Bruno Trentin: «Vorrei poter morire socialista»

Iginio Ariemma , Il socialismo eretico di Bruno Trentin Bruno Trentin – in una intervista rilasciata a Bruno Ugolini, (L’Unità 6 giugno 2006), poco più di due mesi prima di essere colpito dal trauma che lo ha portato alla morte un anno dopo, disse:” …intendo partecipare a questo processo unitario e nello stesso tempo morire socialista”. Il riferimento è al Partito democratico di cui allora si discuteva la costituzione, ritenuta necessaria e urgente dopo l’esito positivo delle elezioni che portarono al secondo governo Prodi. Bruno in questa intervista si pronuncia per la forma federativa del nuovo partito, al fine di garantire il pluralismo degli orientamenti e la più ampia partecipazione. E con saggezza aggiunge:” E’ un tragitto che ha bisogno di anni di esperienze comuni, al basso come in alto, per diventare un fattore di contaminazione tra le culture diverse”. La nascita del PD, invece, è stata innanzitutto il risultato di un  accordo  di vertice tra i due partiti fondatori o meglio tra i due gruppi dirigenti; un accordo per giunta frettoloso che non è riuscito a dare una chiara identità al partito né regole per davvero condivise. Né diede coesione e solidità al governo Prodi. Ma che cosa Bruno Trentin intendeva dicendo che voleva “morire socialista”? Che cosa intendeva per socialismo? Quale socialismo aveva in testa? Nell’ultima sua opera “La libertà viene  prima”, pubblicato nel 2005, si trova la risposta. Ad un certo punto egli si chiede: “Che cosa resta del socialismo” Non che cosa è il socialismo, ma che cosa resta, quasi a rimarcare i ruderi, le macerie lasciate dall’esperienza comunista e del socialismo reale che ha attraversato il Novecento. E così risponde:” Certo il socialismo non è più un modello di società compiuto e riconosciuto, al quale tendere con l’azione politica quotidiana. Esso può essere concepito soltanto come una ricerca ininterrotta sulla liberazione della persona e sulla sua capacità di autorealizzazione, introducendo nella società concreta degli elementi di socialismo – le pari opportunità, il welfare della comunità, il controllo sulla organizzazione del lavoro, la diffusione della conoscenza come strumento di libertà – superando di volta in volta le contraddizioni e i fallimenti del capitalismo e dell’economia del mercato, facendo della persona e non solo delle classi il perno di una convivenza civile”. Sicuramente è una concezione originale del socialismo. Colpisce innanzitutto  la visione graduale, processuale, riformista se si vuole,  della via al socialismo, Non parla di superamento del capitalismo tout court, ma di superamento dei “fallimenti “ e delle “contraddizioni” del capitalismo e dell’economia di mercato quasi a rimarcare da un lato la sua contrarietà alle teorie sui crolli e sulla crisi catastrofica del capitalismo, dall’altro lato il processo riformatore che caratterizza la costruzione di una nuova società. Il socialismo non è un sistema predeterminato, codificato, ma un processo, un divenire, addirittura una “ricerca”. Nello stesso tempo però il socialismo non è il sole dell’avvenire, è attuale e va edificato immediatamente – dal basso, dalle fondamenta – attraverso gli elementi di socialismo, intesi soprattutto come elementi di coscienza civile e sociale di massa. Emerge anche così il suo antideterminismo economico e sociale, in controtendenza a molta cultura comunista. Il socialismo è scelta di libertà e di democrazia, prima che una necessità. Del resto fin dagli anni Cinquanta, specialmente dopo l’invasione sovietica in Ungheria  del  1956,  che condannò, insieme a Di Vittorio e alla segreteria della CGIL , egli si considerava- curioso ossimoro – riformista- rivoluzionario. Così come Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti, di entrambi amico e molto vicino politicamente. La loro ricerca aveva un obiettivo centrale: non spostare a dopo la conquista del potere la edificazione del nuovo modello di società, ma avviarla subito. Di qui la critica , anche aspra, che sarà continua in Bruno anche dopo, di ogni strategia di transizione al vertice del potere statale che diviene un alibi persino per il trasformismo. Di qui anche la ricerca di quelle riforme , le famose riforme di struttura. nel quadro di una programmazione democratica, che fossero in grado non soltanto di sradicare le basi del fascismo sempre pericoloso, ma di intaccare il potere capitalistico e di introdurre nuove forme di democrazia diretta, in particolare operaia, in collegamento con la democrazia rappresentativa e parlamentare, A questo proposito è illuminante l’opuscolo di Antonio Giolitti significativamente intitolato “Riforme e rivoluzione” pubblicato nell’aprile 1957. Giolitti prima di uscire dal PCI preannunciò a Trentin la sua decisione con una lettera che purtroppo non abbiamo ritrovato. Bruno gli rispose in modo accorato e quasi disperato – questa lettera è stata rinvenuta nell’archivio giolittiano- in cui chiede di ripensarci, venendo a mancare il punto di riferimento principale all’interno del PCI di coloro che intendevano rinnovare il partito. Io credo che l’Ungheria del 1956 sia uno spartiacque della sua concezione socialista. E non soltanto sul piano della libertà e della democrazia. Ma su quello del potere politico. Prima la conquista dello Stato era, anche per lui, comunque, un “acceleratore” per la liberazione delle classi popolari e umana, dopo non più. Nella definizione citata gli elementi di socialismo, per lui fondamentali, vengono elencati sia pure tra parentesi. Le pari opportunità, che per Bruno è il sistema dei diritti umani fondamentali e il modo concreto con cui si manifesta la solidarietà. I diritti umani sono i veicoli per l’esercizio concreto ed effettivo della libertà. Infatti Amartia Sen li chiama libertà al plurale. Ricordo bene la sua furente irritazione, quando all’interno del PDS, si cercò di contrapporre li diritti alla modernizzazione, ritenendo alcuni di essi superati e ostacoli alla modernità e al cambiamento. Per Bruno i diritti umani erano il “retaggio duraturo del progresso”, “le sole grandi e durature conquiste del movimento operaio nella sua lotta per l’uguaglianza”. E considerava i diritti sociali – il lavoro, la sicurezza, la salute, l’istruzione ecc-non inferiori, ma diritti di cittadinanza alla pari dei diritti civili e politici, perché, ripeto, base delle pari opportunità e dell’eguaglianza. In secondo luogo il welfare della comunità, che è diverso dal welfare statale tradizionale in quanto determinante è la partecipazione democratica e solidale. …

ANNA KULISCIOFF : Dalla Conferenza “Il monopolio dell’Uomo”

