NOTA SULLE ELEZIONI INGLESI

Foto Jeremy Corbin – Fonte:theguardian.com   di Silvano Veronese – Vice Presidente di Socialismo XXI |   Ho notato un deprimente provincialismo in molta stampa italiana per informare e commentare le recenti elezioni  in Gran Bretagna. Il Corriere della Sera ha dedicato, a partire dalla prima, ben sei pagine, quasi che la situazione in quel Paese possa essere paragonabile alla nostra, dimenticandosi che questo evento  elettorale di oltre Manica  si è giocato attorno al problema “Brexit subito” oppure no! Ma la cosa che piu’ infastidisce è stato il motivo dominante di molti commenti  rappresentato dal mettere in evidenza la crisi del Labour e la sua vocazione socialista, una crisi, secondo molti commentatori, al limite del crollo che investirebbe tutto il socialismo europeo, trascurando strumentalmente il fatto che i socialisti hanno il premierato in Svezia, Danimarca, Spagna e Portogallo maturato o confermato in recenti elezioni. In termini di parlamentari eletti è pur vero che i Conservatori inglesi hanno stravinto (364 seggi) e i laburisti hanno preso una batosta (206 seggi), ma per una valutazione piu’ serena e puntuale serve anche valutare la particolare situazione britannica ed il suo sistema elettorale che è un maggioritario puro uninominale per collegio a turno unico. In questi sistemi elettorali maggioritari poco rappresentativi è sufficiente che un partito (il suo candidato) arrivino primi anche per un solo  voto sul secondo per portarsi a casa il seggio. Il partito laburista ha preso il 32,3% dei voti contro il 43,6% dei conservatori. Nel passato al Labour è bastato pochissimo piu’ di questo non trascurabile 32% per avere la maggioranza ai Comuni. Con il proporzionale puro le differenze odierne tra i due partiti, in termini di seggi, sarebbero state ben diverse ed oggi non saremmo qui a parlare di disastro per il Labour e di stragrande successo dei “Tory”. Per giunta, un fatto che molti interessati commentatori hanno trascurato consiste nella desistenza che il partito xenofobo di Nigel Farage (il partito ultra Brexit) ha deciso e  praticato a favore dei Conservatori. Alle recenti ultime europee (dove si vota con il proporzionale) questo partito ha avuto un grosso risultato (primo con il 32% di voti e molti eletti), questa volta in moltissimi collegi (tradizionalmente laburisti, ma a discreta presenza “Tory”) NON si è presentato dando indicazione di voto ai suoi seguaci ed elettori di votare per Johnson, anche lui come loro fortemente pro-Brexit. Se i liberali, fortemente europeisti, che hanno avuto un consenso in termini di voti pari all’11,6% (ma che non avevano grandi speranze di guadagnare seggi in molti collegi in quanto terzi, tant’è che hanno guadagnato solo 11 seggi), avessero fatto desistenza a favore del Labour e se cosi’ avessero pure fatto i Verdi con il loro 2,7% e zero seggi oppure gli Irlandesi cattolici del Sein Fenn (risultati primi in Irlanda del Nord), avessero fatto altrettanto, oggi saremmo qui a parlare di un ben altro risultato. In termini di consenso elettorale (cioè di voti) i Conservatori, pur con l’aggiunta del Partito Brexit di Nigel Farage sono minoranza nel Paese, diventano maggioranza assoluta in Parlamento, grazie al sistema maggioritario uninominale. Una lezione da tenere in mente qui in Italia, dato che si sta discutendo di un nuovo sistema elettorale. Cio’ non toglie che, forse, Corbyn non era e non è il leader piu’ adeguato per il Labour, non tanto per un suo presunto radicalismo, piu’ apparente che reale, quanto per il messaggio “old style“, incerto ed astratto che ha offerto all’elettorato e nella gestione del dopo referendum di uscita dall’Europa, oltre a mancare di un certo appeal come leader che “fa premio ” in politica al giorno d’oggi. In un sistema maggioritario, tanto piu’ a turno unico come nelle nostre elezioni regionali, se la sinistra vuol vincere, conta molto la strategia  delle alleanze che non significa sempre la lista unica oppure fare una coalizione organica, a volte è sufficiente anche la desistenza che lascia ad ogni partito la sua autonomia in termini di identità. Questo aspetto, che è l’unica lezione che dobbiamo trarre dalle recenti  elezioni inglesi,  interessa molto  anche la sinistra italiana o l’area progressista del nostro Paese in tutte le sue variegate componenti. Diversamente, sardine o non sardine, la destra italiana continuerà a mietere successi.  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

