IMPEGNO SOCIALISTA: UN PARTITO DI GOVERNO

di Davide Passamonti | Oggi si sente spesso dire: “C’è un vento di destra nel paese“; e aggiungo in Europa e in occidente. Lo affermano sia la gente comune sia la classe politica critici verso i partiti di destra. Ma non è, forse, una lettura troppo scontata? Non è che manca un contrastante “vento di sinistra”? Preso atto che sì, la destra ha vinto le ultime elezioni (in Italia) e ha una forte presa sull’elettorato  in tutti i paesi occidentali. E’ altrettanto vero, però, che manca completamente una visione chiara di cosa sia la sinistra oggi. Per quanto riguarda l’Italia, va constatato che i due principali partiti di “centrosinistra” – Partito Democratico e Movimento 5 Stelle – non sono riusciti mai a qualificarsi in modo efficace e permanente con le qualifiche di partiti: autonomi, responsabili e autorevoli. Le infinite contraddizioni interne ai due partiti e la mancanza di programmi politici di lungo respiro, cioè di quelle “visioni del mondo” chiare e definite, hanno pesato notevolmente sui risultati elettorali e hanno evidenziato tutti i limiti delle precedenti esperienze di governo. Ho indicato spesso «il rimedio nella programmazione come metodo di governo»[1]. La critica per il caos politico “a sinistra” va, quindi, impostata principalmente nella totale mancanza di conoscenza sulla “politica di programma” come assunto valoriale di rifermento per un “impegno socialista” e “un partito di governo”. Va chiarito, però, che non basta enunciare un “programma quinquennale” per definirsi programmatori o per avere quella visione di mondo tanto richiesta. In realtà, sono altrettanto fondamentali tutti «quegli istituti, strumenti, procedure disponibili o da trasformare o da creare per rendere efficace e coerente l’azione del potere pubblico, all’applicazione di un metodo nella direzione quotidiana della politica economica [e sociale] conforme alle finalità e ai criteri della programmazione, alla valutazione esatta di tutte le condizioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi»[2]. Invece, quelle idee – conformi ai valori del capitalismo moderno – fatte proprie dai partiti di sinistra  del “mito della crescita”, del progresso spasmodico e non regolamentato della tecnologia e la disattenzione sistemica della questione ambientale vanno ricondotti alla loro collocazione reale. Ovvero, vanno connaturati di valori etici, riportati alla loro vera funzione “di strumenti” e utilizzati per realizzare valori sociali, civili e umani. Ciò che ho già, in altre occasioni, definito “la riforma dello stato” diventa il tema centrale e costitutivo di un partito socialista, progressista e riformista di governo: un partito socialista liberale. La riforma dello stato cessa così di essere uno slogan, sbandierato in vari tentativi – disastrosi e controproducenti – di riforme costituzionali, tentati negli ultimi decenni, e «diventa il tema centrale della politica finalizzato alla creazione di una efficiente e democratica direzione pubblica dello sviluppo economico e del progresso sociale e civile»[3]. La strategia della programmazione socio-economica va, dunque, intesa come metodo di comportamento delle istituzioni pubbliche atte a conseguire risultati economici, mediante l’uso efficiente delle risorse, miranti a creare condizioni di vita individuali e collettive migliori. Perché ciò possa realizzarsi deve poter riferirsi a tutti, quindi a ciascuno di noi, attraverso modi e mezzi per un sostenibile sviluppo economico che crei condizioni di solidarietà e non di sfruttamento. «Abbiamo così enunciato due fondamentali valori che ispirano il pensiero e l’azione socialista: libertà individuale e solidarietà collettiva. Giustizia ed eguaglianza ne sono componenti implicite»[4]. L’indirizzo proposto in questo “impegno socialista” vuole essere un richiamo ad un nuovo impegno che tenga conto che le condizioni della società italiana, europea e occidentale sono arrivate ad un punto tale che divengono indispensabili e urgenti delle riforme profonde. Sta alla sinistra, qui chiamo in causa anche il Partito socialista italiano, e ai suoi originali valori di cambiamento e di progresso economico-sociale di riprendere iniziative concrete che mettano in primo piano i problemi e le aspirazioni di partecipazione democratica che si manifestano nella società. Partendo dai giovani, dai disoccupati “strutturali” e dalle donne ancora non trattate in maniera egualitaria sul posto di lavoro. Un partito di sinistra «deve stabilire una prassi d’incontri e confronti tra i propri organi dirigenti e le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro, della produzione, della ricerca, della cultura. E’ in termini di partecipazione, di autogoverno, di soluzioni dinamiche da sperimentare e aggiornare e approfondire in continuo confronto con la realtà in movimento, che vanno affrontati e risolti i problemi della società italiana»[5]. Ad esempio, vanno affrontati temi come: la riduzione della durata del lavoro (come orario medio di lavoro) e la redistribuzione delle ore “liberate” fra la popolazione disoccupata, ma potenzialmente occupabile; erogare il lavoro utile socialmente, cioè chiedersi quali lavori, quali beni e servizi, quali occupazioni e quali attività sarebbero utili da “creare“. La nuova occupazione generata deve, però, essere programmata e guidata verso impieghi con rilevanza sociale, cioè necessari a soddisfare bisogni insoddisfatti. E’ solo in questo modo che si risolvono i problemi della società odierna, puntando a obiettivi di libertà, giustizia, dignità e benessere. Infine, ma non per questo meno importante, è prioritario per ogni partito di sinistra richiamarsi ai suoi storici valori internazionalisti, cioè all’Europa. «E’ l’Europa il terreno sociale, economico, politico e culturale sul quale può svilupparsi una un’iniziativa socialista capace di costruire un modello alternativo rispetto al neocapitalismo»[6]. E’ dalle istituzioni europee e dal Gruppo Socialista che deve ripartire la spinta ad un’ulteriore integrazione europea democratica e alla necessità dello “Stato Federale Europeo”. [1]     Giolitti A. (1992), Lettere a Marta, Ricordi e riflessioni, Bologna, Il Mulino. [2]     Giolitti 1992. [3]     Giolitti A. (1967), Un socialismo possibile, Torino, Einaudi Editore. [4]     Giolitti 1967. [5]     Giolitti 1992. [6]     Giolitti 1992. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RIFLESSIONI INTORNO ALLA PERDURANTE CRISI ECONOMICA