“Potrebbe, teoricamente, sembrare che, poiché al giorno d’oggi il privilegio di qualsiasi natura – cardine essenziale di tutti gli istituti sociali, dei diritti civili e politici, dei rapporti fra le varie classi e fra l’uomo e la donna – viene discusso, combattuto e perde terreno dovunque – potrebbe sembrare, dicevo, che da ciò venir dovesse anche  un po’ di giustizia per la donna, la vittima più colpita nei rapporti sociali moderni. Chi osserva spassionatamente i fenomeni sociali moderni deve riconoscere che la condizione sociale della donna, questo elemento così importante della civiltà, è uno dei fenomeni più tristi in mezzo alle istituzioni moderne, è un residuo di un mondo intellettuale e morale che va scomparendo dovunque. Non è con una breve chiacchierata che potrei indagare le cause di codesto fenomeno, cause molto complesse, che richiederebbero lunghi e profondi studi ed interi volumi. Qualunque fosse quindi l’origine dell’inferiorità sociale della donna, origine fisiologica, economica, etica, o fosse puramente un prodotto del prevalere brutale della forza, il fatto sta che ora si tratta di una questione di dominio, si tratta del privilegio di tutto il sesso maschile, privilegio e dominio che sono un vero anacronismo in un’epoca, in cui la donna ha progredito sotto tutti i rapporti e morali e intellettuali. Il monopolio dell’uomo è troppo vasto per poterne trattare tutte le manifestazioni: in famiglia, nei diritti civili e politici e nel campo della lotta per l’esistenza, sia materiale sia intellettuale. Mi limiterò principalmente al monopolio dell’uomo nel campo della lotta per l’esistenza, dove la donna ha sempre avuto una parte notevole, ma sempre anche subordinata a quella dell’uomo. Il desiderio sempre più manifesto della donna di rendersi economicamente indipendente è un fenomeno particolare dei tempi recenti; poiché la vita moderna spinge dovunque la donna al lavoro, per necessità economiche nella grande maggioranza delle classi lavoratrici e delle classi medie, e per ragioni morali nella piccola minoranza delle classi dominanti. In America c’è voluto un mezzo secolo di lavoro femminile nell’industria, nell’istruzione pubblica, nelle professioni libere, nessuna esclusa, perché le donne americane ottenessero, non il diritto al voto deliberativo, che si è ottenuto in uno solo degli Stati Uniti, ma soltanto il diritto al voto consultivo nei corpi politici, nelle commissioni legislative e nelle assemblee generali. Non sono che sette anni che la legislatura del Kentuky sentiva due donne, la Benet e la Hoggart, patrocinare i diritti del loro sesso. Le donne avvocatesse di se medesime suscitarono, naturalmente, grande curiosità sia fra i deputati sia fra il pubblico accorso numerosissimo alla Camera. Gli scettici ed i maligni furono disarmati e vinti dall’eloquenza e dall’erudizione giuridica della Miss Hoggart; e lo stesso giorno fu presentato un bill (disegno di legge), che conferiva alle donne il diritto all’amministrazione dei loro beni ed alle madri un’autorità sui figli eguale a quella del padre. Questo fatto, che troverebbe in Francia, in Inghilterra ed altrove molti riscontri, che qui ometto per amore di brevità, non è che un esempio isolato inteso a dimostrare, come le leggi giuridiche sono la conseguenza di abitudini e costumi sociali, e non altro che la sanzione dei rapporti sociali già esistenti, allo stesso modo che le leggi cosmiche e biologiche non sono che la sintesi dei fenomeni osservati. Non voglio però cadere nell’assoluto e non negherò che, se oggi, per una specie di miracolo, i legislatori uomini concedessero alle donne i diritti civili e politici, questo fatto eserciterebbe un’immensa influenza sul loro sviluppo intellettuale e morale, poiché è legge biologica che le funzioni nuove creano, a poco a poco, organi loro adatti. Fra le donne sarebbe avvenuto su per giù lo stesso fenomeno che si osserva nella gran massa degli operai, uomini poco atti ancora alla vita civile e politica. Eppure, dopo pochi anni di partecipazione diretta degli operai alla vita politica, vediamo come dal loro balbettare quasi infantile si sviluppano oratori poderosi, forniti di cognizioni serie e di studi profondi sulle questioni vitali che agitano la loro classe. Ma ormai nessuna persona intelligente e di buon senso crede più ai miracoli; e le leggi vigenti, che riguardano le donne, subiranno la stessa evoluzione di tutte le altre leggi. Perché, direi colle parole dello Spencer, che “a misura che la cooperazione volontaria modifica sempre più il carattere del tipo sociale, il principio tacitamente ammesso dell’eguaglianza dei diritti per tutti diventa condizione fondamentale della legge.” Le donne, quindi, cooperando a titolo eguale degli uomini al lavoro sociale sotto qualsiasi aspetto, renderanno impossibili le leggi attuali, che le mettono in condizione d’inferiorità fra i minorenni e fra gli incapaci per imbecillità o pazzia quanto ai diritti politici, e assegnano loro un posto così inferiore in famiglia quanto ai diritti civili. Certo è che, finché la donna non potrà bastare a se stessa e per vivere dovrà dipendere dall’uomo, la legge, che la considera come proprietà del marito, dovendo la moglie seguirlo dovunque, rimarrà in tutto il suo vigore; e se quell’articolo, così oltraggioso alla dignità umana della donna, venisse anche abolito, quest’abolizione non rimarrebbe che lettera morta, data la dipendenza economica, in cui si trova la grande maggioranza delle donne. Anna Kuliscioff «Anna Kuliscioff IL MONOPOLIO DELL’UOMO.pdf» SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

«CONGRÉS DE L’UNITÉ» À ÉPINAY-SUR-SEINE (juin 1971): POUR LA RENAISSANCE DU PARTI SOCIALISTE

Il Congresso di Epinay del giugno 1971 segna la rinascita del Partito Socialista dopo un breve periodo del Nuovo Partito Socialista guidato da Alain Savary dal luglio 1969. Questo “congresso dell’unità” puntò a costruire una formazione unitaria, sviluppando un programma comune con i comunisti e, soprattutto, in prospettiva di una politica di governo. Già, nel giugno 1970, un congresso socialista a Épinay-sur-Seine Dal 1968, i socialisti francesi  parlarono di unificazione di tutte le tendenze all’interno di un unico partito. Dopo il ritiro di Guy Mollet alla testa del partito socialista nel dicembre 1968, Alain Savary, che lasciò il partito nel 1958 in segno di protesta contro Mollet De Gaulle, fondò la PSA diventato poi PSU, prende le redini di un partito che egli  intende rinnovare, il nuovo partito socialista: il congresso costituente del 4 maggio 1969 a Alfortville e 11, 12 e 13 luglio 1969 a Issy-les-Moulineaux, furono convocati dallo SFIO e l’Unione dei Clubs per la rinascita della sinistra (UCRG), che Savary dirisse. Alcuni attivisti della Convenzione delle istituzioni repubblicane (CIR), guidato da François Mitterrand, si unirono a loro nonostante il ritiro dal collettivo nazionale organizzatore. Questi due congressi portarono al nuovo partito socialista, definendo il suo statuto, i dibattiti di orientamento e l’elezione degli organismi centrali. Il Congresso Nazionale Straordinario del nuovo PS, 20 e 21 giugno 1970 Un anno dopo, nel giugno del 1970, il nuovo PS tiene un congresso straordinario a Epinay-sur-Seine, Seine-Saint-Denis, dove pone gli obiettivi per vedere realizzata l’unità dei socialisti. Un “piano d’azione socialista per una Francia democratica” fu adottato all’unanimità con otto astensioni. Questo piano, opposto al capitalismo, propone una nuova economia e un nuovo Stato, riconoscendo e accettando le istituzioni della Quinta Repubblica. Avrebbe consentito anche di avviare un confronto con le organizzazioni politiche e sindacali in vista dell’unione della sinistra in prospettiva di governo. Malgrado questa congresso voluto come unificazione, il nuovo partito socialista rimase diviso, in particolare sul tema cruciale dell’unione della sinistra. Lo testimonia l’uscita dalla sala di Mollet ed altri, poco prima del discorso di François Mitterrand, il quale fu accolto dalla platea con lo slogan “Unità, Unità” … Questa uscita, non fu riportato dal Comunicato socialista, fu però sottolineato dai quotidiani del tempo (Le Monde, L’Humanité, France-Soir, L’Aurore). Comunicato socialista, giornale PS (Pierre Mauroy) > Vedi anche la rassegna stampa sulla conferenza straordinaria del 20 e 21 giugno 1970 nella collezione Robert Pontillon (attualmente classificata: in un inventario della serie SFIO e PS) Un programma comune con altri partiti di sinistra I socialisti, prima del “Congresso dell’Unità” del 1971, stavano già progettando un programma comune di governo, con il PCF e i radicali di sinistra, con cui era stati avviati dei dibattiti. > Dichiarazione congiunta del nuovo PS con il partito radicale (Pierre Mauroy) > Dichiarazione congiunta del Nuovo PS con il Partito Comunista, 18 dicembre 1969 (Robert Pontillon) La preparazione del “Congresso dell’Unità” Dopo l’accordo del 26 gennaio 1971, la “Delegazione Nazionale per l’Unità dei Socialisti” – composta da rappresentanti del Partito Nuovo Socialista, CIR e dei circoli creati al di fuori del SFIO – richiesero la partecipazione al “Congresso dell’Unità”, che si tenne nei giorni 11, 12 e 13 giugno, per un “cambiamento profondo e una forte organizzazione del Partito Socialista“. La delegazione, presieduta da Nicole Questiaux, incoraggiò gli attivisti a partecipare ai congressi preparatori previsti in tutti i dipartimenti per nominare i loro delegati. > Appello della delegazione nazionale per l’unità dei socialisti al Congresso dell’Unità > Preparazione del congresso > «Nota sul congresso per i nuovi membri» > «Progetto di procedura del congresso» > Precisazioni del CIR sulla preparazione del congresso Documenti tratti da Claude Estier. Le mozioni presentate al Congresso di Épinay Diciassette mozioni furono presentate al “Congresso dell’Unità”. Ma il dibattito si concentrerà su cinque di esse, presentate dai principali dirigenti del nuovo PS, del CIR e dei circoli: la mozioneL, il tandem Louis Mermaz-Robert Pontillon, la mozione Jean Jean Poperen, capo del l’Unione dei gruppi e dei Circoli socialisti (UGC), la mozioneO presentata da  Alain Savary e firmato da Guy Mollet, la mozioneP CERES Chevènement e il movimento con la mozioneR con Gaston Defferre e Pierre Mauroy federazioni Socialisti di Bouches-du-Rhône e nord. > Fascicolo della conferenza distribuito ai delegati (include 17 mozioni) > Mozione L (Louis Mermaz-Robert Pontillon): “Per un socialismo, un partito unito e forte” > Mozione M (Jean Poperen): “Per un partito socialista di sinistra” > Mozione O (Alain Savary e Guy Mollet): “Per un forte partito socialista e per la ricerca dell’Unione della sinistra” > Mozione P (CERES): “Unità e rinnovamento per una vittoria del socialismo nel 1973” > Mozione R (Gaston Defferre e Pierre Mauroy): il progetto e il discorso di Pierre Mauroy al Congresso I testi delle mozioni sono estratti dalla fondazione Robert Pontillon. 11-13 giugno 1971 Questo “Congresso di Unità”, atteso da tutti i socialisti, fu in continuità sui temi discussi al congresso straordinario del Nuovo PS nel 1970: nel giugno del 1971, i leader di queste formazioni e gli attivisti concentrano i loro interventi in rottura (o no) con il capitalismo, e l’unione della sinistra, attraverso l’alleanza elettorale con il Partito comunista di Georges Marchais. La votazione sulle proposte di risoluzione dei delegati posta dalla mozioneO, difesa da Alain Savary e Guy Mollet, suo rappresentante, non fu sufficiente per vincere contro la maggioranza che stava per formarsi intorno François Mitterrand, il quale firmò la mozioneL (Mermaz-Pontillon). Mozione O (Alain Savary e Guy Mollet): il 33% Mozione R (Gaston Defferre e Pierre Mauroy): il 28% Mozione L (Mermaz-Pontillon): 16% Mozione M (Jean Poperen): 12% Mozione P (CERES): 8,5% Dopo una trattativa (in particolare con la Federazione socialista del Nord), François Mitterrand riuscì a raccogliere intorno a sé i suoi amici del CIR, e di Gaston Defferre e Pierre Mauroy, e CERES Chevènement. Jean Poperen, nel frattempo,  scelse di sostenere Alain Savary. La votazione finale della conferenza consentì alla mozione di sintesi del gruppo Mauroy-Defferre Mitterrand Chevènement- ad ottenere una maggioranza del (51,26%), opposta a quella di Savary-Poperen-Mollet (48.73%). La formula di …