NUMERI ELETTORALI DAL REGNO UNITO

di Franco Astengo | L’esito delle elezioni britanniche del 12 dicembre è stato particolarmente chiaro e non sussistono dubbi di interpretazione: non hanno vinto i conservatori ma hanno perso i laburisti. L’incremento dei tories, infatti, sul piano complessivo (che in Gran Bretagna non conta) è stato minimo: da 13.662.914 voti il partito di Boris Johnson è passato a 13.945.200 guadagnando 282.286 suffragi. Contemporaneamente il Labour scendeva da 12.874.985 voti a 10.292.054 con un arretramento di 2.582.931 unità: un vero e proprio tracollo che ha portato alla perdita di 59 seggi. La maggior parte delle perdite laburiste sono confluite verso i Liberaldemocratici con un guadagno di 1.303.577 suffragi: la particolarità del sistema elettorale britannico basato sul plurality “secco” (sistema costruito in tempi di rigido bipartitismo) ha fatto sì che per i liberaldemocratici quest’aumento di voti abbia corrisposto alla perdita di un seggio da 12 a 11. Ancora una volta il dato più interessante delle elezioni britanniche è dato dall’analisi dell’indice di distorsione che il sistema elettorale produce nel merito della capacità della formula usata di produrre rappresentanza politica: negli ultimi tempi la frammentazione aveva anche reso difficile la governabilità mentre l’esito di questa tornata (considerato l’omogeneità sul territorio fatta registrare dal Labour Party) ha prodotto una maggioranza certa. Esaminiamo allora alcuni dati che evidenziano proprio questo indice di distorsione. Andando per ordine: 1 – Nel 2017 i conservatori ebbero 13.632.914 per 317 seggi: servirono quindi 43.006 voti per ogni seggio (naturalmente nella realtà non è così data la diversa popolazione per ogni collegio). Due anni dopo i voti sono stati 13.945.200 per 364 seggi: 38.310 suffragi a seggio. Attenzione a questo dato. 2 – Due anni fa i laburisti avevano ottenuto 12.874.985 voti per 262 seggi, 49.141 voti per ogni deputato eletto. Nel 2019 i voti sono stati 10.292.054 per 203 eletti: 50.699 ciascheduno. In fondo una differenza minima per ogni collegio a fronte di una perdita molto secca sul piano complessivo ma spalmata sul territorio in modo da perdere 59 deputati. 3 – La distorsione prodotta dalla formula elettorale ha colpito particolarmente i Liberaldemocratici principali eredi del voto in perdita dei laburisti. Il partito di Jo Swinson ha ottenuto 3.675.342 voti incrementando di 1.303.570 unità (2017: 2.371.772) e perdendo un seggio da 12 a 11. Ogni deputato è quindi “costato” in termini di voti 334.122 unità, quasi dieci volte tanto un deputato conservatore. 4 – Al contrario il partito Unionista nordirlandese è salito da 8 a 10 deputati ottenendo 292.316 voti: 29231 a seggio, mentre i Verdi hanno ottenuto il loro unico collegio (Brighton Pavillon) pur avendo realizzato un totale di 864.743 voti con una crescita di 339.372 unità 5 – Il partito della Brexit che si è presentato soltanto in un certo numero di collegi utilizzando il meccanismo della desistenza per favorire i conservatori ha totalizzato 642.303 voti e rimane comunque escluso dalla Camera dei Comuni 6 – Registriamo anche un caso di calo abbastanza considerevole nell’ambito di piccoli numeri e di tenuta nel numero dei seggi: il Sinn Fein, infatti, ha perso 57.332 voti (su 238.915) mantenendo i suoi 7 seggi che adesso valgono ciascuno 25.940 voti. Da segnalare anche il risultato del partito Socialdemocratico e Laburista nordirlandese che ha avuto 2 seggi con 118.737 voti mentre nel 2017 con 95.419 non aveva vinto in alcun collegio. 7 – Infine, per queste prime sommarie indicazioni, un riscontro circa la  partecipazione al voto rimasta pressoché inalterata: nel 2017 si ebbero  complessivamente 32.196.918 voti validi, nel 2019 un minimo decremento  che ha portato il totale dei suffragi regolarmente espressi a fermarsi a  31.930.307 (su 649 collegi scrutinati su 650). L’indicazione conclusiva riguarda l’attualità della formula elettorale britannica: in questo caso il dato di governabilità è stato assicurato, ma per caso in quanto l’indice di frammentazione nel rapporto voti /seggi appare assolutamente squilibrato causando un vulnus nella capacità di rappresentanza del sistema. Un dato che deve essere ben analizzato anche da chi, in Italia, si appresta all’ennesima modifica del sistema elettorale e risulta pendente anche un referendum attraverso il quale si pretenderebbe di imporre anche da noi il maggioritario secco. Da far notare, in questo senso, che nel caso dell’UK i conservatori realizzano la maggioranza assoluta con circa 13 milioni di voti e i loro oppositori, di diversa estrazione e collocazione, ne mettono assieme 18 milioni: una maggioranza assoluta attribuita a una minoranza relativa. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA SPD VIRA A SINISTRA A RISCHIO LA GRANDE COALIZIONE

di Paolo Soldini – Strisciarossa Venerdì 6 dicembre 2019. Segnatevi questa data perché potrebbe segnare una svolta memorabile per la socialdemocrazia tedesca e per tutta la sinistra europea. Se non ci saranno sorprese, molto improbabili ma sempre possibili, quel giorno i delegati al congresso della SPD, nel palazzo della Fiera a Berlino, sanciranno con il loro voto l’esito, clamoroso, della consultazione che si è tenuta tra i 400 mila e oltre iscritti al partito per tutta l’estate e l’inizio dell’autunno. Saskia Eskens e Norbert-Walter Borjans verranno eletti insieme (nel segno della parità di genere come vuole dall’ultimo congresso lo statuto) alla presidenza del più antico partito della Germania e del più antico partito della sinistra d’Europa. Rinegoziare il programma Esken e Borjans sono esponenti dell’ala sinistra della SPD, il cui tratto distintivo (ma non certo l’unico) è l’ostilità ala linea politica che ha condotto il partito all’alleanza con la CDU/CSU nella große Koalition, che una relativa maggioranza degli iscritti – il 53 per cento – considera con il senno di poi (ma molti lo pensavano anche prima) un cedimento politico alla destra che si è tradotto in una disastrosa crisi di consensi. I due hanno sconfitto il ticket formato dall’attuale ministro federale delle Finanze Olaf Scholz e dalla deputata del Brandeburgo Klara Geywitz, che si presentavano sulla linea della continuità dell’alleanza con il centro. I nuovi, futuri, leader non si propongono di abbandonare automaticamente il governo con la cancelliera Merkel. Chiedono però una radicale rinegoziazione del programma, i cui punti forti dovrebbero essere un massiccio aumento degli investimenti già decisi dalla compagine attuale per combattere i mutamenti climatici, la fissazione di un salario minimo orario e la revisione del cosiddetto Hartz IV, il meccanismo che attualmente pone condizioni abbastanza dure per l’erogazione dei sussidi di disoccupazione. Si tratta di modifiche che ben difficilmente i partiti dell’Unione potranno accettare. Tant’è che il leader dei liberali Christian Lindner si è già fatto avanti offrendo l’apporto del suo partito a un cambiamento di maggioranza o almeno il sostegno parlamentare a un monocolore CDU/CSU di minoranza. Ripercussioni sul governo Il cambio al vertice socialdemocratico votato dalla base (in una consultazione che è durata sei mesi e che per trasparenza e dimensioni dovrebbe insegnare qualcosa agli epigoni della democrazia diretta nostrani) è destinato, insomma, ad avere forti ripercussioni sul quadro politico della Germania federale. Ciò che è accaduto ricorda quel che accadde nell’83, quando nel congresso di Colonia i delegati della SPD impressero una svolta radicale bocciando la linea di Helmut Schmidt per scegliere quella di Willy Brandt, favorevole a più coraggiose politiche sociali e contraria alla “doppia decisione” sugli euromissili. Con una grossa differenza, però: trentasei anni fa i socialdemocratici tedeschi erano stati scalzati dal governo dalla CDU di Helmut Kohl ma avevano ancora una forza elettorale notevole, intorno al 30 per cento. Oggi la SPD è un partito in grave crisi, non solo di consensi, che sono scesi secondo i sondaggi intorno al 15 per cento, ma anche di idee. La consultazione della base che si è conclusa domenica era stata indetta dalla presidente del partito Andrea Nahles dopo la batosta alle elezioni federali del settembre 2017, che si è poi ripetuta in quasi tutte le elezioni regionali venute dopo e in quelle europee del maggio scorso proprio perché gli organismi dirigenti non erano stati in grado di elaborare un programma di rinnovamento e di ripresa dell’iniziativa. Un compito difficile Esken e Borjans, quindi, hanno un compito molto difficile. E non se lo nascondono. “Ci aspetta un lavoro immane” ha dichiarato lei quando sono stati resi noti i dati della consultazione e ha aggiunto di aspettarsi che tutto il partito, ora, si unisca intorno alla nuova guida. Vedremo se, e come, l’appello verrà raccolto nel congresso di Berlino. I primi segnali sono incoraggianti. Scholz, dopo aver ammesso la sconfitta, ha assicurato il proprio pieno appoggio ai due vincitori, e altrettanto ha fatto l’altro grosso calibro socialdemocratico nella Koalition, il ministro degli Esteri Heiko Maas. Queste manifestazioni di buona volontà non significano, però, che al congresso non ci sarà battaglia sugli elementi di programma sui quali avviare la rinegoziazione con la cancelliera e con la CDU. Un punto sul quale i socialdemocratici debbono confrontarsi e chiarirsi è la necessità o meno di rivedere il Hartz IV. Si tratta di una questione assai delicata perché investe il giudizio sulla svolta che fu compiuta all’inizio del secolo dal cancelliere Gerhard Schröder con la sua “Agenda 2010”. Secondo i critici, ed Esken e Borjans sono fra questi, le misure di riforma e ridimensionamento del welfare indicate allora segnarono un abbandono delle posizioni di sinistra che avrebbero portato poi all’appiattimento sulle scelte neoliberiste sia in patria che nell’Unione europea e alla progressiva perdita di consensi nell’elettorale tradizionale registrata negli anni successivi. Chi sono Esken e Borjans La biografia politica dei due nuovi leader non lascia dubbi sulle loro posizioni. Saskia Esken ha sottolineato in passato la necessità di ritirare le misure restrittive delle erogazioni in materia di spese sociali e ha criticato apertamente “Agenda 2010”. Deputata al Bundestag, è stata attiva nella promozione delle misure a tutela della privacy, è stata relatrice per i programmi di cybersecutity e le proposte di E-governement. Fa parte dell’intergruppo della sinistra parlamentare. Norbert-Walter Borhans è stato segretario di Stato nella Saarland e ministro dell’Economia nella Renania-Westfalia, dove si è particolarmente impegnato nella creazione di strumenti per combattere l’evasione e l’elusione fiscale. Ha esteso il proprio impegno su questo terreno anche a livello europeo, criticando i paradisi fiscali e, con particolare durezza, Malta (“è diventata la Panama d’Europa”) dopo l’assassinio di Daphne Caruana Galizia. Anch’egli, come Esken, chiede investimenti per la lotta al cambiamento climatico e per il sostegno al welfare. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della …

