EROE TUTTO PROSA

di Carlo Rosselli L’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) determinò la partecipazione piena e intensa di Carlo Rosselli (che già prima aveva dimostrato interesse per le lotte politiche e sociali) alla battaglia antifascista. Su Matteotti scrisse e parlò più volte; tra i vari saggi scegliamo questo che non solo è il più completo, ma accenna alle sue relazioni personali col martire socialista. (Dall’Almanacco Socialista 1934) Matteotti è diventato il simbolo dell’antifascismo e dell’eroismo antifascista. In qualunque riunione si faccia il suo nome, il pubblico balza in piedi o applaude. Comitati Matteotti, Fondi Matteotti, Circoli Matteotti, Case Matteotti. Matteotti, come l’ombra di Banco, accompagna Mussolini. E Mussolini lo sa. Eppure, nessun uomo fu meno simbolo, meno “eroe“, nel senso usuale dell’espressione, di Matteotti. Gli mancavano per questo le doti di popolarità, di oratoria, di facilità che creano nel popolo il feticcio; e la sua vita breve non registra neppure uno di quei gesti drammatici che colpiscono la fantasia e promuovono ad “eroe” il semplice mortale. Matteotti possedeva però in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari: il carattere. Era tutto d’un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione, e con ostinazione le applicava. Quando lo conobbi a Torino insieme a Gobetti ricordo che entrambi rimanemmo colpiti dalla sua serietà e dal suo stile antiretorico e ci comunicammo la nostra impressione. Era magro, smilzo nella persona, non assumeva pose gladiatorie, rideva volentieri, ma da tutto il suo atteggiamento e soprattutto da certe sue dichiarazioni brevi si sprigionava una grande energia. L’antifascismo era in Matteotti un fatto istintivo, intimo, d’ordine morale prima che politico. Tra lui e i fascisti correva una differenza di razza e di clima. Due mondi, due concezioni opposte della vita. In questo senso egli poteva dirsi veramente l’anti-Mussolini. Le astuzie tattiche e oratorie di Mussolini restavano senza presa su Matteotti. Quando Mussolini parlava alla Camera entrando in quello stato di eccitazione morbosa che pare contraddistingua la sua oratoria e possa esercitare un fascino magnetico, Matteotti, pessimo medium, restava impenetrabile e ai passaggi goffi rideva col suo riso un po’ stridulo e nervoso. Quando invece era Matteotti a parlare, Mussolini gettava fiamme dagli occhi. Eppure Matteotti non era eloquente; o per lo meno la sua eloquenza era tutto l’opposto dell’oratoria tradizionale socialista. Ragionava a base di fatti, freddo, preciso, tagliente. Metodo salveminiano. Quando affermava, provava. Niente esasperò più i fascisti del metodo di analisi di Matteotti che sgonfiava un dopo l’altro tutti i loro palloni retorici. Abbiamo lasciato 3.000 morti per le strade d’ Italia, tuonava Mussolini – Pardon, 144, secondo il vostro giornale, replicava Matteotti. Il fascismo ha messo fine agli scioperi, Le ferrovie camminano. L’autorità dello Stato è stata restaurata. Matteotti, tra la stupefazione dei fascisti, interrompeva per rinfacciare al duce gli articoli del ’19-20 inneggianti agli scioperi, alla invasione delle fabbriche, delle terre, dei negozi. Dopo la famosa requisitoria di Matteotti contro i metodi elettorali fascisti (maggio 1924) gridata alla Camera tra altissime minacce e interruzioni, Mussolini pubblicò il 3 giugno sul “Popolo d’Italia” il seguente corsivo: “Mussolini ha trovato fin troppo longanime la condotta della maggioranza, perché l’On. Matteotti ha tenuto un discorso mostruosamente provocatorio che avrebbe meritato qualche cosa di più tangibile che l’epiteto “masnada” lanciato dall’On. Giunta“. L’8 giugno il giornale dichiarava che “Matteotti è una molecola di questa masnada che una mossa che una mossa energica del Duce penserà a spazzare“. Il 10 giugno Dumini, Volpi e Putato spazzavano…. 3 gennaio 1925 Mussolini dichiarava: “Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo perché aveva una certa cranerie un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere la tesi? “. Due cose colpiscono in questa disperata difesa: il “morbosa follia” che tocca uno degli aspetti della personalità mussoliniana Mussolini è intelligentissimo, ma la sua intelligenza si innesta su un fondo psicopatico, ed il “mi rassomigliava“. Dopo l’assassinio, Mussolini è stato costretto ad ammirare Matteotti. Ma Matteotti ha sempre disprezzato Mussolini. Il socialismo di Matteotti fu una cosa estremamente seria. Non l’avventura del giovane borghese eretico che è rivoluzionario a venti anni, radicale a trenta (matrimonio + carriera), forcaiolo a quaranta. No.  Fu una consapevole e maschia elezione del destino. Nato ricco, dovette superare le difficoltà che ai socialisti ricchi giustamente si oppongono. Non lo superò con le sparate demagogiche, con le rinunce mistiche, o profondendo denari in banchetti elettorali o in paternalismi cooperativi e sindacali. Ma partecipando in persona prima al moto di emancipazione proletaria, costituendo libere istituzioni operaie, organizzando i contadini delle sue terre ai quali dirigeva manifesti di una sobrietà che era poco in uso attorno al ’19. Solo a un temperamento del suo stampo poteva venire in mente, nel corso delle elezioni del 1924, di scendere in Piazza Colonna con un pentolino di colla ad appiccicare sotto il naso dei fascisti i manifesti elettorali del partito che erano stati tutti stracciati. Matteotti, l’economista, il giurista, il ricco Matteotti appiccicava manifesti, scorazzava l’Italia per mettere in piedi le traballanti organizzazioni. Saltava dai treni, si travestiva per sottrarsi agli inseguimenti fascisti, prendeva con disinvoltura le bastonate e, nel pieno della lotta, faceva una punta a Asolo per i funerali della Duse rientrando poi in camion coi fascisti, perché cosi spiegò, gli pareva giusto che il proletariato italiano fosse rappresentato ai funerali della Duse. Quanto al camion fascista era stato necessario servirsene per essere presente a una adunanza del partito. Se i fascisti lo avessero riconosciuto sarebbe stata la fine. Ma Matteotti scherzava ormai con la morte, con grande orrore dei compagni posapiano. Era fatale quindi che morisse l’antifascista-tipo Matteotti, eroe tutto prosa. Come dovevano morire nello stesso torno di tempo Amendola e Gobetti. Come dovranno morire, se non li salveremo, Rossi, Gramsci, Bauer e molti altri Matteotti che si sono formati in questi anni. Tutti caratteri, psicologie, che sono l’opposto del carattere e della sensibilità mussoliniana. Mussolini …