di Davide Passamonti| Riflettendo sulla situazione economica italiana mi pare evidente che i problemi hanno radici profonde. Mi pare, altresì, chiaro che non è possibile far ricadere tutte le colpe sulle politiche dell’Unione europea o della Banca Centrale Europea. Una cosa è certa: le politiche neo-liberiste di austerità ideologica per contenere il debito, pareggio di bilancio e tagli lineari alla spesa pubblica, hanno completamente fallito. Imposte in seguito alla crisi dei debiti sovrani nel corso del 2008/2009 si sono rivelate una “cura peggiore della malattia”. Appresa la lezione, sia le istituzioni europee che i governi nazionali, hanno adottato la politica contraria, di keynesiana memoria: politiche di deficit-spending e di massiccia erogazione di liquidità nell’economia. Ma ancora una volta si è andati “fuori strada”. Il Quantitative easing è stata una politica messa in atto dalla BCE per “creare moneta” mediante l’acquisto di titoli di Stato o altre obbligazioni sul mercato. Aumentando la quantità di denaro prestata agli istituti di credito la BCE fornisce liquidità al sistema per i prestiti a famiglie e imprese. Il q.e. è una politica monetaria aggressiva, i cui effetti in termini di inflazione sono pericolosi. Dal 2016 al 2020 sono stati stanziati dalla BCE, su base mensile, tra i 40/50 miliardi di euro al mese. Inoltre, con la pandemia è stato lanciato un ulteriore q.e., dal 2020 al 2022, per una somma di circa 1850 miliardi di euro[1]. Dato che questa iniezione di liquidità “non è bastata”, le istituzioni europee hanno promosso il programma Next Generation EU (NGEU), pacchetto da 750 miliardi di euro. La principale componente del programma NGEU è il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza, ha una durata di sei anni (dal 2021 al 2026), e una dimensione totale di 672,5 miliardi di euro[2]. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si inserisce all’interno del NGUE. Per l’Italia ammonta a 191.5 miliardi di euro, al quale il Governo italiano ha stanziato un ulteriore Piano Nazionale Complementare (PNC) pari a 30,6 miliardi di euro[3]. Mi pare evidente che è un miope errore pensare che la crisi economica e sociale, in Italia e negli altri paesi europei, si possa guarire con una iniezione generosa di liquidità. Quali sono stati gli effetti benefici di tutti questi soldi? Si sa dire “dove sono finiti”? In concreto quali politiche, industriali o sociali o fiscali o ambientali o infrastrutturali, sono state messe in campo? La certezza è la perdurante situazione di crisi in cui versano l’Italia e gli altri paesi europei nonostante la Commissione preveda una crescita della zona euro dell’1,1% (l’Italia dell’ 1,2%) nel 2023. Il tasso dell’inflazione nella zona Euro è al 5,5%, con gli alimentari all’ 11,7%. Il tasso di disoccupazione per l’Eurozona è al 6,5%; quella giovanile al 13,9%. Rispetto ad aprile 2023 quest’ultima è aumentata di 11 mila unità nella zona euro. Rispetto a maggio 2022, invece, è aumentata di 46 mila unità nella zona euro[4]. Ecco cosa hanno prodotto le politiche economiche e monetarie “novecentesche” di questi ultimi decenni: inflazione, disoccupazione, debito pubblico e bassi tassi di crescita. Il contesto italiano, però, è aggravato da storture interne che mettono il nostro paese in condizioni di “inferiorità” strutturale rispetto agli altri paesi dell’Unione. Il male ha radici profonde. E’ la crisi di un’economia pilotata da una imprenditorialità che si affida, ancora oggi, a salari tra i più bassi d’Europa[5]. E’ la crisi di un’economia in cui sono troppo largamente perseguite scorciatoie speculative e parassitarie alla formazione di fortune che hanno poi poca propensione a trasformarsi in capitale applicato alla produzione e molta, invece, a fuggire e nascondersi all’estero di fronte alla minaccia dei normali obblighi fiscali. Con quest’altro grave risultato negativo: di creare costi crescenti, in termini fisici e monetari, per i lavoratori e di annullare, così, gran parte di quegli stessi benefici che questi riescono a ottenere con la loro azione sindacale[6]. Esempi tipici di questi costi si ritrovano: in un sistema di trasporti arretrato, costoso, inquinante; un sistema mafioso che occupa un’ampia fetta dell’economia; un sistema sanitario sempre più privatizzato, meno efficiente ma più costoso per la collettività; un’organizzazione scolastica sovraffollata e mal distribuita sul territorio. Da tutto questo deriva l’estrema lentezza con la quale la condizione del lavoratore, da noi, stenta tanto ad allinearsi con quella dei paesi confinanti. Da tutto questo deriva anche, però, nelle masse lavoratrici, una insofferenza crescente per tali ritardi, una sempre minore disponibilità a tollerare e attendere. [Giolitti, 1992] Ciò che serve, quindi, all’Italia è un “nuovo metodo di governare”. Cioè una politica austera, eliminazione dei privilegi e degli sperperi, non fine a se stessa ma come condizione di scelte coerenti, che comportano rinunce, per perseguire e raggiungere obiettivi pianificati. [1]             Dati tratti da Enciclopedia Treccani e Wikipedia. [2]             Dati Ministero dell’Economia e delle Finanze. [3]             Dati tratti dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy. [4]             Dati Eurostat. [5]             Conflavoro, Piccole Medie imprese (2022), Salari, in Italia sono fra i più bassi d’Europa. Resta alto il costo del lavoro. [6]             Giolitti A. (1992), Lettere a Marta, Ricordi e riflessioni, Bologna, Il Mulino. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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LA NECESSITA’ DI UN REDDITO DI BASE UNIVERSALE

di Davide Passamonti | La situazione sociale in Italia, come negli altri Paesi europei, è sempre più allarmante; soprattutto se, al centro dell’attenzione, consideriamo la situazione giovanile. A questo riguardo, a preoccupare sono i dati della disoccupazione, in crescita, al 13.9% nella zona Euro (dati Eurostat). Preoccupano altrettanto le condizioni lavorative di coloro che riescono a trovare un’occupazione. Infatti, spesso si tratta di un lavoro a tempo determinato (in media il 47%) o part-time, quindi precario, e non retribuito adeguatamente. Le trasformazioni socio-economiche in atto, con il passaggio alla società post-industriale, generano ciò che può essere definita una disoccupazione “strutturale”. Questa situazione frena lo sviluppo economico e continuerà finché non si attiveranno processi di redistribuzione dei redditi che sosterranno la domanda globale. Nel corso degli ultimi anni si è individuato nel reddito di base (o reddito garantito) una possibile soluzione al non più equilibrato avanzamento della redditività personale rispetto alla produttività del lavoro. Il reddito di base consiste in un pagamento periodico che viene erogato incondizionatamente