. In quell’anno assume la guida del direttorio massimalista di Reggio Emilia, assieme a Piccinini e Cavecchi. Lentamente evolve politicamente verso l’orientamento riformista, aderendo alla mozione turatiana denominata “Concentrazione“, in adesione al riformismo. Nel 1921, durante il Congresso di Livorno del PSI, pur sostenendo ancora la frazione massimalista, si batte per l’unità del partito criticando l’internazionalismo comunista. I socialisti riformisti reggiani decidono di non partecipare alle elezioni per evitare lo scontro violento con i fascisti. Nell’agosto del ’22 aderisce al PSU, il nuovo partito di Turati, Treves, Matteotti, Buozzi e Prampolini, dei quali vollero disfarsi i massimalisti proprio alla vigilia della Marcia su Roma. In rappresentanza della Camera del Lavoro parmense, incontra nel 1923 l’onorevole Farinacci. In quei giorni sono frequenti gli attacchi fascisti contro la Camera del Lavoro locale, accusata di complottare contro lo Stato: verrà sciolta con decreto prefettizio del 14 marzo. Il 28 giugno Simonini viene bandito da Parma con foglio di via obbligatorio. Viene incaricato quale ispettore viaggiante del giornale La Giustizia quotidiana, sotto la direzione di Claudio Treves, organo del PSU. Diventa segretario del comitato elettorale dell’Emilia-Romagna per la campagna del 1924. In quell’anno svolge l’incarico di ispettore del partito alle dipendenze dirette del segretario, Giacomo Matteotti, fino al suo assassinio. Si trasferisce quindi a Torino per dirigere il segretariato regionale della Federazione Operai edili e il segretariato confederale della Provincia di Torino. Si dedica alla professione di rappresentante di commercio, essendogli ormai molto difficile – a causa delle precedenti esperienze sindacali – trovare un lavoro dopo l’instaurazione del regime fascista. Nel ’29 Simonini rientra a Reggio Emilia: il partito socialista non esiste più. Nel 1932 viene arrestato per due volte, sulla base di denunce anonime. Si trasferisce, quindi, a Bologna. Nell’agosto 1943 partecipa al secondo incontro di Barco (il primo si era svolto in luglio). Queste riunioni si proponevano come obiettivo la ricostruzione di una organizzazione socialista, che mancava dal 1926. Simonini e Giacomo Lari rappresentano la componente socialista del costituendo CLN. Simonini rifiuta il ricorso alla lotta armata in nome del principio della non violenza, proprio del riformismo prampoliniano, scontrandosi con Campioli (PCI), Pellizzi (PdA) e Don Simonelli. Di fronte alla direttiva di partecipare attivamente alla lotta armata, Simonini e Lari si dimettono dal CLN e vengono sostituiti da Ferrari e Prandi. Comincia a porsi il problema di un’eventuale scissione all’interno del PSIUP (il partito socialista si chiamava così dalla fusione con il MUP di Basso). Nel 1946 si tengono le elezioni amministrative: a Reggio, primato dei comunisti (46,14%) ma interessante risultato socialista (26,64%). Il Congresso di Firenze porta ad escludere definitivamente la possibilità di una fusione con i comunisti, a seguito dell’affermazione delle frange autonomiste di Iniziativa Socialista, di Sandro Pertini, e di Critica Sociale. Simonini a Reggio continua a battersi per l’unità del partito, ma il Congresso nazionale si svolgerà addirttura in due sedi differenti. Il 7 gennaio 1947: due giorni prima l’avvio del nuovo Congresso, Simonini è certo di un’imminente scissione. Contatta Sandro Pertini alla direzione dell’Avanti: egli, da sempre garante dell’unità, dovrà tentare di muovere una mozione per salvare il partito dalla frattura e contattare Nenni e Basso per coordinarne le posizioni. L’operazione fallisce, secondo Pertini, per lo scarso impegno di Nenni (Basso approfitta della situazione). L’11 gennaio: scissione di Palazzo Barberini. Nasce il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), il manifesto del partito viene pubblicato da Reggio Democratica. La scissione, anziché dilatare l’area socialista, comincia a comprimerla ulteriormente a favore del PCI e a scapito dello stesso PSI. Nel dicembre di quell’anno il PSLI entra a far parte del governo De Gasperi, assieme ai repubblicani. Simonini rimane segretario nazionale del partito fino alla primavera, quando si dimette a seguito dei contrasti causati nella direzione dall’adesione dell’Italia al Patto Atlantico (che viene respinta da un accordo tra centro e sinistra socialdemocratica). Da quel momento si mette a capo di una corrente che si pone all’estrema destra del partito e sostiene l’unificazione delle diverse correnti interne (il PSU di Romita e il PSLI di Saragat, che nel 1951 si fonderanno nel nuovo Partito Socialista Democratico Italiano), ma non il dialogo con il PSI. Gennaio 1952: al Congresso nazionale, Simonini afferma l’importanza dell’atlantismo e della collaborazione stabile tra le forze democratiche, fuori dalle quali sono poste la destra da una parte e il comunismo e il socialismo dall’altra. Egli sancisce, nel contempo, la necessaria indipendenza dei sindacati da qualsiasi ingerenza ideologica, politica e religiosa diretta o indiretta. A seguito dell’adesione alla nuova legge elettorale, nel 1953 avviene una divisione all’interno del partito: Codignola capeggia la sinistra. I risultati elettorali vedono il PSDI perdere circa 1/3 del proprio elettorato. La “destalinizzazione” del 1956 attuata da Kruscev vede il PSDI statico e indifferente. Nenni e Saragat, forti della comune critica al PCI – ancora ideologicamente ancorato ad un certo socialismo autoritario – tentano un riavvicinamento. Il Congresso di Venezia del 1957 …

TURATI E SARAGAT IN UN SAGGIO DI LEO VALIANI

di Viviana Simonelli Nel 1983 in occasione del 50°anniversario della morte di Filippo Turati, Leo Valiani così definisce il leader indiscusso del pensiero socialista, e uno dei fondatori a Genova del Partito dei lavoratori italiani (1892): “Turati era una testa pensante, ma non era solo una testa pensante, in lui parlava anche, oltre al cervello politico, il cuore, il cuore del socialista. Per valutare esattamente la posizione di Turati durante la prima guerra mondiale, bisogna sempre avere presente il Turati cervello politico e il Turati cuore socialista umanitario che detestava lo spargimento di sangue e considerava fratelli i popoli”. Tuttavia, scrive Valiani, quando il conflitto europeo scoppiò, nel 1914, l’Internazionale Socialista si frantumò immediatamente. Tutti i partiti socialisti europei legali, che operavano in paesi costituzionali e avevano una rappresentanza parlamentare, votarono, coi loro deputati, i crediti militari. Il Partito Socialista Italiano prese, invece, una posizione diversa dall’inizio alla fine dell’intervento italiano. Sorge qui il