1956: LA RIVOLUZIONE UNGHERESE

di Aron Coceancig Il 23 ottobre 1956 il popolo ungherese insorge. Una rivolta per conquistare libertà e indipendenza. I fedelissimi del regime stalinista vengono sbaragliati facilmente dagli ungheresi in armi che però non avevano fatto i conti con gli equilibri internazionali. L’Ungheria, piccolo paese uscito con le ossa rotte dal secondo conflitto mondiale, si ritrova a combattere contro una superpotenza militare, l’Unione Sovietica. Davide contro Golia, ma in questo caso la storia è stata drammaticamente sfavorevole a Davide. L’invasione sovietica stronca l’animo rivoluzionario dei giovani ungheresi che muoiono sotto i colpi dei carri armati. L’Ungheria viene “normalizzata” e dei giovani del 1956 non se ne parlerà più, se non clandestinamente, fino al 1989. Una rivoluzione epocale, che ha un posto importante nella storia europea e che è ancora oggi fonte di dibattito tra storici e politici sul ruolo che ha avuto e sugli obiettivi che i rivoluzionari si proponevano. Il 1956 ungherese è stato senza ombra di dubbio un avvenimento europeo che ha racchiuso al suo interno le contraddizioni di un continente uscito da due guerre mondiali ed appena immerso in una lotta ideologica che non lasciava scampo. Anche per questo la Rivoluzione è stata interpretata come movimento nazionale per l’indipendenza, come rivolta operaia e operaista, come insurrezione anti-comunista o come movimento per un socialismo democratico. Tante diverse interpretazioni che partono dal presupposto di una violenta ribellione del popolo ungherese contro il totalitarismo degli anni ’50. L’Ungheria stalinista Dopo la seconda guerra mondiale l’Ungheria vive una breve parentesi democratica dal 1945 al 1948. Nel dopoguerra la costruzione del socialismo ungherese procede difficilmente tanto è vero che alle elezioni del 1945 il Partito Comunista è appena terzo, uno dei partiti più deboli dell’Europa orientale. Il leader stalinista Rákosi inizia così un tenace lavoro di conquista del potere ed in meno di 3 anni, grazie alla tattica del salame da lui inventata, riesce a neutralizzare le opposizioni e a creare un regime totalitario. Gli anni del regime Rákosi sono contrassegnati dal culto della personalità, dal regime poliziesco, dalle requisizioni nelle campagne e da una profonda crisi economica. Rákosi si vanta di essere più stalinista di Stalin, un biglietto da visita non molto digeribile per il popolo ungherese. E proprio la morte di Stalin apre nuovi scenari a livello internazionale ma anche in Ungheria dove l’ala riformista del partito comunista trova nuove energie grazie alla nuova leadership di Mosca. Imre Nagy, capo di quest’area diventa primo ministro (1953) e apre una fase nuova contrassegnata da: rallentamento delle misure contro i contadini, rilascio dei prigionieri politici, stabilizzazione della situazione economica. Questo nuovo corso dura però poco, perchè nel 1955 gli stalinisti in Ungheria riprendono forza e potere marginalizzando Nagy. Il ritorno al potere della cricca di Rákosi (in primis Ernő Gerő) è mal digerito dalla popolazione ungherese. L’ottobre ungherese Le rivoluzioni si sa iniziano da intellettuali e studenti, ma possono trionfare solo con gli operai. E nella rivoluzione ungherese ci sono tutti e tre questi protagonisti. Sono gli intellettuali del Circolo Petőfi che nei mesi precedenti l’ottobre si riuniscono per criticare il potere. Sono gli studenti, prima a Szeged e poi a Budapest, che si riuniscono in associazioni e indicono la manifestazione del 23 ottobre. Corteo al quale si uniscono nel pomeriggio gli operai che terminavano il loro turno di lavoro. Il 23 ottobre così il popolo ungherese si trova di fronte al parlamento e scandisce con forza il nome di Imre Nagy. Giovani Rivoluzionari Ungheresi La stessa sera iniziano anche i primi scontri armati nelle vicinanze della Radio. Da lì si susseguono giorni frenetici. Imre Nagy diventa primo ministro; un po’ ovunque sorgono Consigli Operai e Gruppi rivoluzionari; l’esercito ungherese appoggia la rivoluzione. E tra giorni di festa per la riconquistata libertà e di lutto per le stragi compiute dalla polizia stalinista (“giovedì di sangue”, il 25 ottobre, muoiono centinaia di persone), la rivoluzione trionfa. L’AVH (polizia politica) viene sciolta, le truppe sovietiche si ritirano e nasce un governo di coalizione guidato da “zio Imre“. La storia ungherese però non lascia spazio a rivoluzioni vittoriose, le tragedie sono sempre dietro l’angolo. E questa volta dall’angolo spunta l’esercito di una superpotenza contro la quale si può fare ben poco. La rivoluzione viene abbattuta con l’invasione del 4 novembre. 3.000 carri armati, 100.000 fanti contro una città difesa soprattutto da giovani e operai mal armati. Grande è ancora il dibattito storico sul secondo intervento sovietico, sulla situazione internazionale (la crisi di Suez), sul ruolo di Kádár (il grande traditore) e sugli obiettivi socio-politici che avevano i rivoluzionari. Il fatto indiscutibile è però che l’Ungheria viene schiacciata. La repressione Gli scontri terminano poco prima di Natale e lasciano sulle strade di una Budapest distrutta 3.000 morti. Mentre a comandare la città tornano i tanto odiati sovietici. Negli anni successivi la mano del governo Kádár non sarà affatto morbida. Migliaia gli ungheresi incarcerati, centinaia quelli che vengono giustiziati tra cui l’appena diciottenne Péter Mansfeld. Duecentomila lasciano il paese. La nuova Ungheria kadariana fonderà il suo potere su una grande bugia: “il 1956 è stata una contro-rivoluzione“. Fonte: ungherianews.com     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