a tutti su base individuale, senza criteri di erogazione o requisiti lavorativi. I principi essenziali del reddito sono: periodicità, pagamento monetario, base individuale, universalità e incondizionalità Un significativo effetto di un reddito di base universalistico lo si avrebbe sul mondo del lavoro. Con la sua introduzione, infatti, si potrebbero tradurre i benefici della produttività nella riduzione della durata del lavoro. Keynes nel 1930 scriveva in proposito: «[Il compito del futuro sarà] fare in modo che il lavoro che rimane da fare sia il più ampiamente condiviso»[1]. Questo significa garantire inclusione e sicurezza sociale senza doversi affidare alla creazione di posti di lavoro, ormai sempre più difficilmente garantibili. Di conseguenza, si dovrà ristrutturare il Welfare, il sistema educativo e il mercato del lavoro, così da garantire una redistribuzione dell’occupazione tra le persone e tra le varie fasce d’età. E il reddito di base diviene il meccanismo stabilizzatore del processo redistributivo e strumento di vera giustizia sociale. La società capitalistica ha abituato all’idea che l’accesso al reddito e, di conseguenza, al consumo potesse avvenire solo se disposti a contribuire alla produzione. Nella società industriale questo era vero e necessario, ma oggi – in una società post-industriale – questo non è più scontato. I deficit strutturali e le condizioni economiche e tecnologiche odierne fanno sì che non è necessario fare del contributo alla produttività, dunque del lavoro, una condizione di accesso al reddito. L’introduzione del reddito, quindi, ha l’intenzione di combattere non solo la povertà ma anche l’esclusione[2]. Il reddito di base non rappresenta un’alternativa al diritto del lavoro ma, semmai, una possibilità ulteriore alla sua realizzazione, data la situazione strutturale deficitaria odierna. Più in generale, la questione del reddito non la si affronta solo in termini di giustizia ma anche di potere. Ovvero della libertà reale di fare, nel lavoro e al di fuori del lavoro. «Anche se parliamo di reddito i benefici non si limitano a considerazioni sul benessere materiale degli individui, ma investono anche l’uso che possiamo fare del nostro tempo. Il reddito di base, o reddito minimo universale, ci consente di accedere al lavoro, di svolgere attività al di fuori del lavoro, ci dà maggior potere di consumo, essendo universale contribuisce a combattere l’esclusione dal lavoro, in quanto incondizionato ci permette di scegliere tra lavori diversi e tra differenti attività non lavorative. Grazie a tutti questi elementi può celebrare un “matrimonio” tra giustizia ed efficienza[3]». [1] Vedasi il capitolo di Van Parijs Ph., Reddito di Base, in Battiston G. – Marcon G. (2018), La Sinistra che verrà, le parole chiave per cambiare, Roma, minimum fax. p.206. [2] Vedasi il capitolo di Van Parijs Ph., Reddito di Base, in Battiston G. – Marcon G. (2018), La Sinistra che verrà, le parole chiave per cambiare, Roma, minimum fax. [3] Ibidem. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DAL MITO DELLA CRESCITA A UNA IDEA DIVERSA DI BENESSERE SOCIALE

di Davide Passamonti | Da sempre l’economia è stata politicizzata. Da destra e da sinista, con politiche economiche classiche o keynesiane il punto fermo per tutti è stato il mito della crescita. Il comune accordo ha sempre ruotato intorno al presupposto che il benessere e il consenso sociale derivino dall’espansione continua, infinita?, dell’economia di mercato. Tuttavia, mia opinione, ma non solo, è che questo dogma economico vada contestato; e che le recenti crisi economiche – come quella degli anni Settanta e la folle corsa dei mercati finanziari sui titoli “subprime” alla ricerca del guadagno e della crescita nel 2007/2008 – siano esempi di come il “mito della crescita” stia producendo storture sociali sempre più evidenti. In realtà, il presente è  connaturato da cambiamenti strutturali profondi che stanno modificando l’economia e le società tanto da far pensare, con cognizione di causa, che ormai ci troviamo in un epoca che può essere definita come «post-industriale» o «post-capitalista». Crescita e malessere Un inaspettato lascito del dogma capitalistico del mito della crescita, non voluto, è stata la “ricerca della felicità”. Prima dell’avvento del capitalismo i concetti di crescita e felicità erano completamente scollegati tra loro o erano inestistenti. Nelle società tradizionali, infatti, l’economia veniva concepita come “stazionaria” e la felicità non era considerata “cosa di questo mondo”. Quest’ultima apparteneva alla vita “dopo la morte” ed era materia di fede religiosa, non certamente materia economica o pubblica. Invece, il concetto che «la prosperità materiale possa essere continuamente aumentata sfruttando a fondo le risorse della natura e stimolando i bisogni lungo una frontiera in continua espansione, e che questa crescita permanente sia la condizione fondamentale del benessere e della pace sociale»[1] è il dono del capitalismo. “Il paradiso terrestre” così creato ha rivoluzionato non solo la tecnica ma, soprattutto, l’idea di uomo e il posto che esso ha in questo mondo oltre all’idea stessa di mondo. La rivoluzione ha le sue basi in due presupposti: l’inesauribilità delle risorse e i bisogni illimitati dell’uomo. Il mezzo che unisce e accorda i presupposti è il mercato capitalistico: «l’organizzazione sociale che connette i due poli della crescita, ponendo risorse inesauribili al servizio di bisogni insaziabili»[2]. Di conseguenza, l’unico modo di conseguire il benessere sociale, e quindi la felicità individuale, è la massimizzazione della produzione di beni creati per soddisfare i bisogni. Va riconosciuto, ed è incontestabile, che l’economia di mercato è stato il sistema economico che ha prodotto, storicamente, e ha raggiunto livelli di benessere sociali e di progresso civile che nessun altro sistema è stato mai capace di realizzare. Ma oggi, i cambiamenti strutturali – la de-industrializzazione dei paesi occidentali, la “terziarizzazione” dell’economia e il poderoso ruolo dello Stato nell’economia – portano ad un cambio di paradigma: il benessere sociale non è più così identificabile con l’economia di mercato. Per di più, la questione ecologica, il tipo di economia e la complessità odierna sono oggi la dimostrazione “reale” dell’attuale insensatezza dei presupposti dell’economia capitalistica (che essa sia classica o keynesiana). Nella società post-industriale, quindi, il mito della crescita si associa ormai al malessere sociale. Insistere con un modello di crescita ormai superato dai fatti comporta fenomeni di degradazione delle risorse (la questione