problema di come mai il Partito Socialista Italiano si differenziò dal resto dell’Internazionale. Certo, le ragioni sono molteplici e adesso cercherò di illustrarle, ma vorrei dire che sicuramente una delle caratteristiche del pacifismo del Psi., della sua opposizione alla guerra, la troviamo nella testa pensante e nel cuore di Filippo Turati. Di sicuro dobbiamo ricordarci che l’Italia non era stata aggredita e che, alleata degli Imperi centrali dal 1882, sarebbe stata costretta ad intervenire dalla parte tedesca e austro-ungarica. Precisa Valiani a questo proposito “Questo, il governo italiano, lo evitò, con l’avallo di tutte le forze politiche italiane al di fuori dei nazionalisti che poi saranno i più fieri fautori dell’intervento a favore dell’Intesa occidentale, ma che nel luglio-agosto 1914 volevano l’intervento a favore della Germania, perché volevano la guerra purchessia. L’infausto evento non si verificò, il governo dichiarò la propria neutralità”. Ma poiché il trattato era di natura difensiva, un attacco austriaco alla Serbia, rendeva comunque l’Italia libera di non intervenire. Tuttavia – scrive Valiani – questo stesso trattato della Triplice Alleanza conteneva un articolo, l’articolo 7, che assicurava all’Italia dei compensi da parte dell’ Austria Ungheria, ove l’Austria-Ungheria avesse allargato la sua sfera di influenza nei Balcani, il che stava avvenendo con l’invasione della Serbia. Questo i socialisti lo vedevano e ciò va a loro onore. E fu Turati a vedere con maggiore chiarezza il problema. Per il resto il Partito socialista era viceversa diviso. Infatti la tesi socialista dichiarava una precisa incompatibilità etica tra neutralità dichiarata e compenso di crediti territoriali. Queste le parole di Valiani: Turati interpretava più fedelmente della direzione del partito lo stato d’animo, i desideri, le volontà delle masse socialiste, e questo del resto è provato dal fatto che non solo egli aveva la maggioranza tra gli elettori socialisti rispetto agli intransigenti massimalisti, ma aveva la maggioranza anche nelle organizzazioni sindacali operaie, quelle organizzazioni che più direttamente rappresentavano le masse, poiché le raggruppavano sul terreno economico di classe. La Confederazione Generale del Lavoro e quasi tutte le grandi federazioni sindacali erano dirette da riformisti che vedevano in Turati il loro vero capo. Da questo punto di vista Turati si trovava in una situazione contraddittoria perché messo costantemente in minoranza dalla direzione che dettava la politica al partito, e la dettava al gruppo parlamentare, e la dettava, attraverso un patto di alleanza, in parte anche alla Confederazione Generale del Lavoro, sapeva invece di essere una maggioranza fra le masse organizzate sindacalmente e fra gli elettori. Di questa sua posizione Turati era consapevole, era però anche profondamente attaccato all’unità del partito. Pensava che il Partito Socialista era meglio che fosse unito con una politica sbagliata che diviso con un politica giusta. Avesse ragione o no su questo la cosa è discutibile e noi non possiamo risolvere a posteriori i problemi che allora non furono risolti. Certo, la scissione sopraggiunse nel 1921-22 e si può dire che Turati aveva torto ad aspettare fino alla vittoria fascista nel ’22. Ciò che più colpisce in questo intervento di Leo valiani, è la sua considerazione sul forte attaccamento di Turati all’unità del Partito. Infatti così continua:”La possibilità di impedire l’intervento italiano esisteva, perché contrario all’intervento non era solo il Partito Socialista. Intanto, sul piano delle masse contrarie all’intervento, oltre alle masse socialiste, erano le masse cattoliche. Il Vaticano per primo era contrario all’intervento, per motivi naturalmente molto diversi da quelli dei socialisti. La posizione di Giolitti era contraddittoria, mentre quella di Turati era lineare, ma Turati disponeva soltanto di 52 deputati socialisti e, per di più, non era libero di svolgere l’azione politica che desiderava, perché la direzione del partito lo inchiodava non solo all’opposizione alla guerra, sul che c’era l’accordo, ma all’opposizione a qualsiasi governo, anche ad un governo che avesse tenuto l’Italia fuori dal conflitto o a conflitto iniziato l’avesse portata ad una pace negoziata. Questo rendeva sterile la posizione pur giusta del Partito Socialista di opposizione alla guerra, rendendola a priori confinata nella mera protesta. Nessun governo, anche se coincidente nell’azione politica con il Partito Socialista, poteva essere appoggiato da esso, per ragioni di intransigenza di classe. Turati, invece, era del parere che si dovesse appoggiare il governo, se teneva l’Italia fuori dal conflitto, senza però legarsi agli Imperi centrali, accettando per l’appunto dei compensi territoriali.” Scrive ancora Valiani: ” Il fatto più clamoroso fu quello della conversione all’interventismo del capo della frazione rivoluzionaria, il direttore dell’”Avanti!”, Mussolini”. D’altra parte Giolitti stesso, che aveva la maggioranza in Parlamento, ed era contrario all’intervento italiano, non voleva in quella congiuntura un accordo neppure con i socialisti di Turati. Dal momento che desiderava avere dei compensi, cioè il Trentino o altra cosa, che l’Austria fosse stata disposta a cedere. Giolitti non voleva più compromettersi con un partito che anche nella sua versione più democratica, quella di Turati, rifiutava tutti i compensi e voleva che l’Italia rimanesse con le mani libere, con le mani nette. Aveva ragione Turati, perché la posizione di Giolitti lo portava all’impotenza. Giolitti aveva la maggioranza in parlamento, e avrebbe quindi potuto impedire l’ingresso in guerra e rovesciare il governo di …

“INTRODUZIONE AL PENSIERO POLITICO DI TURATI”