I massimalisti russi

I massimalisti russi è il titolo di un articolo che inizia a centro pagina sull’ADL dell’11 agosto 1917 e va a concludersi nelle tre colonne di spalla. La sigla “a.g.” e l’indicazione di provenienza da “Il Grido del popolo di Torino” segnalano che l’autore qui è un ventiseienne di nome Antonio Gramsci. Non sappiamo se il giovane dirigente socialista sia a co­no­scenza o me­no dell’evoluzione politica in Russia in tutte le sue deter­minanti. Non pare, per esempio, che Gramsci sappia già della fuga di Lenin in Fin­lan­dia o delle determinazioni di Kerenskij circa la con­ti­nuazione della guerra. Certo è che Lenin e Kerenskij, anche per il fu­tu­ro fondatore del PCdI, sono i gran duellanti di Russia, l’uno campione massimalista, l’altro dei socialisti moderati. Quel che emerge dallo scrit­to non è “l’ana­lisi concreta di una si­tua­zione concreta”, ma piut­to­sto un ragio­na­mento speculativo, con retro­gusto di sapore neo-idealista. Aleksandr Kerenskij e i socialisti moderati «sono l’oggi della Rivoluzione, sono i realizzatori di un primo equilibrio sociale», questa la premessa gramsciana. Grazie ai moderati dell’oggi: «la Russia ha avuto però questa fortuna: che ha ignorato il giacobinismo». Nella nuova Russia nata dalla Rivoluzione di Febbraio vige il pluralismo. Perciò si sono formati numerosi gruppi politici «ognuno dei quali è più audace, e non vuole fermarsi, ognuno dei quali crede che il momento definitivo che bisogna raggiungere sia più in là, sia ancora lontano». La lotta va avanti: «tutti vanno avanti perché c’è almeno un gruppo che vuole sempre andare avanti, e lavora nella massa, e suscita sempre nuove energie proletarie, e organizza nuove forze sociali che minac­ciano gli stanchi, che li controllano e si addimostrano capaci di sosti­tuirli, di eliminarli se non si rinnovano… Così la rivoluzione non si ferma, non chiude il suo ciclo» (ADL 11.8.1917). La constatazione dell’instabilità politica russa assume in Gramsci i contorni di un’ontologia del movimento storico. In esso la Rivoluzione per propria natura intrinseca: «Divora i suoi uomini, sostituisce un gruppo con un altro più audace e per questa instabilità, per questa sua mai raggiunta perfezione è veramente e solamente rivoluzione». In Gramsci la storia stessa sembra procedere in analogia con il lavoro umano e – così come c’è un lavoro “morto” che vediamo imprigionato nel capitale e nei mezzi di produzione e c’è un lavoro “vivo” che ve­diamo sprigionarsi dall’attività operaia – così c’è una storia “morta” dentro la stabilità delle istituzioni, in contrasto con l’azione rivo­lu­zio­naria che è storia viva. Di più, la rivoluzione e “vita” tout court, e anzi: «Tutta la vita è diventata veramente rivoluzionaria: è un’attività sempre attuale, è un continuo scambio, una continua escavazione nel blocco amorfo del popolo» (ADL 11.8.1917). Con chiaroveggenza divinatoria è evocata l’immagine dell’incendio cosmico, che «si propaga, brucia cuori e cervelli nuovi, ne fa fiaccole ardenti di luce nuova, di nuove fiamme… La rivoluzione procede fino alla completa sua realizzazione». In questo stato nascente vengono suscitate nuove energie e propagate nuo­ve “idee-forze”, sicché gli stadi graduali dell’evoluzionismo sociale possono essere bypassati dal pen­siero vitalistico-rivoluzionario. Esso in via di fatto «nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie fra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale. Queste espe­rien­ze basta che si attuino nel pensiero perché siano superate e si possa procedere oltre» (ADL 11.8.1917). Ma i massimalisti devono ora entrare in scena come “ultimo anello logico di questo divenire rivoluzionario”. Il punto d’arrivo dell’intero movimento non può abitare nella casa dei riformisti che rappre­sentano solo uno stadio dialettico transitorio. Ma tutto deve approdare infine ai massimalisti che incarnano l’essenza dell’evento e «sono la continuità della rivoluzione, sono il ritorno della rivoluzione: perciò sono la rivoluzione stessa» (ADL 11.8.1917). Se Kerenskij è la stazione di partenza, quella d’arrivo si chiama dunque Lenin. E il futuro fondatore dell’URSS ha ormai «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo. Sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti» (ADL 11.8.1917). La tempesta vitalistica scompone e ricompone gli «aggregati sociali senza posa e impedisce… il formarsi delle paludi stagnanti, delle mor­te gore». Dopodiché, seconda divinazione di Gramsci, financo «Lenin e i suoi compagni più in vista possono essere travolti nello scatenarsi delle bufere che essi stessi hanno suscitato». Ed è proprio questo il travolgimento che, in effetti, accadrà già a partire dalle prime dure repliche della storia. E a quel punto Antonio Gramsci, non più ventiseienne in Torino, inizierà a lavorare al nucleo della sua riflessione filosofica più propria, l’idea-forza di una “egemonia culturale” intesa come conditio “so­vra­strut­tu­rale” della rivoluzione proletaria. L’egemonia deve avere luogo anzitutto nella coscienza delle masse. Senza il loro consenso s’in­stau­rerebbe, infatti, soltanto un “dominio” fattizio: un’oppressione vio­lenta, “giacobina”, sostanzialmente instabile. In questo modo, però, l’idea-forza gramsciana approderà a un luogo molto distante rispetto a quello dell’assalto alle casematte del potere che il “massimalismo” leniniano si appresta a celebrare con la presa del Pa­lazzo d’Inverno. La sua “egemonia culturale” si collocherà semmai nei pressi della teoria della “rivoluzione sociale” che il riformista Tu­rati tratteggerà a Livorno nel gennaio del 1921. Fonte: L’Avvenire del Lavoratore SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

