L’ATTACCO AL DIRITTO DI SCIOPERO

di Franco Astengo | “I sindacati confermano lo sciopero dei treni di 24 ore proclamato per oggi e Salvini li precetta, dimezzandone la durata: l’astensione, che comincia alle 3:00, dovrà concludersi alle 15:00“ Questa la notizia di oggi al riguardo dell’annunciato sciopero dei ferrovieri. La replica del sindacato: “«La precettazione è un’iniziativa vergognosa, sbagliata e illegittima», protesta il segretario generale Stefano Malorgio, che non nasconde i timori di una iniziativa analoga del ministero dei Trasporti per lo sciopero del settore aereo di sabato: «Ci aspettiamo la riduzione o persino un annullamento», spiega, aggiungendo che il sindacato valuta il ricorso al Tar, anche per evitare che lo stesso trattamento venga adottato a fronte di altri scioperi.“ Di fatto ci troviamo di fronte a un nuovo attacco al diritto di sciopero sferrato nell’ambito dell’azione di un governo di destra che riprende un antico tema di limitazione della libertà dei lavoratori e dell’espressione di dissenso. E’ necessario ricordare come la prima fase della ricostruzione del Paese nel periodo post-bellico (dopo che il fascismo aveva vietato lo sciopero e che il primo vero segnale della sua caduta fosse arrivato il 1° marzo del 1944 con lo sciopero contro la guerra delle grandi fabbriche del Nord) fosse stato segnato da una fortissima conflittualità sociale con il costante intervento repressivo da parte dei governi centristi: operaie e operai, contadine e contadini in quel periodo lasciarono una lunga striscia di sangue nella lotta per il salario, l’orario, i diritti fondamentali, la difesa del posto del lavoro e della democrazia (in quel periodo sono da ricordare anche grandi scioperi politici: in occasione dell’attentato a Togliatti, contro la NATO, la legge elettorale maggioritaria definita “Legge Truffa”, fino al tragico luglio ’60). Il lungo ’68- ’69 italiano registrò ancora sia l’innalzamento di livello della conflittualità sociale e la repressione governativa: un punto fu segnato con l’approvazione nel 1970 dello Statuto dei Lavoratori su iniziativa del Partito Socialista arrivato al governo con il centro-sinistra e particolarmente del ministro Brodolini e del giurista Gino Giugni. La regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi essenziali, in applicazione dell’articolo 40 della Costituzione, avvenne nel 1990 come punto di mediazione di un’altra lunga fase di scontro nel corso della quale i governi succedutisi nel tempo avevano impostato la loro azione per limitare al massimo il diritto di sciopero : un’azione frutto dell’iniziativa neo-liberista degli anni’80 coincidente con l’avvento della presidenza Reagan negli USA e della presidenza Thatcher in Gran Bretagna (con relativa repressione dello sciopero dei minatori). In Italia si sono così verificati tre interventi legislativi: quello della legge 146/90, 83/2000, D.L. 146/2015. Nei servizi essenziali l’esercizio del diritto di sciopero è consentito unicamente (art. 2, co. 1) nel rispetto delle seguenti condizioni: a) organizzazione e adozione di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili per garantire le finalità della legge 146/90. b) osservanza di un preavviso minimo non inferiore a 10 giorni, al fine di predisporre l’erogazione di prestazioni indispensabili e per attivare tentativi di composizione dei conflitti. c) obbligo di fornire informazioni alle utenze circa lo sciopero da parte delle amministrazioni o aziende erogatrici di servizi pubblici essenziali, almeno 5 giorni prima dell’inizio dello sciopero d) esperimento di un tentativo di conciliazione, vincolante e obbligatorio per le parti Tutte clausole già fortemente vincolanti e nell’occasione largamente esperite da parte delle organizzazioni sindacali ; non tenute in conto dall’ordinanza di precettazione che in questo modo rappresenta un punto di rottura pericoloso nell’ambito del quadro più generale di attacco alla Costituzione che sembra proprio significare il punto distintivo dell’operato di questo governo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LE IDEOLOGIE POLITICHE AL TEMPO DEL POPULISMO. INTERVISTA A MANUEL ANSELMI

di Giulio Pignatti | Cosa ne è delle ideologie all’epoca del populismo, della disintermediazione e del dissolvimento dei partiti di massa? Un recente convegno, Cosa resta dell’ideologia? Concetti, teorie, metodi di ricerca, organizzato dagli Standing group “Teoria Politica” e “Politica e Storia” della Società Italiana di Scienza Politica e tenutosi alla sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore il 4 e 5 maggio 2023, ha discusso, tramite l’apporto di metodi e discipline differenti, la permanenza e l’evoluzione delle ideologie politiche nei contesti contemporanei. Qui l’intervista, a partire dai temi del convegno, a Manuel Anselmi, uno dei relatori e ricercatore in Sociologia politica presso l’Università degli Studi di Bergamo. Anselmi si occupa principalmente di ideologie politiche e populismi e ha lavorato sul contesto europeo e latino-americano. Tra le sue pubblicazioni: Multiple Populisms. Italy as Democracy’s Mirror (Routledge 2019, curato con Paul Blokker), Populismo. Teorie e problemi (Mondadori Università 2019), Populism. An Introduction (Routledge 2017, con Paul Blokker) e Chavez’s Children. Ideology, Education, and Society in Latin America (Lexington Books 2015). Da anni la vulgata del senso comune sostiene il tramonto delle ideologie, innanzitutto di quelle protagoniste, nel bene e nel male, della storia del secolo scorso. Dovremmo quindi vivere in una società post-ideologica, ma allo stesso tempo è difficile non definire ideologici fenomeni caratteristici del presente, come ad esempio il nazionalismo. Dunque, innanzitutto, l’ideologia è viva o morta? Manuel Anselmi: Diciamo subito che nella storia degli studi sull’ideologia è già successo di annunciare la fine delle ideologie e poi ricredersi. Era capitato alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, ma poi per tutti gli anni Sessanta e Settanta abbiamo assistito ad una vera e propria renaissance degli studi sul tema. La vulgata a cui giustamente fa riferimento lei è invece un fenomeno che riguarda gli ultimi decenni ed