Questo scritto apparve sotto forma di una prefazione alla terza edizione de “Le vie del socialismo” editore Lacaita – 1992). La prima edizione dei testi turatiani è del 1921, curata da Mondolfo. La seconda edizione apparve nel 1966 e fu voluta da Giuseppe Faravelli, direttore della “Critica Sociale” di Gaetano Arfè La prima edizione di questa raccolta ebbe un curatore d’eccezione, Rodolfo Mondolfo, storico di altissimo valore della filosofia antica e al tempo stesso interprete, il maggiore e il più originale in Italia, del marxismo nella sua versione democratica e gradualista. È un filone di pensiero che non ha goduto in Italia di molta fortuna. Tra gli studiosi italiani a dedicargli specifica cura è stato Norberto Bobbio, che ha raccolto gli scritti filosofici di Mondolfo e anche quelli del giovane Eugenio Colorni, ucciso dai fascisti in Roma, alla vigilia della Liberazione presentando, gli uni e gli altri, con saggi introduttivi che sono magistrali capitoli di una storia del pensiero socialista in Italia, ancora da scrivere. Umanismo di Marx fu il titolo che Bobbio dette alla sua raccolta di saggi marxisti di Mondolfo, ma il libro apparve nel 1968, un anno decisamente non favorevole alle revisioni “socialdemocratiche” del marxismo e l’autorevolezza del curatore non fu sufficiente a destar l’attenzione dei revisionisti di segno opposto che allora tenevano fragorosamente il campo. I testi turatiani pubblicati da Mondolfo videro anch’essi la loro prima luce in un anno, il 1921, nel quale il socialismo riformista non godeva della buona fortuna, stretto com’era tra un partito comunista appena nato, ma aggressivo, estremistico e settario, e un partito socialista a forte maggioranza massimalista, arroccato a difesa di una bigotta ortodossia rivoluzionaria riducibile a rumorosa e fiduciosa attesa che la borghesia agonizzante decedesse. La borghesia non defunse e dette decisamente avvio alla sua controrivoluzione, postuma contro la rivoluzione che non c’era stata, preventiva nei confronti di quella che si temeva o che si fingeva, secondo Turati, di temere. Ai veri e ai sedicenti rivoluzionari Mondolfo intendeva proporre, prima che fosse troppo tardi, il ritorno sulle vie maestre del socialismo riformista, documentando e esaltando la continuità di una linea politica che risaliva al congresso di Genova del 1892 e che si era sviluppava, al passo coi tempi, ma lungo un filo di mai smentita coerenza, nei tempestosi decenni che ne erano seguiti. I fatti avevano, di regola, dato ragione a Turati anche quando i suoi compagni nei congressi gli avevano dato torto. Ed era, comunque, un fatto incontestabile che l’azione del socialismo riformista, pragmatica, ma guidata da una dottrina, aveva portato il proletariato italiano, nello spazio di meno di un trentennio a livelli di civiltà comparabili con quelli dei maggiori paesi dell’Europa liberale. L’apporto personale di Mondolfo – la sua introduzione, la trama nella quale inserì i testi scelti – non è marginale. Esso dava all’opera una compiuta organicità, ricostruendo il pensiero politico di Turati, mai esposto in saggi di lunga lena, diffuso in scritti e discorsi sempre meditati e preparati con estrema cura, ma anche sempre legati all’attualità politica. Il filosofo che mai volle avere parte attiva nella vita di partito non fu soltanto militante appassionato per tutto il secolo che egli visse e con lui il fratello Ugo Guido e la cognata, la indimenticabile signora Lavinia, fu anche osservatore politico di grande lucidità e di rara acutezza: basti ricordare la “Biblioteca di studi sociali” che egli promosse e diresse per l’editore Cappelli, nella quale apparvero, accanto a Le vie maestre di Turati, testi di cultura politica rimasti classici, dalla inchiesta a più voci, sul fascismo, da lui stesso curata, agli scritti di Antonio Labriola, di Gaetano Salvemini, di Piero Gobetti. La seconda edizione, estesa agli anni successivi, fino alla morte di Turati, fu voluta, con gli stessi intendimenti da Giuseppe Faravelli, e apparve nel 1966, in vista del varo della “Costituente socialista“, nella quale Mondolfo, ormai novantenne e residente nella lontana Argentina, dove lo avevano portato le leggi razziali, riponeva grandi speranze. Non meno fervide, ma gravate di non infondati timori erano le speranze di Faravelli. In me, più addentro nella conoscenza di uomini e fatti, i timori prevalevano sulle speranze, anche se non incidevano sulla mia buona volontà di cooperare al buon esito dell’impresa. In realtà, la “costituente“, sotto il manto della grande, trascinante oratoria di Nenni, si ridusse, in sostanza, alla unificazione forzata tra il Partito socialista e il Partito socialdemocratico, destinata a durare meno di tre anni di travagliata e rissosa esistenza, segnata dalle percosse della ondata sessantottina e da una prova elettorale che contraddisse le rosee previsioni della vigilia. Il libro, come già in altra occasione ho avuto modo di ricordare, fu rifiutato dai maggiori editori, nonostante l’intervento personale di Giuseppe Saragat, allora Presidente della Repubblica. A stamparlo, grazie all’intervento di Pietro Piovani, fu Morano di Napoli, titolare di una casa editrice di antiche e gloriose tradizioni, ma di modeste dimensioni aziendali. Toccò a me, su perentorio ordine di Faravelli, di aggiornare la raccolta e di approntare in tempi brevissimi i testi, d’intesa con Mondolfo, il quale, peraltro, convinto che il libro sarebbe andato a ruba, propose, col mio pieno consenso, che i diritti d’autore fossero devoluti alla Critica Sociale, afflitta da una miseria cronica, che era la croce o l’orgoglio del suo direttore Faravelli, una delle figure meno ricordate e più belle del socialismo italiano. Ed era lui, soprattutto a far fronte alle difficoltà, anche con questue condotte con lo spirito di un frate cercatore, che non conosceva le arti della lusinga e che non mancava di far balenare sui riluttanti e sugli avari la minaccia della scomunica nel nome di Filippo Turati, del quale egli si sentiva in terra l’indegno ma insostituibile rappresentante. Una sola volta salì le scale del Quirinale quando fu, per breve tempo, senatore e fu per dire a Saragat, a ringraziamento di una generosa offerta: “Da uno spilorcio come te mi sarei aspettato di meno“. Col candore del filosofo, rimasto inoffuscato attraverso i lunghi decenni della sua esistenza, Mondolfo, per l’occasione, fece anche pervenire a …

VERSO LA SCISSIONE

Per dissipare ogni equivoco storiografico, va sottolineato come a Livorno si sia consumata la scissione di una minoranza. Infatti, la successione degli eventi non può lasciare alcun dubbio. L’11 ottobre del 1920 era stato reso noto a Milano il Manifesto Programmatico della frazione comunista del PSI. Ciò accadeva poco dopo la fine dell’occupazione delle fabbriche, nella quale i comunisti avevano visto una specie di prova generale della rivoluzione dei consigli operai. Da questo punto di vista l’occupazione aveva avuto un esito che era da considerarsi fallimentare; mentre doveva essere considerato positivo per le posizioni riformistiche. Il Manifesto Programmatico, con il quale la frazione comunista rilanciava la sua iniziativa, era firmato dagli esponenti dei vari gruppi che in essa confluivano: Bordiga, esponente del Mezzogiorno, ed ormai riconosciuto leader della frazione; Terracini, Gramsci ed altri per il gruppo dell’Ordine Nuovo di Torino; Bombacci, esponente del partito nell’Italia Centrale. Il Manifesto trovò un’approvazione formale al convegno di Imola della corrente, che si tenne il 28 ed il 29 novembre successivi. Com’è più noto, il fattore determinante