Il rapporto di Lenin col socialismo italiano

La rottura definitiva tra socialisti e comunisti italiani avviene al XVII congresso di Livorno (gennaio 1921), allorché i centristi, che avevano la maggioranza, si rifiutarono di rompere coi riformisti. I delegati di sinistra abbandonarono il congresso e fondarono il Pci. Nel marzo 1921 Lenin plaude alla scissione di Livorno, ma si rammarica che ciò non sia avvenuto prima dello scoppio della guerra. I bolscevichi avevano rotto coi menscevichi sin dal 1903 e il dirigente socialista Lazzari – osserva Lenin – non fa che arrampicarsi sugli specchi quando invoca il fatto che l’Italia è diversa dalla Russia e che i socialisti italiani conoscono la “psicologia” dei loro concittadini. In aprile Lenin dichiara che l’Italia ha firmato un accordo con la Georgia per sfruttare le miniere di carbone del Caucaso, non avendo proprie fonti energetiche. E, considerando un altro accordo con la Germania, Lenin comincia a pensare che l’embargo contro la Russia, imposto da Usa, R.U. e Francia, stia per finire. A maggio sostiene che chi in Italia vuole opporsi al “terrore proletario”, deve subire quello “fascista”: non c’è “terza via”. A giugno dichiara d’essere pronto a chiedere l’espulsione dei socialisti italiani dall’Internazionale, visto e considerato che non si sono epurati dagli elementi riformisti che boicottano la presa del potere. Mette anche in guardia i comunisti dal non “giocare” a fare i “sinistri”, finché non sono riusciti ad avere dalla loro parte la maggioranza degli operai serratiani. La questione italiana viene discussa al III congresso dell’Internazionale (22/06-12/07/1921), in seguito alla protesta del Psi di essere stato espulso e di considerare solo il Pci una sezione dell’Internazionale in Italia. Lenin esordisce ricordando a Lazzari che Turati è un “traditore” della II Internazionale non meno di Bernstein: hanno praticamente iniziato insieme, e Turati ha potuto “disorganizzare” il Psi e il movimento operaio per vent’anni, senza che nessuno abbia mai avuto il coraggio d’impedirglielo. Eppure dopo il II congresso dell’Internazionale s’era detto a Serrati che il Psi non poteva dirsi “comunista” se accettava gente come Turati tra le proprie file. Lenin dice anche esplicitamente che all’Internazionale non è piaciuto né il convegno dei socialisti riformisti di Reggio Emilia, né quello della frazione centrista di Serrati, Baratono e altri, tenuto a Firenze nel novembre 1920, con cui si era negata l’esigenza di rompere coi riformisti e che aveva subordinato l’adesione ai 21 punti al fatto appunto che coi riformisti non si voleva rompere. Tutti coloro che avevano preso parte al convegno di Reggio Emilia andavano espulsi, secondo Lenin. Lenin d’altra parte rifiuta l’accusa di voler esportare la propria rivoluzione, sia perché i delegati russi nel comitato esecutivo dell’Internazionale sono solo cinque su venti, sia perché il problema è proprio quello di non rimasticare parole d’ordine rivoluzionarie, ma di adattare i principi rivoluzionari alle particolarità dei diversi paesi. Cosa che non è stata fatta, p.es., durante l’occupazione operaia delle fabbriche italiane. In quel periodo più che di comunismo marxista si poteva parlare al massimo di anarchia. L’occupazione delle fabbriche era partita nel settembre 1920 su iniziativa del sindacato, a Torino e a Milano, poi si era estesa a tutto il Piemonte e nel nord Italia, coinvolgendo infine quasi tutto il paese (al sud infatti i contadini avevano cominciato ad occupare le terre). Ma i capi riformisti del Psi e dei sindacati ebbero paura del carattere politico assunto dal movimento e preferirono trattare con gli industriali. Questa volta Lenin cita anche Modigliani tra i riformisti da espellere. E continua a chiedersi il motivo della titubanza dei socialisti marxisti, visto che hanno già la maggioranza, a differenza dei bolscevichi, che sino al febbraio 1917 erano ancora minoritari rispetto ai menscevichi. A Livorno i centristi ebbero 98.000 voti e, nonostante fossero maggioritari, preferirono restare coi riformisti dichiarati, che ne avevano 14.000, piuttosto che espellerli creando un nuovo partito con i comunisti, che ne avevano 58.000. Tale errata decisione fu il frutto della politica di Serrati. A Lazzari, che chiedeva a Lenin di non espellere i socialisti dalla III Internazionale, altrimenti gli operai si sarebbero disorientati, Lenin rispose che gli operai, grazie all’operato di Serrati, erano già disorientati. All’inizio di luglio Lenin tiene un discorso in Difesa della tattica dell’Internazionale Comunista, il cui oggetto sono gli emendamenti che tre delegazioni comuniste (tedesca, austriaca e italiana) hanno posto alle tesi sulla tattica dell’Internazionale, proposte dalla delegazione russa. Secondo Terracini era necessario cancellare la parola “maggioranza” dalla seguente espressione: “la situazione, in parecchi paesi, si è inasprita in senso rivoluzionario e si sono organizzati parecchi partiti comunisti di massa, nessuno dei quali però ha preso nelle sue mani l’effettiva direzione della maggioranza della classe operaia nella sua lotta veramente rivoluzionaria”. L’altro emendamento è correlato a questo: mettere la parola “fini” al posto di “principi”. Lenin su questo è contrario perché con la parola “fini” si può procrastinare ad libitum l’avvento della rivoluzione, mentre i “principi” vanno rispettati subito. Lenin risponde che neppure il Pc tedesco è seguito dalla “maggioranza” della classe operaia. Terracini, secondo lui, voleva togliere quella parola, facendo vedere che la direzione della classe operaia già esiste in Italia da parte del Pc. In realtà, secondo Lenin, Terracini sopravvaluta l’importanza del Pci e lo fa perché è viziato da un certo estremismo (tant’è che Terracini avrebbe criticato l’Internazionale di non essere abbastanza “dura” coi centristi del Psi). Infatti un altro suo emendamento vuole la rimozione dei riferimenti alla “Lettera aperta” con cui il Pc tedesco aveva chiesto ai partiti socialista e socialdemocratico e ai sindacati, nel gennaio 1921, di creare un fronte unico contro la crescente reazione antioperaia (proposta che poi venne respinta dai partiti non comunisti). Terracini era convinto che quella “Lettera” fosse un vergognoso compromesso, un atto di opportunismo. Lenin invece sostiene che proprio in virtù di quella “Lettera” si poteva raggiungere il controllo della maggioranza degli operai, già tutti organizzati in vari partiti e sindacati. Lenin spiega a Terracini che i bolscevichi, pur essendo, come militanti, un piccolo partito, avevano la maggioranza dei soviet di tutto il paese russo e quasi la metà dell’esercito, che allora contava …