ESSEN, COSI’ LA TARANTO TEDESCA E’ DIVENTATA LA CITTA’ PIU’ VERDE D’EUROPA

di Francesco Cancellato – Linkiesta La storia della città dei Krupp, vittima dell’inquinamento e del suo sottosuolo, e del suo problema con l’acqua. Finché qualcuno non l’ha trasformato in opportunità e ne ha fatto un esempio da imitare Questa è una storia che inizia più o meno duecento anni fa. È il 1811, infatti, quando il signor Friedrich Krupp, patriarca della famiglia, decise di costruire un piccola fonderia di acciaio a Essen, la sua città natale. Allora, Essen non era che un piccolo centro minerario sulle rive della Ruhr, nel cuore dell’omonima regione tedesca. Quella piccola fonderia divenne grande con il figlio Alfred, noto come “Alfredo il Grande” per la magnanimità nei confronti dei suoi dipendenti, ma soprattutto come “Re Cannone”, in quanto fece fortuna vendendo per l’appunto cannoni d’acciaio agli eserciti della Russia, della Prussia e dell’Impero Ottomano. Risultato? Nel giro di quarant’anni la Krupp passa da 5 addetti a 20mila. È il 1880 e non ancora successo nulla, o quasi. Perché le due guerre mondiali – sopratutto la seconda, con Hitler che fa della Krupp e di Essen il cuore del riarmo del Reich – e la ricostruzione del secondo dopo guerra rendono di fatto la Ruhr il cuore pulsante dell’industria pesante tedesca ed europea. Ed Essen, una città popolosa – la nona della Germania, con 570mila abitanti -, ricca e operosa, ma ahilei, inquinatissima. Tragico simbolo di quel periodo, un fiume, l’Emscher. Oddio, a dire la verità, poco più di un torrente che attraversa la Ruhr e affluisce nel Reno. Un torrente, tuttavia, che passa in mezzo a un’area di 5 milioni di abitanti che non poteva avere, a causa delle miniere e di un terreno che assomigliava a una forma di emmental, un sistema fognario sotterraneo. Così, per circa 160 anni, gli abitanti della Ruhr hanno scaricato nel “torrente merda” – questo l’elegante soprannome che gli abitanti hanno tributato allo sfortunato corso d’acqua – tutto lo scaricabile. Quella di Essen non è più la storia della Krupp, del “Re Cannone” e del “torrente merda”. Ma è la storia di una città che ha fatto dei suoi problemi – soprattutto: dei suoi problemi con l’acqua – una gigantesca opportunità. Al problema Emscher se ne aggiunge un altro, per Essen, non certo secondario: che acqua bere? Già, perché oltre all’assenza di fogne, il sottosuolo della Ruhr impedisce anche l’uso delle falde acquifere sotterranee. Agli abitanti di Essen, quindi, tocca bersi l’acqua del fiume Ruhr, quello che da il nome alla regione, che viene iper-depurata e trattata per essere accettabile. Se siete di Milano: è come se a voi dessero da bere l’acqua del Lambro o del Seveso, tanto per dare l’idea. Questo lo stato dell’arte, più o meno venticinque anni fa. Ora chiudete gli occhi e chiedetevi come possa essere possibile che Essen sia stata appena nominata Green European Capital per il 2017. Perché questa, in effetti, non è più la storia della Krupp, del “Re Cannone” e del “torrente merda”. Ma è la storia di una città che ha fatto dei suoi problemi – soprattutto: dei suoi problemi con l’acqua – una gigantesca opportunità. La soluzione, come spesso accade, è la più semplice. A Essen piove parecchio, ma l’acqua piovana finisce o sottoterra o in fiumi-fogna. Inutilizzabile, quindi. È dà questa constatazione che nasce la nuova Essen. Dalla volontà di recuperare quanta più possibile acqua piovana. Già. l’acqua. A Essen se ne consumano più o meno 34,2 milioni di metri cubi ogni anno. Che vuol dire, se vi va di giocare coi numeri, circa 34,2 miliardi di litri. 130 a testa, ogni giorno, per uso privato. Sono cifre più o meno simili a quelle di tutto il mondo occidentale, ma soddisfare quella domanda a Essen costa molto di più. A meno che non si guardi altrove. In alto, magari. La soluzione, come spesso accade, è la più semplice. A Essen piove parecchio, ma l’acqua piovana finisce o sottoterra o in fiumi-fogna. Inutilizzabile, quindi. È dà questa constatazione che nasce la nuova Essen. Dalla volontà di recuperare quanta più possibile acqua piovana. L’amministrazione locale inizia quello che definisce il suo “progetto generazionale” e si mette a sventrare la città. E l’approccio, come lo definisce Simone Raskob, vice sindaca di Essen che è intervenuta lo scorso 13 ottobre in un convegno ospitato a Expo 2015 sul “water management” organizzato a Cascina Triulza da Cap Holding e Legambiente, è olistico: «Ogni cosa è collegata. Ogni pezzo è in funzione di una visione generale». E la visione è fare di Essen un’avanguardia verde. Nel frattempo, la storia non si ferma. E mentre le acciaierie e le miniere chiudono, nasce anche il progetto di rendere l’Emscher un valore e non più una fogna a cielo aperto. A partire dagli anni ’90 inizia così un gigantesco piano di rinaturalizzazione del fiume, che fino ad allora era cementato e cintato con il filo spinato, per evitare che qualcuno, cadendoci dentro, morisse più o meno all’istante. Ora che senza più miniere le fogne si possono fare, i comuni, il lander e il governo iniziano un piano faraonico da circa 4 miliardi di euro: una rete di tubazioni sotterranee – profonde sino a 40 metri sotto terra e lunga 51 chilometri da Dortmund alla foce del Reno di Dinslaken: la più moderna del mondo, assicurano – che passeranno sotto l’Emscher e i suoi affluenti e nella quale finirà tutto ciò che sino a ieri finiva nel fiume. Risultato? L’Emscher non solo torna a essere pulito, ma diventa un’attrazione, una via d’acqua da utilizzare a fini turistici e promozionali, un’infrastruttura blu per piste ciclopedonai, nuovi parchi lineari, nuovi quartieri verdi. Nuovo sviluppo, insomma. Ecco, per l’appunto. Ora ripensate a Taranto e ai discorsi sul dilemma tra salute e sviluppo. O al Lambro pestilenziale. O al Seveso irregimentato che esonda a ogni precipitazione. O al mare d’acqua piovana che sprechiamo, ogni giorno, settimana, mese, anno, senza comprenderne il valore. Anche quando parliamo di acqua come bene pubblico. Che non vuol dire – non dovrebbe voler dire – …