è cruciale. Da circa la metà degli anni Ottanta si è ricominciato a parlare, anche insistentemente, di fine delle ideologie e di inizio di una fase post-ideologica. Queste tesi si sono sedimentate nel senso comune anche attraverso la pubblicistica – per cui capita ancora oggi di leggere e ascoltare questa storia della morte delle ideologie. È interessante notare che, d’altro canto, a livello di riflessione scientifica proprio in quegli anni si è continuato a produrre importanti studi sull’ideologia. C’è stata quindi una discrasia tra l’opinione pubblica, per la quale le ideologie erano ormai sepolte, e il discorso scientifico, grazie al quale sono state portate avanti forse le analisi più originali a riguardo: si pensi agli studi di Michael Freeden, di John B. Thompson, o alla ripresa di alcune intuizioni di Clifford Geertz, o ancora al neomarxismo di Stuart Hall. Ciò dimostra quindi che la fine delle ideologie è stato più che altro uno slogan, ideologico esso stesso, funzionale alla promozione di un vero e proprio senso comune riconducibile all’ideologia neoliberale. Oggi siamo in una fase in cui è possibile riconoscere quella lunga fase ideologica e non a caso si stanno riproponendo saggi o pamphlet che tematizzano la questione ideologica come il recente libro di Carlo Galli edito da il Mulino (Ideologia). Molto probabilmente siamo in una fase in cui si torna a parlare di ideologie, anche nella sfera pubblica. Ma la questione non è solo intellettuale: sono le vicende politiche più recenti che hanno decretato un significativo cambio di prospettiva. Il 2022 è stato in effetti un anno di cambiamenti epocali, innanzitutto per lo scoppio della guerra in Ucraina: abbiamo definitivamente liquidato l’immaginario ottimistico della globalizzazione, dopo che era già stato duramente messo alla prova con la crisi economica del 2008. Un immaginario che era parte della costellazione del pensiero post-ideologico, sulla base del quale si pensava che fossimo ormai in un’epoca in cui regnasse solo il soft power, che la politica di potenza fosse ormai un fatto del passato, che l’integrazione economica globale sarebbe stata sempre prioritaria rispetto ai fenomeni politici. Dominava la convinzione di un Novecento ormai abbandonato, ma la guerra ha sepolto questo lungo incanto. In Italia, poi, dopo la fase della Seconda Repubblica, del berlusconismo e del populismo, con la vittoria di Giorgia Meloni e di un partito che ha le sue radici nel post-fascismo, siamo tornati a vedere all’azione un soggetto politico che si avvale certamente di strumenti populistici ma che insegue un programma ideologico conservatore chiaro e distinto. È tornata al governo una destra strutturalmente di destra, e quell’evanescenza ideologica che pensavamo di percepire durante il lungo arco berlusconiano non c’è più. Ma del resto non poteva essere altrimenti: è impossibile pensare una politica senza ideologie. Il pensiero politico, infatti, ha sempre una componente ideologica. Questo è un principio critico che non si può dimenticare o eludere nell’analisi dei fenomeni sociali – ideologia e critica sono due opposti che si accompagnano sempre, se si vuole l’ideologia è l’ombra della critica. Insomma, non esiste una forma di pensiero sociale e politico aideologico, chi lo sostiene mente ideologicamente. Che radici sociali e culturali ha allora il discorso, svelato come ideologico, sull’”epoca della fine delle ideologie”? Manuel Anselmi: A mio avviso l’autore più utile in tal senso è Stuart Hall, il quale, in quel contesto privilegiato che era la fucina neoliberale thatcheriana, parlò della nascita di un common sense neoliberalism, cioè di un senso comune egemonico che si sarebbe diffuso su scala transnazionale grazie ai processi della globalizzazione e che ha trovato un ulteriore impulso con la fine della Guerra fredda. La riflessione situata di Stuart Hall, che riprende con un’intelligenza unica il pensiero gramsciano in un contesto totalmente diverso, quello della Gran Bretagna degli anni Ottanta, riesce a decostruire il discorso nascente e trionfante di Margaret Thatcher, che si proponeva come modernizzante e aideologico. Stuart Hall aveva capito che quel discorso stava producendo una nuova egemonia a livello globale – che raggiungerà un’ampiezza e un radicamento che non ha pari per nessun’altra ideologia contemporanea. Certo, la categoria di neoliberalismo o di neoliberismo a volte può risultare problematica: nella collana che dirigo (Lessico democratico, per Mondadori Università), Giulio Moini, ad esempio, ha provato a ricostruire il percorso …

IL RICORDO DEL 30 GIUGNO 1960 E L’ANTIFASCISMO MILITANTE

di Franco Astengo | Il 30 Giugno 1960 dopo un grande comizio tenuto da Sandro Pertini in piazza della Vittoria (u brichettu, fu appellato in quell’occasione il futuro Presidente della Repubblica) e Genova scendeva nelle strade per respingere il tentativo fascista di svolgere il proprio congresso nella città medaglia d’oro della Resistenza. Seguirono giorni di grande tensione e mobilitazione popolare in tutto il Paese, con una forte repressione poliziesca: vi furono 5 morti a Reggio Emilia, a Roma i carabinieri a cavallo caricarono i partecipanti a una manifestazione antifascista a Porta San Paolo ferendo deputati comunisti e socialisti, vi furono altri morti a Licata, Palermo e Catania.   Alla fine di quei giorni convulsi la democrazia vinse e il governo Tambroni fondato sull’alleanza tra democristiani e fascisti fu costretto alle dimissioni e si aprì, per il nostro Paese, una pagina nuova. Non dobbiamo mai dimenticare quei fatti in particolare adesso, nella più stretta attualità: in Italia è in atto, ormai da molto tempo, ma ora in maniera molto più esplicita e diretta una vera e propria svolta autoritaria attaccando i capisaldi della Costituzione Repubblicana. Serve subito la messa in campo di una forte opposizione sociale e politica. Sotto questo aspetto non si può perdere altro tempo: siamo chiamati ritrovare subito una nostra identità e una nostra autonoma capacità d’iniziativa. L’esempio del Luglio ’60 non dovrà rappresentare un semplice riferimento al passato ma un modello cui richiamarsi. Occorre creare le condizioni per una forte tensione sociale sui grandi temi del lavoro, della sanità, del welfare, della qualità della democrazia, della pace cui collegare una altrettanto decisa prospettiva politica. Senza indulgere nella retorica serve un’opposizione consapevole del fatto che prima di tutto è in gioco l’idea di Repubblica nata dalla Resistenza ed espressa nella Costituzione. Mai come adesso il ricordo di quelle giornate dell’estate 1960 si deve collegare ad un’azione di indispensabile antifascismo militante. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GIACOMO LEOPARDI