climatica e ambientale è solo la principale “risorsa degradata”) e di disagio sociale diffuso (disoccupazione strutturale, inefficenza dei servizi pubblici, sperchi, debito pubblico e inflazione “da disoccupazione”). Il mito decaduto del PIL come misura di benessere Il principale strumento economico con il quale si “misura” il livello di benessere di un paese è il Prodotto Interno Lordo (PIL). Meccanismo di contabilità economica sviluppato principalmente da Simon Kuznets, in un rapporto del 1934 per il Congresso degli Stati Uniti, è lo strumento di aritmetica politica con i quali i vari governi nazionali hanno potuto disporre di un indice obiettivo di successo. Ma la fonte di successo del PIL è anche alla base dei suoi fallimenti. Lo stesso Kuznets fu sempre molto critico riguardo la pretesa di misurare il benessere sociale affidandosi al reddito pro capite dichiarando che bisognava tener conto delle differenze tra la quantità e la qualità della crescita, dei suoi costi e dei suoi benefici, distinguendo anche tra breve e lungo periodo[3]. L’ideatore del PIL non fu l’unico a criticare questo strumento come misura del benessere sociale; come ci ricorda Ruffolo, anche economisti come Morgenstern ne contestarono l’abuso: «il tanto venerato PNL è una nozione in gran parte inutile…». Come è facile intuire il PIL registra positivamente qualsiasi aumento nei consumi: un aumento di consumo di petrolio, comprare ossessivamente l’ultimo modello di smartphone – buttando quello “vecchio”, ma anche, rimanere per ore imbottigliati nel traffico sono tutti esempi che portano ad un aumento del PIL senza considerare gli effetti, la qualità e le conseguenze di tali consumi. La critica al PIL come misura di benessere ruota attorno a tre principali motivi: Un diverso modo di concepire il benessere sociale Con l’avvento della società post-industiale, quindi, necessitano nuovi metodi per la misurazione del progresso e del benessere sociale. La produttività espressa in PIL non può più essere utilizzata. Oggi, ed è sempre più vero, il fattore principale del processo produttivo è la conoscenza[4] (il progresso scientifico e tecnologico) e «non più né il lavoro, né la terra, né il capitale, né lo Stato»[5]. Si può dire paradossalmente che, in generale, le crisi delle nostre economie occidentali (in quest’ultima fase della terziarizzazione, o se si preferisce, del capitalismo maturo) siano provocate da un eccesso di produttività dei settori (primario-secondario) «ad alto tasso di produttività», e – nello stesso tempo – da un difetto di produttività (del sistema in generale) causato dall’aumento della proporzione dei settori (terziari) «a basso tasso di produttività», sul totale delle attività.[6] [Archibugi, 2002 p.171] Questo cambiamento ha come conseguenza la modifica del concetto di produttività: non più come un rapporto “quantitativo” ma “qualitativo”. E man mano che questa produzione di servizi terziari (privati come pubblici) aumenta di importanza relativa nella somma dei valori che compongono il benessere, il misuratore usato [PIL] diventa sempre più obsoleto e sviante: esso continua a misurare un «valore» (la quantità …

OTTANT’ANNI FA L’8 SETTEMBRE

di Franco Astengo | La particolare congiuntura in cui si trova il sistema politico italiano nel quale si trova al governo un partito di chiara estrazione post-fascista e a-costituzionale (fiancheggiato da altri soggetti di destra mentre si sta costruendo addirittura una opposizione estremista proprio sullo stesso versante) reclama un impegno particolare per ricordare la prossima scadenza dell’8 settembre della quale ricorrono gli ottant’anni. Un ricordo che deve partire dalla constatazione che, in quel tempo, il giorno stesso dell’annuncio dell’armistizio e della fuga di Re e Governo da Roma, dai partiti antifascisti fu formato il CLN che poi assunse la guida della Resistenza e del Paese. Eventi grandi, eccezionali, pongono i popoli e le donne e gli uomini che ne fanno parte davanti alla necessità di scelte drastiche e decisive per l’avvenire della loro nazione, della loro entità collettiva e per loro stessi. Si verificano passaggi storici che quasi “costringono” a prendere coscienza di verità che, in precedenza, apparivano come latenti o la cui piena consapevolezza sembrava riservata a pochi. Uno di questi avvenimenti, forse quello davvero decisivo nella storia d’Italia (almeno per la sua parte più recente) fu rappresentato dal vuoto istituzionale creatosi con l’armistizio dell’8 settembre 1943. In quel contesto emerse la necessità, per i singoli, di compiere scelte cui la gran parte non aveva mai pensato di dover essere chiamata. In quel drammatico frangente emerse la necessità di esplicitamente consentire o dissentire: il sistema stava crollando e gli obblighi verso lo Stato non costituivano più un sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali. La scelta individuale compiuta al momento del “prendere o lasciare” del momento dell’invasione tedesca e della subalternità fascista era così maturata nella prefigurazione di un futuro diverso dove l’anelito alla libertà trovava sostanza nei principi fondativi di un’appartenenza politica. Il radicamento dei partiti nella società italiana del dopoguerra ebbe certo uno dei suoi presupposti in questa loro presenza resistenziale e si può affermare ancora adesso, con sicurezza e con orgoglio, che su queste basi fu possibile poi, nel corso di frangenti quanto mai difficili, scrivere la Costituzione Repubblicana. A 80 anni di distanza e nel momento del potere esercitato da una destra diretta erede di quella che il CLN aveva saputo combattere nel frangente più drammatico nella storia dell’umanità è nostro dovere esprimere il meglio del ricordo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA SINISTRA E IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA SOCIALE