Vivere le conseguenze dell’Olocausto agli angoli della Storia

La scrittrice israeliana Esty G. Haym sarà in Italia dal 19 al 23 ottobre per due appuntamenti a Roma e Venezia L’autrice è a disposizione per interviste Una scrivania in un appartamento sul monte di Haifa. Un bicchiere di arak, una tazza di the verde per lavarsi la coscienza e una sigaretta che si consuma ogni volta come fosse l’ultima. Al centro, un’Olivetti Lettera 32, oggetto carico di simbologia, che non è solo un reperto da scrittore vintage, ma funziona come una sorta di macchina del tempo della memoria. Infatti, è battendo sui suoi tasti che Dvori Stern, cinquantenne insegnante disillusa, ricostruisce la storia di Ester-néni, una sorella minore della nonna piombata una notte a casa loro dall’Ungheria, dopo una travagliata fuga dalla cortina di ferro, con un bagaglio di sregolatezza e solarità, ma anche con un’indicibile tragedia nascosta tra le pieghe del passato. Ester-néni scriveva racconti in ungherese: è lei a introdurre Dvori al mondo della letteratura e a consegnarle l’Olivetti Lettera 32. Con la macchina le consegna anche il dovere della memoria, che presto si trasforma in un’indagine sul passato: su quella fuga rocambolesca dall’Ungheria, su ciò che Ester fece e ciò che non fece, sul perché salvò degli estranei anziché la sua famiglia… Vite agli angoli ci traghetta avanti e indietro nel tempo, raccontandoci la vita di quegli uomini e quelle donne che hanno vissuto agli angoli della Storia e le cui vicende sono scritte in una “lingua minore” che non trova spazio nei libri ma che, nondimeno, ha diritto a essere ricordata. Grazie al sostegno dell’Ufficio culturale dell’Ambasciata d’Israele, la scrittrice Esty G. Hayim sarà in Italia dal 19 ottobre per presentare il suo romanzo Vite agli angoli, pubblicato da Stampa Alternativa. Due gli appuntamenti fissati: A ROMA il 19 ottobre dalle 18.30 alla libreria Notebook dell’Auditorium Parco della Musica, dialogherà con l’autrice lo storico della Shoah Paolo Coen PIÙ INFORMAZIONI A VENEZIA il 22 ottobre alle ore 16, Esty G. Hayim incontrerà il giornalista, autore e traduttore Alon Altaras, presso il Museo Ebraico della Memoria in Campo di Ghetto Nuovo, 2902/b. L’AUTRICE – Esty G. Hayim (Giaffa, 1963), scrittrice e attrice tra le più note in Israele, ha studiato teatro e recitazione all’Università di Tel Aviv. Attualmente insegna scrittura creativa e scrive recensioni letterarie per i quotidiani del Paese. È autrice di quattro romanzi e di una raccolta di racconti brevi, che le sono valsi diversi premi. Vite agli angoli (Corner People) è stato pubblicato con grande successo di critica e ha ricevuto il Brenner Prize nel 2014. L’OPINIONE DI «HA’ARETZ» – «Il romanzo è assolutamente convincente nel seguire Dvori che, nella sua infanzia, vive in un mondo di fantasia e storie e, nella vita adulta, continua ad abitare nella stessa casa, spaventata dal mondo esterno. La scrittura è uno dei temi centrali: Dvori adulta sta scrivendo la storia della sua famiglia per dare voce alle “vite agli angoli” ma, allo stesso tempo, per affrancarsi finalmente da loro e dalle loro storie dell’Olocausto. Il romanzo va letto quindi anche come una via di fuga dalla e al contempo verso la storia familiare. Questa doppia fuga viene condotta con talento e coraggio, e dona al romanzo complessità e ricchezza». Avrahahm Balaban, «Ha’aretz»   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

Dopo il Che, come e più del Che: Thomas Sankara vive!

di Carlo Felici Non si è ancora spenta l’eco delle commemorazioni del cinquantenario della morte del Che, che dovrebbe iniziare la celebrazione di un altro straordinario Comandante-Presidente che fu, in tutto e per tutto, allievo del Che in Africa. Eppure, stentiamo a vedere manifesti o altro che lo riguardi. Perciò, per quanto ci è possibile, cerchiamo di colmare questo vuoto, forse dovuto al fatto che questo altro grandissimo personaggio del XX secolo è andato ancora più avanti, nel suo progetto di contestazione globale dell’imperialismo e del capitalismo, rispetto al Che, in una realtà più vicina a quella nostra contemporanea, e pertanto risulta ancora più “scomodo”. Thomas Sankara fu assassinato 30 anni fa, dopo avere cambiato radicalmente il volto e persino il nome del Paese di cui fu Presidente, dal 1983 al 1987. Fu inzialmente Primo Ministro di un governo che lo epurò e lo mise in prigione per le sue idee alquanto controcorrente, dopo soli quattro mesi dal suo insediamento. Ma, in seguito a tumultuose rivolte popolari, dopo essere stato liberato a furor di popolo, si prese la rivincita impadronendosi del potere con una rivoluzione armata. Si insediò in uno dei più poveri paesi africani, con un progetto ambiziosissimo che entrò nella nuova Costituzione: rendere felice il suo popolo. Innanzitutto cambiò nome a quello che allora si chiamava Alto Volta, una vecchia colonia francese sottomessa in tutto e per tutto a nuove forme di neocolonialismo che l’avevano resa completamente dipendente dalle importazioni, e con un debito crescente di proporzioni catastrofiche. Chiamò quel paese Burkina Faso, la “terra degli uomini liberi e integri”, con lo scopo di risollevare le sorti del suo popolo, sottraendolo non solo al colonialismo economico, ma anche a quello culturale. Diceva infatti Sankara: “Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”. Così, dopo un vasto programma per sottrarre terra alla desertificazione ed incrementare la produzione agricola, sviluppò la produzione per l’industria tessile locale, favorendo l’acquisto ed il consumo interno di manufatti prodotti nel suo paese. Come il Che, era convinto che solo l’esempio potesse trascinare il popolo e spingerlo ad una mobilitazione generale, di conseguenza ridusse il suo stipendio e tutto quello della classe dirigente del suo paese, azzerando l’uso delle auto blu ed utilizzando solo una utilitaria, con i risparmi promosse una campagna di vaccinazione di massa, contro il morbillo, la meningite e la febbre gialla, furono costruiti nuovi ospedali e dispensari di medicine nei vari villaggi. Venne varato un vasto programma di scolarizzazione con la costruzione di nuove scuole ed una lotta capillare all’analfabetismo, che tolse dalla strada quasi tutti i bambini del Burkina Faso. Sankara capì che i programmi del FMI, varati per sostenere il cosiddetto sviluppo del suo paese, non erano altro che forme subdole per incrementare il debito, privatizzare le risorse e rendere servi i suoi concittadini, rifiutò pertanto gli aiuti, mise in atto un piano di autosufficienza alimentare basato sullo sviluppo delle campagne e delle risorse locali per produrre e diffondere beni di prima necessità, a partire dal pane per il quale non fu più utilizzato il mais che doveva essere importato, ma la farina di miglio prodotta in loco. Tutto ciò potè garantire a tutti almeno due pasti al giorno e circa 5 litri d’acqua quotidiani pro capite, un vero e proprio miracolo di autopromozione mai realizzato prima in Africa, e dovuto in gran parte al grandissimo entusiasmo ed alla partecipazione di tutta la popolazione a tale sforzo di crescita, in particolare delle donne. Le donne, infatti, ricevettero da Sankara una grandissima attenzione nel loro processo di emancipazione, un evento straordinario per un continente in cui per millenni erano state condannate ad una condizione di sudditanza, e tuttora un esempio di grandissima rilevanza, considerando l’estendersi di un radicalismo islamico che continua a relegarle ad un ruolo subordinato alle esigenze maschili. Sankara fu un ecosocialista, un grandissimo innovatore: 1) sul piano ecologico, perché comprese che valorizzare le risorse ambientali avrebbe contribuito enormemente ad incrementare le risorse sociali, 2) sul piano umano, perché capì che una mobilitazione di massa non può prescindere dal coinvolgimento delle donne come protagoniste contemporaneamente della loro emancipazione e di quella del loro paese, 3) e sul piano economico perché fu pianamente consapevole che la servitù dei paesi poveri è incrementata dal loro debito e che tale catena non va allentata a poco a poco, ma spezzata definitivamente. Sankara fu ucciso perché ebbe l’ardire di contestare il suo partner principale: la Francia, paese che lo aveva colonizzato, rimproverando persino senza mezzi termini ad un presidente socialista come Mitterand di fare affari con un paese razzista come il Sudafrica, e perché ambiva a creare un esempio da diffondere in tutto il continente su come fosse possibile e necessario sfuggire alla schiavitù neocoloniale. La stessa che spinge gli abitanti del continente più ricco al mondo di materie prime ad essere i più poveri del globo, e a fuggire altrove, affollando le rotte migratorie verso l’Europa per nuove forme di schiavitù salariale. Se l’Africa fosse diventata come Sankara la voleva, non avremmo mai avuto masse così imponenti di migranti affacciarsi alle nostre coste, né miliardi affluire nelle tasche dei più loschi e crudeli trafficanti di ogni genere, in combutta con le peggiori mafie. Sankara pronunciò un discorso epocale contro il debito che tuttora è un capolavoro di denuncia e consapevolezza contro un mondo in cui la globalizzazione a senso unico neoliberista produce al contempo disastri sociali ed ambientali di proporzioni apocalittiche. Ne citiamo alcuni passaggi emblematici anche per la lotta contro certi inconcludenti integralismi religiosi alimentati ad arte proprio per contestare tali forme autentiche di socialismo quali quelle messe in atto dallo stesso Sankara a prezzo della sua vita: “La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino …

IL SOCIALISMO E’ TORNATO!

Il socialismo è tornato, per il sommo dispiacere di coloro che lo avevano dichiarato morto e sepolto alla “fine della storia” negli anni ’90. Quando il New Republic, a lungo l’house organ del neoliberismo americano, arriva a pubblicare un articolo dal titolo “Il socialismo di cui ha bisogno adesso l’America“, è chiaro che qualcosa è fondamentalmente cambiato. Il neoliberismo temperato rappresentato da Tony Blair e Bill Clinton […] ha esaurito la propria attrattiva. E non solo nel mondo anglofono. In tutta Europa, nuovi movimenti, a sinistra, sono emersi per sfidare o spodestare i partiti socialdemocratici ormai screditati dalle politiche di austerità del decennio passato. Il sostegno per il socialismo è particolarmente forte fra gli under 30, la cui esperienza economica è stata dominata dalla crisi finanziaria globale e dal successivo decennio di stagnazione economica e disuguaglianze sempre più profonde. L’esempio più significativo è rappresentato dalle recenti elezioni britanniche, dove Jeremy Corbyn ha conquistato più del 60% degli elettori fra i 18 e i 25 anni. Anche per Bernie Sanders i sostenitori più entusiasti sono rappresentati dai giovani. Per la maggioranza dell’attuale classe politica, formatasi negli ultimi decenni del XX secolo, la superiorità del mercato sui governi è una convinzione così profondamente radicata che non è nemmeno più vista come una convinzione. Si tratta piuttosto di una questione di “buon senso”, una cosa che “tutti sanno”. Qualunque sia il problema, la risposta è sempre la stessa: abbassare le tasse, privatizzare e fare riforme orientate al mercato. Prevedibilmente, le persone stanno cercando un’alternativa; e molti guardano al passato, ai decenni del dopoguerra in cui la ricchezza era diffusa. Alcuni si sono rivolti a una tribale politica della nostalgia (Make America Great Again […]). Ma è evidente che quello rappresenta un vicolo cieco. […] Ma cosa intendono i socialisti di oggi con “socialismo”? […] La cosa più evidente è che il socialismo implica un rifiuto senza riserve del sistema del capitalismo finanziario […] emerso dal caos economico degli anni ’70. Il neoliberismo ha enormemente arricchito l’1%, e in particolar modo il settore finanziario, mentre ha causato insicurezza economica e standard di vita stagnanti per la maggior parte della popolazione. Questo è ovvio negli Stati Uniti, ma le stesse tendenze emergono nelle economie di mercato di tutto il mondo. Ma, soprattutto, il socialismo contemporaneo ripudia il capitalismo vagamente umanizzato spacciato dalla Terza Via; rompe con quei socialdemocratici e liberali che hanno abbracciato, o si sono arresi, all’austerità in seguito alla crisi […]. D’altra parte, però, non emerge nessun entusiasmo per un’economia pianificata come quella dell’ex-Unione Sovietica e della Cina di Mao. […] Nel modo in cui viene usato oggi, il termine socialismo […] comunica un atteggiamento che potrebbe essere descritto come “socialdemocrazia senza remore” o, nel contesto degli Stati Uniti, come “liberalismo con una spina dorsale”. […] Dopo decenni in cui il focus è stato sulla critica del neoliberismo, il compito di pensare ad alternative positive e propositive è urgente, ma gli sforzi in questa direzione sono appena iniziati. Il dibattito sulle politiche economiche da un punto di vista socialista è confinato a una manciata di piccole pubblicazioni, come ad esempio Jacobin Magazine […]. Altrettanto significativa è la rinascita della sinistra nell’economia mainstream, rappresentata da Paul Krugman, Thomas Piketty e Joseph Stiglitz. Nonostante non siano esplicitamente socialisti (il blog di Krugman è intitolato “La coscienza di un liberale”), questi economisti hanno portato l’attenzione su problemi come disuguaglianze e disoccupazione e sulle politiche progressiste con cui rispondervi. Questi, però, sono solo i primi passi. Per sviluppare una seria alternativa socialista, abbiamo bisogno di guardare indietro, al periodo socialdemocratico degli anni ’50 e ’60, e avanti, con la prospettiva di una genuina sharing economy basata su internet e su altri progressi tecnologici. La metà del XX secolo ha rappresentato un periodo unico di prolungata crescita economica e ricchezza ampiamente diffusa e condivisa, garantite da una gestione macroeconomica keynesiana. […] In un contesto simile, la distribuzione degli utili fra salari e profitti, e fra i lavoratori, tende naturalmente verso una maggiore uguaglianza. Al contrario, come abbiamo visto sin dagli anni ’70, quando i governi sono guidati dalla necessità di soddisfare i mercati finanziari, il risultato inevitabile sono le disuguaglianze in costante crescita. La prova più evidente è l’aumento dei redditi per l’1% più ricco, come documentato da Piketty e altri. Il successo dello stimolo keynesiano subito dopo la crisi globale e i risultati disastrosi dell’abbraccio con l’austerità dopo il 2010 dimostrano come la gestione economica keynesiana sia più vitale che mai. Andando oltre la gestione della crisi, i governi socialisti riprenderebbero l’impegno verso la piena occupazione e la consoliderebbero attraverso politiche che […] assicurerebbero la disponibilità di un lavoro a tempo pieno per chiunque sia stato disoccupato per un periodo minimo. […] La combinazione di un lavoro garantito e un reddito di base universale libererebbe i lavoratori dalla dipendenza verso i datori di lavoro. Ma questo sarebbe fattibile solo se la società potesse assicurare una produzione adeguata di beni e servizi essenziali, senza dipendere dai desideri della grande industria. Il primo passo in questa direzione è resuscitare un termine che era ampiamente utilizzato e che è ancora pertinente […]: l’economia mista. […] In quel contesto, il settore pubblico forniva le infrastrutture – come elettricità, acqua e collegamenti stradali – e i servizi alla persona – come salute e istruzione. […] Il mercato, invece, forniva ai consumatori i beni […] assieme a un’ampia gamma di altri servizi. La spinta alla privatizzazione, iniziata con la Thatcher negli anni ’80, era basata sulla premessa che la proprietà privata e la competizione di mercato avrebbero portato a risultati migliori rispetto a quelli ottenuti dal pubblico. […] Le privatizzazioni hanno prodotto alcuni successi. […] Ma molti di più sono stati i fallimenti disastrosi. […] In sostanza, i monopoli pubblici sono stati rimpiazzati da monopoli privati e da oligopoli. Gli investitori e i top manager se la sono cavata bene, mentre i lavoratori e i consumatori hanno perso. Le persone hanno da tempo perso le speranze nelle promesse legate alle privatizzazioni e …