Organizzazioni Socialiste a Taranto e Provincia

Il movimento socialista sorse e si sviluppò nel Tarantino attraverso la costituzione di circoli e leghe di resistenza costituiti qua e là da ristretti gruppi di studenti, professionisti e artigiani, animati da sentimenti dl solidarismo e giustizia sociale che si esprimevano nella volontà di riscattare le popolazioni dei Salento dalle condizioni di sfruttamento in cui vivevano, in un ambiente economico e sociale dominato dal latifondo. La Federazione socialista salentina si costituì nel 1893. Taranto, in quel periodo, era uno dei pochi comuni della provincia di Lecce che, a differenza degli altri, viveva una profonda trasformazione economica e sociale in conseguenza della costruzione dell’Arsenale militare. Da circa un decennio, infatti, con alterne vicende, tra una sospensione e una ripresa dei lavori, migliaia di sterratori, manovali, edili e metalmeccanici lavoravano alla costruzione dell’Arsenale e all’adeguamento delle strutture urbanistiche cittadine alla nuova realtà. Prima della costruzione di questi impianti Taranto non era che un vecchio borgo di pescatori e artigiani, ristretto sull’isola della città vecchia, che viveva di pesca e di mitilicoltura, circondata da piccoli e medi abitati contadini alle prese con un’agricoltura povera, in un insieme economico e sociale quanto mai precario e con un alto indice di disoccupazione. L’impiego di migliaia di lavoratori nella costruzione dei grande stabilimento militare diventò perciò una grande risorsa per una vasta zona del Salento e, nel contempo, una occasione irripetibile per fondare le prime organizzazioni operaie attraverso l’esperienza delle lotte per i salari e la riduzione dell’orario di lavoro. Molti furono gli episodi di lotta: il Primo Maggio del 1889 gli operai delle Imprese che costruivano l’Arsenale si presentarono al lavoro alle 8 anziché alle 5 dei mattino, chiedendo la riduzione degli orari di lavoro e l’aumento dei salari. Ma, nonostante queste richieste, nel dicembre del 1889, con decisione del ministro della Marina, i già miseri salari vennero decurtati con l’istituzione di due festività mensili non retribuite. A tali soprusi i lavoratori rispondevano con aspre lotte non sempre organizzate e vittoriose, ma comunque positive per l’esperienza e la capacità di maturazione necessarie alla costituzione di associazioni e leghe di mestieri. Nacquero così le prime società di mutuo soccorso che, a Taranto, gli arsenalotti costituirono nel 1890. Con il passar degli anni la fine dei lavori di costruzione ritardava per la mancanza di fondi, tanto da prospettare la riduzione degli operai occupati che, da parte loro, rispondevano con rivendicazioni sempre più avanzate. La crisi economica che colpì l’economia salentina prima dell’inizio del 1900 dette luogo all’acutizzarsi dei contrasti sociali anche nelle campagne circostanti e, per iniziative dell’avvocato Edoardo Sangiorgio (prestigioso dirigente già nel 1892 aveva aperto un circolo o socialista a Taranto), si costituirono leghe di resistenza dei braccianti e contadini poveri a Ginosa, Castellaneta, Palagiano e Palagianello. Nel 1906 da Brindisi rientrò a Taranto Odoardo Voccoli, giovane ex studente liceale di estrazione borghese, che ricco di esperienza di organizzatore sindacale e di cooperazione acquisita a Brindisi (e prima ancora a Genova) si dedicò l’organizzazione dei portuali e di altre categorie. Con queste strutture organizzative, sotto la guida di un qualificato gruppo dirigente, di cui erano elementi di punta Sangiorgio e Voccoli, il movimento socialista fu l’animatore delle grandi lotte sindacali degli arsenalotti e dei contadini del circondario. Nel 1906 Sangiorgio, Voccoli e l’arsenalotto Francesco i Boccuni furono eletti consiglieri comunali di Taranto. Alle elezioni politiche del 1907 venne sostenuta candidatura di Enrico Ferri collegio di Castellaneta e il popolo socialista tarantino si caratterizzò come il più intransigente e rivoluzionario del Salento. La debolezza delle organizzazioni contadine poneva d’altronde in evidenza il ruolo decisiva della classe operaia delle città e in particolare di Taranto che, già allora, con l’arsenale e alcuni piccoli cantieri si presentava come uno dei pochi centri industriali del Mezzogiorno, mentre nel Salento si manifestavano carenze della politica socialista nelle campagne, all’epoca imperniata sulla nazionalizzazione della terra. Nel 1911 la classe operaia di Taranto, sotto la guida dei socialisti, fu animatrice della battaglia per il suffragio universale. Collegandosi alle lotte sociali, marcando le loro tendenze intransigenti e rivoluzionarie, i dirigenti socialisti agirono in profondità con comizi, riunioni e manifesti per dare una coscienza rivoluzionaria alle masse. Nella stessa direzione premevano i giovani e i sindacalisti, sicché in preparazione del Congresso nazionale di Reggio Emilia (aprile 1912), dal congresso socialista pugliese uscì vittoriosa la tendenza rivoluzionaria e, nel Consiglio della Federazione socialista, venne eletto il capo della lega di resistenza di Palagianello. Al Congresso Socialista di Reggio Emilia i delegati di Taranto e di Castellaneta votarono l’odg presentato dal delegato della Federazione di Lecce, in cui si affermava il concetto fondamentale della lotta dl classe, quale base teorica e guida pratica dl ogni azione socialista e stabiliva per le elezioni politiche l’adozione del metodo intransigente. Un momento di difficoltà era stato peraltro vissuto dal socialismo tarantino nel 1911, allo scoppio del la guerra di Libia. Il gruppo dirigente aveva condotto una lunga battaglia contro questa guerra ed erano stati diffusi manifestini fra i militari; a Palagianello, un comizio tenuto dal giovane Portone era stato interrotto dal carabinieri e un manifesto contro la guerra era stato vietato. La prospettiva di un ulteriore sviluppo dell’arsenale e degli altri impianti militari, che il governo Giolitti, faceva Intravedere connessa all’occupazione militare della Libia, agì però sugli orientamenti degli arsenalotti che, nonostante le lotte sostenute per la soluzione dell’annosa vertenza riguardante l’assegnazione delle categorie, non sostennero i candidati socialisti delle elezioni del 1913. A farne le spese fu Edoardo Sangiorgio che raccolse solo 250 voti. Sul finire del 1913 e all’inizio del 1914, in presenza dl una situazione economica e sociale drammatica, i Socialisti tarantini furono gli ispiratori e dirigenti di grandi scioperi di ferrovieri e di contadini, nonché dl manifestazioni di protesta contro l’autoritarismo dei governo Salandra. I socialisti si fecero poi promotori di varie iniziative In appoggio alla ‘Settimana Rossa” e, con una vivace opposizione politica e sociale contro l’entrata in guerra dell’Italia e con una grande campagna di orientamento antimilitarista delle masse popolari, attività che si saldarono con l’azione svolta da Edoardo Sangiorgio e dai …