di Davide Passamonti | In Italia, la qualità del dibattito politico è calato considerevolmente negli ultimi decenni diventando una sorta di “gioco alle promesse”. Utilizzando i sempre più vari mezzi di comunicazione e rispondendo alla volontà di rappresentare “tutto e tutti”, in una sorta di bulimia elettorale, la classe politica parla per slogan. I partiti tradizionali si sono trasformati in “partiti piglia tutto”, snaturando i propri valori costitutivi, per rappresentare tutte le fasce sociali; di fatto così non rappresentando più nessuno. La politica, così, non risponde più a criteri di qualità ma di quantità. Infine, i vari slogan possono essere ricondotti ad un singolo slogan: «meriti e bisogni». Se in linea di principio tale messaggio assume una valenza evidente, diventa una scatola vuota quando non si ha la volontà di “pesare” gli uni e gli altri. Ormai, tutti i governi inseguono una società che sia allo stesso tempo «meritocratica e equa, solidale ed efficiente» senza aver chiara una strategia che concretizzi in politiche tali indefiniti obiettivi. «Quando si adottano obiettivi così vaghi, si finisce per ripiegare fatalmente sulla soluzione “opportunistica”, che suggerisce di non adottare criteri espliciti di scelta, ma di effettuare le scelte caso per caso, secondo la contingenza»[1]. Così facendo, vediamo che i governi adottano politiche – “oggi a favore dei lavoratori, oggi a favore delle imprese” – nella confusione più totale, problema per problema, senza pianificare e coordinare le scelte di breve periodo con piani o programmi (sviluppati ex-ante) di lungo periodo. Ne consegue una “non visione” della società di domani. La giustizia sociale come “mix” di eguaglianza e efficienza Governare “opportunisticamente” significa, in pratica, lasciare la decisione finale ai gruppi sociali che hanno maggiore forza contrattuale o alle burocrazie dei vari settori; insomma: “non disturbando il manovratore”. Dal punto di vista della destra politica ciò può non essere un problema politico; i consensi elettorali sono un indizio in tal senso. Per la sinistra, invece, il problema della giustizia sociale è centrale e prioritario; e la mancanza di giustizia sociale si ripercuote anche nei consensi elettorali. La funzione sociale della sinistra dovrebbe essere quella di contrastare e opporsi alla sregolatezza governativa vigente, che assume tratti autoritari in certe scelte, «per riaffermare la responsabilità democratica della società nello stabilire regole certe di convivenza»[2]. Infatti, eguaglianza ed efficienza non sono incompatibili. Nella società si formano zone di consenso, più o meno ampio, a seconda della misura in cui si perseguono simultaneamente. Allora, il compito della sinistra è di proporre esplicitamente quelle regole come norme etiche e progettuali; affidandole al dibattito e confronto politico. La giustizia sociale concepita come “mix” di eguaglianza e efficienza si realizza attraverso un programma che può esser definito di equa diseguaglianza[3]; cioè: parità dei diritti civili, garanzia della protezione sociale, limitazione delle diseguaglianze economiche. Il programma di equa diseguaglianza Compito di una sinistra «socialista liberale» moderna è quello di perseguire questo programma. Traducendo, cioè, nella pratica politica la sua regola di giustizia sociale. Così facendo si «rende manifesta la misura in cui la sinistra pensa che i meriti possano essere compensati e che i bisogni debbano essere soddisfatti in termini economici. La fascia dell’equa diseguaglianza deve essere sufficientemente ampia da consentire un’adeguata incentivazione economica allo spirito di iniziativa, all’intrapresa manageriale, alla ricerca del benessere materiale»[5]. La credibilità di un programma di giustizia sociale come quello proposto deve tradursi in pratiche politiche razionali esplicitate e concertate democraticamente. Inoltre, devono dimostrarsi capaci di orientare “programmaticamente” il sistema economico e sociale nella direzione della riduzione delle diseguaglianze più rilevanti. [1]     Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari, Laterza. [2]     Ruffolo 1985. [3]     Ruffolo 1985. [4]     Ruffolo 1985. [5]     Ruffolo 1985. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA PROGRAMMAZIONE COME METODO PER DEMOCRATIZZARE IL CAPITALISMO

di Davide Passamonti | In Occidente, guardando e interpretando il mondo “da sinistra”, sorge l’esigenza di domandarsi “come democratizzare il capitalismo per ottenere più eguaglianza e giustizia sociale”. Prendendo atto che tutte le forme economiche alternative al capitalismo sono fallite, non c’è dubbio, però, che il capitalismo ha creato problemi di varia natura. Dalla questione ambientale sempre più intollerabile agli stravolgimenti climatici; dalle differenze economiche sempre più ampie, tra chi è ricco e chi è povero, all’interno di uno Stato e tra regioni diverse diverse del mondo; alla mercificazione di ogni bene materiale o immateriale (dal lavoro, ai costumi ecc.), c’è la necessità di porre un freno o limiti democratici di metodo allo strapotere del mercato. Gli anni Sessanta del secolo scorso, oltre a rappresentare la stagione keynesiana della piena occupazione, hanno rappresentato l’esperienza della programmazione economica. Ideata e sviluppata dall’elaborazione scientifica di economisti socialdemocratici come Jan Tinbergen, Ragnar Frisch, Gunnar Myrdal la programmazione doveva rappresentare «il compromesso keynesiano tra democrazia e capitalismo»[1] e prendere le distanze dalla pianificazione centralizzata dell’esperienza sovietica. L’attualità del metodo della programmazione, ieri come oggi, sta nell’economia mista, distinta in due settori, che caratterizza i paesi capitalisti. Da un lato, il settore pubblico che fornisce beni collettivi e servizi; dall’altro, il settore privato che fornisce beni privati attraverso il mercato. Stato e mercato, libertà economica e programmazione non sono in contraddizione o contrapposizione; anzi, «lo scopo di questa esperienza è l’aggiustamento reciproco di questi due settori. Mercato e settore pubblico possono essere armonizzati e resi complementari, realizzando i due obiettivi della crescita e di una equilibrata allocazione ed equa distribuzione delle risorse»[2]. Avendo carattere normativo, nella pratica, la programmazione si traduce nel stabilire come e in che modo lo Stato, controllando il 50% delle risorse, «può orientare lo sviluppo dell’intera economia nazionale verso la realizzazione di obiettivi economici e sociali prioritari, rispettando l’equilibrio tra i due settori e le loro logiche di funzionamento»[3]. Realizzare obiettivi socio-economici, quindi, è lo scopo della programmazione. Il piano assume un carattere democratico in quanto pianifica una serie di obiettivi gerarchicamente ordinati e coerenti tra loro. Le priorità sono espresse socialmente attraverso la concertazione tra le parti sociali e votate dai rappresentanti eletti. La finanza pubblica diviene, quindi, lo strumento principale attraverso cui lo Stato può influenzare indirettamente e indirizzare il resto dell’economia. E lo fa tramite le interdipendenze che costituiscono un’economia complessa come quella odierna. Così, attraverso tecniche economiche è possibile costruire un modello matematico che collega le variabili dell’economia. Se certe variabili del modello (per esempio, il tasso di crescita, l’occupazione, il saldo della bilancia dei pagamenti) sono