UN PICCOLO CONTRIBUTO SU GRAMSCI

di Domenico Argondizzo Su «La Stampa» del 5 – 6 febbraio 1920 apparve in prima pagina un articolo senza firma dal titolo Al potere!, dal quale merita trarre alcuni passaggi. “[…] Noi, per parte nostra, non vediamo la forza per conquistare il potere, quando continuino a operare isolati, in nessun gruppo borghese, in nessuna categoria proletaria. Ma dove i massimalisti, dal negare tale forza agli altri e dal non riconoscerla in sé, si mortificano in un ascetico isolamento nell’attesa mistica del grande avvento che la conceda tutta a loro; noi dal non vederla particolarmente in nessuno tiriamo a fil di logica la sola conseguenza che l’uomo politico ne può dedurre: bisogna unirsi per lavorare insieme. Non è dunque paura del socialismo che ci fa parlare. La salita dei socialisti al potere ci atterrisce così poco, che se riconoscessimo in essi la forza per attuare il grandioso programma di ricostruzione e di rinnovamento che ci brilla dinanzi, saremmo lieti del loro salire. Perché noi vogliamo le stesse cose ch’essi vogliono. Le loro grandi riforme sono le nostre riforme. Essi vogliono abbattuto il militarismo, risanata l’Europa, ricostruita la ricchezza. Anche noi lo vogliamo. Nessuna riforma ci spaventa. Nemmeno le più ardite che tocchino il capitale. Vogliamo solo che non si distrugga la ricchezza e la fonte eterna generatrice della ricchezza. Il capitale è per la collettività. Ma poiché per vivificarne la collettività bisogna prima crearlo, noi cerchiamo che non sia soppressa la più efficace di tutte le molle: l’interesse privato. Lo Stato – solo che voglia – ha poi modo di far ritornare, in un breve giro di generazioni, tutta alla società la ricchezza che l’individuo con il suo lavoro e il suo risparmio ha creato ed accumulato. Hanno i socialisti in questo momento storico la forza per salire ai potere? Per confessione unanime di essi stessi, e per constatazione universale, da soli no. Consigliar pertanto di salire al potere per attuare le più audaci riforme e per salvare l’Europa, è una mera predica, se dalla necessità del salire chi predica così bene non ne deriva anche l’ultima fatale conseguenza: la necessità di collaborare. […] Dunque, collaborare. Collaborare con chi? Evidentemente con gli uomini e con i gruppi borghesi più vicini al proletariato. Con quelli il cui passato dà garanzia del loro avvenire. Non certo con gli amici d’occasione. Sono numerosi in questo momento. Solo che si accostano oggi per tradire domani. Ma chi vi infonde fiducia per la sua opera e per il suo pensiero della sua vicinanza con voi, della spiritual sua comunione con voi, questi non solo ha diritto, ma deve collaborare con voi, come con tutti gli amici vostri, onorevole Treves. Questi tali non diciamo di essere noi, e tanto meno noi soli. Asseveriamo soltanto che tali gruppi borghesi ci sono. Nessuna visione politica più falsa e più sterile che ridurre tutti coloro che non sono proletari allo stesso denominatore. Ora se tutti coloro che non sono proletari non si possono accomunare sotto il medesimo epiteto; se anzi molti gruppi borghesi coltivano le stesse idealità e proseguono le stesse riforme che desiderano tutti i proletari e vogliono moltissimi socialisti; e se, d’altra parte, nessuno di codesti gruppi, borghesi o proletari, saprebbe da solo attuare ciò che vuole, la logica e l’interesse portano inesorabilmente codeste volontà e codeste forze all’unione per l’intento comune. Sarebbe il più dannoso e il più spaventoso degli assurdi che, mentre l’Europa è un deserto, mentre l’Italia è una rovina e tutti stiamo per essere travolti, un pregiudizio teoretico – e soltanto esso – ci facesse rinunciare a far catena delle mani per salvarci tutti. Per il miraggio di una trasformazione completa e subitanea della società che noi tutti – noi ai pari di voi – sappiamo che non avverrà mai in tale modo, per un tale miraggio sarebbe non solo antiumano, ma pazzesco non stendere le mani. L’esempio della Russia e dell’Ungheria deve pure insegnare qualche cosa. Non sappiamo quali ammaestramenti politici e quali deduzioni tattiche l’on. Morgari abbia portato dal suo viaggio in Ungheria. Non certo però egli deve avere rafforzato la sua coscienza nella possibilità storica del comunismo. Se infatti avesse rassodato tale persuasione, lo avrebbe subito detto. Se tace è perché deve tacere. Tace perché la visione di dolori e di mali che ha negli occhi ha rovesciato le sue credenze, e perché egli ha acquistato la certezza che in Italia, come in Ungheria, come in tutta Europa, il comunismo, nel momento storico che attraversiamo, non potrebbe inaugurare i suoi esperimenti se non accumulando rovine su rovine. Qui è il dilemma in che si dibattono i massimalisti. Dilemma che diventa tragico per gli uomini di coscienza e di esperienza come l’on. Morgari. O i massimalisti, nella consapevolezza di non poter attuare il proprio programma, s’accontentano di predicare, e allora s’addormentano nell’inazione; o, nell’insofferenza del presente passano all’azione, e allora per dar vita al proprio sogno seminano stragi. Nell’un caso e nell’altro non escono dal male, anzi lo rendono sempre più grave. Ma il proletariato, che non è i massimalisti e nemmeno i rivoluzionari, ma è semplicemente uomini che spasimano della situazione presente, il proletariato non vuole aggravi sulle sue spalle. I massimalisti che si pascono di illusioni possono attendere; il proletariato che vive di realtà vuole a tutti i costi essere alleggerito dai suoi mali. Non è la prima volta che i monaci di una dottrina schiacciano i loro fratelli per amore di essa; ma il proletariato non ha nessuna voglia di farsi schiacciare per il trionfo del monachismo massimalista. Nel suo profondo realismo il proletariato vede nettamente come la ricostruzione dell’Europa ha tendenze e forme socialistiche. Tendenze e forme che realizzano quello che del socialismo è storicamente attuabile. Il proletariato sente – sia pur in confuso – ch’esso ha una grande opera storica da compire. Un’opera che solo non può compiere, ma che non per ciò è meno grande e meno sua, e che non per ciò egli si rifiuta di compiere. L’opere gigantesca di Cavour e di Bismarck …