Movimento Socialista in terra di Bari 1874 -1946

La Puglia, fin dagli esordi del movimento operaio, non era rimasta ai margini della storia d’Italia. Essa fu dapprima interessata dallo sviluppo del movimento anarchico bakuniano. Non a caso il “Comitato per la rivoluzione sociale” aveva disposto che la Puglia fosse il “centro di raccolta” degli internazionalisti meridionali in vista dell’insurrezione che doveva scoppiare nell’agosto del 1874. Il progetto insurrezionale dell’agosto del 1874 che, nelle intenzioni degli internazionalisti doveva chiamare le masse italiane alla “rivoluzione sociale“, emerge con estrema chiarezza dagli atti del procedimento penale istruitosi a Trani nel corso del 1875 a carico di ERRICO MALATESTA e di altri internazionalisti meridionali. La Puglia, infatti, si trovò al centro, per opera di Cafiero, della trama anarchica nel Mezzogiorno, fino alla crisi dell’Internazionale, apertasi con il fallimento dei “Moti del Matese” del 1877 di cui fu ispiratore lo stesso Cafiero. Figure come Cafiero, Covelli e Palladino, non sono esempi isolati, ma espressione di una realtà organizzativa che collegava tutto il Mezzogiorno ai centri direttivi dell’Internazionale. Ciò spiega il termine iniziale della ricerca fissato non al 1892, data di fondazione del Partito, ma appunto al 1874. E’ stato così possibile mettere a nudo le origini del movimento che prendeva le mosse dalla crisi della I Internazionale e dal conseguente distacco dall’anarchismo collettivista, di un filone del socialismo che si pose sul terreno della democrazia e che dette vita anche in Puglia al primo nucleo del Partito dei lavoratori italiani. Da quella crisi e dal tramonto dei progetti del radicalismo repubblicano più intransigente si venne a formare contemporaneamente a quanto avveniva in campo nazionale, quel movimento socialista moderno che aveva avuto come elementi di spicco Andrea Costa e Filippo Turati. Nel 1893, subito dopo il Congresso di Genova, sorse in Puglia la “Federazione socialista pugliese“. A Molfetta nell’estate di quell’anno si celebrava il I° Congresso regionale che dette l’avvio alla griglia provvisoria del partito. Vi parteciparono figure destinate ad avere un ruolo importante nella diffusione del socialismo: Giovanni Ancona-Martucci di Bitonto, Giovanni Colella di Bitetto, Leonardo Mezzina di Molfetta, Carlo Musacchio di Gravina. Dopo la caduta del governo Crispi la breve ripresa legale è sottolineata dalla venuta in Puglia di Costa e dalle elezioni del 1897. Il partito pugliese si trovò al centro della bufera con i moti del 1898 che interessarono centri importanti come Minervino Murge e la stessa Bari. Moti che vennero repressi duramente e che dettero luogo ad una serie di processi di cui il più importante fu quello per i fatti di Minervino Murge in cui fu coinvolto Carmine Giorgio. Con la repressione del governo Pelloux il movimento socialista uscì rafforzato dalla “crisi di fine secolo”. Infatti una lettera di Turati a Giovanni Colella sottolinea la crescita del movimento socialista in Puglia che entrerà a far parte dell’area “forte” del movimento nazionale, grazie al lavoro di alcuni pionieri come Felice Assennato, Vito Mario Stampacchia ed altri. L’elezione di Gaetano Salvemini nel collegio di Molfetta, dove i partiti popolari (repubblicani e socialisti) riescono a sconfiggere il corrotto partito clerical-moderato, introduce nella città un primo esperimento di governo riformista. Subito dopo il primo dopoguerra il movimento socialista pugliese era ormai un moderno movimento di massa e nelle elezioni del 1919 riuscì ad eleggere cinque deputati. Nelle elezioni successive si assicurò il controllo di importanti amministrazioni come Corato, Barletta, Santeramo e Canosa. Ancora nelle elezioni del 1921 precedute e seguite da gravissimi episodi di cui il più tragico fu l’assassinio di Di Vagno la forza socialista si mantenne quasi inalterata. Anche a livello regionale le divisioni interne nel socialismo, dopo la scissione di Livorno, per la presenza di un folto gruppo di sindacalisti rivoluzionari, esposero il movimento operaio, senza più un sistema di alleanze, all’attacco fascista. Quest’ultimo fu caratterizzato da episodi “militari” come la conquista di Andria ad opera delle squadre di Starace e Caradonna. Il socialismo pugliese, sottoposto ad una nuova e più grave scissione, quella della frazione “Terzo internazionalista“, oppose ciò nonostante una forte resistenza al fascismo sino alle leggi eccezionali. Dopo l’assassinio di Matteotti, nasceva contemporaneamente un filone di “nuovo socialismo“. Esaminando i documenti relativi agli anni della clandestinità emerge un quadro inedito dell’antifascismo pugliese. All’interno del movimento socialista nasce una linea liberal-socialista che, traendo origine dalla crisi del combattentismo passa attraverso le esperienze dei gruppi come quelli di “Rivoluzione liberale” di Rosselli. Questa corrente darà poi vita a “Giustizia e Libertà” e più tardi al partito d’Azione che ebbe in Puglia una sua posizione di forza. Dopo la caduta del regime, tutta la vita amministrativa “si inquadra in una sostanziale continuità dei modi del governo locale rispetto al pre – 25 luglio, mentre sul versante politico” vi sono da registrare le deliberazioni in misura di epurazione. A fronte di un biennio 1944-45, che “registra una ulteriore progressiva disgregazione delle forme di governo e di controllo sulla situazione eccezionale” bisognerà attendere gli ultimi scorci del 1945 perché le forme di protesta popolare spontanee si tramutino “in un movimento più politicamente orientato e più attivamente gestito dalle Camere del lavoro locali”. Dai primissimi giorni del 1944, l’attenzione delle autorità civili e militari e delle neo-ricostituite forze politiche si accentra intorno all’ipotesi di tenere a Bari il Congresso dei C.L.N., dopo le difficoltà sorte a Napoli, con una minuziosissima attività di informazioni e sorveglianza estesasi sino a tutto il 29 gennaio. Altresì interessanti – ai fini di una puntuale ricostruzione storica – si manifestano i precisi e ricorrenti rapporti mensili del Questore sulla situazione dei diversi partiti riorganizzatisi nella Provincia, che consentono di seguirne i ritmi dell’incremento numerico e della localizzazione territoriale. Con l’appressarsi del 1946 i motivi politici cominciano a mutare anche nella Puglia barese: ai moti politici e ai movimenti ai protesta organizzati, tenderà sempre più a contrapporsi uno Stato che è in grado di rispondere con la forza, man mano che si avvicina a quelle elezioni amministrative. Il moltiplicarsi dello sforzo organizzativo di gruppi e partiti politici, in vista delle elezioni amministrative, la complessa procedura attivata per la consultazione politica e referendaria e i risultati elettorali, il …