di Angelo Alberti | Oggi, all’inizio dell’estate, celebriamo la nascita di un grande poeta e filosofo italiano: Giacomo Leopardi. Nato il 29 giugno 1798, Leopardi è diventato una figura di riferimento nel panorama letterario mondiale e il suo pensiero ha continuato a esercitare una profonda influenza sulla cultura e sulla società contemporanea. L’importanza del pensiero leopardiano risiede nella sua capacità di esprimere e indagare le molteplici sfaccettature dell’esistenza umana. Leopardi era un osservatore acuto e implacabile della realtà, ma anche un pensatore profondamente riflessivo che ha affrontato temi fondamentali come il senso della vita, la condizione umana, la solitudine, l’amore, il dolore e la morte. Attraverso le sue opere poetiche, come il celebre “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, Leopardi ha trasceso i confini della propria epoca e ha toccato le corde più intime dell’animo umano. La sua poesia, intrisa di malinconia e struggimento, ha il potere di svelare la bellezza nascosta anche nelle situazioni più desolate e tristi. Ma Leopardi non è stato solo un grande poeta, è stato anche un filosofo illuminante. Le sue riflessioni sulla natura umana, sulla storia e sulla società, racchiuse nelle “Operette morali” e nei “Pensieri”, continuano a stimolare il pensiero critico e a fornire spunti di riflessione su tematiche ancora attuali. Una delle principali contribuzioni del pensiero leopardiano risiede nella sua visione lucida e disincantata della realtà. Leopardi ci ha mostrato che l’umanità è intrinsecamente segnata dalla sofferenza, dalla precarietà e dalla frustrazione, ma ha anche indicato la possibilità di trovare una sorta di consolazione nella bellezza dell’arte, nella contemplazione della natura e nell’intelletto umano. In un’epoca in cui il nichilismo e il pessimismo sembrano aleggiare, il pensiero di Leopardi assume un’importanza ancora maggiore. Egli ci invita a confrontarci con la realtà senza illuderci di trovare risposte definitive, ma senza neanche rinunciare alla ricerca di significato e di senso. Il suo scetticismo, invece di portare al disfattismo, ci spinge a sviluppare una consapevolezza critica e a cercare la bellezza e il piacere nella conoscenza e nell’arte. Il pensiero leopardiano ci ricorda che la vita è un’esperienza complessa e che il dolore e la sofferenza possono coesistere con la bellezza e la gioia. La sua opera è un invito a riflettere sulla condizione umana, ad abbracciare la nostra vulnerabilità e a cercare il significato nella nostra esistenza, nonostante le difficoltà e le contraddizioni che la vita ci presenta. L’importanza del pensiero leopardiano risiede nella sua capacità di connettere le emozioni e i dubbi che affliggono l’essere umano. Attraverso la sua poesia e la sua filosofia, Leopardi ci invita a guardare al mondo con occhi critici e ad abbracciare la complessità della vita. Il suo pensiero continua ad essere un faro nella notte dei nostri interrogativi, ispirandoci a perseguire la conoscenza, a contemplare la bellezza e a cercare il senso più profondo delle cose. Giacomo Leopardi, non può definirsi un socialista nel senso moderno del termine. È infatti importante ricordare che il concetto di socialismo come lo conosciamo oggi si è sviluppato successivamente, nel corso del XIX e del XX secolo, mentre Leopardi ha vissuto principalmente durante la prima metà del XIX secolo. Tuttavia, Leopardi è noto per la sua profonda introspezione e la sua visione pessimistica sulla vita umana. I suoi scritti sono caratterizzati da una profonda consapevolezza della miseria e della sofferenza dell’esistenza umana, delle disuguaglianze che la caratterizzano, specie nel suo tempo. Dalla lettura dei suoi testi scopriamo, infatti, come Leopardi si interessasse di questioni sociali e politiche, e come le sue opere si concentrino principalmente sulla condizione umana, sulle sue aspirazioni e sul confronto tra l’ideale e la realtà. Leopardi era un severo critico nei confronti delle ingiustizie sociali e dei privilegi delle classi dominanti. Tuttavia, non si può affermare che abbracciasse esplicitamente l’ideologia socialista come la intendiamo oggi. La sua opera più famosa, “L’infinito”, ad esempio, riflette una visione filosofica e romantica dell’universo, ma si apre anche ad un’analisi sociale e politica della sua epoca. Infatti, è importante evitare di proiettare retrospettivamente le ideologie politiche moderne sui pensatori del passato, poiché le loro idee erano influenzate da contesti storici e culturali differenti. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

26-27 GIUGNO 1983: LE ELEZIONI POLITICHE DI QUARANT’ANNI FA

di Franco Astengo | Il 26-27 giugno 1983 si svolse un turno di elezioni politiche anticipate, gestite da un governo Fanfani molto provvisorio dopo che nel corso della legislatura la presidenza Pertini che dopo i passaggi dei governi Cossiga e Forlani (durante il cui mandato erano stati scoperti gli elenchi della P2) aveva concretizzato, per la prima volta dalla fase-post resistenziale del gabinetto Parri, una presidenza del consiglio non democristiana affidata al segretario del PRI Giovanni Spadolini. Sono passati esattamente quarant’anni e vale la pena ricordare quel passaggio della storia politica del nostro Paese non tanto e non solo per la ritualità della scadenza. Andò alla prova, in quell’occasione, il PCI portato sulla linea dell’alternativa con la “seconda” svolta di Salerno annunciata da Berlinguer nel pieno del dramma del terremoto dell’Irpinia del 1980 e la nuova veste del PSI condotto sulla linea dell’autonomia anche ideologica (il saggio di Pellicani su