COSI’ UMBERTO II TRAMO’ CONTRO L’ITALIA

Il 15 marzo del 1983 Riccardo Lombardi prese la parola in Parlamento per impedire il ritorno in Italia di Umberto II, ormai in fin di vita (sarebbe morto a Ginevra tre giorni dopo quel discorso). Non si trattò di una postuma vendetta di un vecchio capo della Resistenza né di un eccesso da “estremista” repubblicano. Tutto ruotava intorno alla XIII disposizione transitoria e finale che all’epoca era in vigore in tutte le sue parti recitando così: “I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli”. L’11 luglio del 2002, la Camera dei deputati con il voto a favore di 347 deputati ha reso inefficaci i primi due commi consentendo ai discendenti di Umberto II di rimettere piede nel paese d’origine. Ma per quello che alla storia è passato come il “re di maggio” la questione era più complessa perché Umberto molto si era prodigato per suscitare nel paese reazioni di tipo eversivo, facendo interdizione, ritardando dopo il voto l’uscita di scena, cercando sponde nazionali e internazionali per la realizzazione dei suoi progetti di rivincita, arrendendosi alla fine con un proclama che di fatto metteva in discussione la legittimità della neonata Repubblica. E pur di non riconoscere la legittimità della nuova forma istituzionale, preferì partire in esilio, alla volta del Portogallo. Nessuno gli aveva ancora inflitto quella “condanna”, tanto è vero che la XIII disposizione transitoria e finale sarebbe arrivata soltanto un anno e mezzo dopo. Questo intervento di Lombardi, ultimo sopravvissuto tra i protagonisti-testimoni di quelle vicende, è una piccola lezione di storia nazionale che sarebbe opportuno rivisitare anche a scuola dove la figura del “re di maggio” viene presentata in una veste sin troppo accettabilmente romantica. Quell’intervento parlamentare fu, come sottolinea lo stesso autore, una grande fatica: le condizioni di salute del leader stavano peggiorando e poco più di un anno dopo sarebbe scomparso. Si sottopose alla “fatica” per fedeltà ad antichi e incrollabili principi, gli stessi che quattro anni prima avevano convinto Pietro Nenni a farsi portare a braccia alla seduta inaugurale del Senato pur di evitare che il diritto di anzianità attribuisse a un fascista il privilegio di presiedere la seduta di inizio legislatura. I medesimi principi che ispirano questa Fondazione sin dalla nascita e che sempre la ispireranno. di RICCARDO LOMBARDI* Lombardi Riccardo. Signor presidente, onorevoli colleghi, ignoro quali siano il valore e la consistenza dei nuovi propositi annunziati dal relatore, onorevole Bozzi, e discussi in Commissione affari costituzionali, forse, se ci fossero stati esposti, avremmo potuto cominciare fin da oggi a prenderne atto e discuterne. La probabilità che queste nuove proposte rendano inutile la discussione di oggi mi pare sia grande. E di tempo da perdere non ne abbiamo molto, in questa Camera. Riccardo Lombardi Comunque, allo stato degli atti, la proposta di fronte alla Camera è quella della Commissione, cioè essenzialmente la proposta di legge Bozzi-Mammì, e su di essa, a giudicare anche e soprattutto dalla seduta precedente (l’unica fino ad oggi dedicata a questo argomento), abbiamo constatato una singolare distorsione tra chi ha pensato di proporre la legge di abrogazione della XIII disposizione, pensando che come sottoprodotto, come conseguenza indiretta, l’abrogazione sarebbe stata un atto di umanità verso un uomo anziano e sofferente, e chi, al contrario (lo ricaviamo sempre dalla seduta precedente e dal dibattito che si è svolto sulla stampa) non vuole consentire all’ex re di passare gli ultimi giorni della sua vita in Italia, provvedendo allo scopo ad una modifica costituzionale. Devo dire che questa singolare inversione di termini è stata resa, in modo evidentissimo dall’incredibile intervento del ministro Darida (nella seduta precedente), allorché abbiamo assistito a stravolgimenti davvero sorprendenti, arrivati al punto di suggerire una modifica della Costituzione per decreto legge. Veramente siamo fuori dalla logica ordinaria ed anche dal modo comune di esprimere i propri propositi! Quindi per il momento dobbiamo discutere sul progetto presentato alla Camera ed io non ho che da perdere pochissimi minuti in una discussione che, tra l’altro, affronto con fastidio. Sono guidato soltanto dalla considerazione secondo la quale mi sembra che, nella polemica pubblica e, in parte, nel dibattito già svoltosi in questa Camera, si sia dimenticata una questione elementare, vale a dire che l’ex re Umberto non è stato affatto esiliato, ma si è auto-esiliato. Bisogna ricordare che il giorno 13 giugno 1946, allorché dopo le vicissitudini alle quali accennerò, egli si decise ad accettare, o per lo meno a prendere atto del responso del referendum, nessuno lo obbligò a partire. La XIII disposizione transitoria e finale fu discussa e approvata 18 mesi dopo la partenza dell’ex re. Si era nel giugno del 1946 e la Costituzione della Repubblica, con i suoi articoli che escludevano il rientro in patria del Savoia, è del dicembre 1947. Non esiste quindi un decreto della Repubblica che abbia allontanato il Savoia o i Savoia. Egli si è autoescluso e questa è la conclusione che rende a mio giudizio incomprensibile una revisione della XIII disposizione improponibile per ragioni morali e politiche, improbabile forse per ragioni giuridiche. Mi consentirete ancora alcuni minuti per dirvi che, purtroppo dei membri del Governo che presiedettero alla transizione dalla monarchia alla Repubblica sono il solo superstite in questa Camera, tutti gli altri sono morti. Io sopravvivo e sono l’ultimo testimone di una fase che fu drammatica – non fu pacifica, Mellini – e rappresentò minacce dirette, sentite come tali da uomini rispettabili come De Gasperi e Brosio. Cosa è accaduto? È accaduto che negli otto giorni che trascorsero tra l’annuncio del risultato del referendum e la decisione da parte del re, di …