Il Partito Socialista Italiano dal 1948 al Rapporto Chruščëv

di Angelica Migliorisi  La storia del Partito Socialista Italiano è quasi come quella di un paziente terminale che, non ancora disposto ad abbandonare la vita, rantola nel suo letto d’ospedale in preda a convulsioni e deliri di onnipotenza, deciso più che mai a non lasciarsi sfuggire quell’ultimo soffio di vita che gli viene concesso. La situazione sembra ripetersi all’infinito e nonostante la diagnosi continui a essere quella di “malattia terminale”, egli riesce sempre a beffarsi dei medici, a sopravvivere, tra lo stupore di molti e lo sgomento di altri. Quello che apparentemente può sembrare un paragone azzardato è in realtà un modo come un altro per connotare l’affanno e il turbamento con cui il socialismo italiano, specialmente all’indomani del secondo dopoguerra, si è barcamenato tra i marosi della politica italiana e internazionale. I socialisti avevano dato il loro addio al Fascismo sorridenti ma completamente prostrati sulle ginocchia. Il durissimo colpo inferto loro dal regime aveva reso presto impellente la necessità di una nuova istituzionalizzazione. Tra scissioni, cambiamenti strutturali e battute d’arresto il PSI era riuscito, con somma fatica, a dotarsi di un nuovo assetto organizzativo che, seppur non del tutto stabile, appariva senza dubbio dignitoso. La Fenice d’Italia era arrivata dunque alla vigilia delle elezioni del 1948 piena di speranze e voglia di riscatto, per poi arrestarsi a quel tragico 9% che ne avrebbe compromesso, ancora una volta, la sopravvivenza. Si era imposta quindi l’urgenza di una rinascita, la seconda nel giro di una manciata di anni. La sfida era ambiziosa, la posta in gioco forse ancor più elevata dell’ultima volta. I tempi d’altronde erano cambiati, la società appariva destinata a trasformazioni progressivamente più drastiche ed evidenti (di cui il boom economico sarebbe stata solo la punta dell’iceberg). Le spinte centrifughe interne alla Direzione si sommavano agli attacchi esogeni provenienti dagli altri partiti e dal clima internazionale, al punto che per il PSI, questa volta, restare a galla fu un’impresa titanica. «La lunga notte del socialismo italiano» La sconfitta elettorale aveva finito per generare un profondo solco all’interno del Partito Socialista, sia a livello di base sia a livello di Direzione. Le discussioni circa le cause dell’insuccesso si ripetevano lunghe e violente tanto in seno alla dirigenza quanto tra gli iscritti finché presto non fu avvertita la necessità di un nuovo Congresso. Le linee proposte erano tre: una di “centro” facente capo a Riccardo Lombardi e Alberto Jacometti, una di “sinistra” con Nenni e Morandi e una di “destra” guidata da Giuseppe Romita. Il “centro” perseguiva la rottura del Fronte popolare con i comunisti, pur mantenendo con essi un’alleanza strategica, al fine di ridare al PSI una veste di autonomia; inevitabile, dunque, lo scontro con la “sinistra”, feroce sostenitrice dell’unità d’azione con il PCI. Nell’inquietudine generale che ormai da anni faceva da sfondo ai Congressi socialisti, si aprì a Genova il nuovo assise, tra lo sconcerto, questa volta, di molti: Sandro Pertini, punta di diamante della linea centrista, assesta un “tiro franco” a Lombardi e compagni tirandosi fuori dalla mozione di “centro” e spiegando come l’asse PSI-PCI fosse (troppo) importante per la sopravvivenza del Partito. Tra bocche aperte, occhi sbarrati e un via vai di sali pronti a rianimare deputati svenuti, il Congresso si chiuse con la vittoria del “centro”, che sancì l’avvento alla Segreteria di Jacometti e la nomina a direttore dell’Avanti! di Lombardi. Il Partito, tuttavia, era ormai sull’orlo del precipizio e alle casse vuote si andò sommando lo scarso carisma ed eco “mediatica” della nuova Direzione. A buttare benzina sul fuoco contribuì poi un fatto del tutto eccezionale, quasi impossibile da prevedere: nel giorno in cui i francesi festeggiavano gioiosi la ricorrenza della presa della Bastiglia, tre colpi di pistola raggiungono il corpo di Palmiro Togliatti all’uscita di Montecitorio. L’onda d’urto fu tale da far salire la tensione alle stelle, con sommovimenti che sfociarono in scioperi e, addirittura, nella fuoriuscita della componente cattolica dalla CGIL. In merito all’alleanza con i comunisti, si decise allora di “dare un colpo al cerchio e uno alla botte”: il Fronte veniva mantenuto a livello tattico ma il PSI diventava autonomo a livello organizzativo. Intanto la Direzione doveva far fronte alle veementi e continue tensioni provenienti dall’esterno, soprattutto da quei funzionari che, non riconoscendo il nuovo centro, avevano ripreso a tessere i rapporti con Nenni e Basso. Quando la Direzione si decise a sciogliere il Fronte, iniziò un’opera di infiltrazione comunista all’interno della base socialista (avallata da Togliatti) con l’obiettivo di evitare la rottura definitiva dell’idillio, un’eventualità tragica per i comunisti soprattutto all’indomani dell’attentato. Gli attacchi alla Direzione erano dunque molteplici, scanditi dagli incontri tra Nenni e Malenkov (secondo di Stalin) che rendevano evidenti le mire della “sinistra” di riprendersi il vertice. Circondato da piranha di ogni specie e dimensione, il “centro” aveva come unica chance quella di un’intesa con Romita. Il rifiuto del politico di Tortona fu però così categorico da lasciare completamente isolata la Direzione, ormai sotto scacco. La strada da percorrere rimaneva una e una soltanto: la convocazione di un nuovo Congresso, tra l’incredulità di quanti, avendo fatto un rapido conto, si erano accorti che quello sarebbe stato il quinto in soli tre anni. Le mozioni presentate erano sempre le stesse e, come da pronostico, la “sinistra” uscì dall’assise fiorentino completamente vittoriosa (51%). Nenni, trionfante, riprese il suo posto al tavolo dei “grandi” e, con lui, Morandi e Basso. Il cambiamento nella Direzione avrebbe sancito una svolta strutturale dell’intero assetto partitico in senso autoritario e l’impronta morandiana si sarebbe fatta sentire severa e implacabile. Per dirla con Paolo Mattera, la «lunga notte del socialismo italiano» era appena iniziata. Di fronte alla crisi persistente in cui gravava il partito, la nuova Direzione (composta da un gruppo esiguo di uomini fidati) decise di applicare una linea rigida e inflessibile, che aveva il suo uomo di ferro in Rodolfo Morandi. La strategia utilizzata comprendeva un irrigidimento dei processi amministrativi e di controllo, un approccio paternalistico, una politica d’indirizzo e uno “svecchiamento” dei funzionari di partito, il tutto condito con un pizzico …