della formazione della frazione (e poi della scissione) fu il rifiuto da parte degli altri settori rivoluzionari del PSI di accettare in blocco tutte le condizioni poste dal II congresso dall’Internazionale comunista (terza internazionale) per l’adesione ad essa dei singoli partiti operai nazionali: le famose 21 condizioni. Racconta un testimone di quegli eventi, Umberto Terracini, nella sua “Intervista” raccolta da Arturo Gismondi, che in una riunione della direzione socialista, appositamente convocata, i delegati partecipanti al congresso dell’Internazionale comunista riferirono sull’argomento. Secondo Terracini: “Pronto ad accettare 20 delle 21 condizioni, Serrati (che era uno dei delegati) chiese che il PSI riconfermasse la propria adesione all’Internazionale, chiedendo a quest’ultima di sollevarlo dall’obbligo di espellere i riformisti“. (Obbligo nel quale consisteva la ventunesima condizione.) Si contrapposero due ordini del giorno: uno, firmato da Adelchi Baratono, che formalizzava la posizione di Serrati; l’altro, di Terracini, che chiedeva la piena accettazione delle 21 condizioni. Questo secondo documento ottenne la maggioranza dei voti, compreso quello del segretario del partito, Gennari. La decisione maggioritaria del vertice del partito fu rovesciata dalla base nel corso del dibattito nelle istanze congressuali: e ciò, nonostante che alla frazione comunista si associassero la corrente Graziadei-Narabini, e quella detta dei “terzinternazionalisti” di Maffi e Riboldi. Pertanto dalla maggioranza ottenuta in direzione, la posizione comunista uscì largamente sconfitta dal voto di base. Cosicché l’esito del congresso (che dovette tenersi a Livorno, anziché a Firenze, per timore delle possibili violenze da parte dei fascisti) smentì categoricamente e clamorosamente la previsione fatta il 20 novembre 1920 da Zinoviev all’esecutivo dell’Internazionale comunista. Zinoviev aveva infatti dichiarato che “i comunisti di Bordiga e Terracini affermano di avere con loro dal 75 al 90 per cento del partito” e che, di conseguenza, “in questa situazione qualsiasi compromesso con Serrati sarebbe dannoso“. La controversia con Serrati non era puramente nominalistica, o di natura esclusivamente tattica. Investiva una questione storica di importanza tutt’altro che secondaria. Infatti la motivazione per la quale l’Internazionale comunista dichiarava incompatibile la presenza dei riformisti nel seno dei partiti ad essa aderenti era che i riformisti non avevano sabotato la guerra schierandosi nei rispettivi paesi contro di essa. Questa, agli occhi dell’Internazionale comunista, era la prova che i riformisti non erano internazionalisti, perché avevano anteposto, al momento decisivo, gli interessi nazionali a quelli internazionali della classe operaia. A questa argomentazione Serrati non opponeva un rifiuto di principio, bensì una contestazione di merito. Egli faceva presente che i riformisti Italiani, a differenza di quelli di altri paesi, non avevano affatto aderito alla guerra, anche se non l’avevano sabotata. Su tale problema, il loro atteggiamento non s’era discostato da quello del partito nel suo complesso: eccezion fatta per Bordiga. La stessa posizione di Gramsci era stata oscillante tra l’interventismo e la neutralità attiva. Se l’argomentazione dell’Internazionale doveva essere presa alla lettera, si sarebbe dovuto espellere quasi tutto il partito. Abbandonata la strada del compromesso con lo stesso Serrati e con i massimalisti che si rifiutavano di mettere fuori dal partito Turati ed i suoi, alla frazione comunista non rimase che la strada della scissione: che risultò essere una strada minoritaria, e che tale doveva restare anche dopo la costituzione del Partito comunista d’Italia, e per molto tempo ancora, se si pone mente al fatto che ancora nel 1946 i socialisti erano elettoralmente più forti dei comunisti. (Perché questi divengano il primo partito della sinistra italiana ci vorranno gli errori dei socialisti nel secondo dopoguerra, e la conseguente scissione di Palazzo Barberini.) Già nella vicenda della scissione di Livorno risaltano alcune caratteristiche permanenti e denotanti della storia comunista successiva. Tra di esse, principalmente, il rifiuto della regola democratica della maggioranza e l’antiriformismo. (La scissione venne compiuta perché la maggioranza si oppose alle condizioni ultimative dei comunisti, e perché si riteneva incompatibile la coesistenza con i riformisti nello stesso partito.) Inoltre, la totale consonanza del gruppo dirigente comunista con le indicazioni politiche provenienti da Mosca: ci vorranno circa sessant’anni prima che questo vincolo cominci ad attenuarsi e a dissolversi. In ogni modo, Livorno segnò un momento altamente drammatico della storia del movimento socialista e della sinistra italiana nel suo complesso. Condusse ad una crisi di orientamento politico, di spirito di iniziativa e di azione, di forza organizzativa per l’intero movimento dei lavoratori. Apri l’epoca delle dissociazioni e delle dispersioni, alimentò, ben presto, lo scoraggiamento dei quadri, dei militanti, degli elettori. E questo avveniva proprio nel momento in cui il movimento dei lavoratori, grazie anche alla conquista del suffragio universale, aveva tutte le possibilità di assumere un ruolo decisivo nella vita nazionale e nello sviluppo della democrazia italiana. La sua crisi fu la crisi del paese e del sistema politico che era sorto dal Risorgimento.   Il congresso di Livorno Ormai Giolitti, non riuscendo a concretizzare un’intesa con i riformisti, dopo essersi esposto sul piano sociale come mai in passato, e dopo aver rotto i ponti con l’altro partito di massa, quello popolare, vedeva restringersi le basi politiche della sua maggioranza, nonostante gli obiettivi realizzati in politica …

IL TEMPO E LA STORIA – Il Riformismo di Filippo Turati

Filippo Turati È l’uomo politico che ha contribuito più di ogni altro alla nascita e alla crescita del socialismo in Italia. A Filippo Turati è dedicato il nuovo appuntamento con “Il Tempo e la Storia”, il programma di Rai Cultura, in onda su Rai Storia. Ospite di Massimo Bernardini, il professor Giovanni Sabbatucci ricorda l’uomo che, per circa mezzo secolo, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Trenta, attraversa la storia del socialismo, una storia di lotte interne, di scissioni, ma anche di grandi conquiste sociali. È Turati che con la sua opera infaticabile, inserisce per la prima volta i bisogni e le istanze della classe operaia nel processo di sviluppo dello Stato italiano, aprendo la strada ad una legislazione che tutela i diritti dei lavoratori. Il socialismo, per Turati, non è un’imposizione violenta ma un processo graduale che si attua all’interno delle istituzioni attraverso le riforme e la diffusione pacifica delle idee socialiste. Solo così, infatti, si compie la rivoluzione. Per Sandro Pertini è stato “un uomo giusto, un uomo buono, un maestro, anzi, il Maestro”. Per Carlo Rosselli ha rappresentato la guida delle classe lavoratrici, l’educatore di tre generazioni italiane, un socialista e un patriota vero”. Filippo Turati con Giovanni Sabbatucci di Sabrina Sgueglia della Marra     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA STORIA E L’AVVENIRE discorso di Bettino Craxi in occasione della celebrazione del centenario del PSI