LE 8 ORE

Guardato da lontano, il primo maggio è una grande protesta. Il proletariato dice alla borghesia: è da un secolo che i tuoi «Diritti dell’uomo» han proclamato che eguaglianza, libertà, proprietà, resistenza all’oppressione, proporzionalità delle imposte, controllo ai pubblici affari sono diritti imprescrittibili d’ogni cittadino. E mai come ora fummo schiavi, spropriati, avviliti, reietti nelle cariche, mai fu così acuta la lotta delle classi, e le imposte, a confessione dei tuoi economisti, non pesano, in ultima analisi, che sui nullabbienti. Ci dicesti che la grande industria era un benefìcio comune, che eravamo ignoranti a pigliarcela colle macchine che ci gettavano sul lastrico: e mai come ora infuriano le crisi, la disoccupazione, e gli operai furono posti al dilemma di limosinare o rubare. […] Guardato più da vicino, nel suo significato preciso, il primo maggio significa protezione dei diritti del lavoro: otto ore di lavoro, otto ore di sonno, otto di riposo e d’istruzione e – aggiungono gli inglesi – otto scellini al giorno. Pretesa che in Italia oggi parrebbe una follia! È possibile, in tesi generica, la riduzione ad otto ore di lavoro? Coi progressi dell’industria meccanica moderna che produce in un’ora quel che un tempo si produceva in una settimana, sarebbe possibile la giornata di due ore. Basterebbe fosse posto un po’ di ordine in questo immenso disordine borghese; sopprimere la caterva innumerevole della burocrazia, dell’esercito, dei ricchi oziosi, di tutti i mangiapane a tradimento, non occupati ad altro che a divorare il comun retaggio. Ma stiamo sul terreno dell’oggi! Marx definisce la lotta per la limitazione della giornata di lavoro una secolare querra civile che si combatte da tre secoli per la civiltà. Bisogna comprendere il meccanismo della produzione moderna. È chiaro che nell’economia a schiavi la lotta per le otto ore non è possibile. Lo schiavo lavorava poco, il padrone lo trattava bene come si tratta un bove o un cavallo che, se muore, costa dei quattrini a sostituirlo. Nel medio evo non c’erano quasi salariati, non c’era proletariato, non c’era possibilità di crisi. Gli operai inglesi, due secoli fa, avevano la giornata di otto ore e lavoravano quattro giorni alla settimana. Allora viceversa, facevansi leggi per prolungare la giornata di lavoro e limitare le mercedi. La grande industria rivoluzionò tutto questo. Il capitalista non ebbe più che uno scopo: produrre ad oltranza, non della merce ma del profitto netto. Curioso gergo questo del capitale! Si chiama profitto netto ed è il più sporco che si potesse inventare. […] Or dunque il profitto netto non si ottiene che col sopralavoro, col lavoro non pagato. Se il capitalista pagasse tutto il prodotto del lavoro è chiaro che nulla resterebbe per lui. Egli dovrebbe mettersi a lavorare per vivere. Ciò è essenzialmente contrario al principio borghese, il quale proclama la moralità del lavoro degli altri. Il sopralavoro voi lo vedete ad occhio nudo nella mezzadria per esempio. Qui è evidente che il mezzadro lavora tre giorni per sé e tre giorni per il padrone. Nel lavoro delle industrie è meno palese, ma il fenomeno è sempre lo stesso. L’interesse del proprietario è aumentare quanto più può la giornata di lavoro e scemare la mercede. L’interesse del lavoratore è diminuire la giornata e aumentare la mercede. Questo è ciò che si chiama l’armonia degli interessi, la solidarietà fra lavoro e capitale. […] Il paese che prima ottenne ed applicò seriamente la legge delle otto ore è l’Australia. Ivi, ogni 21 aprile si celebra quella data memoranda. E gli effetti superano le migliori previsioni. Nell’Italia del Popolo di ieri avete tutti potuto leggere quel che ne dice il Rae, un economista tutt’altro che eterodosso. Nessun danno ne ebbe la produzione, gran vantaggio i lavoratori. Per effetto delle otto ore crebbe una classe di operai che per le qualità morali e l’intelligenza sorpassa ogni ramo della razza anglo-sassone e di cui al mondo non s’è mai vista l’uguale per l’amore alla vita, il buon umore, il benessere. Malgrado tutto ciò, si fanno alle otto ore obiezioni parte serie, parte ridicole. Le obiezioni più serie, almeno in apparenza, sono le seguenti: minor lavoro, dunque minor salario, -se salario uguale o maggiore, merci più costose – quindi danno pel capitalista e vantaggio illusorio pel lavoratore che dovrà pagare più caro le sussistenze. Inoltre la concorrenza estera ucciderà le nostre industrie, quindi crisi, disoccupazione, nuovi ribassi del salario, ecc. ecc. I fautori passionati delle otto ore sostengono che il tempo più breve fa il lavoro più intensivo e quindi più produttivo. Il lavoro a cottimo dimostra come l’operaio possa produrre in minor tempo una somma di lavoro maggiore della normale. I salari non caleranno perché l’orario più breve costringerà ad impiegare i disoccupati scemando l’offerta del lavoro (veramente questi due argomenti in parte si elidono a vicenda). E quanto alla concorrenza estera, vi si provvede con leggi internazionali. In codeste osservazioni vi è del vero e dell’esagerato. Il lavoro più breve è più intensivo nei lavori a mano; non lo è, o ben poco, nei lavori la cui celerità è determinata, dalla macchina. Per questi l’orario più breve obbligherebbe a reclutare i disoccupati e quindi rialzerebbe i salari. Ma ogni qualvolta si rialzano i salari o si abbreviano gli orari, il capitale se ne rifà, imprimendo maggiore sviluppo alle macchine o inventandone di nuove. Molte invenzioni meccaniche non ebbero altra cagione. Per cui il vantaggio degli operai, perché sia duraturo, dev’essere mantenuto dalla compattezza della resistenza. Certo è che i paesi, come l’Inghilterra l’America e l’Austria dove le giornate sono più brevi, sono anche più ricchi, hanno operai più abili e salari più alti. E lo sviluppo del meccanismo rovina solo i piccoli industriali, affrettando l’evoluzione del sistema di produzione verso il collettivismo. […] Ma i massimi vantaggi delle otto ore sono nel campo morale. È per questa via indiretta che esse conducono alla redenzione economica. Ed è per questo che son tanto temute. «Il lavoro è un freno», diceva Guizot, e il lavoro troppo lungo prostra, deprime, inebetisce. Esso è il migliore dei carabinieri. …

“TURATIANA”