La Fenice d’Italia: storia socialista dalla Resistenza al 1948

di Angelica Migliorisi A molti italiani, se venisse chiesto loro di indicare una foto simbolo del secondo dopoguerra, tornerebbe alla memoria il volto radioso di una giovane donna, che fa capolino dalla prima pagina del Corriere della Sera, con un titolo quanto mai evocativo a incorniciarle i capelli: «È nata la Repubblica italiana». Che l’atmosfera fosse festosa, quel 2 giugno 1946, è testimoniato da quella che diventerà una delle foto più celebri della storia italiana, e come sarebbe potuto essere altrimenti, d’altronde, considerando il giogo cui erano stati costretti gli italiani per così tanti anni? Era tempo di spegnere i fornelli, indossare l’abito da festa abbandonato nell’armadio e quasi dimenticato, scendere in strada, ballare e, perché no, farsi immortalare con la testa infilata in un buco ricavato “alla buona” in una copia dello storico giornale milanese. Non è mai bello fare il “guastafeste”, soprattutto di fronte a un quadro così allegro e gioviale, ma ogni medaglia, come recita una popolare espressione, ha sempre un suo rovescio: nel caso di specie, il Belpaese si era trasformato già da tempo nel set di un film di Sergio Leone, in un terreno riarso, cioè, da irrorare, ricostruire e rieducare ai sacri valori della democrazia, umiliata e seviziata da un ventennio di dittatura fascista. Ad assumersi l’onere (e senz’altro l’onore) di posizionarsi dietro alla cattedra, con tanto di bacchetta in mano, furono i partiti, altrettanto in ginocchio ma forti, pur sempre, del potere aggregante delle idee. Anche il Partito socialista italiano tentò di assolvere questo compito, ma lentamente e faticosamente perché, appena risorto dalle sue ceneri, si trovò investito da nuove sfide che ne avrebbero minato, ancora una volta, la sopravvivenza. A (new) born Quando ormai la seconda guerra mondiale stava quasi per volgere al termine, il PSIUP (nato nell’agosto 1943 dall’unione di PSI e MUP, il “Movimento di unità proletaria” di Lelio Basso) risuscitò come un’araba fenice in maniera del tutto “spontanea e decentrata”, prendendo in prestito due felici aggettivi usati dal Professor Paolo Mattera nella monografia Il partito inquieto. Organizzazione, passioni e politica dei socialisti italiani dalla Resistenza al miracolo economico: “spontanea” perché venne rimesso in piedi dai vecchi uomini di partito, costretti all’esilio durante il ventennio fascista e tornati in patria dopo il 25 luglio 1943, “decentrata” perché la ramificazione del partito presso la società civile presentava profonde divergenze tra Nord e Sud del Paese. D’altronde la “questione agraria”, che vedeva protagoniste le rivendicazioni terriere da parte dei contadini, era stata trattata in maniera piuttosto ambigua dai socialisti, i quali avevano fatto ideologicamente propria la causa delle masse rurali senza tuttavia schierarsi de facto al loro fianco. Il timone era stato lasciato così nelle mani del PCI che, a causa della vicinanza ideologica a Mosca e del fascino che questa esercitava in quegli anni, era potuto sopravvivere durante il fascismo, seppure in clandestinità, ritagliandosi spazi sempre più ampi di adesione popolare. Ad accreditare la presenza comunista sul territorio italiano durante la Resistenza aveva contribuito, inoltre, la decisione dei vertici del PSIUP di non incoraggiare la creazione di brigate socialiste che combattessero i fascisti, vagheggiando, di contro, la creazione di un «esercito popolare […] che avrebbe permesso una guida dall’alto della Resistenza», per usare ancora le parole di Paolo Mattera. Sarà Sandro Pertini, liberato nel 1943 dopo una lunga reclusione per attività antifascista, a foraggiare le brigate Matteotti, quando ormai, però, la mobilitazione messa in atto dalle rosse brigate Garibaldi era diventata così capillare da fagocitare ex esponenti, militanti e simpatizzanti socialisti. Molto diversa era la situazione del PSIUP al Nord, dove la rinascita del PSIUPAI (PSIUP Alta Italia) a opera, ancora una volta, di Pertini, nonché il vigore di personaggi come Lelio Basso e Rodolfo Morandi, aveva permesso il raggiungimento di una maggiore capillarità organizzativa: da un lato, attraverso la divisione delle città in un numero di zone pari ai quartieri urbani e la diffusione martellante dell’ideologia socialista tra i contadini e gli operai, dall’altro, mediante una profonda verticalizzazione del potere decisionale. Le divisioni geografiche esistenti tra Nord e Sud, nonché quelle tra veterani e nuove leve del socialismo, risultarono ancora più evidenti quando si trattò di scegliere l’impostazione organizzativa da dare al partito. Nello specifico, erano quattro le possibili strutture vagheggiate: una che riecheggiava la costruzione del PNF, una che agognava l’emulazione della costruzione partitica comunista e una che si rifaceva alla struttura localistica del PSI antecedente al fascismo. L’ideale di Giuseppe Faravelli rientrava in questa terza categoria e si esplicava nel rifiuto dell’allineamento con Mosca e, quindi, con il PCI, creando un terreno fertile per il matrimonio politico con Giuseppe Saragat, anch’egli strenuo sostenitore della necessità di svincolarsi dal mito sovietico. Lelio Basso, d’altro canto, riteneva che il PNF rappresentasse un esempio calzante di partito magistralmente strutturato e organizzato sul territorio e che dovesse essere quindi il prototipo da seguire al fine di rendere il PSIUP l’elemento “moralizzatore” delle masse. Se entrambi i dirigenti sostenevano la necessità di creare delle strutture intermedie tra i vertici di partito e la base popolare, di diverso avviso era Pietro Nenni, allora segretario del PSIUP. Egli, forte dell’eco mediatica e del fascino esercitato dai propri discorsi sulle masse, riteneva fondamentale (ma soprattutto sufficiente) un rapporto di esclusiva bidirezionalità tra la dirigenza e la base elettorale. Ancor più discorde era poi l’opinione di Rodolfo Morandi, il quale, studiando approfonditamente comunismo e socialismo, si era convinto che anche la priorità del PSIUP dovesse essere la tutela degli operai, motivo per il quale fu in prima linea nella creazione del Comitato industriale Alta Italia: un piano, per dirla con Paolo Mattera, «che mirava a servirsi della macchina pubblica e ad avvalersi dell’esperienza dei tecnici dello Stato per svolgere un lavoro di coordinamento dell’industria, al fine […] di favorire una rappresentanza nuova e democratica delle imprese industriali». È evidente come le divergenze tra i vertici del PSIUP fossero tali da rendere sofferta ogni decisione non solo politica ma anche organizzativa. La priorità assoluta nell’agenda del partito era l’omogeneità, ma questa non poteva esser certo perseguita senza la …