Proudhon) dalla segreteria Craxi. Nel dopo XVI congresso del PCI vi furono contatti e un famoso incontro alla Frattocchie che sembrò in una qualche misura come un passaggio di avvicinamento, mentre De Mita aveva lanciato la DC sulla strada di un rinnovamento di stampo tecnocratico, in linea con le tendenze dell’epoca dominate dall’avvento della reaganomics negli USA e della presidenza Thatcher in Gran Bretagna. L’esito elettorale fece registrare un punto di novità che poteva essere giudicato in quel momento sostanziale, da vera e propria “elezione critica”: quello del calo della DC nella misura più consistente dalla nascita della Repubblica. In un quadro complessivo che vedeva per la prima volta la percentuale dei partecipanti al voto scendere sotto il 90% fermandosi all’88,3% (il timore della crescita delle astensioni aveva pervaso tutta la campagna elettorale) la DC perse quasi due milioni di voti (da 14.046.290 a 12.153.081) oltre 5 punti percentuali (da 38,30% a 32,93%). Il PCI (che nelle sue liste aveva incluso oltre alla Sinistra Indipendente anche il PdUP e la Lega dei Socialisti, frutto di una scissione del PSI avvenuta nel 1981) tenne a fatica le posizioni scendendo da 11.139,231 voti (30,38%) nel 1979, a 11.032.218 (29,89%) nel 1983. Il divario tra le due forze protagoniste del “bipartitismo imperfetto” si ridusse considerevolmente (“in discesa” per via del calo democristiano) da 2.907.059 voti a 1.121.763 (nella notte tra il 27 e il 28 giugno un affluire di dati parziali aveva perfino fatto pensare qualcuno al “sorpasso”). La nuova linea del PSI portata avanti fin dallo schierarsi sulla “linea della trattativa” durante il rapimento Moro pagò con circa 650.000 voti in più(1,63% in percentuale) passando da 3.596.802 a 4.223.362 ma l’incremento maggiore, nell’ambito del quadro governativo uscente fu ottenuto dal PRI qualificatosi come campione della “questione morale” e passato da 1.110.209 voti (3,03%) a 1.874. 512 voti (5,08% con il passaggio della soglia psicologica del 5%). “Questione morale” che nel corso della campagna elettorale si era imposta all’attenzione dell’opinione pubblica con i fatti di Torino (caso Zampini- Biffi Gentili) e della Liguria (Caso Teardo, con l’arresto dell’ex-presidente della Regione e candidato alla Camera dei Deputati, anche lui iscritto alla P2). L’esito politico della tornata elettorale fu però quello di rendere ancora più netto il divario a sinistra: il PCI dimostrò l’insufficienza della sua proposta di alternativa; il PSI considerò la posizione di governo come punto d’appoggio per la ricerca di un “riequilibrio” a sinistra. Il 21 luglio il presidente Pertini conferì a Craxi l’incarico di formare il governo: il 4 agosto il governo giurò e il 12 dello stesso mese ricevette la fiducia della Camera. Un governo di penta-partito guidato per la prima volta nella storia da un socialista. Si avvicinava la bufera degli anni’80, del decreto di San Valentino, dell’installazione degli euromissili (ma anche di Sigonella), della “Milano da bere” e della “grande riforma”. Questa improvvisata ricostruzione intendeva soltanto affrontare un passaggio elettorale che non può essere dimenticato quando si intende misurarsi sul complesso e tormentato cammino percorso dalla sinistra nel sistema politico italiano. Si stava avviando la fase del disincanto che presto si sarebbe trasformata in “antipolitica” nel corso della cui fase di espansione si svilupparono, favoriti dalla concezione maggioritaria della “governabilità” via via i fenomeni della personalizzazione, della crescita esponenziale della volatilità elettorale, della perdita di peso del voto di appartenenza, della crisi dei partiti a integrazione di massa trasformati dapprima in “partiti pigliatutto” poi in partiti “azienda” o “personali” fino all’approdo alla democrazia recitativa all’interno delle cui coordinate ci stiamo trovando in una fase di superamento del concetto di rappresentanza politica e di costante slittamento del potere istituzionale dal Parlamento (inopinatamente ridotto anche nel numero dei suoi componenti) all’esecutivo e al condizionamento del peso delle lobbies. Al frantumarsi della società in isole corporative e nell’egemonia assunta dal fenomeno dell’individualismo competitivo i nuovi partiti usciti dallo scioglimento delle vecchie soggettività politiche hanno risposto con un adeguamento di tipo populista esaltando operazioni pericolose per la democrazia come quelle rappresentate dalla costruzione di una “Costituzione materiale” di stampo presidenzialista che si sta cercando di torcere in una modifica effettiva della Costituzione del ’48. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

PER IL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO DI UNITA’ PROLETARIA IL DUCE NON PUO’ DETTARE LE CONDIZIONI

Tra le figure più controverse del panorama giornalistico italiano, durante il ventennio fascista, vi è quella di Carlo Silvestri. Editorialista del Corriere della Sera e militante socialista ai tempi del delitto Matteotti, Silvestri venne perseguitato dal regime, mandato al confino ed infine liberato personalmente da Mussolini, il quale si servì del giornalista, durante il periodo di Salò, per trattare la resa con gli alleati ed i partigiani. Fu Silvestri, infatti, il 22 aprile 1945, ad inviare all’esecutivo del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria la lettera contenente l’ultima proposta di resa del Duce. LA PROPOSTA “Compagni socialisti, Benito Mussolini mi ha chiamato e mi ha dettato questa dichiarazione che mi ha autorizzato a ripetervi. Poiché la successione è aperta, in conseguenza dell’invasione anglo-americana, Mussolini desidera consegnare la Repubblica sociale ai repubblicani e non ai monarchici; la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi. Della sua persona non fa questione. Come contropartita chiede che l’esodo dei fascisti possa svolgersi tranquillamente: né una reazione legale, né una reazione illegale che sarebbero controproducenti. Nel proporre questa trasmissione di poteri, egli si rivolge al partito socialista, ma sarebbe lieto se l’offerta fosse considerata ed accettata anche dal Partito d’Azione nel quale, del resto, prevalgono le correnti socialiste. Non estende l’offerta al Partito Comunista solo perché la tattica di questo partito esclude che nell’attuale situazione internazionale esso possa assumere in Italia atteggiamenti che sarebbero in contrasto col riconoscimento dell’Italia come zona d’influenza inglese. La consegna si potrebbe concretare nei seguenti punti: 1) Per ragioni di organizzazione e di tempo, il trapasso dei poteri ai socialisti ed ai partiti di sinistra potrebbe essere effettuato solo a Milano ed eventualmente in alcuna delle città vicine (Varese, Como, Legnano, Gallarate, Saronno, Magenta, ecc., nelle quali primeggia l’elemento operaio industriale). 