Cento anni fa, nella Sala dei garibaldini genovesi, nasce a Genova il Partito Socialista Italiano. E il quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America e i viaggi in treno per Genova, sede delle celebrazioni colombiane, sono a tariffa ridotta. La Liguria era stata il cuore della lotta popolare e democratica del Risorgimento: la terra di Garibaldi e di Mazzini. Qui, e nelle regioni più sviluppate del Nord, le prime Leghe di Mutuo Soccorso tra i lavoratori e gli artigiani, i primi sindacati, le prime cooperative, avevano costruito le radici del movimento socialista. Un movimento internazionalista ma patriota, proprio come Garibaldi, l’eroe dei due mondi, il grande combattente per la libertà dei popoli. Difensore della democrazia parlamentare conquistata dalla borghesia, ma con l’obiettivo del suffragio universale della emancipazione dei lavoratori, come Mazzini. Rispettoso della religione, ma anche della libertà dei cattolici, come Camillo Prampolini, l’apostolo cristiano dei poveri, che vedeva in Gesù il primo socialista. L’internazionale Socialista ha anche in Italia le sue radici. Le prime lotte confuse e disordinate dei lavoratori hanno le gambe dell’organizzazione. I delegati, insegnanti ed artigiani, cooperatori e protagonisti del volontariato, operai, contadini, medici e professionisti rappresentano centinaia di associazioni. Eleggono la direzione, dopo la separazione da un’anima della sinistra che sarebbe sempre stata inconciliabile: quella dei rappresentanti anarchici e rivoluzionari, fautori di una sovversione violenta, anziché della paziente e graduale costruzione progettata dal riformismo. Inizia un lungo cammino. Un secolo di sacrifici e di lotte. Al termine del quale si può dire, senza forzature retoriche: tutte le conquiste sociali, di libertà, di progresso, assolutamente tutte, sono state raggiunte in Italia, come in Europa, con il contributo decisivo del movimento socialista. Nel Natale del 1896 viene fondato l’Avanti!, il primo quotidiano veramente nazionale. Difende la libertà contro la reazione della destra e dei militari, sempre più preoccupati della rapida diffusione delle idee progressiste e della forza organizzata dei lavoratori. Sicilia. La reazione tenta di schiacciare i fasci operai e contadini, centinaia sono i morti, migliaia gli arresti giudicati con processi sommari. 1899. Milano. Mentre il governo, con le leggi eccezionali, arresta i democratici, il generale Bava-Beccaris spara con i cannoni contro i lavoratori. Un massacro. Una medaglia del Re per ringraziarlo. Ma i socialisti non sono più soli, perché anche tra le classi dirigenti si vanno diffondendo le nuove idee sociali. La democrazia parlamentare regge, progredisce, allarga il suo consenso. Il nuovo secolo nasce con le grandi speranze aperte della rivoluzione industriale trionfante ed al progresso scientifico. E in questa rivoluzione industriale, che fa progredire e trasformare il Paese, il riformismo socialista trova il terreno favorevole per far progredire e far avanzare il movimento dei lavoratori. Dirigenti socialisti libertari, marxisti, cattolici, trasformano le plebi in una classe sociale cosciente di sé, impegnata a spezzare davvero le catene dell’ignoranza e della sottomissione. L’Avanti viene letto la sera, da chi sa leggere, ai compagni che ancora non sanno. Il Partito “insegna”, con lo spirito dei maestri di scuola socialisti, dei grandi scrittori ed educatori socialisti da Edmondo De Amicis a Giovanni Pascoli. Le pazienti, quotidiane campagne per l’alfabetizzazione, contro l’alcolismo, la prostituzione e la bestemmia. Per l’igiene, l’uso dei contraccettivi, per il rispetto dei deboli, delle donne e dei bambini, per la protezione degli animali. E le grandi campagne politiche che prefigurano conquiste che oggi sembrano ovvie. Per il diritto allo sciopero. Per il suffragio universale. Per la scuola elementare obbligatoria aperta a tutti. Per l’abolizione della censura sulla stampa. Per la settimana lavorativa non oltre le 48 ore. Per la salute dei fanciulli e delle donne lavoratrici. Per il superamento delle differenze abissali tra Nord e Sud. Per la tutela degli emigrati. Per la libertà religiosa e la non ingerenza del clero nella politica. Contro gli scandali della grande borghesia imprenditoriale e finanziaria. Contro le guerre coloniali dell’Italia; Per l’emancipazione femminile, la parità in famiglia e sui luoghi di lavoro. Per il voto alle donne. “Perché il voto — dice Anna Kuliscioff — è la difesa del lavoro. E il lavoro non ha sesso”. Passo dopo passo, il Partito cresce. Conquista i comuni di Milano e di Genova. Dopo il suffragio universale, dopo il 1912, ottiene 57 deputati. Nel 1919 saranno 152: il 35% dei voti. Ma c’è nel Partito anche un’anima rivoluzionaria e massimalista; Cova nel mondo una esplosione di violenza e irrazionalità. Mussolini, leader della sinistra intransigente del Partito, direttore dell’Avanti. ‘Chi ha ferro ha pane”, “la rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette”. Nel 1914, spera nella guerra levatrice della storia. Si scontra con il pacifismo dei socialisti. Fonda il Popolo d’Italia. Diventerà il capo del fascismo. La guerra è levatrice di una storia orrenda. Dieci milioni di morti. Il demone dell’irrazionalità e della violenza. Lo scatenamento di tutti gli estremismi. La fine della democrazia in mezza Europa. La rivoluzione bolscevica. Una grande speranza, un mito che durerà decenni, ma anche una grande e tragica illusione per tanta parte della sinistra, l’origine di una scissione dalla quale il movimento socialista non si riprenderà più. L’ala rivoluzionaria del Partito ubbidisce ai bolscevichi russi, vuole fare come in Russia. Al Congresso di Livorno, rompe con i socialisti e fonda- il Partito Comunista. Turati vede il pericolo delle velleità rivoluzionarie in presenza della reazione fascista. Il fascismo spazza via decenni di lotta per la democrazia e il riformismo. Le case del popolo sono incendiate, i sindacati sciolti, le cooperative cancellate. La sede dell’Avanti è devastata. Il giornale è censurato e incendiato per le strade. Il Re e la classe dirigente economica preferiscono consegnare il Paese ai fascisti piuttosto che difendere la democrazia. Mussolini prende il potere. Nel Parlamento ormai svuotato, Matteotti, capo dei socialisti riformisti pronuncia la sua ultima requisitoria contro la dittatura. “Voi ucciderete me, ma non l’idea che è in me”. I fascisti lo sequestrano e con il ritrovamento del suo cadavere non vendicato finisce la libertà in Italia. Viene ucciso anche Gobetti. Verrà ucciso Rosselli, teorico del socialismo liberale. E tanti, tanti altri. Ma, come aveva detto Matteotti, l’idea socialista non verrà uccisa. Una …