di Palmiro Togliatti Queste note (non firmate sulla rivista ma stese di pugno da Togliatti) sono la introduzione a una raccolta di “fatti” e documenti su Filippo Turati pubblicati nel 1932, su “Lo stato operaio”, la rivista teorica del PCI, nella rubrica “per la storia del movimento operaio”. Turati, morto esule e poverissimo in Francia, viene descritto come un capo socialista “fra i più disonesti”, tra “i più corrotti dall’opportunismo”, “veicolo” continuo di corruzione parlamentare. In tutto quello che la stampa socialdemocratica ha detto su Filippo Turati, sulla sua vita e sulle sue opere, e, particolarmente, nella leggenda che essa mette in giro, secondo la quale Turati sarebbe il capo, il maestro, il messia del movimento operaio e della lotta di classe in Italia, vi è solamente questo di vero: che nella persona e nella attività di Turati si sommarono e toccarono una espressione completa di tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo fecero deviare dagli obiettivi rivoluzionari del movimento operaio, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può ben essere presa come un simbolo, e come un simbolo è la insegna del tradimento e del fallimento. Tradimento degli interessi, delle aspirazioni, degli ideali di classe del proletariato. Una vita intera spesa per cercar di fare argine alla lotta di classe rivoluzionaria e al suo corso inesorabile, per tentar di porre un freno allo sviluppo della azione autonoma della classe operaia per la propria emancipazione. Una intera vita politica spesa per servire i nemici di classe del proletariato, per servirli nel seno stesso del movimento operaio. E, alla fine, il benservito da parte dei borghesi nella forma della eliminazione dalla vita politica del paese, nella forma della violenza e dello scherno. Tutta la vita per dare scacco alla rivoluzione, per preservare l’ordine, la tranquillità, la pacifica esistenza del capitalismo e delle sue istituzioni, e, alla fine, la impotenza pietosa, querula, dell’esilio. L’apparenza è quella di un destino tragico. La sostanza è quella di un fallimento. In realtà se è vero che noi, Partito comunista, considerandoci gli eredi e i continuatori di tutto ciò che di sano e di vitale vi fu anche nelle correnti non rivoluzionarie del movimento operaio, possiamo trovare nella vita di alcuni tra i vecchi capi socialisti italiani dei motivi, degli elementi, di cui ci piace considerarci e di cui siamo i continuatori, è ben vero però che nella attività di Filippo Turati siffatti motivi ed elementi ci è impossibile trovarli. Nella teoria Turati fu uno zero. Quel poco di marxismo contraffatto che si trova nei primi anni della Critica sociale non fu dovuto a lui. Dei vecchi capi riformisti egli fu il più lontano dal marxismo, più lontano persino di Camillo Prampolini. Questa lontananza dal marxismo appare molto più evidente in lui che negli altri, che avevano meno pretese. Nemmeno è esatto dire che egli sia stato un marxista revisionista, perché nei revisionisti vi era stata, dimeno inizialmente, una certa adesione al marxismo, che in lui non vi fu mai, e perché buona parte dei revisionisti, per arrivare a dare delle interpretazioni aberranti del pensiero scientifico e politico di Carlo Marx, ne avevano almeno studiate le opere, cosa che è discutibile se Turati avesse mai fatto. Del marxismo egli ignorò sempre la precisione dei concetti e delle leggi, il rigore dei ragionamenti, la intransigenza ideologica. Nei suoi scritti e nei suoi discorsi è affienissimo trovare un concetto del marxismo il quale non sia tarpato, snaturato, deturpato da ogni sorta di limitazione, di contaminazione con ideologie opposte e nemiche, di critiche aperte o nascoste, di enorme stupidità letteraria. Il suo stile stesso, dove cerca di avvicinarsi alla semplicità lapidaria e alla densità di pensiero dello stile di Marx, riesce una parodia dell’originale. Le famose frasi lapidarie di Filippo Turati, quelle con le quali egli fece fortuna nei congressi sodanti, davanti a quel pubblico di brava gente ignara e di birbe e furbi matricolati, sono dei motti di spirito non sempre geniali, dei trucchi ideologici grossolani, dei giochi di parole, delle banalità, delle cose senza senso alcuno. Dei suoi famosi discorsi, il miglior giudizio venne dato, in forma molto popolare e incisiva, da Costantino Lazzari, al Congresso del Partito socialista, a Milano, nel 1921: “C’è dentro un caos tale, che si resta sbalorditi“. Intellettualmente la miglior cosa che si possa dire di Turati è che egli fu un intellettuale italiano di media levatura, con i difetti marcati di questa categoria. Un rètore sentimentale, tinto di scetticismo, e per questo, nelle apparenze, un ribelle. Il brutto e che egli non voleva fare della letteratura, ma della politica. Il punto di partenza della attività politica di Turati deve essere cercato nella incomprensione e negazione della parte che spettava e spetta al proletariato nella società capitalistica italiana, come forza motrice e dirigente della rivoluzione. Il punto di partenza, cioè, è nettamente opposto al marxismo. Il vecchio Federico Engels, in alcune cose scritte negli ultimi anni della sua vita, avvertiva e denunciava l’errore e ammoniva che la rivoluzione italiana non poteva essere che una rivoluzione proletaria e socialista, nel radicale senso che Marx dava a questa parola. Per Turati e per la Critica sociale la questione non si pose mai così, ma si pose sempre solamente nel senso di una trasformazione delle istituzioni politiche borghesi, di una attenuazione delle più flagranti ingiustizie sociali, di una maggiore libertà ed equità, e di una eliminazione, per questa via, dei contrasti di classe. Il programma di una borghesia illuminata. Lo spirito che animava Turati nella lotta contro la oppressione e la ingiustizia sociale appare anzi persino come uno spirito conservatore, come lo spirito di chi vuole far sparire le ingiustizie sociali, perché vede e teme che da esse finirà per sorgere, per la reazione delle masse, un moto rivoluzionario, il sovvertimento dell’ordine. Un disegno che ritrae Palmiro Togliatti Nei suoi discorsi al Parlamento le affermazioni in questo senso ritornano ad ogni …

FASCISMO OGGI

di Maria G. Vitali-Volant Io penso che si stiano passando i limiti di un serio confronto democratico e da ogni parte intravvedo odio e strumentalizzazioni Questo non giova al nostro paese così fragile e che si dibatte con problemi come la povertà, la disoccupazione, l’aggerssività, il disamore per la politica vera, per il nostro passato etc. Etc. Penso che si debba ammettere di stare vivendo un periodo “sopra le righe”. I sospetti ci mangiano lo spirito, i colpi bassi e volgari ci avvelenano l’esitenza. I rapporti statistici però ci sbattono in faccia la realtà. Come ne usciremo? Ci sono tanti colpevoli che non vogliono fare passi indietro, che sono sempre sulla scena costi quel che costi etc. Questi rigurgiti fascisti sono la radicalizzazione semplificata della situazione. Io sarei andata alla manifestazione di Como se fossi stata in quel posto, anche ribollendo contro chi ha il potere di cambiare le cose e non lo fa per egoismo e rabbia cieca. Questo so e mi dispiace assistere a questo spettacolo di distruzione della politica. Riflettiamo e apriamo al dialogo, sempre. Guardate, anche con quegli 11 figuri che non conosciamo. Restare seduti a guardare non serve, forse bisognava dire loro: Sedetevi e parliamo. Forse sbaglio ma non sono per le chiusure. Ma questo “fascismo” non è quello di un tempo, sta a noi capire cosa sia e da dove viene e come agisce: colluso con la mafia, colluso con il FN francese e con altri…Chi c’è dietro? Non gli stessi di un tempo o forse si? Bisogna opporre all’orrore la ragione e ascoltare, vedere con la ragione, come diceva L. Strauss. Pensa ad Ostia. la conoscete? Un orrore, un disagio lugubre e non solo a Ostia ma anche altrove. Ci sono le leggi, c’è la coscienza democratica, ci sono le armi per combattere legalmente e socialmente tutto questo. L’articolo 1 della Costituzione amata, è stato rispettato? Come? Da chi? Ora siamo noi in prima linea, non come allora. Non facciamo sbagli, la storia insegna. Si insiste molto sull’età dei “fascisti” di oggi. A ragione. Come e dove sono cresciuti? Chi li ha aiutati a capire? La “Buona scuola” in senso lato? la “Buona università” la società dei consumi e dell’indifferenza? Mia nipote pure è di destra, non fascista o neo fascista ma di destra; non lo sa. Quando timidamente, perché solo così si puo’ parlare in questo momento, glielo dico, si arrabbia. E’ convinta di essere di sinistra. Ci sono giovani al governo che sono così, dicono, proclamano buone intenzioni e poi fanno cose orribili con l’arroganza dell’ignoranza e della scaltrezza stupida. Chi ha dato loro il consenso? Si dice: è l’effetto del postmoderno. Sarebbe? Achille Benito Oliva al TG3 ha detto che si tratta di frammentazione. Ha ragione, di fine della cronologia. Questo è successo, ma se guardi indietro in questi anni trovi tanti giovani cosi’ che hanno sfasciato il nostro paese e dei burattinai anzianotti e rifatti che tirano le fila. Dove? Nei centri di potere e ce ne sono. Questa lotta senza quartiere la stanno portando avanti dal ’68 forse perché si sono messi paura. Quest’anno che finisce è il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, sto studiando in questi giorni il bellissimo libro di Franco Venturi sul Populismo russo (quello vero) si possono capire tante cose. Chi ha mai parlato di questo a mia nipote? La scuola, la sua famiglia? No, un pò io, ma poi c’erano da comprare le scarpe firmate, le borse di Vuitton le altre “cose” e non c’era tempo. Ci sono anche esempi in positivo. Ma non tanti. Guardiamoci dentro le mura di casa! Ecco questa è un pò della variegata realtà che vivono le classi medie. I gran borghesi? Manco a parlarne, loro si stanno fregando le mani, stanno guadagando sempre più. Fascisti e neo fascisti sono, come diceva Mattei, un autobus DA USARE al momento opportuno. (ATTENZIONE PERO’ CHE LA BESTIA E’ AFFAMATA e Mattei lo hanno ucciso). Tutto questo per abbattere i diritti che migliaia di morti, di eroi si sono guadagnati e si guadagnano ogni giorno (vedi Tyssen ). Sapevate che a Torino nel 1917 c’é stata una rivolta operaia per il pane? Ebbene, lì sono morti e morte donne e uomini per difendere i loro diritti. Questo è il succo della nostra Costituzione benemerita, difendere i più deboli, i più fragili chè quando lo fanno loro si scatenano le Furie, quelle che oggi si stanno preparando, nel mondo, a rientrare in pista. Si dice che gli M5S strizzano gli occhi anche verso l’estrema destra. Non voglio polemizzare però voi sapete come me che in questo momento gli oculisti stanno lavorando giorno e notte. Anche io sento lo stomaco rivoltarsi e non solo. Credo che noi cittadini ci stiamo lasciando usare e trattare da cretini. Non lo siamo! Dobbiamo renderci conto che avremo un governo balordo e grazie a questa legge elettorale che strizzando pance e occhi quasi tutti hanno voluto. Però io andro’ votare, solo che in questo momento mi dondolo su un’altalena, in basso: lo strapiombo! Chi e cosa ci hanno portato a questo? SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL 13° CONGRESSO DELL’INTERNAZIONALE SOCIALISTA