2) Affinché il Partito Socialista, il Partito d’Azione o la sua frazione anticapitalista, i Repubblicani ed eventualmente altre forze di sinistra che sono fuori dal CLNAI possano accettare l’offerta, è necessario che abbiano per il domani una giustificazione di carattere contingente, ma di essenziale importanza, come la difesa e la salvaguardia degli impianti industriali ed idroelettrici e la dichiarazione di Milano città aperta. La salvaguardia di questi impianti, premessa della ricostruzione italiana, è sempre stata in cima ai pensieri e alle preoccupazioni di Mussolini. 3) Il Partito Socialista di Unità Proletaria, d’accordo eventualmente con il Partito d’Azione e col consenso tacito del Partito Comunista, prenderebbe in consegna la città da Mussolini con un’aliquota delle forze armate della “Repubblica Sociale” che sarebbero lasciate a Milano ai fini dell’ordine pubblico e che ubbidirebbero unicamente al Governo provvisorio. 4) Le autorità germaniche sarebbero, poi, subito interpellate dal Governo provvisorio circa la precisa conferma dell’integrità della città e dei suoi impianti industriali. Di fronte alla dichiarazione che esse accedono alla richiesta e all’annunzio dell’evacuazione della città, il Governo provvisorio dovrebbe dare la garanzia che esse, come le forze armate della Repubblica, non saranno molestate dai partigiani o da altri fino ad un confine da stabilirsi”. LA CONTROPARTITA “A quanto sopra sono autorizzato a precisare che, come contropartita, Mussolini chiede: A) Garanzia per l’incolumità delle famiglie dei fascisti e dei fascisti isolati che resteranno nei luoghi di loro abituale domicilio con l’obbligo di consegna delle armi nei termini stabiliti. B) Indisturbato esodo delle formazioni militari fasciste, così come di quelle germaniche nell’intento di evitare conflitti e disordini fra italiani, distruzioni di impianti da parte dei tedeschi e nuove rovine e lutti nelle città e nelle campagne. C) Le formazioni volontarie fasciste potrebbero impegnarsi a non assumere iniziative operative contro formazioni italiane dipendenti dal CLNAI o dal governo di Roma, essendo però decisi a continuare la lotta in Italia o altrove contro gli invasori. Qualora non fosse possibile la consegna rivoluzionaria dei poteri al Partito Socialista di Unità Proletaria e alle altre forze di sinistra del CLNAI, i punti A) e B) avrebbero pieno valore anche per una trasmissione di poteri che avvenisse tra il Governo della “Repubblica Sociale” e il CLNAI. In ogni caso, non è Mussolini ora che detta queste proposizioni, ma sono io che riassumo il suo pensiero, egli preferisce rendere responsabile il CLNAI piuttosto che il governo di Roma dell’eredità “Repubblicana Sociale” rivoluzionaria anticapitalista antimonarchica della Repubblica, in quanto nel CLNAI, presto o tardi, dovranno prevalere ed imporsi le forze della sinistra rivoluzionaria le quali non potranno non difendere la socializzazione e le altre radicali riforme di Mussolini, quali l’abolizione del commercio privato e la cooperativizzazione della produzione, come sacro patrimonio dei lavoratori italiani. Compagni, chi vi scrive, è socialista nell’animo e nelle opere da quando all’età di dieci anni cominciò ad avere dimestichezza di vita con Anna Kuliscioff, con Filippo Turati, con Claudio Treves, con Andrea Costa, con Camillo Prampolini, con Leonida Bissolati, socialista che ebbe la tessera del partito concessa come attestazione d’onore nel 1924 su proposta di Filippo Turati, di Claudio Treves, di Camillo Prampolini e di Luigi Basso ‘per il suo indomito coraggio nel combattimento’, chiede di conferire d’urgenza con voi per illustravi le proposte di Mussolini”. Ottenuto il colloquio con la dirigenza socialista, il tentativo diplomatico di Silvestri naufragò immediatamente davanti alla irremovibile chiusura del Psiup riguardo qualsiasi condizione avanzata dal Duce. Fonte: Il Velino.it Chi è Carlo Silvestri SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

18 GIUGNO 1975 ROCCAMENA (PA). UCCISO CALOGERO MORREALE, 35 ANNI, SINDACALISTA E ATTIVISTA SOCIALISTA

di Antonio Ravidà | Calogero (Lillo) Morreale era un dirigente socialista dell’Alleanza contadina. Colpevole di aver sospettato imbrogli che giravano intorno ai lavori per l’invaso Garcia. “Una grande abbuffata” che ha favorito potenti “famiglie” siciliane. Diga per la quale morirono anche il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo e il suo amico-confidente Filippo Costa (20/08/77) e il giornalista (cronista giudiziario del Giornale di Sicilia) Mario Francese (26/01/79) che aveva scritto sull’ “affare” della diga. E’ stata la “mafia agraria” a uccidere l’attivista Psi? Palermo: una nuova pista seguita nelle indagini. Calogero Morreale è il ventisettesimo sindacalista assassinato in Sicilia – Suo padre, nel ’46, organizzò occupazioni di terre incolte – L’agguato dei “killers” sulla strada Palermo, 19 giugno. Soltanto sospetti e mezze frasi. Poi molta paura di parlare e persino di stare a sentire. Questa è la cupa impressione, passando nelle piccole strade di Roccamena (3 mila abitanti a una settantina di chilometri da Palermo) dove è stato ucciso il segretario della sezione del Psi, Calogero Morreale, 35 anni, sposato e padre di due figli. Poco oltre la periferia del paese, a circa quattro chilometri sulla strada che entra nella valle del Belice, si raggiungono i luoghi del terremoto del 1968. E’ qui che ieri, nel primo pomeriggio, è stato assassinato Morreale, che era anche presidente del locale ente comunale di assistenza, delegato di zona