GIACOMO MANCINI, ANIMA SCOMODA DEL SOCIALISMO

Titolo originale: Addio a Giacomo Mancini, anima scomoda del socialismo di Paolo Franchi Con Giacomo Mancini se ne va un altro pezzo, e che pezzo, della storia socialista, democratica e repubblicana di questo Paese. E forse non sta bene dirlo, ma molti di noi cronisti ormai di lungo corso, di quelli che hanno scarpinato per tanti anni alla ricerca di notizie, di indiscrezioni e anche di ragionamenti, sentono anche di aver perduto un vecchio amico. Non era davvero un personaggo facile, Mancini. Ed è giusto, e naturale, che fosse così. I pezzi di storia di un mondo in cui la politica non era patinata dovevano essere per definizione complessi e contraddittori in vita. Lo restano in morte. Fu socialista. Forse neanche per scelta o vocazione, ma perché non avrebbe potuto essere altro. Suo padre, Pietro, fondatore del partito, grande avvocato, era il socialismo a Cosenza e in Calabria. Il giovane avvocato Giacomo volle raccoglierne l’eredità. Ci è riuscito appieno, ha resistito anche alla tragedia che ha squassato il socialismo italiano, e poi per sette lunghissimi anni all’accusa infamante di aver concorso, dall’esterno, all’attività criminale delle più potenti cosche calabresi: l’ultima assoluzione, dopo che per testimoniare in suo favore era sceso in Calabria il fior fiore della sinistra italiana, è del novembre ’99, e lui se ne è andato a ottantasei anni come voleva andarsene, da sindaco della sua città. Fu socialista. Ma sarebbe più giusto essere precisi e dire che, almeno fino a quando si occupò in prima persona di politica e del partito, fu socialista autonomista, nenniano, come si diceva un tempo e come si poteva essere nenniani nel Mezzogiorno e in Calabria. Alla Camera entrò nel ’48, 26 mila voti di preferenza tra la sua gente, eletto nelle liste del Fronte Popolare: ci resterà per nove legislature. Giorgio Napolitano, che come Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Rosario Villari lo conobbe negli anni delle lotte meridionaliste, ricorda Mancini come un autonomista sempre fiero delle proprie ragioni, e ostinato nel difenderle, che non fu mai, però, anticomunista. Si tratta, crediamo, di un giudizio onesto, per quel tempo e anche per le stagioni successive al 1956, quando, all’indomani della feroce repressione sovietica della rivoluzione ungherese le strade dei socialisti e dei comunisti si separarono, e Mancini fu chiamato da Nenni a occuparsi di un’organizzazione, quella del Psi, che non voleva essere più vassalla della ben più potente organizzazione di Botteghe Oscure. Fu socialista. Autonomista, nenniano, uomo di governo nel centro-sinistra, ministro nei governi Moro e nei governi Rumor. Da ministro della Sanità impose l’introduzione del vaccino antipolio Sabin, alla faccia delle resistenze burocratiche e degli interessi economici consolidati. Da ministro dei Lavori pubblici fu severo verso gli speculatori, come all’epoca proprio non usava, dopo la frana di Agrigento. Sbagliò anche, tantissimo, come testimonia il disastro del quinto centro siderurgico nella sua Calabria. Fu socialista. E quindi, ovviamente, antifascista: nel ’44, a Roma, era nell’organizzazione militare clandestina della Resistenza. Della destra missina fu uno dei bersagli prediletti. Quando il Candido di Giorgio Pisanò funse da capofila nella campagna sullo scandalo Anas. Ma anche, e molto più, una decina di anni dopo, quando Reggio Calabria quasi insorse con i «boia chi molla» di Ciccio Franco, contro Catanzaro diventata capoluogo regionale, contro Roma, contro Mancini e quello che già allora si chiamava il «mancinismo», un’idea e una pratica spregiudicate, cioè, della politica, nel tentativo di far fronte alla Dc sul suo stesso terreno. E anche in materie a dir poco delicate, come l’industria di Stato, e i servizi. Fu socialista. Autonomista, nenniano, riformista. Si battè per l’unificazione tra Psi e Psdi, ma quando questa rapidamente fallì non arrestò la sua corsa e, nel 1970, divenne segretario del partito. Durò solo un paio di anni, ma furono anni importanti. Qualcuno, più tardi, vi scorse anche una premessa, un’anticipazione della stagione di Craxi, una sorta di variante meridionale di quella politica di collaborazione sì, ma anche di competizione a muso duro con la Dc che Bettino avrebbe condotto in stile milanese. Di certo Mancini non apprezzò affatto la linea del suo successore, Francesco De Martino, di cui pure era personalmente amico: né la teoria degli «equilibri più avanzati» né, tanto meno, l’idea che il compito dei socialisti fosse essenzialmente quello di favorire l’imminente compimento dell’evoluzione del Pci. Altrettanto certamente fu lui, nel luglio del ’76, a pilotare il Comitato centrale del Midas, che dopo la sconfitta elettorale aveva defenestrato De Martino, verso l’elezione di Craxi: un po’ perché quel suo vicesegretario che conosceva così poco non gli dispiaceva, molto perché pensava che, debole come all’epoca Craxi era, sarebbe stato facile guidarlo da padre nobile. Un altro errore, in tutta evidenza. Scontato con una rapida emarginazione nel partito. Fu socialista. Autonomista, nenniano. E garantista, come a un socialista si conviene. Si battè sempre in primissima linea per i diritti civili: a cominciare dalla battaglia per il divorzio. Negli anni di piombo non si associò al fronte della fermezza contro il terrorismo, e gli furono rimproverate, in specie dai comunisti, debolezze e simpatie personali verso esponenti di primo piano dell’Autonomia. La sinistra extraparlamentare gli era lontana mille miglia: ma per libertarismo e anche per calcolo politico non le sbatté mai la porta in faccia. Fu socialista. E calabrese. E cosentino. Può darsi, come pensano in molti, che questo sia stato il suo limite più forte. Ma lui lo ha vissuto come un suo tratto distintivo, e un suo merito. Tratto dal Corriere della Sera – 9 aprile 2002 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LE VIE MAESTRE DEL SOCIALISMO