fissate a priori come obiettivi, è possibile – sempre che il numero delle incognite non superi quello delle equazioni – determinare, attraverso la soluzione del modello, il valore delle variabili strumentali (per esempio, la spesa pubblica, il costo del lavoro, il tasso di cambio). Sarà allora sufficiente, per lo Stato, manovrare le sue politiche in modo che le variabili strumentali assumano i valori richiesti dal modello, per ottenere gli obiettivi desiderati[4]. Per influenzare le variabili strumentali lo Stato può intervenire direttamente attraverso leggi o comandi diretti, oppure indirettamente con la persuasione, l’incentivazione o la contrattazione. Per essere produttiva di risultati reali la programmazione deve legarsi a un’idea di società, a una “visione del mondo” precisa e chiara nella mente dei programmatori trascendendo sia il mercato che l’economia. Ovvero, lo scopo non è il “mito della crescita” fine a se stesso ma porre limiti, regole e obiettivi alla crescita economica attraverso la volontà politica. E, ancora, lo scopo non è quello di aumentare la spesa pubblica per risolvere tutto (come avviene oggi provocando storture economiche come inflazione o burocratizzazione) ma quello di ridare capacità politica allo Stato, oggi dispersa nella burocratizzazione, nel debito pubblico e nell’inflazione, «condensandola in un’area ristretta di competenze e di poteri: in un sistema centrale di pianificazione»[5]. [1]                 Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Roma-Bari, Laterza. p.253. [2]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.255. [3]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.256. [4]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.257. [5]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.261. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ARABIA SAUDITA: MEMORIA DEL CALCIO E “CANCEL CULTURE”

di Franco Astengo | Molti si stanno interrogando, su diversi piani (storico, politico, economico) intorno al fenomeno in corso del trasferimento verso la penisola arabica dell’asse di riferimento del calcio mondiale. Una prima risposta potrebbe essere quella dell’intuizione da parte degli sceicchi del valore del calcio come arma pubblicitaria di “distrazione di massa”: una analisi antica che già mosse i regimi totalitari (in particolare il fascismo) negli anni’30 che puntarono molto sull’universalità del gioco, il divismo (ben alimentato dalla trasformazione dei mezzi di comunicazione in atto in quel tempo), la globalizzazione degli avvenimenti sportivi (cui contribuirono molto i giochi olimpici di Los Angeles del 1932, i campionati del mondo di calcio in Italia nel 1934 e soprattutto le Olimpiadi di Berlino del 1936, esplosione del gigantismo architettonico-mediatico del nazismo al culmine della sua potenza). Il calcio ha sempre espresso una forte egemonia su questi fenomeni rispetto alle altre discipline (pur cresciute con il tempo nell’immaginario dei popoli): adesso gli arabi stanno cercando di spostare – dal punto di vista economico, geografico, di immagine – il riferimento globale di questa egemonia sportiva, mediatica, culturale, di vera e propria affermazione d’identità. La novità arriva da Neom, la città futurista voluta dal chiacchierato principe ereditario Mohammed bin Salman. Neom situata nella provincia di Tabuk in prossimità del Mar Rosso è costruita in pieno deserto seguendo criteri da smart city con un investimento da un trilione di dollari. Neom si dividerà in quattro regioni, differenziate per funzioni e popolazione: Sindalah, Trojena, Oxagon e Line. Restiamo al calcio: la squadra della nuova città si chiamerà Neom Foot Ball club e avrà sede nella regione di Line: una città verticale e interamente alimentata da energie rinnovabili con rinuncia ai mezzi di trasporto tradizionali. In quel luogo sarà allocato il club calcistico: nel nulla e arrivato dal nulla. Un esperimento sociale calcistico nel contesto di un esperimento sociale e territoriale di portata ben più ampia: quasi la realizzazione di un’utopia anticipatrice del “secolo dei lumi”. In questo senso i sauditi stanno rivoluzionando il calcio, azzerando il corredo simbolico che lo ha caratterizzato là dove tra l’800 e il ‘900 si è sviluppato. Una vera e propria operazione di “cancel culture”: i sauditi sanno di non poter disporre di questo corredo storico e soprattutto che questo corredo storico è tra le poche cose che non si possono comprare. Dunque è anche per questo che la nascita del Neon FBC (non a caso la sigla “classica” dell’esportazione del calcio degli inglesi nel mondo magari con l’aggiunta Cricket and Athletic come fu per il Genoa, la squadra “più inglese” d’Europa) va valutata con attenzione: nella città sorta da zero e destinata a diventare da subito una metropoli globale sorge un club privo di passato ma pronto a competere ai massimi livelli sul piano internazionale. Inoltre il Neom, nella logica della distruzione di tutte le roccaforti della memoria, non giocherà in un solo stadio: saranno costruiti stadi per ogni zona della città e la squadra si sposterà partita per partita facendo in modo che il pubblico non debba dar vita di continuo a esodi di massa. Scomparirà così il mito delle “curve storiche”: Anfield Road, Old Trafford, la curva “gialla” del Borussia, i “templi” di Wembley, San Siro, Prater. Insomma: il centro d’attrazione per il calcio internazionale diventerà sempre di più quello dei “capitali della modernità” utilizzati per attrarre e compiere un’operazione culturale e politica di grandissima ambizione: ricomporre e ritrasformare la logica della globalizzazione e le grandi transizioni che si stanno presentando (compresa quella verso un altro “immaginario” per l’appunto globale che non può avere storia). Sarà possibile? !Quanto vale il nostro passato ben oltre il valore degli investimenti miliardari e della collezione di figurine animate? Il calcio così come è stato vissuto in Europa e in Sud America e poi trasferito nel mondo seguendo e rispettando le tracce di quella storia è destinato agli archivi, alla lettura degli albi d’oro e a una sorta di “fine della storia”? Interrogativi che valgono molto anche sotto l’aspetto del rapporto di massa che il potere mediatizzato potrà instaurare andando oltre alle identità storiche in un quadro nel quale ci si sta misurando per superare gli antichi equilibri: l’adesione al BRICS dell’Arabia Saudita e insieme dell’Iran, in una contraddizione solo apparente, è segnale di questa ricerca aperta collocata ben oltre la logica dei blocchi . Il calcio potrebbe rappresentare in questo contesto un veicolo non di secondo livello, tanto più che vi si trovano assieme Brasile e Arabia Saudita. Come si potrebbe dire restando al calcio: il vecchio declinante ormai ridotto al ruolo di esportatore di calciatori e il nuovo che vuol far nascere da zero una idea diversa dello sport che rimane il più popolare. Per noi che pretendiamo di cimentarci con la storia del calcio non ci resterà, probabilmente, altro che la possibilità di raccontarla come se si trattasse della storia dell’impero romano. Così fu il Real Madrid e non sarà cosa da poco se osiamo pensare a un multiculturalismo senza memoria. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