dell’Alleanza contadina e agente dell’Unipol, compagnia assicuratrice. L’hanno ucciso due o tre killers che, lungo la strada, gli avevano fatto segno di fermarsi. Morreale, che probabilmente li conosceva, ha rallentato e ha spento il motore. E’ probabile che non gli abbiano dato neppure il tempo di parlare: gli hanno sparato con tiro incrociato a lupara e con rivoltelle calibro 38 a canna lunga. Subito dopo, i killers sono fuggiti su un’auto lasciata nei pressi. Nessuna delle persone che, nella mezz’ora seguente sono passate di lì, si è fermata o ha dato l’allarme. Eppure Morreale, insanguinato e chino sullo sterzo della sua «500» azzurra, era ben visibile. Solo più tardi, intorno alle 15.00, due agricoltori, padre e figlio, superando con la mietitrebbia l’utilitaria, hanno riconosciuto Morreale, sono scesi sperando di poterlo soccorrere, ma visto che era già morto sono corsi a dare l’allarme. A Roccamena, dove dal giugno 1973 è in carica una giunta socialcomunista, i concittadini del segretario socialista ucciso non hanno dubbi: il delitto è stato ordinato da un clan mafioso infastidito dalle iniziative sindacali di Morreale. Ma quale dei tre o quattro gruppi di mafia che da generazioni «pesano» sulla zona? «Morreale è nuovo martire socialista sulla via insanguinata della protesta contadina contro la mafia e le cricche di potere in Sicilia», ha detto Filippo Fiorino, segretario provinciale socialista. «Quest’ultima vile e rabbiosa risposta della reazione siciliana — ha aggiunto Fiorino — ancora una volta ha troncato la vita di un onesto e combattivo lavoratore socialista, marito e padre affettuoso». Ha detto il padre della vittima, Pietro Morreale, agli inquirenti: «Cercano di intimorirci. Ci hanno provato venti anni fa senza riuscirci, ora hanno ucciso mio figlio. Ma noi non ci fermeremo». C’è un’altra pista che gli inquirenti seguono: può darsi che Calogero Morreale abbia saputo qualcosa sul sequestro dell’enologo Franco Madonia, rapito l’8 settembre scorso fra Roccamena e la vicina Monreale e rilasciato il 15 aprile, ma dopo il pagamento di un miliardo. Le proprietà del nonno materno di Madonia, Giuseppe Garda, confinano con il podere dei Morreale che con i Garda sono sempre stati in ottimi rapporti. L’omicidio di Calogero Morreale, nel dominio mafioso di Liggio, Coppola, Rimi, ha più di un precedente. Dal dopoguerra ad oggi in Sicilia 13 sindacalisti della Cgil e 14 esponenti politici di vari partiti, anche della dc, sono stati assassinati. L’anziano padre del segretario socialista ucciso fu uno degli organizzatori dell’occupazione delle terre nel 1946-’47 poco prima della riforma agraria in Sicilia, quando i contadini s’installarono nei feudi incolti. Il vecchio Morreale afferma oggi che nel 1950 sfuggì per poco ad un agguato. L’elenco delle vittime è aperto da Angelo Macchiarella, sindacalista ucciso a Ficarazzi, nel Palermitano, il 19 febbraio 1947; sei giorni dopo, venne assassinato, a Partinico, Carmelo Silvia pure sindacalista, il primo maggio successivo, nella strage di Portella delle Ginestre, a breve distanza da Roccamena, la banda Giuliano si scatenò contro un corteo di lavoratori: 11 morti e 56 feriti furono il bilancio della tragica ritorsione della quale, secondo più d’una testimonianza, Giuliano si rese autore in nome e per conto di alcuni agrari e mafiosi di Palermo. Il 21 marzo 1948 la «cosca» mafiosa di Corleone, ancora dominata dal medico Michele Navarra, poi sostituito da Liggio, che lo eliminò a sventagliate di mitra e lupara, uccise il segretario della Camera del Lavoro, Placido Rizzotto. Dopo altri omicidi, il 16 maggio 1955 a Sciara, nell’altro versante del Palermitano, fu trucidato Salvatore Carnevale e, il 24 marzo ’56, a Tusa, al confine tra le province di Messina e Palermo, Carmine Battaglia. Come Morreale anche gli ultimi due erano sindacalisti socialisti. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LEOPARDI ERA SOCIALISTA?

La rilettura e la più corretta interpretazione del pensiero filosofico di Giacomo Leopardi evidenzia un suo modo preoccupato, molto preoccupato, di vedere lo stato della società e l’atteggiamento dei singoli. Leopardi ha la speranza in un miglioramento, in un cambiamento, in una visione non egoistica ma umana, rispettosa di valori che poi il socialismo sistematizzerà. Il servizio su Leopardi induce ad una riflessione sull’origine del suo pessimismo. La causa del suo pessimismo veniva attribuita dai commentatori agli effetti della sua condizione fisica sul carattere. Probabilmente si aggiungeva un fattore paraomosessuale di cui non si è mai parlato perché argomento tabu nelle scuole e non solo nelle scuole. Le sue passioni platoniche, irrealizzate, per donne e uomini dotti lo pone in una posizione di dubbio che autori recenti hanno commentato pur negandola (non avendo, però, elementi per farlo e, tuttavia, neanche per affermarlo). Il servizio (video) della chiara professoressa Mariangela Priarolo inserisce un nuovo elemento sulla visione pessimistica che potrebbe essere la constatazione dell’egoismo diffuso e, quindi, della poca speranza in un mondo solidale e diverso. La sua constatazione è all’interno di una convinzione filosofica, non è un commento incidentale. Credo che il suo pensiero e quello di Schopenhauer non siano assimilabili, così come ci dicevano a scuola, nel filone pessimista. Entrambi pessimisti si, ma, mi viene da pensare, non omogenei nell’origine delle convinzioni e quindi nelle cause del rispettivo pessimismo e del suo contenuto. Leopardi morì prima che fosse pubblicato il Manifesto nel 1840, quindi non direi che il socialismo di Leopardi sia collegabile al socialismo di Marx, ma piuttosto sia una visione solidaristica, non egoista e, in questo senso, socialistica. Mi rimetto a chi ne sa di filosofia per un commento migliore. Mauro Scarpellini Non posso che condividere il sevizio su Leopardi e il commento di Mauro Scarpellini.Purtroppo, per decenni, nelle scuole la narrazione principale che si è fatta del pensiero di Leopardi è quella di un irrimediabile pessimista: a causa della sua cagionevole salute e della sua vita solitaria, il poeta e filosofo di Recanati avrebbe costruito una filosofia del pessimismo, che