di Rodolfo Mondolfo Nel centenario della nascita di Filippo Turati, in Italia i socialisti delle distinte e contrastanti correnti si adoperarono ad onorarne degnamente la memoria con tutta una serie di pubblicazioni che ne rievocassero la nobilissima figura di uomo politico, di pensatore e di scrittore. Ma la personalità di Turati, per la sua altezza e nobiltà e per l’importanza della sua azione storica, trascende la sfora del partito di cui pure fu, per lunghi decenni e nelle alterne e fortunose vicende da esso attraversate, il più eletto e significativo rappresentante, ed assume un valore nazionale che tutti gli italiani debbono riconoscere, inchinandosi reverenti alla sua memoria. Rare volte si presentò sulla scena delle lotte politiche un intelletto e un carattere di pari nobiltà e dirittura, che abbia, come lui, considerato la partecipazione alla vita politica siccome una missione e un apostolato che esiga la dedizione intiera e disinteressata dell’uomo al servizio del suo ideale, senza risparmio di fatiche, senza timore dei rischi inevitabili, senza preoccupazione delle ostilità ed ingiurie degli avversari e dell’incomprensione e ingratitudine di molti fra gli stessi compagni di lotta, sereno e costante in mezzo alle amarezze ed alle avversità Conobbe più volte gli attacchi e le ingiurie di frazioni a lui opposte del suo partito, e conobbe le persecuzioni, il carcere, l’esilio. Nel 1898 un tribunale militare gli infligga una condanna a 18 anni di reclusione, da cui dopo 14 mesi lo liberarono la trionfale rielezione a deputato e le eloquenti manifestazioni della volontà popolare; nel 1926, a un anno dalla uccisione di Matteotti ed a breve distanza dalla morte di Anna Kuliscioff, dovette sottrarsi alle già iniziate persecuzioni fasciste con una fortunosa fuga per mare, e vivere gli ultimi suoi anni all’esilio, ove lo colse la morte nel marzo 1932. Ma di fronte a tutte le amarezze, le avversità, le persecuzioni, la sua fermezza non piegò mai, e la sua linea di condotta non subì deviazioni. Poteva dire di se stesso quello che, in un articolo del 1895, aveva scritto riguardo all’atteggiamento che doveva mantenere il partito nella lotta politica e di fronte alla reazione: “il partito non assale, ma non rincula; non provocano accolta provocazioni, ma rimane al suo posto… I suoi giornali sono sequestrati? …li sorregge con maggior lena… Si arrestano i compagni? ed esso li soccorre e li surroga. Stringe le file: uno per tutti e tutti per uno. Ogni suo atto è l’affermazione di un diritto… Dalla stessa persecuzione trae argomento per nuove propagande, dalla compressione politica fa scaturire la prova della necessità di una più vigorosa azione ed educazione politica“. Così, all’uscita del reclusorio di Pallanza, nel 1899, riprendeva la pubblicazione interrotta della sua rivista, la Critica sociale, con un articolo che s’intitolava al motto del monaco spagnolo tornato da lunga prigionia all’insegnamento: Heri dicebamus; così più tardi, nell’esilio, continuava la lotta contro il fascismo e per la libertà, ammonendo gli ingenui e fiduciosi democratici e socialisti europei, che non sentivano ravvicinarsi del nazismo, della necessità di una vigile difesa contro i pericoli che minacciavano la libertà e la civiltà universale. Sempre la sua attività politica si manteneva costante nella stessa direzione; illuminata da una profonda fede nel suo ideale e incitata dalla voce inferiore di un alto senso del dovere, che esigeva da lui il continuato sacrificio, la perseverante dedizione alla lotta. Se un nuovo Fiatone dovesse scriver oggi un nuovo Uomo politico, ben potrebbe nella vita e nell’esempio di Turati ritrovare elementi inspiratori, per disegnare la figura ideale del lottatore civile. Nella sua diuturna attività politica possiamo noi oggi riconoscere quelle caratteristiche che egli ritrovava nel 1920 al ripercorrere una raccolta di scritti suoi, riuniti da Alessandro Levi nel volume Trent’anni di Critica Sociale (Bologna, Zanichelli, 1921): “una comunità di pensiero, una colleganza ed unità ideale che avvicina e fonde gli anni, uno spirito, sempre il medesimo, che alita dentro“. Questa continuità nasceva dalla unità e costanza dell’ispirazione che egli così teorizza in uno dei suoi discorsi ai congressi: “Se interroghiamo unicamente il nostro spirito, che ha una sua propria profonda personalità continuativa, e sinceramente ne accogliamo l’ispirazione, troveremo la sola coerenza che un uomo politico debba a se stesso e alla parte nella quale milita. La sola coerenza vera e degna si trova nel carattere“. Simile eletta ispirazione morale fa dell’uomo politico un educatore che col suo esempio offre alle masse un modello di condotta sempre diretta da una profonda coscienza di responsabilità. “Noi abbiamo proclamava Turati al Congresso di Roma del 1918 un solo dovere, un dovere d’altronde assai più facile clic non sia il dare la vita per il proprio ideale: non mentire a noi stessi, non ricevere comandi che dalla nostra coscienza; sempre, di fronte alla folla che ci applaude, che ci lusinga, che ci spingerebbe a non esser noi, esser sempre sinceri. Altrimenti non siamo più un partito d’avvenire, siamo un partito decrepito, corrotto, disfatto come tutti gli altri. Ebbene, io voglio poter morire proclamando che a questi dogmi ed indizi della corruzione del mio partito io non ho dato mai il minimo contributo o consenso. Mai!“. La propaganda socialista doveva per ciò essere sopra tutto una educazione costante dello masse proletario, che lo abilitasse alla azione politica di trasformazione della struttura sociale. Contro le concezioni sindacaliste e massimalistica, che del pari vedevano nell’infatuazione del mito rivoluzionario l’unica preparazione occorrente al proletariato – una preparazione del tutto negativa, di opposizione all’organizzazione esistente per farla crollare – Turati concepiva ed affermava la necessità di un’educazione positiva da compiere in una continua creazione costruttiva di nuove forme, di nuovi rapporti, di nuove istituzioni, in cui non solo si andasse modificando la società, oggettivamente, ma si formasse la preparazione soggettiva alla gestione sociale, con l’educazione delle coscienze, con l’orientazione delle volontà, delle esigenze, delle norme di condotta. Da ciò era sorta in lui, già dai primi anni della sua partecipazione al movimento socialista, l’esigenza di un programma minimo, che si formasse via via, progressivamente, dalle rivendicazioni più urgenti ed immediate, rappresentanti avviamenti verso conquiste …

UN SOCIALISTA AL GOVERNO. GIACOMO BRODOLINI: IL MINISTRO DEI LAVORATORI