20 AGOSTO 1968, L’INVASIONE DELLA CECOSLOVACCHIA

di Mauro Scarpellini – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | Ricordo di un grosso triste evento e di un piccolo dettaglio al suo interno. Il triste evento fu l’invasione della Cecoslovacchia la notte del 20 agosto 1968; il dettaglio fu la posizione del PSIUP Il mattino del 21 agosto 1968 i radiogiornali informarono il mondo che circa 250.000 armati sovietici, bulgari, ungheresi e polacchi avevano invaso la Cecoslovacchia nella notte. Tutti paesi comunisti. L’Unione sovietica ne decise l’invasione per bloccare la cosiddetta “primavera di Praga”, cioè lo sviluppo di un comunismo locale che cominciasse ad essere ispirato ad alcuni valori sociali e diritti richiesti dal popolo cecoslovacco, ma non voluti dai dirigenti sovietici. I partiti politici italiani emisero immediate dichiarazioni critiche e nette contro l’intervento. Il PSIUP non emise comunicati. L’unico! Sessanta anni possono bastare per leggere con distacco anche i fatti minori della storia. Mi riferisco al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria nato il 12 gennaio 1964 e morto il 13 luglio 1972. Otto anni di vita non lasciarono traccia significativa; furono un momento di passaggio del gruppo che guidò l’operazione di scissione dal PSI e di costituzione del PSIUP da un massimalismo dogmatico, metodologicamente religioso, all’interno del Partito Socialista ad un proseguimento di attività politica nel Partito Comunista su linee e sviluppi esattamente opposti alle motivazioni di fondo che portarono alla nascita di quel partito. Non riguardò tutti i dirigenti, ma la maggioranza di essi. Alcuni di loro, in minoranza, tra i quali anche personalità con storie politiche di spessore e rispetto, vissero problematicamente la loro scelta e tentarono distinzioni che non ebbero affermazione. Qualche dettaglio può aiutare a capire meglio. Il gruppo dirigente della forte minoranza del Partito Socialista Italiano – cosiddetta “sinistra” – si era caratterizzato per posizioni politiche di un socialismo filocomunista, molto teorico. In politica estera manteneva una preferenza internazionalista (un po’ declamatoria, da indovinare tuttavia nel significato reale della politica concreta) e un appoggio alle scelte dell’Unione Sovietica, sia politiche che militari. Infatti quel gruppo dirigente era già stato definito “carrista” (pro carro armato, per chiarezza) perché nel 1956 aveva mostrato comprensione e approvazione per l’intervento militare dell’Unione Sovietica in Ungheria che represse nel sangue la sommossa popolare che era sorta per le sofferenze economiche e sociali che il popolo subiva dal regime comunista al governo e al potere. Quando in Italia si prospettò la possibilità per mezzo dell’azione politica del PSI, condivisa da socialdemocratici e repubblicani, di un nuovo cammino politico, parlamentare e governativo per lo sviluppo nazionale con una possibile maggioranza parlamentare comprendente socialisti e democristiani, socialdemocratici e repubblicani, quel gruppo dirigente si arroccò contro lo spostamento a sinistra della politica economica e sociale. Non era bastato a convincerlo uno dei prezzi che il PSI aveva chiesto alla DC – e ottenuto nel 1962 – per preparare credibilmente la svolta a sinistra, cioè la legge di nazionalizzazione delle aziende elettriche private e pubbliche in un unico ente preposto ad assecondare programmazione economica, superamento delle disuguaglianze di servizio elettrico tra le zone del Paese ed altro. Fu ed è ancora l’unico atto veramente rivoluzionario e pacifico fatto nell’ industria italiana deciso dal Parlamento dalla fine della seconda guerra mondiale. Non bastò, benché la legge fosse stata promulgata prima del centro-sinistra organico, così fu definito quello con la partecipazione anche dei socialisti. Non bastarono gli impegni della nuova maggioranza di governo di centro-sinistra – poi mantenuti, era il 1970 – dello Statuto dei diritti dei lavoratori e della costituzione delle Regioni. La dichiarazione (qui interamente riportata e interessante anche per il linguaggio) del gruppo cosiddetto di “sinistra” pronunciata il 26 novembre 1963 al Comitato Centrale del Partito Socialista Italiano è esemplare per affermazioni generali e spiccano due riferimenti di portata ideologica massima: il contrasto “con i principi e con le prospettive del socialismo” e la negazione della “collocazione classista del partito”. I componenti di quel gruppo dirigente sarebbero poi confluiti in maggioranza e prestissimo nel Partito Comunista Italiano nel 1972 approvando il “compromesso storico” che il Segretario di quel Partito Enrico Berlinguer propose appena un anno dopo, nel 1973. Il “compromesso storico” non era certo una tappa verso il socialismo e sulla natura classista del partito ognuno sa fare di conto con la storia del PCI-PDS-DS-PD. Subito prima di confluire nel PCI sostennero la candidatura a Presidente della Repubblica del democristiano Fanfani contro quella del socialdemocratico Saragat, poi eletto. E’ difficile collegare quel comportamento col rigore coi suddetti principi sostenuti. Conclusivamente mi rimane incompreso il filone di pensiero di coloro che guidarono il PSIUP. Con le dichiarazioni astratte si compilerebbe un libro, ma l’ispirazione, la linea di azione, la fattibilità delle proposte non sono accessibili a mente normale come la mia. Diversi furono generosi nell’impegno sociale e nel tentativo di elaborare prospettive per una diversa sinistra, talvolta anche in posizione di contestazione da sinistra del PCI, molto gradita ai dirigenti del Partito Comunista sovietico in funzione di richiamo all’ortodossia filo moscovita che volevano far risuonare ripetutamente per mezzo del PSIUP nelle orecchie dei dirigenti italiani del PCI. Credo che gli elettori che lo votarono (solo alla Camera il 4,4% nel 1968; scesi all’1,9% nel 1972) fossero sinceramente antidemocristiani, forse romanticamente aggrappati ad un sogno semirivoluzionario da realizzare in qualche modo pacifico e comunque ad un rivolgimento velleitariamente invocato. La stessa cosa non mi sento di dire per tutti i dirigenti. Mi raccontò l’ex tesoriere del PSIUP – divenuto poi editore dopo il 1972, che conobbi per la pubblicazione del mio primo libro senza sapere chi fosse stato prima – un episodio di mercoledì 21 agosto 1968, appena conosciuta l’invasione della Cecoslovacchia. Il PSIUP non emise comunicati. Il suo Segretario Tullio Vecchietti partì al mattino per Formia, in vacanza marina. Lui, il tesoriere, fu chiamato al telefono dall’Ambasciatore sovietico Nikita Riyov e invitato a recarsi a Villa Abamelek a Roma, residenza dell’ Ambasciatore, e gli fece trovare una borsa con cinquanta milioni di lire. Il giorno dopo, in ritardo rispetto a tutti gli altri comunicati di partito, il segretario del PSIUP emise …