APPELLO DEGLI STUDENTI CILENI «STOP ALLA VIOLENZA »

Siamo un gruppo di studenti del Cile che insieme alla popolazione chiede maggiore democrazia. Il Governo cileno non solo ci ignora, ma da giorni ha schierato i soldati che ci stanno massacrando. Non accadeva nulla di così grave dai tempi del dittatore Pinochet. Siamo un gruppo di studenti cileni e crediamo che sia della massima urgenza fermare la violenza in Cile. La popolazione cilena si trova ad affrontare un drammatico scenario di crisi dovuto a tanti fattori. Il rifiuto di accettare gli aumenti del costo dei trasporti pubblici – su cui molti media si sono soffermati – è solamente la punta dell’iceberg che cela, in realtà, decenni di ineguaglianze sociali e una costante perdita di credibilità del sistema politico cileno. Lunedì, 12 ottobre, un gruppo di circa 200 studenti ha iniziato a protestare. Subito hanno ricevuto il supporto di altre parti della popolazione e sempre manifestando in modo legittimo e pacifico. Il Governo ha risposto, ancora una volta, con fredda indifferenza e irridendo le richieste dei cittadini – “dovete svegliarvi prima la mattina” ha dichiarato il Ministro dei Trasporti. Per questo motivo nei successivi 4 giorni le manifestazioni sono aumentate, coinvolgendo via via diversi strati della società cilena, diventando una enorme e spontanea mobilitazione nazionale e trasversale nelle sue rivendicazioni. Alla luce di tutto questo il Governo ha deciso di passare all’azione. La risposta è stata tornare alla Costituzione del 1980 – quella scritta ed emanata sotto la dittatura di Pinochet – e mandare i soldati fuori dalle caserme e contro il popolo. La mattina del 19 ottobre il Presidente Piñera si è presentato in tv per lasciare i poteri nelle mani del Capo dell’Esercito cileno con l’obiettivo di “ristabilire l’ordine sul territorio nazionale”. Dopodiché il Presidente è sparito fino a tornare di nuovo sulle scene per dichiarare al mondo intero: “Siamo in guerra”. Fino a questa dichiarazione incendiaria, il Presidente non si è fatto vedere pubblicamente e gli unici interlocutori dei cittadini cileni sono diventati le autorità locali e soprattutto il Capo dell’Esercito, Gral. Javier Iturriaga. Mentre non si sta facendo nulla per discutere delle richieste dei cittadini, giorno dopo giorno monta la repressione. Da sabato 19 il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza in 2 regioni cilene e oltre 10 comuni con l’aggiunta del coprifuoco in diverse zone dalle 6 di sera. Sui social media ci sono numerosi video che mostrano polizia e soldati sparare ad altezza d’uomo, utilizzare droghe prima di andare a reprimere i manifestanti, colpire giovani e bambini, compiere raid nei negozi e utilizzare armi contenitive durante manifestazioni pacifiche dove sfilano famiglie. Dopo 7 giorni di dimostrazioni e le strade militarizzate, in Cile non è stato riportato l’ordine né si è avviato alcun dialogo. Utilizzando soldati e polizia, il governo ha radicalizzato un conflitto che non aveva nulla a che fare con l’ordine pubblico ma che era di esclusiva natura politica. Questa situazione può essere risolta solo con il dialogo e permettendo ai cittadini di interagire con il governo. Per questo chiediamo che i soldati rientrino nelle loro caserme e sia posta fine alla repressione e che sia data possibilità ai cittadini cileni di partecipare attivamente alla vita democratica del loro Paese. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SE IL KURDISTAN FOSSE UNO STATO SAREBBE IL PIU’ RICCO DEL MEDIORIENTE