Il 29 novembre 1976, le più grandi figure del socialismo e della socialdemocrazia si riunirono a Ginevra per il 13 ° Congresso dell’Internazionale socialista. Questa edizione sarà contrassegnata dall’elezione alla presidenza dell’ex cancelliere tedesco Willy Brandt, che darà un nuovo impulso all’organizzazione. Al microfono della giornalista Lisa Garnier, (come vedrete nel video ndr) inviata sul posto per informazioni One Day One Hour, spiega che l’Internazionale socialista non è un “super partito“, ma una comunità di lavoro. Willy Brandt discute anche delle relazioni tra i partiti socialisti e i partiti comunisti in paesi come Germania, Francia e Italia. La reporter dà anche la parola a Michel Rocard, allora membro del Comitato esecutivo del PS, al primo ministro portoghese Mario Soares, nonché al segretario generale del PSI italiano Bettino Craxi. Presente anche sul posto, il primo segretario del Partito socialista francese François Mitterrand, che cinque anni dopo sarà eletto alla presidenza della Repubblica francese. The First International (il cui nome ufficiale è l’International Workers ‘Association) si è svolta il 28 settembre 1864 a Londra. A seguito di divisioni, la prima Internazionale è scoppiata in diversi movimenti: la Seconda Internazionale, un gruppo di movimenti socialisti, creato nel 1889, la Terza Internazionale Comunista, fondata nel 1919, e la quarta, un gruppo di trotzkisti, risalente al 1938. L’Internazionale socialista (SI) esiste nella sua forma attuale dal 1951. È composta dalla maggior parte dei partiti socialisti, socialdemocratici e sindacali del mondo, più di 160 partiti nazionali.  Dal 2005 il presidente generale dell’Internazionale Socialista è il greco George Papandreou.     Il 26 novembre 1976, Willy Brandt viene eletto presidente dell’Internazionale socialista (SI). Nel suo discorso inaugurale, annuncia tre offensive del SI per la pace e il disarmo, per le nuove relazioni Nord-Sud e per i diritti umani. Inoltre, Brandt vuole liberare il mondo dal suo “eurocentrismo” e renderlo aperto ai partner del “Terzo Mondo”. Discorso inaugurale di Willy Brandt come nuovo presidente dell’Intenazionale Socialista al Congresso di Ginevra, 26 ° Novembre 1976 Nota: Spiacenti, ma non siamo stati in grado di tradurre dal tedesco SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL TESTO DEL DISCORSO DI TURATI AL CONGRESSO DI LIVORNO