A sinistra manca un pensiero laico

di Carlo Patrignani A sinistra, dal Nazareno al Brancaccio, manca un pensiero laico per ri-conquistare l’egemonia culturale persa, che non c’è più, ma, a quanto pare, ciò interessa poco o nulla. Tutti, chi più e chi meno, forse attratti e sedotti da un linguaggio forbito, sono lì a tributare encomi a Papa Francesco, della Compagnia di Gesù: applaudono qualsiasi esternazione faccia, dal fine e inizio vita agli immigrati, dalla tutela ambientale alle diseguaglianze, dallo sfruttamento alla povertà, causate dall’economia neoliberista. E, abilmente, con queste sue esternazioni, di volta in volta, il Papa tocca temi e valori su cui agli inizi del ‘900, sotto la spinta delle tre parole d’ordine della Rivoluzione francese: libertè fraternitè egalitè, è nata e cresciuta la sinistra per differenziarsi, presto, nei due tronconi principali: socialismo e comunismo e quindi via via, scissione dopo scissione, in tanti rivoli e rigagnoli. Che il Papa faccia le sue esternazioni è del tutto legittimo: esse, come da tradizione secolare, sono finalizzate all’evangelizzazione del mondo, quand’anche a contrastare l’apostasia delle masse – la più pericolosa delle eresie moderne – per controllare, per disciplinare i movimenti di massa. Se in fondo questa è la prerogativa prima della Chiesa, oggi, rispetto al passato, c’è, a ben guardare, una novità non piccola: con e insieme all’evangelizzazione del mondo, la Chiesa di Francesco punta all’egemonia culturale favorita dal fallimento storico, epocale del comunismo e di un certo socialismo che ha cancellato lo spirito delle origini – l’emancipazione delle classi più deboli, la lotta allo sfruttamento e alle diseguaglianze – come dimostrano le sonore sconfitte della Spd e del Psf, in Germania e in Francia e al contrario il successo in Inghilterra del laburista di sinistra Jeremy Corbyn. E’ in questo vuoto culturale della sinistra tutta, senza identità e pensiero, che Papa Francesco si muove, con passo felpato, districandosi, abilmente, tra la dottrina classica, il Vangelo e la Bibbia, e alcuni di quei temi e valori, su cui si fondava, pur con sensibilità diverse, il mondo della sinistra – uguaglianza e libertà, giustizia sociale e mutualità – ma incapace di aggiornarli ai tempi e di rinnovarsi essa stessa. Lo si vede bene oggi: come si può accettare, passivamente, il dogma della sacralità della vita che ci sarebbe sin dal concepimento per cui l’aborto terapeutico sarebbe un omicidio e la donna pertanto un’assassina? E che sempre omicidio sarebbe staccare la spina per porre fine alla vita vegetativa, quando l’elettroecefalogramma piatto dice e certifica la morte cerebrale? Un dogma siffatto, antiscientifico, al limite, può esser rispettato – come è stato magari con il divorzio che ha ribaltato l’indissolubiltà del matrimonio – dai credenti, ma non si può pretendere di imporlo a tutti: è per questo che lo Stato deve restare laico e non farsi teocratico. Ma chi in tutta la sinistra, da quella del Nazareno a quella del Brancaccio, per finire a quella più radicale, dura e pura, rivendica questa  prerogativa di laicità? Magari seguita dal rispetto per la ricerca scientifica che quando ha scoperto che il Male della Bibbia, era una malattia, come la peste, il vajolo o la tbc, ha trovato la cura e la guarigione. E se la grande paura – di qui il contrasto all’apostasia delle masse – fosse che andando avanti la ricerca sulla realtà umana si arrivi a sancire che non c’e’ nell’essere umano la cattiveria di Caino ma c’è la malattia mentale che, in quanto tale, si può curare e guarire smentendo la credenza basagliana circa la sua inesistenza? E infine che il pensiero umano emerge alla nascita dalla biologia e che lì inizia, nel venire alla luce, la vita umana che prima non c’è perchè non c’è il pensiero? Fonte: alganews.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

Libertà per Abdullah Öcalan e per tutte le prigioniere e i prigionieri politici Pace in Kurdistan & Democrazia in Medio Oriente