addirittura scolasticamente veniva chiamato “pessimismo cosmico”.In verità non c’è nulla di più lontano dal pensiero del poeta, e fortunatamente negli ultimi anni si sta sostituendo questa interpretazione di Leopardi ad una più vera, più genuina, e soprattutto meno categorizzante: il pensiero del filosofo può sembrare disperato, ma solo perché alla costante ricerca della solidarietà, della comunione, dell’armonia. Il pessimismo non è altro che speranza, a volte disperata, ma mai vana. Leopardi era in realtà così ottimista da ricercare costantemente, attraverso la filosofia e l’arte poetica, la bellezza, la felicità, la comunione umana.Non stupisce che una delle ultime opere del pensatore fosse “La ginestra”, che ha per oggetto questo splendido fiore che fiorisce, potente nella sua fragilità, sulla pietra lavica del Vesuvio. La ginestra è simbolo di speranza: la speranza di una comunione degli uomini e di una lotta collettiva contro le cattiverie del mondo e della natura, la speranza che gli uomini, pur nella loro fragilità simile a quella della ginestra, riescano a combattere contro il destino, in una “socialista” fratellanza.Come ci ha ricordato Scarpellini, il socialismo di Leopardi non può di certo collegarsi al socialismo di Marx, pena una visione anacronistica del suo pensiero, ma è corretto parlarne se si ha a mente la ricerca leopardiana di una fratellanza sociale, di un villaggio felice nel giorno di festa. Professoressa Federica Burgo – docente di Storia e Filosofia e Vice Presidente dell’Associazione Terni Valley. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA MODA DEL CIVISMO

Quando la politica è in crisi si ricorre a surrogati che danno l’impressione di rimediare alle carenze della politica. Da qualche tempo il civismo sembra essere la soluzione del problema. Certo quando in una amministrazione comunale la politica non riesce a dare risposte alle esigenze dei cittadini, il civismo, che per definizione nella maggior parte dei casi è espressione di una convergenza di diverse esigenze, ma senza il collante di una cultura comune, può offrire la risposta necessaria per superare le carenze amministrative. Ciò che invece lascia perplessi sono i tentativi di trasformare il civismo in partiti nazionali. In questo caso le domande non riguardano come amministrare una comunità locale, ma quale politica estera attuare; come atteggiarsi nei confronti della UE; cosa si vuole sostenere in materia fiscale; cose si pensa dei beni comuni ad esempio la gestione delle risorse idriche; come si pensa della sanità pubblica e di quella privata; quale politica economica si intende promuovere; quali scelte si privilegiano nel campo della Giustizia e delle Istituzioni; quali orientamenti verranno adottati per sostenere la scuola pubblica; come considerare il rapporto con i corpi intermedi (sindacati, associazioni imprenditoriali, ecc…). L’elenco è incompleto, ma già offre l’idea della complessità della politica che non è solo buona amministrazione dell’esistente, ma è una visione del futuro. E senza un riferimento valoriale comune, senza una tradizione culturale di orientamento la babilonia è assicurata. I contenitori frutto di convergenze culturalmente diverse possono servire per una gestione condominiale o per gestire, senza una autentica visione razionale del futuro che non può prescindere dalle scelte strategiche europee e nazionali, una amministrazione di una modesta comunità comunale, ma oltre questo confine resta solo una indistinta aggregazione di potere spesso velleitaria destinata, alla prima scelta impegnativa, a manifestare la propria fragilità. LA TRASFORMAZIONE DEL CIVISMO IN ORGANIZZAZIONI NAZIONALI: UNA VARIANTE DEL POPULISMO La moda di trasformare le organizzazioni locali in organizzazioni nazionali è cresciuta, grazie all’antipolitica, alla demonizzazione dei partiti e agli errori commessi da quest’ultimi. La sommatoria di tante diverse motivazioni che sono alla base del civismo nato nelle istituzioni locali, ha bisogno di un federatore capace di unire le diverse insoddisfazioni in un movimento che essendo eterogeneo non si caratterizza per i principi ispiratori e nemmeno per programmi di ampio respiro, ma si affida alla guida del capo. Ad esso si conferisce il compito di sviluppare l’azione politica. E’ un processo che purtroppo si è ampiamente sviluppato negli ultimi 30 anni anche in alcuni partiti che somigliano sempre di più a comitati elettorali. Questa deriva compromette la funzione del Parlamento e della rappresentanza, favorisce e consolida il ruolo delle oligarchie politiche. Si fa strada l’dea che la rappresentanza sia inutile, e ciò che resta della funzione parlamentare, grazie anche a leggi elettorali di dubbia costituzionalità, rischia di diventare una finzione democratica tradendo lo spirito e la lettera della Costituzione. A questo proposito è illuminante l’affermazione rilasciata da Giorgetti (adesso ministro dell’attuale governo) alla “La Repubblica” il 21-8-2018 sostenendo che “il Parlamento non conta più nulla perché non è più sentito dai cittadini elettori che ci vedono il luogo della inconcludenza della politica”.. “se continuiamo a difendere il feticcio della democrazia rappresentativa non facciamo un bene alla stessa democrazia”! Questo fenomeno, che non molto tempo fa fu definito populismo, ha bisogno di un capo a cui si affida la sorte del Paese. Osserva Nadia Urbinati, che “il partito dal quale il leader populista può emergere, quando non ne costruisce uno suo proprio, passa in seconda fila, mentre centrale è al sua figura, nella quale le varie rivendicazioni che compongono il movimento si incarnano. In tal modo si compromettono i fondamenti della democrazia così come disegnata dalla Costituzione e si aprono le porte alla democratura. A questo proposito è illuminante il libro di Ece Temelkuran “Come sfasciare un Paese in sette mosse” che racconta come dal populismo si possa giungere all’autoritarismo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL BERLUSCONISMO E LA SUA RELIGIONE