Di Vittorio e il ’56 ungherese, la resa dei conti

La posizione della segreteria Cgil e del suo leader sui fatti di Budapest è in contrasto con quella assunta dal Pci. Alla direzione del partito, riunita apposta per discutere di quegli avvenimenti, per il sindacalista di Cerignola è di fatto un processo Il 23 ottobre 1956 a Budapest un largo corteo popolare di solidarietà con la rivolta di Poznań, in Polonia, degenera in scontri tra polizia e dimostranti. La notte stessa il governo, presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs, viene sciolto. La formazione del governo Nagy non impedisce il divampare della rivolta nella capitale e nel resto del Paese. Il 27 ottobre, di fronte alla decisione dei sovietici di intervenire militarmente in Ungheria, la segreteria della Cgil assume una posizione di radicale condanna dell’invasione, destinata a stroncare nel sangue la domanda di democrazia e di partecipazione reclamata dalla rivolta operaia e popolare ungherese e sostenuta dal governo legittimo di Imre Nagy. La condanna non è soltanto dell’intervento militare: il giudizio è netto e investe tanto i metodi antidemocratici utilizzati dai governi dei Paesi dell’Est Europa, quanto l’insufficienza grave delle stesse organizzazioni del movimento sindacale. Nella stessa giornata del 27, Di Vittorio rilascia a un’agenzia di stampa una dichiarazione del tutto personale nella quale non solo vengono ribadite le cose dette nel comunicato della segreteria, ma vi si aggiungono parole di piena e convinta solidarietà con i ribelli di Budapest: “In ordine al comunicato emesso oggi dalla segreteria della Cgil sui fatti di Ungheria che tanto hanno commosso i lavoratori e la pubblica opinione – commenta il leader della confederazione –, credo di poter aggiungere che gli avvenimenti hanno assunto un carattere di così tragica gravità che essi segnano una svolta di portata storica. A mio giudizio sbagliano coloro i quali sperano che dalla rivolta tuttora in corso, purtroppo, possa risultare il ripristino del regime capitalistico e semifeudale che ha dominato l’Ungheria per molti decenni”. È un fatto, prosegue Di Vittorio, che tutti i proclami e le rivendicazioni dei ribelli conosciuti attraverso le comunicazioni ufficiali di radio Budapest, “sono di carattere sociale e rivendicano libertà e indipendenza. Da ciò si può desumere chiaramente che – ad eccezione di elementi provocatori e reazionari legati all’antico regime – non ci sono forze di popolo che richiedono il ritorno del capitalismo o del regime di terrore fascista di Horthy. Condivido quindi pienamente l’augurio espresso dalla segreteria della Cgil che anche in Ungheria il popolo possa trovare in una rinnovata concordia nazionale, la forza per andare avanti sulla strada del socialismo”. La posizione del segretario della Cgil è nettamente in contrasto con le posizioni assunte dal Pci. Sulla “situazione del partito in relazione ai fatti di Ungheria”, il 30 ottobre si riunisce la direzione. Per Di Vittorio è di fatto un processo. Presenti Togliatti, Longo, Amendola, Li Causi, Scoccimarro, Sereni, Roveda, Pajetta, Dozza, Di Vittorio, Colombi, Berlinguer, Secchia, Roasio, M. Montagnana, R. Montagnana, Pellegrini, Terracini, Boldrini, D’Onofrio e Ingrao. Assenti Novella, Spano e Negarville. Partecipano alla discussione Pajetta, Di Vittorio, Roveda, Roasio, Secchia, Pellegrini, Amendola, Ingrao, Boldrini, Li Causi, M. Montagnana, Colombi, Sereni, Dozza, Terracini, Berlinguer, Pajetta, Longo, Di Vittorio. Così, sulla presa di posizione di Di Vittorio, Emilio Sereni: “L’unità nella nostra direzione è di importanza fondamentale e questa unità non può avvenire che attorno al compagno Togliatti. Con la sua dichiarazione il compagno Di Vittorio si è contrapposto alla direzione”. Rincara la dose Dozza: “È noto in tutto il quadro confederale che Di Vittorio dà poca importanza al parere della direzione. Esigenza della disciplina. Sono per la lotta sui due fronti, ma deve essere lotta e ogni membro della direzione deve assumersi le sue responsabilità”. Duro anche Scoccimarro: “Gravissimo errore di Di Vittorio nell’aver ignorato l’esperienza storica”. Più morbido nei confronti di Di Vittorio, ma comunque deciso, Roveda: “Sono d’accordo anche con l’articolo di Togliatti di stamattina (apparso su Rinascita, n. 10/1956, ndr) che pone il problema sul terreno di classe di fronte alla canea avversaria. Gli operai non avrebbero capito che l’esercito sovietico non fosse intervenuto per difendere il socialismo. Gli intellettuali dopo il XX Congresso vanno tutti alla ricerca del partito. Capisco la situazione molto difficile nella Cgil, ma si poteva evitare quella presa di posizione. I socialisti vogliono indebolire il nostro partito e dobbiamo evitare atti che li aiutino in questo. Non è vero che la posizione della classe operaia sia quella della Cgil”. Assente Novella, conclude Palmiro Togliatti: “Dopo aver risposto alle argomentazioni sviluppate dai compagni – si legge sempre nel verbale – egli sottolinea che la posizione del comunicato della Cgil non è giusta. Ritiene che i comunisti della segreteria confederale avrebbero potuto e dovuto insistere per ottenere una posizione più giusta e che non disorientasse l’opinione dei lavoratori. In particolare osserva e deplora che il compagno Di Vittorio abbia aggiunto al comunicato un suo commento, non concordato con la segreteria del partito e divergente dalla linea del partito”. “La dichiarazione [di Di Vittorio] – aggiunge il segretario del Pci – non è stata concordata con noi e ha aumentato il disorientamento nel partito […] In questo momento come si può solidarizzare con chi spara contro di noi mentre si cerca di creare una grande ondata reazionaria? […] Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia”. Molti anni più tardi, nel volume “Di Vittorio e l’ombra di Stalin” (Ediesse 1997), Adriano Guerra e Bruno Trentin scrivono: “Alle critiche di Togliatti a Di Vittorio si associarono, con argomentazioni e toni non sempre collimanti, tutti i membri della direzione. Alcuni intervennero anche sul merito, come Roasio, Secchia (secondo il quale occorreva pero ‘abituarsi in certi momenti difficili ad avere anche posizioni diverse tra partito e Cgil soprattutto se si allargherà l’unita sindacale’), Colombi (‘La posizione di Di Vittorio non può essere approvata dalla Federazione sindacale mondiale di cui è presidente. Cattivo il suo metodo di fare tutto da sé. I socialisti cercano di dirigere la Cgil’)”. Altri posero soprattutto “un problema di disciplina, come Ingrao (‘Il compagno Di Vittorio sapeva di dire cose diverse da quelle della direzione …