  di Aldo Ferrara – Socialismo XXI Lazio |   Non c’è pace per lo scacchiere mediorientale, dall’accordo di Ostenda del 1928 sulla spartizione dell’Iraq Siamo dunque al secondo drammatico atto della Guerra di Religione che sta squassando la Siria. Ma lo è davvero guerra di religione, considerato che il siriano Assad appartiene alla Famiglia Alawita, notoriamente la più moderata dei clan islamici? Per quanto si voglia, da parte di alcuni osservatori, limitare il ruolo dell’energia nella genesi del conflitto siriano, l’analista Robert F. Kennedy trova invece che le motivazioni non siano religiose bensì energetiche. Tutto risalirebbe al veto posto da parte di Assad alla pipeline che il Qatar avrebbe voluto costruire per portare in Europa il gas arabo. Una sufficiente motivazione, visto che si sarebbe trattato di un affare da 60 a 120 miliardi di metri cubi di gas l’anno, rendendo oltretutto alla Turchia una agognata indipendenza. Il campo South Pars/North Dome è un giacimento situato, nel Golfo Persico a cavallo tra Emirato del Qatar e Iran. Secondo l’International Energy Agency la riserva contiene circa 1.800 trilioni di piedi cubi (51 trilioni di metri cubi) di gas naturale. Il giacimento copre un’area di 9.700 chilometri quadrati, di cui 3.700 chilometri quadrati (South Pars) si trova nelle acque territoriali iraniane e 6.000 chilometri quadrati (North Dome) e in Acque territoriali del Qatar. Scoperto nel 1971, solo nel 2000 si sono poste le condizioni dello sfruttamento, quando il Qatar ha proposto di costruire un gasdotto. Finalità ultima era quella di evitare che il gas del Qatar potesse essere riversato sui mercati europei solo spedito via mare mentre il gasdotto avrebbe ridotto i tempi di trasferimenti e soprattutto i suoi costi. Al contempo il gasdotto Qatar/Turchia avrebbe consegnato ai regni sunniti del Golfo Persico una prevalenza decisiva sul mercato mondiale del gas naturale rafforzando, in specie tra essi, il Qatar, stretto alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo. Drenare il giacimento avrebbe comportato anche inevitabili contenziosi tra Qatar e Iran, essendo esso adagiato su la linea di demarcazione territoriale. Inoltre avrebbe condizionato anche la presenza sul mercato del gas dell’Iran sciita e del suo alleato, la Russia. Tuttavia Assad pose a suo tempo un veto strutturato con un’alternativa filo-iraniana, il Gasdotto Islamico, che esaspera la già vivacissima rivalità tra le Monarchie del Golfo sunnite e l’Iran sciita, (Paola Pintus, Le grandi vie del gas e gli interessi strategici in MO, Tiscali News 07.04.2017). Detto giacimento presenta dimensioni tali da indurre il Qatar ad una svolta dettata anche dall’embargo nei suoi confronti degli Emirati. A tal punto da negoziare con l’Iran, mediante la mediazione russa, un oleodotto congiunto Qatar-Iran. Il Qatar ha intensificato le sue relazioni con l’Iran, con la Russia e con la Cina, rifiutando le richieste impossibili degli Emirati Arabi Uniti. Le vicende mediorientali, che hanno squassato il mondo negli ultimi decenni, hanno questo punto di partenza. Possono essere riassunte nella Dottrina Kennedy da cui discende la possibile interpretazione univoca della politica mediorientale di questi anni. Ai termini “Sunnita” e “Sciita” che segnano la divaricazione religiosa delle etnie mediorientali, vanno sostituiti i termini “Corridoio di Oleodotti del Cartello di Compagnie Arabo-Americane” e “Corridoio di Oleodotti del Cartello Russo-iraniano”. Da un lato Russia e Turchia, quale paese di transito delle pipelines del gas azero (Shah Deniz I e II) e dall’altro l’enorme potenzialità del giacimento di gas del Qatar South Pars/North Dome. Il corridoio di transito dal gas qatariota e dell’oil irakeno e quel triangolo di territorio curdo tra Mosul e Raqqa dove si e insediato il Daesh. Il controllo di quel territorio si e dimostrato talmente vitale da condizionare la politica di USA e Federazione Russa, con i rispettivi alleati, in tutti questi anni a far tempo dalla prima guerra del Golfo del 1991. Per dirla con parole di Marco Franza “…Se il Kurdistan fosse unito politicamente potrebbe essere lo Stato più ricco del Medio Oriente, considerate le materie prime di cui dispone – dal petrolio alle risorse idriche”. Il petrolio infatti viene estratto in tutti e quattro i paesi curdi. In Turchia è estratto nell’area di Siirt, Raman, Garzan,Diyarbakir. Un focus on d’obbligo ci porta anche in Oman che apparirebbe negletto rispetto la galassia degli Emirati vicini. Tuttavia il paese è all’avanguardia nello sviluppo di tecnologie di recupero cosiddetto Enhanced Oil Recovery, EOR (detto anche recupero terziario) ed e il primo paese del Medio Oriente a far parte del ristretto club di produttori non convenzionali di petrolio e gas, attualmente guidati dagli Stati Uniti. A settembre 2017, si è avviata la produzione del suo giacimento di gas Khazzan da 16 miliardi di dollari, il più grande progetto di gas non convenzionale in Medio Oriente. Senza dimenticare i rapporti complessi con il vicino Yemen, fonte di continue scaramucce di guerriglia nelle aree di confine. In pratica si sta creando un Consorzio anti-OPEC che vede protagonisti, Russia, Iran, Qatar, e Turchia come hub privilegiato per il passaggio delle merci e del gas e come interlocutore diretto con forniture ( Franza M., Kurdistan, lo Stato introvabile. Limes, 08.06.1999). Ma la storia recente indica altri risvolti: il fatto che la Russia costringerebbe Damasco a porre il veto a un oleodotto del Qatar a favore di uno iraniano ignora anche un’altra realtà: Mosca e Teheran sono potenziali rivali energetici, almeno per il mercato europeo dove i russi vogliono mantenere il primato. Nonostante si parli di come le guerre del gasdotto permetterebbero all’Europa di diversificarsi dal gas russo, le esportazioni di gas russo in Europa hanno raggiunto un livello record nel gennaio 2017. Jihad Yazigi,nel suo “Rapporto sulla Siria” afferma tra l’altro “La concorrenza per l’accesso al gas nella regione non è tra Qatar e Iran, ma Russia e Iran”. Nel dicembre 2016, il commerciante di materie prime Glencore e l’Autorità di investimento del Qatar, il fondo sovrano del paese, hanno acquisito una partecipazione del 19,5% in Rosneft, la compagnia petrolifera statale russa, per $ 11 miliardi, con il risultato che il Qatar ha ottenuto un accesso al mercato europeo più semplice di quanto qualsiasi pipeline attraverso la …