1892: RITROVARE IL CORAGGIO DI QUEI GIORNI

di Franco Astengo | 14 agosto 1892, Genova fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani: Questo richiamo alla memoria vuole misurarsi con l’idea di fondo della ricostruzione di una soggettività rappresentativa posta oltre le antiche separatezze rievocando l’importanza storica di quel momento fondativo. Un esempio di coraggio e di lungimiranza politica datato 1892, ma di grande attualità nella sua essenza di capacità nel progettare il futuro: forse quella capacità che a noi manca nel saper riproporre oggi l’essenza di una presenza della sinistra rivolta sempre coerentemente al riscatto dei ceti sociali sfruttati in modo diverso, ma forse sempre eguale, da un capitalismo sempre più tentacolare, arrogante, manipolatore, ignaro non tanto dei diritti soggettivi, ma del senso della vita intesa come lotta eterna per il riscatto sociale e il cambiamento dello “stato di cose presenti”.Nel corso del primo ventennio del nuovo secolo si sono registrati alcuni passaggi fondamentali che hanno determinato un profondo mutamento nei rapporti economici, politici, sociali: 1) Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno riportato la guerra come fattore essenziale di un’idea di democrazia da esportare attraverso l’operato del “solo gendarme del mondo”; 2) La crisi dei subprime (2007-2008) ha mostrato per intero la fragilità del meccanismo del capitalismo globalizzato e ormai esclusivamente finanziario; 3) Almeno dall’inizio degli anni’ 10 si è aperto un nuovo livello di confronto globale protagonista la Cina avendo come posta possesso e dominio delle nuove tecnologie e delle risorse indispensabili per imporre al mondo un nuovo modello di “solitudine tecnologica”; 4) L’inedita emergenza sanitaria globale principiata nel tardo inverno 2019 – ’20 ha sconvolto l’insieme dei rapporti economici e scompaginato il complesso degli assetti sociali. Un’emergenza che avrebbe dovuto ribaltare le priorità nella graduatoria delle contraddizioni proponendo l’idea di un diverso modello di economia, lavoro infine di vita, fondato sull’idea del “limite” (il socialismo della finitudine). Invece l’emergenza sanitaria ha portato ad una concentrazione dei poteri sul piano politico e ad un allargamento a dismisura delle disuguaglianze tra i popoli e all’interno delle nazioni riportando il mondo sull’orlo di una possibile guerra totale. 5) Dal febbraio 2022 è iniziata l’invasione russa in Ucraina: operazione ancora drammaticamente in corso, causa di indicibili lutti e di rovine non riparabili e – soprattutto – ben lontana dal trovare una soluzione che non sia quella della tensione permanente e del ritrovare logiche da “blocchi contrapposti” fra le grandi potenze, ponendo in vista delle prossime elezioni europee il tema della coincidenza NATO/UE; 6) In Europa e in Italia è emersa una tendenza di raccolta di consenso al populismo di destra (alimentato anche dalla questione dei migranti sospinti alla fuga dalle guerre e dai regimi dittatoriali in Africa) che nel nostro paese è sfociata (anche grazie ad una legge elettorale pericolosamente sbagliata proprio sul terreno dell’equilibrio della traduzione dei voti in seggi parlamentari) nell’avvento di un governo di destra colmo di ideologie nazionaliste e corporative. Questi sei punti (comunque in questa sede lacunosamente riassunti) hanno inciso profondamente sulla fragilità complessiva del sistema politico italiano acuendone le contraddizioni. Hanno avuto origine fenomeni di antipolitica con rigurgiti di nazionalismo , razzismo, vocazione autoritaria, messa in discussione del ruolo del Parlamento e dei consessi elettivi locali in un quadro di modifica delle stesse coordinate costituzionali di fondo al riguardo della forma parlamentare di governo Nell’Italia degli anni ‘20 del XXI secolo il fenomeno più deteriore che si è potuto osservare è stato quello della perdita della capacità di cogliere quella che era stata definita “l’energia sociale del lavoro”. L’ansia di porre il profitto al centro di una non meglio precisata “ripartenza” ha di fatto cancellato qualsiasi logica di diritto, sicurezza, stabilità del lavoro all’interno di una società dominata dal l’individualismo competitivo. Si è aperta la strada al via libera “contro” ogni regola e qualsiasi compatibilità: c’è chi ha scritto (ed è necessario confermarlo) che in nome dell’autonomia del capitale si è riproposto il “connotato di classe” (come se fosse stato logico illudersi della scomparsa della contraddizione di classe, come avrebbe preteso il pensiero mainstream dall’89 in avanti). L’Italia è un paese socialmente abbruttito, soggetto ad un agire politico in larga parte fondato sulla “logica di scambio”, dove si sta zitti davanti a tutte le ingiustizie. Abbiamo perduto una capacità di rappresentanza che abbiamo il dovere di riproporre in una chiave non difensiva ma di forte proposizione dell’idea di un pieno rilancio delle idee di eguaglianza e solidarietà da comprendere in progetto di trasformazione sociale, politica, culturale. La sinistra dovrebbe prima di tutto ritrovare coraggio. Quel coraggio che i nostri progenitori ebbero,proprio in questi giorni, 131 anni fa fondando il Partito dei Lavoratori Italiani poi diventato partito Socialista dei Lavoratori italiani. Queste poche e disordinate righe nelle intenzioni del proponente avrebbero dovuto essere dedicate al ricordo di quei giorni, ma chi scrive si è lasciato prendere la mano tentando di descrivere l’attuale situazione e cercando di collegarla a quanto avvenne in quel tempo. E’ quindi il caso di cercare di descrivere l’attualità collegandola a quel ricordo lontano. Un ricordo che va sempre rinnovato giorno per giorno in una tensione di lotta quotidiana per affermare i grandi principi e i grandi valori del socialismo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it