Testo Integrale “Compagni amici, e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici. A Bologna, un anno fa, in un discorso molto contrastato, che forse ebbe tuttavia qualche conferma dai fatti, io vi pregavo di accogliere le mie parole come un testamento. Io non debbo, senza volere avere la sciocca presunzione, e ridicola, di aggiungere lugubre solennità alle mie parole, poche parole, non debbo e non posso farvi altra dichiarazione oggi. Più che mai, anzi, debbo ringraziare il Partito ed il Congresso che mi ha lasciato in vita, che mi lascia tuttora in vita. È stato un pò il mio  destino d’essere sempre un imputato, davanti a questo o quel tribunale, e quando è un tribunale rivoluzionario, che non vi schianta completamente, che non vi lascia qualche respiro, è un tribunale molto mite, a cui bisogna essere grati. Per ciò io invoco ancora la vostra cortesia, tanto più che le mie parole, siano dette per la frazione cui appartengo, o per fatto personale, o per dichiarazione anticipata di voto, potranno essere assolutamente brevi, più brevi di quelle di tutti gli altri che mi han no preceduto, se, sʼintende, avrete la cortesia di non interrompermi troppo, e non avrete interesse ad interrompermi, specialmente i compagni che desiderano condannarmi. Costoro hanno tutto lʼinteresse, perché la loro condanna abbia unʼapparenza di fondamento, di sentire la mia esposizione, che non abuserà né del loro tempo né urterà volontariamente i loro sentimenti. Lontana da me ogni intenzione, anche se una parola fosse mal detta o male intesa, ogni intenzione urtante od offensiva, e voi, che siete i più bolscevichi di tutti, dovrete ammettere questa confessione alla russa, fatta ad alta voce. Non ho bisogno di molto tempo, né per fatto personale, né per dichiarazione di voto. Non per fatto personale, perché sebbene in un certo senso tutto questo Congresso sia un poʼ anche il mio processo – anzi, io dovevo averne uno speciale, fui rimandato dalla Camera di Consiglio a questa Corte di Assise per uno speciale processo che forse lʼangustia del tempo soltanto non farà celebrare con tutti i riti – tuttavia io constato che lo stesso Congresso, gli stessi oratori che mi accusano, mi hanno anche un pò difeso. E poi, consentite questo orgoglio testamentario innocuo: credo che nel profondo dei vostri cuori sentiate che, dopo tutto, la mia difesa personale, più che nelle parole è in me stesso. Ma io non avvilirò, non   umilierò, non immiserirò il Congresso con una discussione di piccole minuzie, quali sono appunto i fatti personali. Che io abbia usato in unʼoccasione o in unʼaltra una frase più o meno opportuna, che un mio atto, come quello di chiunque altro, possa essere stato qualificato a torto o a ragione – io dico a torto – io rivendico i miei infortuni sul lavoro come una parte della mia sincerità, del mio dovere verso il Partito; ma ad ogni modo, che abbia incappato in un infortunio sul lavoro, tutto ciò non può scompormi molto, tutto ciò prova che ho lavorato! Gli infortuni sul lavoro non avvengono ai critici inerti, a coloro che non si prestano al rude lavoro, essi dʼaltronde hanno una ben misera importanza per chi non si crei degli idoli, dei feticci personali. Se il nostro Partito è un Partito di classe, se la nostra azione è veramente unʼazione di storia, gli errori, fossero pure tali, dei singoli uomini, comunque si chiamino, non possono che scalfirne appena lʼepidermide. Amici e compagni, abbattiamo tutti gli idoli, tutte le idolatrie, anche questa idolatria a rovescio che consiste nel sopravalutare gli atti e le parole dei singoli uomini, si chiamino Turati, Serrati, anche Marx o Lenin, come se la forza, la coscienza, lʼazione fossero in determinati uomini che potessero tutto compromettere, e non fossero nella vostra grande coscienza, nella forza grande di tutto il Partito socialista. Dunque alla pattumiera tutte le misere quisquilie personali. Leviamoci più alto, al di sopra di queste miserie, e soprattutto degli uomini e delle persone. E neppure varrebbe la pena di un lungo discorso per una dichiarazione anticipata di voto, dopo che nelle parole di tanti altri, di Baldesi, fra gli altri, dello stesso Lazzari – che veramente mi ha trattato un pò maluccio, tanto non siamo schizzinosi, ma nel cui discorso abbiamo sentito pulsare quel senso di profonda umanità che si direbbe smarrito, inaridito, nei teoremi, nei filosofemi astratti, ideologici dei filosofi nuovi – nelle parole di Vacirca, cʼera quanto basta va per la difesa dottrinale nostra, cʼera quanto bastava per persuadere quelli che potevano essere persuasi, per farli dubitare, per farli studiare; quanto a quelli che hanno un velo settario nella mente che impedisce loro di dubitare, per questi ormai sono vani i discorsi e lascio che lʼevoluzione degli spiriti avvenga da sé. E mi pare che lʼevoluzione spontanea degli spiriti avvenga e non vi offendete se dico bene di voi. Sì, io constato, sì, io trovo negli stessi discorsi dei compagni avversari, di quelli che più furono prigionieri di sé stessi, delle loro tesi di ieri, sì, io trovo questa evoluzione rapidamente in cammino. E allora, quale e quanta differenza, compagni – e lo dico a elogio, perché gli immobili, gli statici, coloro che non sanno mutare non sono che dei capita mortui, delle cose morte, non un partito vivo e che avanza – quale e quanta differenza tra lʼavventata revisione e proclamazione di Bologna, e i cauti e ponderati discorsi degli stessi estremisti e massimalisti di questo Congresso. Non voglio fare personalità, dico unʼimpressione generale. Vi parla un compagno avversario: forse non ve ne avvedete, ma voi correte verso di noi con la velocità di un treno lampo! Quando la mentalità della guerra – non è colpa di nessuno – sarà evaporata, quando quella che, con frase felice, Serrati – faccio nomi di persone quando debbo lodarle, unicamente – chiamava la psicología di guerra, il socialismo dei combattenti, sarà svanito, allora quando lʼesperienza, la riflessione avranno fatto scuola e lezione nei cervelli di tutti, io credo fermamente che lʼunità, che oggi …