APPELLO ALLA MANIFESTAZIONE NAZIONALE DEL 7 OTTOBRE A MILANO Crescono le preoccupazioni relative alla salute e alla sicurezza del presidente del popolo curdo Abdullah Öcalan. Da due anni vi è un assordante silenzio sulle sue condizioni. Dall’ultima visita avvenuta il 27 luglio 2011, i costanti appelli per autorizzare la visita degli avvocati non hanno prodotto alcun risultato. Anche un comitato internazionale che comprende deputati del Parlamento Europeo, sindacalisti, accademici e attivisti dei diritti umani provenienti da diversi paesi ha chiesto di poter visitare il carcere di Imralı ma la richiesta è rimasta senza risposta. Tutte queste richieste sono state respinte con motivazioni poco plausibili. Gli avvocati hanno fornito informazioni utili al Comitato per la Prevenzione della Tortura, un organismo del Consiglio d’Europa dotato dell’autorità necessaria per visitare le carceri degli stati membri (compresa la Turchia) e di riferire sulle violazioni dei diritti umani rilevate. Il CPT ha visitato il 28 aprile 2016 il carcere di Imrali, ma contrariamente alle precedenti visite non ha ancora pubblicato il rapporto, e questo perchè la Turchia non lo ha approvato. È inconcepibile che davanti a un tale oscuramento delle informazioni il CPT oggi rimanga in silenzio. Inoltre, mentre crescono le preoccupazioni per la sicurezza di Abdullah Öcalan e degli altri detenuti dopo il tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016, il CPT ha visitato molti centri di detenzione ma non il carcere di Imralı: ciò fa supporre un tacito “patto del silenzio” sulla questione di Imrali. Gli avvenimenti che si sono verificati in tutto il paese dal processo di Imralı nel 1999 ad oggi hanno dimostrato chiaramente che ogni qualvolta sono state portate avanti politiche di sicurezza nell’approccio alla questione curda, l’isolamento a Imrali si è acuito. C’è un evidente analogia tra le condizioni in cui si trova il paese e l’assoluto isolamento del presidente Abdullah Öcalan. Da un lato la Turchia sta attraversando una fase di profondo caos e conflitto, e dall’altro si verifica un totale oscuramento mediatico su Imralı mentre viene impedito ogni incontro. È un segnale concreto che anche piccoli contatti con Abdullah Öcalan possono creare un’atmosfera veramente positiva in tutta la società. Abdullah Öcalan, nonostante le condizioni di assoluto isolamento, ha reso la soluzione pacifica e democratica della questione curda la propria ragione d’essere. La sua libertà significa la libertà non soltanto del popolo curdo ma anche degli altri popoli della regione. Il semplice fatto che il popolo curdo adesso sia diventato un attore importante in Medio Oriente e che il modello del Rojava venga generalmente accettato come modello democratico è un merito che gli viene attribuito. Non solamente i curdi, ma in primo luogo i popoli del Medio Oriente e molte forze sociali stanno adottando il paradigma di Öcalan e stanno lavorando attivamente per la sua attuazione. Milioni manifestano per la sua libertà ormai da molti anni a livello internazionale per condannare l’isolamento imposto dallo Stato turco nei confronti di Abdullah Öcalan che da 18 anni si trova in isolamento. Oltre 10 milioni di persone hanno già firmato l’appello internazionale per la sua libertà. Lo slogan di queste manifestazioni è stato e sarà “Libertà per Öcalan”. In questo contesto la comunità curda in Italia ha promosso una manifestazione a Milano il 7 ottobre 2017 alla vigilia del 9 ottobre, data che ha segnato l’inizio del complotto internazionale che ha portato al rapimento del leader del popolo curdo. Chiediamo all’opinione pubblica di essere consapevole e di dar voce a proteste democratiche contro l’isolamento del presidente Öcalan e per fare in modo che l’attuale “sistema Imrali”, inaccettabile sul piano umano, legale e politico, venga smantellato. Chiediamo all’opinione pubblica, alle organizzazioni della società civile, ai partiti e alle organizzazioni sindacali di sostenere la mobilitazione organizzata dalla comunità curda in Italia e di partecipare alla manifestazione nazionale a Milano il 7 ottobre 2017 alle ore 15 da Porta Venezia. Abbiamo bisogno anche della tua voce! LIBERTÀ PER ÖCALAN! Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia – UIKI Onlus Comunità curda in Italia Rete Kurdistan Italia Per Adesioni: info@uikionlus.com info@retekurdistan.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

Un tempo le donne lottavano per la loro emancipazione

Si discute tanto degli stupri e delle violenze sulle donne ma poi, quella che ci si para dinanzi è la solita tragedia annunciata. Cinque, dieci denunce cadute nel vuoto, atti di violenza anticipatori dell’irrimediabile sciagura, una escalation di violenza legittimata da una colpevole inerzia, in grado di arginarsi soltanto dinanzi all’irreparabile tragedia. Un tempo le donne lottavano per la loro emancipazione, per la parità tra i sessi e nell’arco di 50 anni hanno raggiunto tutti i traguardi afferenti il principio costituzionale dell’uguaglianza (art. 3), partendo dal riconoscimento del diritto di voto (1946), considerando poi, il libero accesso alle cariche pubbliche ed alle diverse opportunità di lavoro. Anche il diritto di famiglia si è adeguato al mutare dei tempi e se oggi possiamo parlare di parità non più come ambito traguardo, ma come obiettivo quasi raggiunto in ogni campo, lo dobbiamo principalmente a coloro che si sono faticosamente spese per questo. Le donne di allora non pretendevano rendite di posizione ed avevano, magari poche rappresentanti, ma veramente degne. Chi veniva eletta aveva una propria storia, spesso sia di militanza attiva che di lotta, e non di “letto”. La maggior parte di loro non era avvenente, ma avveduta. Molte di loro provenivano dalla fabbrica, o dai campi e le più fortunate dal circuito accademico. La Anselmi, la Iotti, la Merlin non erano delle star, non riempivano le copertine dei rotocalchi per le loro peculiarità estetiche, anche se il gossip non le ha risparmiate, ma avevano una loro linea di azione politica chiara e rigorosa. Oggi nella società del privilegio e della cortesia le donne si sono un po’ sedute, quasi appagate, e si lasciano rappresentare da consimili con ben altre esperienze, alcune addirittura scevre di una qualche esperienza, competenza, capacità (lo stesso metodo che peraltro, seleziona gli uomini), ma sempre con la disonesta ambizione di emergere e rappresentare probabilmente il nulla. Quel nulla che non sfugge neanche alla matematica nulla più nulla uguale nulla. Anche se ci sono poi, coloro che si illudono che dal nulla nasca il paradiso, salvo essere immediatamente smentiti dalla scienza esatta … nulla per nulla e’ sempre uguale a nulla. È pertanto, così che nascono le leggi protezione, quelle che creano una riserva, un’ansa di privilegio assoluta come la parità di genere nelle cariche pubbliche, nei consigli di amministrazione ed altrove. Una parità imposta, arrogante e mortificatrice del merito e della qualità, le quali non attengono chiaramente all’uomo o alla donna nella loro diversità, ma al genere umano nella sua indifferenza tra i sessi. Il vertice di una azienda pubblica oggi, non è un luogo di meritevoli a prescindere dal sesso, ma per legge un luogo popolato da coppie, un uomo ed una donna una donna e un uomo sovvertendo così, le più elementari regole dell’economia. Agli occhi e soprattutto nelle menti di eccelsi odierni legiferanti un’azienda si regge non tanto in ordine ad acclarate capacità ed a scelte sapienti, ma in virtù di una accurata visita anatomica in cui prioritaria dovrà risultare la certificazione di un pari numero di sessi diversi. Poi se si scambia la pubblica amministrazione e le sue aziende per una grande Arca di Noè, poco importa dopotutto per le eventuali inefficienze di impresa (sarebbe più corretto forse parlare di dissidi di coppia) c’è sempre “pantalone” che paga. Oggi, la cosa più importante è imporre per la donna posizioni di vertice, garantirle un successo di genere, e non di merito. Si fa del tutto per trattarle come portatrici di handicap incapaci di proporsi per le loro qualità, considerandole talmente inette ed incapaci da riservargli posti pre-assegnati. E poi cosa accade? Che un Parlamento così attento a tali cortesie si dimentica di scrivere norme civilta che siano in grado di tutelare l’incolumità della donna, la sua dignità di essere umano ed di garantirle il sacrosanto diritto di vivere senza il timore o l’angoscia di essere sopraffatta, violentata e mercificata tra l’indifferenza generale, sopratutto di coloro che la impongono laddove non serve soltanto per lavarsi la coscienza per quanto non fanno per tutelarla da orchi feroci, prepotenti ed indisturbati. Basterebbe poco. Basterebbe rimettere mano alla legge! E per farlo servirebbe semplicemente utilizzare la MENTE, ma capisco che al giorno d’oggi non è cosa da poco. Enrico Michetti SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’insostenibile leggerezza dell’imperativo categorico del Che