L’ESPERIENZA PORTOGHESE DI ESSERE “DENTRO E CONTRO” L’UNIONE EUROPEA

di Hilary Wainwright | introduzione di Clive Lewis | INTRODUZIONE “I socialisti portoghesi sono stati in grado di dimostrare che le misure di austerità sono economicamente dannose e ideologicamente condizionate. Nel fare ciò quel paese da dato prova sia di solidarietà verso gli altri e sperimentato che può esistere un nuovo tipo di relazione tra singoli stati e istituzioni europee.” Clive Lewis, deputato “Dentro  e contro” è un’idea potente: si può essere leali, persino fedeli al progetto ma drasticamente critici verso le sue carenze. E’ quanto molti di noi pensano del partito laburista nella prima parte di questo secolo, e il suo rinnovamento mostra chiaramente quanto creativa e trasformativa possa essere questa posizione. Il report di Hilary Wainwright descrive il successo del governo socialista del Portogallo nella sua sfida alla UE – con i suoi limiti e soprattutto i suoi presupposti. La storia europea, nel 2015, era dalla parte del primo ministro António Costa. L’obiettivo dell’austerità stava perdendo consenso e legittimazione morale dopo il trattamento della Grecia da parte della Troika. I socialisti portoghesi, nella loro scelta di portare benefici radicali, immediati e pratici nelle vite dei cittadini, sono stati capaci di dimostrare che quelle misure di austerità erano state grandemente dannose a livello economico e ideologicamente condizionate. Nel fare ciò – incrementando il salario minimo, sbloccando le pensioni, aumentando le tasse alle aziende, attaccando la precarietà del lavoro e facendo retromarcia sulle privatizzazioni – il paese ha dato prova di solidarietà e di un nuovo tipo di relazione tra stati e istituzioni europee, avvicinandosi alle ambizioni egalitarie dei suoi fondatori. Questo è un significativo accadimento per coloro che a sinistra discutono di Brexit, o “Lexit”. Molte delle regole considerate come ostacoli alla visione socialista della proprietà pubblica, degli appalti o dell’aiuto di stato, o sono male interpretate, o sono state superate o sono flessibili. È anche illuminante per tutti noi che siamo stati condizionati a concepire i negoziati con la UE come una prova di forza, e una prova difficile per giunta, in cui 27 sono sempre più forti di uno. Forse questa è l’esperienza di paesi che non sanno quello che vogliono. Per quelli con un programma chiaro, sostenuto da forti, razionali ed etiche argomentazioni, le conclusioni non sono per nulla scontate. Comunque, la conclusione fondamentale è questa: non fai un favore alla UE ignorandone gli errori, non è un’entità inamovibile, e quelli che sembrano essere i suoi obiettivi strategici a lungo termine sono pur sempre soggetti alla volontà dei suoi membri. Si possono realizzare le ambizioni dei suoi fondatori:  pace, riconciliazione, solidarietà, benessere diffuso, solo se i paesi che la compongono si battono per questi fini. Si possono applicare quei valori alle sfide specifiche che affrontiamo oggi solo se i paesi membri si adoprano e restano determinati ad affrontare collettivamente i problemi. Che si tratti di una azienda prepotente e dell’insicurezza dei lavoratori, di una rinascita dell’estrema destra e di una politica razzista, o dei cambiamenti climatici e della perdita di biodiversità, nessuna di queste minacce resta strettamente confinata all’interno delle frontiere del singolo stato; nessuna nazione può farcela da sola. L’esperienza del Portogallo, ha comunque dimostrato che nessuna nazione deve esserlo. PRINCIPALI RISULTATI Il governo del partito socialista portoghese sostenuto e in larga misura sollecitato, da un’alleanza col Partito Comunista e il Blocco di Sinistra, ha dimostrato che è possibile attuare un efficace programma anti austerità restando membro della UE. Questo ha comportato resistere con successo ai negoziatori UE e a fronteggiare la loro ripetuta opposizione ai provvedimenti varati dal governo. Il risultato è stato un ribaltamento di tutte le misure introdotte sotto la supervisione della Troika – pur restando nel limite UE del 3% di deficit. La possibilità del successo di questi negoziati dal punto di vista portoghese è dipesa da un  bilanciamento positivo dei poteri, che ha rafforzato la posizione negoziale del governo. Successo a sua volta sostenuto da (a) una forte resistenza civica all’austerità fin dalla fine del governo precedente, (b) partiti a sinistra del Partito Socialista (PS) alleati con lui, con l’autonomia di fare apertamente campagna per una forte resistenza alle pressioni UE; e (c) un retroterra di pronunciamenti negativi della Corte Costituzionale su molti dei provvedimenti presi dal governo precedente che mettevano in atto politiche di austerità, per violazione dei diritti fondamentali. La costituzione democratica redatta nel 1976, dopo la rivoluzione che ha messo fine alla dittatura nel 1974, ha contribuito al favorevole equilibrio dei poteri. Questa vicenda di pluralismo politico  significa che il sistema permette ad una pluralità di partiti di allearsi col governo (per esempio sulle misure anti-austerità),  i quali nello stesso tempo hanno l’autonomia per esprimere differenti obiettivi a lungo termine (per esempio l’opposizione ai principi neo liberisti incorporati nei trattati UE). A livello economico, le misure anti austerità hanno avuto un effetto moltiplicatore sulla fiducia e le aspettative dei consumatori. L’esperienza portoghese mostra come singoli paesi possano lavorare in direzione contraria all’ortodossia neoliberista dei trattati di Maastricht e di Lisbona. Inoltre apre alla possibilità di una strategia a lungo termine per cambiare gli stessi trattati UE, creando una  massa critica con i governi che, agendo come il Portogallo, hanno negoziato un livello minimo di protezione contro l’austerità,  all’interno delle regole UE. Questo crea uno spazio che col tempo può essere allargato, quando il Portogallo troverà alleati per portare avanti riforme a livello europeo. Data l’avanzata di governi neo liberisti e ora di estrema destra in tutta Europa, questo obiettivo pare ancora lontano. Tuttavia la Spagna ora si è mossa nella stessa direzione del Portogallo e questo offre l’opportunità al Regno Unito, sotto un governo a guida Corbyn, di restare e riformare l’UE a sua volta. L’ESPERIENZA DEL PORTOGALLO Di fronte alla scelta della Gran Bretagna tra libero mercato, Brexit xenofoba e liberismo UE, è utile imparare dall’esperienza di un governo che ha avuto successo nello sfidare l’austerità neoliberista dal di dentro. In Portogallo, solo il governo attuale è arrivato alla fine del mandato quadriennale. Sono andata a cercare di capire come i partiti che guidano e …