di Vittorio Valenza Negli ultimi decenni, il centrodestra e il centrosinistra,  sembrano impegnati in una non nobile competizione: demolire, pezzo dopo pezzo, l’edificio delle conquiste economiche e sociali costruito, a partire dai primi anni ’60, per impulso del Partito socialista italiano. In particolare, il bersaglio prediletto sono le leggi, vedi lo Statuto dei lavoratori e l’ordinamento previdenziale, che portano la firma di Giacomo Brodolini, “il Ministro dei lavoratori ”. Arturo Carlo Temolo Giacomo Brodolini nasce a Recanati, nelle Marche, il 19 luglio del 1920. Studente a Bologna, allo scoppio della guerra è richiamato e partecipa, come ufficiale di complemento, alle campagne di Albania e di Grecia. Rimpatriato, è trasferito in Sardegna, dove rimane fino all’armistizio dell’8 settembre ‘43. Nell’isola, conosce Emilio Lussu, uno dei fondatori del Partito d’azione. E a questo partito aderisce nel 1946. Nel 1947, dopo il deludente risultato nella consultazione per l’Assemblea costituente, il Partito d’azione si scioglie. Giacomo Brodolini, insieme a Emilio Lussu, a Riccardo Lombardi e a Francesco De Martino, è tra coloro che scelgono di continuare la milizia politica nelle file del Partito socialista italiano. Segretario della Federazione socialista di Ancona, nel 1950, Brodolini viene chiamato a Roma a ricoprire l’incarico di segretario nazionale della Federazione degli edili della Cgil, la Fillea. Cinque anni dopo, diventa vice segretario della Confederazione che, in quegli anni, è guidata da Giuseppe Di Vittorio. Nel 1960, riprende l’attività di partito e, nel 1963, viene eletto vicesegretario nazionale del Psi. Manterrà la carica anche con l’unificazione del Psi con lo Psdi, finché, il 13 dicembre 1968, diventa ministro del Lavoro nel governo guidato da Mariano Rumor. Da subito, manifesta i suoi intendimenti. Trascorre la notte del Natale del ‘68 nella tenda piantata davanti a Montecitorio dagli operai della Apollon, una fabbrica a rischio di chiusura. È l’occasione per dimostrare di non essere il solito ministro della mediazione, ma di stare “da una parte sola, dalla parte dei lavoratori”. Pochi giorni più tardi, il 4 gennaio del 1969, è la volta di Avola. Nel paese agricolo della Sicilia, nel corso di scontri tra la polizia e i braccianti, due lavoratori erano stati uccisi. Giacomo Brodolini accorre. Porta solidarietà ai braccianti in lotta e annuncia la sua volontà di costruire una legge, uno “statuto” che affermi e protegga i diritti dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Nei sei mesi successivi – il governo Rumor cadrà, infatti, il 5 luglio del ’69- benché già gravemente malato, tanto che morirà l’11 luglio, la sua azione è travolgente: Giacomo Brodolini si conquista un posto nella storia. Realizza o avvia una serie di riforme sociali che è poco definire decisive e che tuttora rappresentano delle vere e proprie pietre miliari sulla strada dell’emancipazione dei lavoratori: l’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali”, la storica riforma delle pensioni, con il passaggio rivoluzionario dal sistema “a capitalizzazione” a quello “a ripartizione”; la riforma del collocamento con l’eliminazione del cosiddetto “caporalato”, cioè dell’odioso mercato della manodopera, il risanamento del sistema mutualistico e, infine, quello che è ancora un fondamentale punto di riferimento: lo Statuto dei lavoratori. Leggi e ordinamenti, bollati come “marxisti” dall’allora leader liberale Giovanni Malagodi, che hanno consentito di “alzare il capo” a chi fino allora lo aveva dovuto chinare. Infatti, anche e soprattutto grazie alla sua opera furono messi al bando l’intimidazione, i ricatti, le repressioni e il selvaggio sfruttamento che, come Pietro Nenni aveva denunciato aprendo i lavori del XXI congresso del Psi, nell’aprile 1955, ancora segnavano la vita dei lavoratori nelle fabbriche e nei campi. Per questo, Giacomo Brodolini non fu un Ministro del lavoro, bensì “il Ministro dei lavoratori”. Le riforme dei socialisti con il centro sinistra L’ingresso del Partito socialista italiano al governo produsse, negli anni ’60, una decisa modernizzazione del cosiddetto welfare state italiano. Le riforme introdotte riuscirono a colmare i gravi divari che separavano la legislazione sociale italiana da quella degli altri principali paesi europei. Gli anni ‘60 rappresentano, dunque, un momento di grande miglioramento nelle condizioni di lavoro e di vita della classe lavoratrice. Molte furono le riforme, gli ordinamenti e i cambiamenti che ebbero come finalità la ridistribuzione del reddito e della ricchezza. Ci limitiamo, qui, a elencare i principali provvedimenti di carattere sociale realizzati tra il 1962 e il 1973. Anno 1962: Legge numero 167 del 18 aprile: nuove norme sulle aree edificabili contro la speculazione e a favore dell’edilizia economica; Legge numero 1338 del 12 agosto: introduzione della tredicesima mensilità e delle aggiunte di famiglia per i pensionati; Legge numero 1859 del 31 dicembre: estensione dell’obbligo scolastico fino ai 14 anni e istituzione della scuola media unificata. Anno 1963: Legge numero 15 del 19 gennaio: estensione della tutela contro le malattie professionali agli artigiani; Legge numero 77 del 3 febbraio: creazione della gestione speciale per l’edilizia nell’ambito della Cigi (Cassa integrazione guadagni per l’industria); Legge numero 60 del 14 febbraio: abolizione dell’Ina-Casa e istituzione della Gestione case per i lavoratori italiani (Gescal); Legge numero 80 del 14 febbraio: introduzione del presalario; Legge numero 260 del 26 febbraio: estensione dell’assicurazione sanitaria obbligatoria agli artigiani pensionati; Legge numero 329 del 26 febbraio: introduzione dell’assistenza farmaceutica gratuita; Legge numero 389 del 5 marzo: introduzione di uno schema assicurativo volontario per le casalinghe. Anno 1965: Legge numero 1124 del 30 giugno: Testo unico delle norme in materia di infortuni e malattie professionali; Legge numero 903 del 21 luglio: rivalutazione delle pensioni, introduzione delle pensioni d’anzianità, istituzione della pensione sociale. Anno 1966: Legge numero 129 del 29 marzo: aumento dell’indennità ordinaria della Cassa integrazione guadagni dell’industria; Legge numero 613 del 22 luglio: estensione dell’assicurazione sanitaria obbligatoria ai commercianti. Anno 1967: Legge numero 369 del 29 maggio: estensione dell’assicurazione sanitaria obbligatoria ai coltivatori diretti e ai disoccupati; Legge numero 587 del 14 luglio: estensione degli assegni familiari ai coltivatori diretti, mezzadri e coloni; Legge numero 765 del 6 agosto: provvedimenti urgenti per l’edilizia, nuovi vincoli sulle aree edificabili. Anno 1968: Legge numero 132 del 12 febbraio 1968: riforma della Sanità e trasformazione degli ospedali da Ipab a enti ospedalieri; Legge numero 44 …