1964: QUEL “TINTINNAR DI SCIABOLE” CHE PIEGO’ I SOCIALISTI

di Lanfranco Caminiti Il piano Solo del generale De Lorenzo prevedeva la presa del potere da parte dei carabinieri e l’arresto di comunisti e socialisti L’evolversi della vicenda Consip – «Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi» – e cioè l’intervento diretto dei carabinieri nella vita politica del paese fa ricordare quando avvenne l’ultima volta. «President Segni aware this plan». È una frase contenuta nel telegramma inviato dal Comando generale delle Forze armate USA nell’Europa meridionale al comandante delle Forze armate USA in Europa, Verona, 26 giugno 1964. Un documento declassificato solo da qualche anno. Il Presidente Segni è a cono- scenza di questo piano. Il “piano” era che se la sinistra comunista fosse scesa in piazza, organizzando scioperi e manifestazioni contro una deriva reazionaria, allora loro, i Carabinieri, sarebbero intervenuti e avrebbero assunto il potere per mantenere l’ordine e la democrazia. Della polizia e di altre forze era meglio non fidarsi. Solo i carabinieri erano sicuri. Era il Piano Solo. Un piano che prevedeva l’ «enucleazione» di settecentotrentuno persone – sindacalisti, politici, militanti – da portare in una località protetta della Sardegna, un campo d’addestramento dei carabinieri, scelte sulla base dei dossier del SIFAR, il servizio d’informazione di cui era stato a capo de Lorenzo. Il generale de Lorenzo, comandante dell’Arma, era ossessionato dalla formidabile macchina organizzativa dei comunisti, dalla loro capacità di infiltrarsi e costruire cellule in ogni ganglio dello Stato, dal loro reclutamento, dalla loro propaganda, dalla loro “tattica degli scandali”. Perfino la scuola di partito delle Frattocchie lo mandava ai matti, e cercava di saperne sempre di più. In realtà, le cose non erano proprio in questo modo, i comunisti non erano all’offensiva, anzi. Il segretario della CGIL Novella aveva detto: «Nelle grandi aziende monopoliste la reazione operaia ai licenziamenti e alle riduzioni di orario è debole». Tutto era cominciato nel dicembre del 1963, quando si era formato il primo governo di centro- sinistra, presidente del Consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni. Democristiani e socialisti hanno stretto un’alleanza di governo. «l’Avanti» titola: “Da oggi ognuno è più libero”. Ci sono grandi aspettative, la scuola, la sanità, l’urbanistica, la programmazione economica, le “riforme di struttura”. I socialisti spingono sul tasto riformista e i democristiani su quello moderato. Nella Dc prende consistenza un coagulo conservatore e a guidarlo c’è proprio il presidente della Repubblica, Segni, che pure a Moro doveva tanto, anche l’elezione alla presidenza. Il 26 giugno del 1964, Moro rassegna le dimissioni. Segni vorrebbe affidare il governo a un esponente del la destra DC ( Scelba, Pella o Leone) o a una personalità tecnica come Merzagora; Moro, intanto, cerca di convincere i quattro partiti della coalizione a pronunciarsi compatti sul suo nome, in modo da obbligare Segni a conferirgli l’incarico. Sul Corriere della Sera appare questo editoriale: «Abbiamo bisogno d’un governo d’emergenza per una situazione d’emergenza». Ma non ci sono alternative e a nessuno passa per l’anticamera del cervello di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Il pallino con l’incarico di formare il nuovo governo torna a Moro. Seguono tre settimane di trattative difficili tra socialisti e democristiani. Sono le tre settimane che poi Nenni definirà quelle del periodo del “tintinnar di sciabole”. All’apertura della crisi di governo, i comunisti denunciano che «gruppi apertamente reazionari approfittano delle attuali difficoltà per rivolgere un attacco contro le istituzioni democratiche e repubblicane, e in questo modo preparare le condizioni dell’avvento di un regime autoritario». Segue invito alla più grande vigilanza per e forze democratiche, le masse popolari e le organizzazioni della classe operaia. Il 3 luglio, una mobilitazione nazionale raduna a piazza San Giovanni circa centomila persone, convenute per ascoltare Giorgio Amendola e Palmiro Togliatti. E Togliatti dice: «In Italia la via per qualunque in- voluzione reazionaria è sbarrata; chi volesse attentare alla nostra libertà sappia che non ci sono speranze». La manifestazione, inquadrata da un servizio d’ordine di circa tremila militanti del PCI, si svolge tranquillamente e non dà luogo a nessun incidente. Il 18 luglio l’accordo è faticosamente raggiunto. Moro è di nuovo presidente del Consiglio. È un notevole passo indietro sui programmi del precedente governo. Riccardo Lombardi lascia la direzione dell’ «Avanti» e il socialista lombardiano Antonio Giolitti, autore del piano di programmazione economica, rifiuta di partecipare al nuovo governo. Il centro- sinistra è rientrato all’ordine. Del “Piano Solo” si persero le tracce, ma qualche anno dopo, nel 1967, fu giornalisticamente “svelato” su «l’Espresso» da Scalfari e Jannuzzi. Un generale dei carabinieri, de Lorenzo, che ordisce contro quella repubblica che dovrebbe custodire. Perché a quello sono “destinati” i carabinieri: «nei secoli fedele», a chi obbedire, a chi essere fedele? All’istituzione, all’ordinamento sociale, e se è la repubblica alla repubblica. Così, quasi non riesci a credere che dei carabinieri fabbrichino con le proprie mani “una bomba” da mettere nelle mani di un giudice perché la faccia esplodere contro la presidenza del Consiglio. Ora, con tutto il rispetto per il maggiore Scafarto, è lecito chiedersi: a chi era fedele? A chi ubbidiva, tacendo? Chi è il “grande vecchio”? Fonte: ildubbio.news SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

Giornata contro la violenza sulle donne: ecco quando è nata e perché

Dal sacrificio delle sorelle Mirabal alle scarpe rosse. Date, personaggi e momenti storici che hanno reso il 25 novembre il giorno in cui il mondo denuncia il femminicidio e gli abusi di genere. Il 25 novembre si celebra la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. In tanti Paesi, tra cui l’Italia, ci saranno manifestazioni, mostre, cortei, sit-in, convegni e installazioni per ricordare le vittime e per affrontare il tema della violenza di genere. Ma da dove ha origine questa ricorrenza? Quali sono i suoi simboli? Chi l’ha istituita? E quando? A volere la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne è stata l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre del 1999. L’intento dell’Onu era quello di sensibilizzare le persone rispetto a questo argomento e dare supporto alle vittime. Ogni anno, a partire dal 2000, in tutto il mondo governi, associazioni e organizzazioni non governative pianificano manifestazioni per ricordare chi ha subito e subisce violenze. Perché è stato scelto il 25 novembre? Quando l’assemblea delle Nazioni Unite ha istituito la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ha scelto questa data in ricordo dell’uccisione delle sorelle Mirabal, avvenuta nel 1960 a Santo Domingo perché si opponevano alla dittatura del regime di Rafael Leónidas Trujillo. In loro memoria, il 25 novembre del 1981 ci fu il primo Incontro Internazionale Femminista delle donne latinoamericane e caraibiche. Da quel momento in poi, il 25 novembre è stato riconosciuto in larga parte del mondo come data per ricordare e denunciare il maltrattamento fisico e psicologico su donne e bambine. La data è stata poi ripresa anche dall’Onu quando ha approvato la risoluzione 54/134 del 17 dicembre del 1999. Chi erano le sorelle Mirabal? Patria, Minerva e María Teresa Mirabal, assieme ai loro mariti, erano delle attiviste del “Movimento 14 giugno”, un gruppo politico clandestino dominicano che si opponeva alla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo. Nate tra il 1924 e il 1935, hanno trovato la morte nello stesso giorno: il 25 novembre. Le tre sorelle, a causa della loro militanza, nel gennaio del 1960 furono arrestate e incarcerate. La loro detenzione, però, durò pochi mesi. Cosa diversa per i loro mariti, che continuarono a rimanere nella prigione Puerta Plata. Il 25 novembre del ’60, Patria, Minerva e María Teresa, mentre stavano andando in auto a far visita ai loro compagni in carcere in compagnia di un autista, furono fermate dalla polizia, condotte in una piantagione di canna da zucchero e uccise a bastonate. Poi, una volta uccise, i militari di Trujillo rimisero i loro corpi in macchina e tentarono di simulare un incidente. All’opinione pubblica, però, fu subito chiaro che le sorelle Mirabal erano state assassinate. In molti cominciarono a ribellarsi. E di lì a poco il regime finì con la morte del dittatore Trujillo. Qual è il colore della Giornata? In tutto il mondo il 25 novembre è celebrato con l’arancione, tanto che si parla anche di Orange Day. Un Women, l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere, lo ha scelto come simbolo di un futuro in cui le donne si saranno liberate della violenza degli uomini. In Italia, però, dove la Giornata si celebra solo dal 2005, spesso all’arancione è preferito il rosso. Le scarpe rosse Soprattutto in Italia, il simbolo della lotta contro la violenza sulle donne sono le scarpe rosse, lasciate abbandonate su tante piazze del nostro Paese per sensibilizzare l’opinione pubblica. Lanciato dall’artista messicana Elina Chauvet attraverso una sua installazione, nominata appunto Zapatos Rojas, è diventato presto uno dei modi più popolari per denunciare i femminicidi. Un’installazione che ha fatto il giro del mondo, toccando alcune delle principali città europee e italiane. Fonte: TG Sky   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it