di Vito Mancuso filosofo teologo «Il berlusconismo ha stabilito il primato del successo personale su qualsiasi tensione verso l’altro. L’applauso è diventato la misura del valore di tutto e i cittadini si sono trasformati in spettatori». L’articolo del prof.#VitoMancuso su #LaStampa del 13 giugno 2023 Insegna l’antico proverbio: “De mortuis nihil nisi bonum”, vale a dire: “Di chi è appena morto, o si tace o si parla bene”. Di Silvio Berlusconi io non avrei scritto nulla, non avendo per parte mia molto di buono da riconoscergli, laddove “buono” lo intendo nel senso radicale del termine che rimanda al Bene in quanto sommo valore che coincide con la Giustizia e la Verità (concetti che scrivo al maiuscolo per indicare la loro superiorità rispetto al mero interesse privato). Se però, ciononostante, ne scrivo, è per cercare di mettere a fuoco la frase del cantautore Gian Piero Alloisio, talora attribuita a Gaber (cito a memoria): “Non temo Berlusconi in sé, ma il Berlusconi che è in me”. Non parlerò quindi di Berlusconi in sé, bensì del Berlusconi in noi, convinto come sono che quanto dichiarato da Alloisio valga per milioni di italiani, forse per tutti noi, che portiamo al nostro interno, qualcuno con gioia, qualcun altro con fastidio o addirittura con vergogna, quella infezione che è, a mio avviso, il “berlusconismo”. Cosa infetta precisamente il berlusconismo? Risponderò presto, prima però voglio ricordare questa frase di Hegel: “La filosofia è il proprio tempo colto nei pensieri”. Io penso che quello che vale per la filosofia, valga, a maggior ragione, per l’economia e la politica: il loro successo dipende strettamente dalla capacità di saper cogliere e soddisfare il desiderio del proprio tempo. Berlusconi è stato molto abile in questo. Con le sue antenne personali (al lavoro ben prima che installasse a Cologno Monzese le antenne delle sue tv) egli seppe cogliere il desiderio profondo del nostro tempo, ne riconobbe l’anima leggera e se ne mise alla caccia esercitando tutte le arti della sua sorridente e persistente seduzione. Si trasformò in questo modo in una specie di sommo sacerdote della nuova religione che ormai da tempo aveva preso il posto dell’antica, essendo la religione del nostro tempo non più liturgia di Dio ma culto ossessivo e ossessionante dell’Io. Il berlusconismo rappresenta nel modo più splendido e seducente lo spodestamento dell’antica religione di Dio e la sua sostituzione con la religione dell’Io. E il nostro tempo se ne sentì interpretato in sommo grado, assegnando al fondatore i più grandi onori e costituendolo tra gli uomini più ricchi e più potenti non solo d’Italia. Ho parlato del berlusconismo come di un’infezione, ma cosa infetta precisamente? Non è difficile rispondere: la coscienza morale. Il berlusconismo rappresenta la fine plateale del primato dell’etica e il trionfo del primato del successo. Successo attestato mediante la certificazione dell’applauso e del conseguente inarrestabile guadagno. Vedete, Dio, prima, lo si poteva intendere in vari modi: nel senso classico del cattolicesimo e delle altre religioni, nel senso socialista e comunista della società futura senza classi e finalmente giusta, nel senso liberale e repubblicano di uno stato etico quale per esempio lo stato prussiano celebrato da Hegel, nel senso della retta e incorruttibile coscienza individuale della filosofia morale di Kant, e in altri modi ancora, tutti comunque accomunati dalla convinzione che esistesse qualcosa più importante dell’Io, di fronte a cui l’Io si dovesse fermare e mettere al servizio. Fin dai primordi dell’umanità il concetto di Dio rappresentò esattamente l’emozione vitale secondo cui esiste qualcosa di più importante del mio Io, del mio potere, del mio piacere (a prescindere se questo “qualcosa” sia il Dio unico, o gli Dei, o l’Urbe, la Polis, lo Stato, la Scienza, l’Arte o altro ancora). Ecco, il trionfo del berlusconismo rappresenta la sconfitta di questa tensione spirituale e morale. In quanto religione dell’Io, esso proclama esattamente il contrario: non c’è nulla più importante di me. Non è certo un caso che il partito-azienda del berlusconismo non ha mai avuto un successore, e ora, morto il fondatore, è probabile che non faccia una bella fine. Naturalmente questa religione dell’Io suppone quale condizione imprescindibile ciò che consente all’Io di affermare il suo primato di fronte al mondo, vale a dire il denaro. Il denaro era per il berlusconismo ciò che la Bibbia è per il cristianesimo, il Corano per l’islam, la Torah per l’ebraismo: il vero e proprio libro sacro, l’unico Verbo su cui giurare e in cui credere. Il berlusconismo è stato una religione neopagana secondo cui tutto si compra, perché tutto è in vendita: aziende, ville, politici, magistrati, uomini, donne, calciatori, cardinali, corpi, parole, anime. Tutti hanno un prezzo, e bastano fiuto e denaro per pagare e ottenere i migliori per sé. Chi infatti (secondo la dottrina del berlusconismo) non desidera essere comprato? Il berlusconismo ha rappresentato un tale abbassamento del livello di indignazione etica della nostra nazione da coincidere con la morte stessa dell’etica nelle coscienze degli italiani. La quale infatti ai nostri giorni è in coma, soprattutto nei palazzi del potere politico. Ma cosa significa la morte dell’etica? Significa lo spadroneggiare della volgarità, termine da intendersi non tanto come uso di linguaggio sconveniente, quanto nel senso etimologico che rimanda a volgo, plebe, plebaglia, ovvero al populismo in quanto procedimento che misura tutto in base agli applausi, in quanto applausometro permanente che trasforma i cittadini da esseri pensanti in spettatori che battono le mani. Ovvero: non è giusto ciò che è giusto, ma quanto riceve più applausi. Ecco la morte dell’etica, ecco il trionfo di ciò che politicamente si chiama populismo e che rappresenta la degenerazione della democrazia in oclocrazia (in greco antico “demos” significa popolo, “oclos” significa plebaglia). Tutto questo ha avuto e continuerà ad avere delle conseguenze devastanti. In primo luogo penso all’immagine dell’Italia all’estero, che neppure dieci Mario Draghi avrebbero potuto ripulire dal fango e dalla sporcizia del cosiddetto Bunga-Bunga. Ma ancora più grave è lo stato della coscienza morale dei nostri concittadini: eravamo già un paese corrotto e di evasori, ora siamo ai vertici europei; …