L’AVVENIRE DELL’EUROPA

di Anna Rito – Socialismo XXI Basilicata | Le elezioni europee si avvicinano e finora non si è ancora sentita, dai candidati dei  partiti che riusciranno, presumibilmente, a superare la soglia del 4 %, un’indicazione chiara sul loro operato nel caso venissero eletti al Parlamento europeo. Sui social non se ne parla in modo chiaro e nei dibattiti televisivi si assiste ai soliti insulti, slogan e promesse e agli strategici litigi per confermare i propri elettori (e disorientare ulteriormente gli indecisi). L’unico dato che sembra confermarsi è che gli uomini di partiti euroscettici, oggi al governo, da uomini tutti d’un pezzo ispirati da principi che non si spezzano, ma che invece possono oscillare alla bisogna, non minacciano più referendum sull’Euro e altri sfracelli. Avranno capito che uscire dall’Europa sarebbe un suicidio collettivo?  Forse e più verosimilmente, i risultati degli ultimi sondaggi li hanno indotti a prendere atto che gli italiani non li seguirebbero in un’avventura anti europea. (Questo è almeno è un risultato positivo della sciagurata Brexit). Gli anni trascorsi per cercare di costruire una casa comune per i popoli europei dove valori quali il mantenimento della pace, i principi del pluralismo liberale, l’apertura al mondo, il rispetto dei diritti individuali, la precedenza del principio di legalità su quello dell’autorità personale non hanno prodotto né il risultato sperato né un significativo avvicinamento alle originarie ambizioni degli ispiratori dell’Europa unita, eppure quei valori devono –tornare ad essere– la base sulla quale poggiare l’architettura di quei progetti non realizzati. Bisogna ammetterlo, c’è ancora tanto da fare. I movimenti anti-europei non sono nati per caso, non sono il risultato di un incidente di percorso irrazionale e incomprensibile. Sono la cartina al tornasole di tutto quello che non va da anni nell’Unione Europea. Nelle intenzioni dei padri fondatori, tra cui, e ricordiamolo non per vano orgoglio, ma per tornare ad essere costruttivi e ispiratori di larga e alta progettualità, una libera intellettualità italiana si espresse dopo la mortificazione subita dal fascismo, ben altra era la visione e il progetto di un’Europa politica, unita e federale con un esercito, una fiscalità, una diplomazia e una prospettiva estera che avrebbero dovute essere comune. Non che tutto ciò non sia stato tentato nella lunga e travagliata storia dell’Unione europea, purtroppo le forze che dagli Stati, componenti già la prima formula di Europa comune, hanno obbedito ai riflessi condizionati della tradizione politica di supremazia e al geloso principio delle sovranità nazionali, hanno avuto la meglio. A tal proposito basti solo ricordare lo smacco referendario subito nel maggio 2005 della Convenzione Europea. Da quel momento l’Unione europea ha subito un’involuzione in senso centralistico e intergovernativo e antifederalista. Il risultato è stato un’unione a metà, solo monetaria e di mercato e poca effettiva politica concordata e condivisa, con la conseguenziale visione discorde e frammentata di fronte ai temi più gravi, quali il terrorismo e l’esplosione del flusso migratorio. Anche l’indirizzo dell’austerità intrapreso dopo la grande crisi del 2008, al fine di scongiurare il rischio di un’instabilità di conti e debiti pubblici, è prevalso rispetto ad adeguate misure volte alla crescita dell’economia e a sostegno dell’occupazione. E se la Commissione europea continuasse a sostenere che gli oneri dell’equilibrio macroeconomico debbano ricadere sui Mezzogiorni d’Europa, che dovrebbero continuare a mettere in atto le cosiddette “riforme strutturali”, compromettendo ancora salari, diritti e costi di produzione, sarebbe un tracollo annunciato. E’ necessario invertire la rotta. Il grande compito che attende l’unione europea che uscirà dalle urne il 26 maggio è cruciale. C’è da sperare prima di tutto che la lotta per avere una Costituzione possa essere rilanciata, e che i suoi fautori possano farlo commettendo minori ingenuità rispetto ai precedenti tentativi e che si giunga a un unico referendum europeo con votazioni contemporanee in tutti gli Stati membri. Un’ Unione sovrana di stati sovrani, nel quadro di una Costituzione federale era il progetto di Rossi, Spinelli e Colorni espresso nel ”Manifesto di Ventotene” (con il conseguente superamento delle beghe interne ai partiti). E’ da qui che bisogna ripartire secondo rinnovati criteri e riprendere il viaggio. Infatti, se l’ Europa vorrà giocare un ruolo politico-economico non minoritario anche nel futuro prossimo, l’unità politico diplomatica ed economica dovrà raggiungere un livello più efficace del presente. Due grandi sfide l’attendono. La prima, non essere subalterna economicamente alla maggiore potenza atlantica che sono gli Stati Uniti e al crescente potere economico della Cina. Aggiungerei, anche se la Russia per il momento non è dominante dal punto di vista economico, è rilevante da un punto di vista geopolitico e all’Europa spetta di controbilanciare la sua pressione nel Medioriente. La seconda, è quella di controbilanciare la pressione cinese (soprattutto) sul continente africano. L’Africa ha ricchezze essenziali per le nuove forme di economia, una popolazione crescente a ritmi impressionanti e mediamente tra le più giovani del pianeta. E’, dunque, un serbatoio di ricchezze economiche e di potenziale umano che inciderà fortemente sul futuro dell’umanità. Dopo secoli di colonialismo, l’Europa -finalmente- dei diritti, che è il potenziale più alto di civiltà, insieme allo sviluppo filosofico-scientifico, che ha da proporre al mondo a venire, ha il dovere di interessarsi all’Africa non solo per sopravvivere alla sfida economica globale, ma per restituire al pianeta equilibri da essa stessa turbati, e nel cui disordine altri si stanno prepotentemente inserendo.     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SOCIALISMO XXI – APPELLO PER UNA NUOVA EUROPA