di Carlo Felici  “Si se nos dijera que somos casi unos románticos, que somos unos idealistas inveterados, que estamos pensando en cosas imposibles y que no se puede lograr de la masa de un pueblo el que sea casi un arquetipo humano, nosotros le tenemos que contestar una y mil veces que sí, que sí se puede. Y tiene que ser así, y debe ser así, y será así compañeros.” Che. Parlare di Ernesto Che Guevara a 50 anni dalla sua morte è come contemplare un cielo stellato, non si sa da dove cominciare né dove finire. I mortali, infatti, dovrebbero limitarsi, in questi casi, a tacere di fronte all’incommensurabilità degli immortali. Ma anche un mortale può, come Kant scrisse efficacemente, considerare la morale che c’è in lui e oltre ad essa il cielo stellato che permane sopra di lui. Perciò, nonostante il fiume di inchiostro che è stato versato, narrando la vita ed il pensiero del Che, fino a farlo divenire una icona rivoluzionaria, cercheremo di capire che la sua rivoluzione fu soprattutto etica e morale, prima ancora che sociale, economica o politica. E che fu, anche per questo, una delle vittime più illustri di un comunismo divenuto artificio e negazione della stessa morale su cui esso avrebbe dovuto fondarsi. Il Che scoprì fin da bambino la ribellione e l’ingiustizia e fu spinto a trovare un modo per combatterle nell’immediato, anche dall’urgenza di una vita incalzata da una malattia che gli consentì di essere riformato nel servizio militare, nonostante poi sia diventato un grandissimo Comandante militare rivoluzionario, così sembra che anche il destino abbia voluto unire la sua ironia a quella proverbiale del Che. La sua vita, infatti, non bruciò lentamente come una candela, ma arse di un fuoco impetuoso e trascinante dall’inizio fino alla fine, espandendo la sua luce ed il suo calore oltre i confini dello spazio e del tempo. Tanto che ancora oggi essa perdura intatta nella sua fulgida essenza, infatti per quelli come lui, finisce sempre una vita terrena per iniziarne una leggendaria, che sicuramente anche gli esploratori spaziali o i futuri combattenti di guerre stellari di liberazione non potranno fare a meno di ricordare e tramandare. Le tappe di questa vita straordinaria sono arcinote, per cui faremo a meno di ricordarle, lasciando ai biografi la narrazione dettagliata di questo percorso, dall’inizio fino alla fine, e raccomandando, però, a coloro che davvero vogliono pensare al Che e non limitarsi a parlarne o a scriverne o a sproloquiare su di lui, di leggere queste biografie, magari mettendole a confronto, per scoprirne anche le autenticità e le incongruenze. Tra le migliori, ci sentiamo di raccomandare quella di Paco Ignacio Taibo II e di Castaneda, gli scritti di Moscato, quella di Massari (purtroppo mutila dell’ultimo periodo, dato il tempo in cui fu scritta) oltre a quella di Anderson, che però invitiamo a leggere per ultima dato che, apparentemente può sembrare la più documentata e celebrativa oltre che la più famosa, ma concretamente risulta una delle più mistificatorie, a partire dalla data di nascita e dalle circostanze della morte del Che. Anderson, infatti, scrive che il Che nacque un mese prima, di quanto lui stesso ricordò persino nel suo diario boliviano, adducendo solo delle prove testimoniali, quasi volendo fare intendere che la sua vita sorse da una bugia. Un modo direi alquanto subdolo di fondare la biografia di un rivoluzionario, e conclude narrando una sorta di riappacificazione nell’abbraccio tra il suo carnefice e la sua vittima, lasciando intendere che la CIA volesse il Che più vivo che morto, tutte panzane per altro smentite da un rapporto dettagliato di due scrittori e storici cubani: Adys Cupull e Froilàn Gonzàles, intitolato “La CIA contra el CHE” e pubblicato in italiano da Edizioni Achab nel 2007. Anche i film di recente usciti anche in Italia, per la regia di Steven Soderbergh, rivelano più o meno lo stesso intento, forse meno nel primo sulla vicenda rivoluzionaria cubana, ma sicuramente di più nel secondo sull’impresa boliviana: rappresentare il Che come un rivoluzionario straordinario ma molto donchisciottesco, cioè utopistico e sostanzialmente poco cosciente della realtà e della contingenza in cui si trovò ad operare, insomma una sorta di eroe e Cristo solitario, immortalato dalla sua ultima immagine cadaverica del lavatoio di Vallegrande. Una icona da venerare ed esaltare ma concretamente sempre fuori dal tempo. Nonostante i tentativi di depistaggio e demistificatori messi in atto anche mediante film e opere monumentali, la realtà è però nota da tempo, e fu edita anche in un libro: Che Guevara and the FBI, con documenti reperiti negli archivi dell’FBI da due illustri giuristi americani Micahel Ratner e Michael Steven Smith, due casse con circa mille rapporti della CIA dal 1954 al 1968. Da essi si evince che la CIA era interessata ad ogni debolezza anche fisica del Che, per poterla sfruttare anche in ogni eventuale complotto, al punto da ostacolare il rifornimento di inalatori che gli erano necessari per l’asma o addirittura per potere infilarci dentro del veleno. Nello stesso rapporto si evidenziava che il Che era seguito con molta attenzione da prima che incontrasse Castro, dai tempi del Guatemala e del colpo di Stato contro Arbenz. Già da allora si segnalava che il Che aveva cercato di resistere al colpo di Stato e che “La cosa migliore è cominciare a far guerra a quest’uomo”. Così la CIA non lo mollò mai, con precisione ed efficienza certosina, spiandolo anche durante la sua lotta sulla Sierra Maestra e considerandolo effettivamente per quello che era, cioè un uomo senza particolari ambizioni personali, che combatteva in maniera disinteressata per una causa di liberazione senza ulteriori ambizioni politiche, dotato di grande coraggio, privo di paura, in grado di riscuotere molta fiducia da coloro che lo circondavano e seguivano, soprattutto un intellettuale. Un agente che lo seguiva descrisse anche il suo modo di fumare i sigari, di leggere libri ai suoi uomini e addirittura di fare il bagno. Le truppe boliviane che avevano catturato il Che avevano ricevuto un addestramento da militari statunitensi …