Zimmerwald va a Stoccolma

L’ADL del 25 agosto 1917 ospita un articolo – Intorno alla terza conferenza di Zimmerwald – che Angelica Balabanoff ha inviato il 15 agosto da Stoccolma, e che programmaticamente non tratterà della conferenza “social-diplomatica” promossa dal Soviet di San Pie­tro­burgo nella capitale svedese in quei giorni. Di ciò parlano già tutti i giornali, riferisce la Balabanoff. E la maggior parte dei commentatori non tiene nel dovuto conto la situazione russa, altamente instabile. Sicché i pro­blemi all’orizzonte stanno assumendo la forma dell’aut aut: o pace o guerra, o rivoluzione o contro-rivoluzione, o Lenin o Kerenskij. Gli “internazionalisti” si riuniranno a Stoccolma anch’essi, ma se­pa­ratamente dai “social-diplomatici”, in una Terza Conferenza di Zim­merwald che si celebrerà «lontano dal rumore, lontano dalle strombazzature della stampa» al seguito del tour che il Soviet di San Pietroburgo, qui ancora in formazione politica filo-Kerenskij, sta svolgendo in Europa. Sulla tappa italiana dei rappresentanti russi la Balabanoff si astiene da giudizi definitivi: «E questo riserbo è tanto più indicato in quanto gli stessi giornali si vanno contraddicendo e smentendo a vicenda. Mentre gli uni narrano di un telegramma di solidarietà, di auguri mandato a Kerensky dai ministri ed interventisti italiani e dagli ospiti russi, gli altri raccontano che questi ultimi si sono rifiutati di firmare il telegramma» (ADL 25.8.1917). Di che cosa stiamo parlando? Di come circolavano le notizie cento anni fa: «Ancora non conosciamo la risposta dei delegati russi al brin­di­si di Bissolati coll’augurio di “schiacciamento del nemico esterno ed interno”. Tutti questi particolari li sapremo con precisione al ritorno dei delegati del “Soviet”, i quali dovranno naturalmente rendere conto esat­to del loro viaggio anche alla minoranza, non ancora incarcerata, del “Soviet”». Dunque, stiamo parlando anche della minoranza bol­scevica, in parte incarcerata e clandestina, ma lanciata in splendida solitudine nella causa della “pa­ce subito”. Intanto è in corso un tentativo di golpe dello Stato Maggiore, al seguito del generale Lavr Georgievič Kornilov. Fallirà, com’era da poco fallita la “Offensiva Kerenskij”, anch’essa guidata da Kornilov. Entrambi i fallimenti, l’Offensiva a luglio come il Golpe ad agosto, accadono non da ultimo a causa dello scarsissimo entu­siasmo, diciamo, che i propositi delle élites mietono presso il popolo dei soldati e dei lavoratori russi. In tutt’Europa infuriano la guerra e (ovviamente) la propaganda di guerra, che però non cancella milioni e milioni di ragazzi morti inutilmente sul “campo d’onore”. Una grande spaccatura, segnala la Balabanoff, si sta consumando «fra i Zimmerwaldiani ed i social-diplomatici», investendo con forza le fila del movimento operaio. Percorrerà tutto il secolo breve, fino alla caduta del Muro di Berlino. L’anno 1917 è il momento a partire dal quale si può comprendere come questa faglia sia potuta nascere e come essa poi abbia assunto una traiettoria a dir poco inaudita. Gli uni «parlano bensì a nome di 250 milioni di proletari organizzati, ma non a nome di coloro che per la volontà del dittatore della nuova Russia (…) vengono condannati a morte, perché guidati da criteri certo non meno rivoluzionari di coloro che animano i “compagni” al potere, e perché ritengono l’offensiva essere un delitto nonché uno sfacelo» (ADL 25.8.1917). Angelica si mostra sprezzante sulla catastrofica “offensiva” che porta il nome del premier laburista e soprattutto sugli “entusiasmi” suscitati da Kerenskij presso i grandi opinionisti “intesofili”, grazie ai quali è «di­ventato una persona celeberrima da un giorno all’altro per il tele­gramma col quale egli chiedeva d’urgenza la reintroduzione della pena di morte» (ADL 25.8.1917). Quello della dignità personale, che include l’intangibi­lità della vita di ciascuno, è un tema fondamentale per il quale siamo tutti debitori del movimento per la pace di cent’anni fa. Allo scopo di illustrare questo punto, la Dottoressa Angelica disegna il ritratto di un esponente dei “guerraiuoli” russi, Savinkoff: «Anni fa scrisse un romanzo a tesi, in cui esprimeva i dubbi ed i rimorsi di un terrorista che toglie la vita a chi egli considera nemico ed ostacolo della libertà e della felicità delle molti­tu­di­ni oppresse». Il terrorista qui è Savinkoff stesso, pentito. Il sen­ti­mento morale antiterrorista della Balabanoff non fa velo all’apprez­za­mento letterario per il libro: «era scritto bene da chi aveva sentito evi­den­te­mente gli scrupoli ed i conflitti di cui parlava. I terroristi si pre­paravano a rivedere ed a ritoccare quella parte del programma che ri­guar­dava l’inviolabilità della vita umana, quando ecco questa revisione viene fatta da una fonte autentica. Chi sentiva tanti scrupoli di fronte alla soppressione di un individuo solo (…) si emancipa da ogni scru­polo quando si tratta di condannare al capestro intere moltitudini ree di non aver voluto uccidere i loro fratelli proletari» (ADL 25.8.1917). L’allusione è nuovamente alla pena di morte reintrodotta nell’esercito russo dal governo Kerenskij contro l’opposizione di Lenin, che viene accusato di ogni nefandezza: «Dicono bensì certi giornali che uno dei delegati dei “Soviet” abbia dichiarato essere Lenin un uomo onesto (affrettandosi però di aggiungere che le teorie di Lenin sono pericolose, come è pericoloso il suo “entourage”, nel quale si sono infiltrati degli agenti tedeschi…)». Queste insinuazioni proverrebbero, scirve Angelica, dalla più infame delle coalizioni, che sta «com­plot­tando contro l’onore, la libertà e la vita stessa» del leader bolscevico: «bisogna pur dire che in un momento in cui tutti gli interessati, tutti i prezzolati, tutti i pettegoli si accaniscono a dimostrare che i fautori dell’Internazio­nale sono dei venduti, non bastano quelle dichiarazioni, non basta dire che Lenin è “onesto”, “idealista”, ecc., bisogna pure dire di quante insinuazioni egli è vittima perché lo è, e bisogna “difenderlo”» (ADL 25.8.1917). Insomma, se il movimento Zimmerwald deve decidere tra la pena di morte restaurata e la minoranza leninista perseguitata, il dado è tratto. Peccato che Lenin e i leninisti disprezzino la dignità e la vita indivi­dua­le non meno dei loro persecutori. Peccato che la trasfusione di so­li­da­rietà da parte zimmerwaldiana sia destinata a una delle più tragiche, pla­teali e cocenti delusioni della storia. Peccato che nella fossa comune delle vittime del regime nascente debbano finire di lì a pochi anni nu­me­rosissimi esponenti bolscevichi e compagni di strada internazio­na­listi, che formavano l’”entourage” leniniano del 1917, …

A proposito di Marcia su Roma

A proposito di Marcia su Roma e delle sue conseguenze, ricordiamo cosa accadde il 28 ottobre di 95 anni fa. Mussolini non vi partecipò, soprattutto perché non era sicuro che quella marcia avrebbe avuto successo, in quanto non sapeva ancora che il re non avrebbe firmato lo stato di assedio. Il re non firmò e i fascisti ebbero campo libero, anche se qualcuno di loro ci rimise la pelle perché ad alcuni reparti dell’Esercito la notizia arrivò tardi. I fascisti erano effettivamente tanti ma male armati, entrarono a Roma solo il 30, dopo che il re ebbe invitato Mussolini a formare un nuovo governo, si provò a tergiversare offrendogli una coabitazione con Salandra, ma il Duce rifiutò sdegnosamente ed accettò di andare a Roma solo previo invito telegrafico scritto di un delegato del re. Le forze della sinistra di allora restarono paralizzate, l’unica reazione si ebbe da parte di qualche gruppo sparso e minoritario di Arditi del Popolo, a Roma nel quartiere S. Lorenzo, tanto che lo stesso Nenni scriverà poi “non restava al partito socialista che galvanizzare, in un estremo tentativo di resistenza e di riscossa, le sue forze. Anche a battaglia ormai perduta, un atto di coraggio poteva salvare molte cose, poteva ad ogni modo lasciare il lievito di una rapida riscossa. Ma neppure di un estremo atto di fierezza e volontà ci mostrammo capaci” Dopo essersi insediato, il 16 novembre, Mussolini pronunciò un suo famoso discorso in cui, tra l’altro disse: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi: ne sono tranquillamente usciti, ed hanno ottenuto libera circolazione. Ho costituito un governo di coalizione e non già con l’intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso benissimo fare a meno; ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare”. Dichiarazioni sprezzanti che però non impedirono alla maggioranza dei parlamentari, il giorno successivo, di votare la fiducia a Mussolini che la ottenne con 306 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti. Votarono contro solo comunisti e socialisti. Lo stesso quotidiano Avanti! che non era ancora stato imbavagliato del tutto, titolò a piena pagina: “Il censimento degli invertebrati alla Camera“, seguiva un articolo di fondo dal titolo “Dalla tragedia alla farsa“. E non era finita lì Il 25 novembre Mussolini chiese allo stesso Parlamento i pieni poteri, si discusse pochissimo e il voto fu ancora più schiacciante: 275 sì contro 90 no. Ricordiamo che in quel parlamento i fascisti presenti erano ancora solo 35. In pratica il Duce fu eletto dittatore “democraticamente”. Attenzione dunque ai “miracoli” della “dementocrazia“. Carlo Felici   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it