Mezzo miliardo di cittadini europei sono chiamati a rinnovare, attraverso la più grande consultazione democratica del globo, il Parlamento dell’Unione Europea. Ciò avviene in una fase molto delicata per gli equilibri mondiali sul piano politico, economico e sociale, ed anche – per quanto ci riguarda più da vicino – per il ruolo competitivo dell’Europa stessa,  indebolito e messo in difficoltà dalle divisioni e tensioni  interne all’Unione, dalle criticità di governo causate dalla debolezza politica delle Istituzioni comunitarie, dal modello obsoleto del loro impianto intergovernativo, che ha fatto prevalere gli interessi dei singoli Stati, garantiti dal diritto di veto a disposizione dei singoli Stati all’interno del vero dominus europeo che è il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo. La mancanza di competenze esclusive e sovranazionali all’Europa, successiva al trattato di Nizza (2001), alla Dichiarazione di Laeken ed alla bocciatura nei referendum olandese e francese (2005) dello schema di Trattato Costituzionale Europeo, ha lasciato, nonostante il successivo trattato di Lisbona (2007) l’Europa funzionale delle Patrie (la più sovranista possibile, quindi) debole e spesse volte poco efficace nella risposta ai grandi bisogni che investono il Continente, soprattutto dopo la non risolta crisi della globalizzazione che si è sviluppata nel mondo tra il 2008 ed il 2012. A distanza di 10 anni dalle elezioni del 2009, l’Appello che il Gruppo di Volpedo, rete di circoli socialisti del nord-ovest del Paese, lanciò dalla storica ed emblematica Piazza Quarto Stato, mantiene intatta, per molti versi, la sua attualità. Oggi siamo costretti a rilevare che le proposte dell’Appello, che potevano essere risolutive alla crisi istituzionale europea e del socialismo europeo ed italiano, non hanno trovato l’adeguata risposta, né dai partiti né dal Parlamento e dai Governi che si sono succeduti. I problemi  si sono anzi aggravati a causa del sorgere, in molti dei Paesi dell’Unione, per la debolezza o l’assenza di una risposta riformista, di formazioni politiche votate al ribellismo  protestatario oramai comunemente definito populista; oppure improntate ad un vecchio ma risorgente nazionalismo, xenofobo ed antieuropeo, spesso tendente all’autoritarismo ed al liberticidio, come al solito, dell’informazione e dei diritti dell’uomo. I Socialisti di Socialismo XXI secolo ribadiscono che la vocazione dei socialisti  è per loro indefettibilmente legata alla loro storia, che è internazionalista, solidaristica, esaltatrice  dei valori inscindibili dell’eguaglianza sociale e delle libertà individuali e collettive; i socialisti si impegnano per la promozione di un profondo rinnovamento e trasformazione dell’Unione Europea, socialmente più giusta, politicamente più democratica, economicamente più forte e competitiva nello scenario mondiale, istituzionalmente “Federazione sovrana di Stati” e non la sovranista “Europa delle Patrie” come è attualmente . Le proposte di Socialismo XXI I socialisti riuniti nell’Associazione Socialismo XXI secolo, eredi della tradizione riformista del socialismo italiano, quindi, come propongono gli obiettivi federalisti da perseguire, indicano anche le tappe del buon governo che debbono essere superate per conseguire il risultato che si propongono: Le politiche europee non possono esaurirsi nella sola politica monetaria (moneta unica e BCE) ma devono riguardare, con il medesimo vincolo, una equilibrata integrazione delle politiche economiche e produttive, fiscali, ambientali, del mercato del lavoro e della legislazione sociale (previdenziale, assistenziale, salariale, etc). Non è più tollerabile l’esistenza di situazioni all’interno dell’Unione di situazioni di “dumping” sociale, fiscale e di tutela dell’ambiente nella più completa indifferenza delle autorità di Bruxelles. Nelle politiche economiche e di finanza pubblica non deve prevalere il potere esercitato dai potentati finanziari che in questi ultimi anni hanno condizionato pesantemente i governi, in particolari quelli degli Stati in difficoltà, richiedendo politiche e scelte liberiste che hanno devastato diritti e tutele sociali, in particolare sull’occupazione, e fatto prevalere gli interessi particolari dei grandi gruppi finanziari rispetto all’interesse generale. È importante che la nuova Europa che vogliamo sia suffragata dalla sovranità popolare, che potrà esprimersi nelle prossime vicine elezioni del Parlamento, al quale un voto cosciente dell’urgenza e della necessità dovrà chiedere che siano assegnati – attraverso una modifica dei Trattati in essere – maggiori e vincolanti poteri decisionali. Oggi la Commissione, sostanzialmente nominata dai singoli Stati nel Consiglio, risponde soltanto nominalmente, a causa dell’alta soglia di maggioranza qualificata richiesta, al Parlamento. I deputati eletti debbono impegnarsi per un allargamento dei poteri del Parlamento e per ogni modifica istituzionale che deleghi alle competenti istituzioni europee la gestione delle politiche di Bilancio, di Difesa, Esteri e della Sicurezza delle frontiere dell’Unione (non solo terrestri ma anche marine). I socialisti dell’Associazione Socialismo XXI secolo chiedono ai partiti ed ai candidati di esprimere la loro valutazione sulla Politica di coesione 2021-2027 È con la realizzazione della Politica di Coesione, infatti, che si potrà realizzare: una Europa più intelligente, mediante l’innovazione, la digitalizzazione, la trasformazione economica e il sostegno alle piccole imprese; una Europa più verde e priva di emissioni di carbonio, grazie agli investimenti nella transizione energetica, nelle energie rinnovabili e nella lotta contro i cambiamenti climatici; una Europa più connessa, dotata di reti di trasporto e digitali strategiche; una Europa più sociale, che sostenga l’occupazione di qualità, l’istruzione, le competenze professionali, l’inclusione sociale e un equo accesso alla sanità; una Europa più vicina ai cittadini, che sostenga strategie di sviluppo gestite a livello locale e uno sviluppo urbano sostenibile in tutta l’UE. Il Parlamento italiano, gli eletti a quello Europeo, il Governo, le forze sociali ed economiche sono chiamate a definire oggi e non in un lontano, e sempre purtroppo procrastinabile futuro, proposte e valutazioni dei capisaldi della Politica di Coesione: Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) Fondo di coesione Fondo sociale europeo+ (FSE+) Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) Fondo asilo e migrazione Fondo sicurezza interna Strumenti per la gestione delle frontiere e dei visti. È essenziale conoscere e valutare le proposte che riguardano per l’Italia la Flessibilità, che sarà lo strumento col quale saranno adottati solo gli stanziamenti considerati prioritari per l’investimento e corrispondenti ai primi cinque anni (periodo 2021-2024).  Gli stanziamenti per i restanti due anni (2026 e 2027) verranno assegnati a seguito di una revisione intermedia che avrà luogo nel 2024 e sfocerà in una riprogrammazione nel 2025. lo Sviluppo …

SPAGNA 2019

di Franco Astengo | La grande avanzata socialista nelle elezioni spagnole del 29 aprile costituisce senz’altro un segnale molto importante per la sinistra europea. In un quadro generale di crescita nella partecipazione al voto e in una situazione molto complessa da valutare seguendo la traccia delle “fratture” che agitano e dividono la società spagnola i socialisti sono cresciuti da 5.443.846 voti a 7.480.755 suffragi: più 2.036.909, con un incremento in seggi di 38 unità, in percentuale dal 22,63% al 28,68%. Nonostante questo risultato il futuro del governo spagnolo rimane pieno di incognite e legato comunque alla costruzione di un complicato sistema di alleanze delle quali saranno probabilmente protagonisti i partiti delle diversità nazionalità, a partire da quella catalana. E’ il caso allora di verificare che cosa è capitato in quest’occasione analizzando specificatamente la particolarità spagnola della formula elettorale: il meccanismo di traduzione dei voti in seggi. Sotto quest’aspetto la formula elettorale spagnola presenta caratteristiche molto particolari: il “Congreso” (erede delle antiche Cortes) viene eletto, infatti, attraverso collegi di diversa (e in gran parte ridotta) dimensione. All’interno del collegio i seggi in palio sono attribuiti con il metodo d’Hondt, dei quozienti successivi, senza utilizzo dei resti e senza riporto a un collegio unico nazionale. In questo modo oltre a favorire i partiti più grandi risultano privilegiate le concentrazioni locali: ed è da questo tipo di sistema che deriva la complessità dell’esito cui si accennava all’inizio. Il dato più interessante da esaminare diventa allora quello del “costo” di ogni seggio per ciascun partito, comparando questo elemento con quanto accaduto nelle elezioni precedenti per comprendere meglio la “localizzazione” o l’eventuale (per i grandi partiti) estensione o riduzione nel “peso nazionale” del voto. E’ evidente che un’analisi ancor più approfondita in questo senso dovrà essere svolta nei prossimi giorni esaminando i dati collegio per collegio: adesso, però, a poche ore di distanza dall’esito del voto ci si dovrà accontentare di una valutazione di carattere generale. Il quadro generale è comunque quello di un rilevante aumento nella partecipazione al voto come si evince dal numero di voti validi salito tra il 2016 e il 2019 da 23.874.674 a 26.361.051 pari a 2.486.377 suffragi espressi in più dal corpo elettorale. Allora, andando per ordine. Come abbiamo visto il PSOE ha avuto 7.480.755 voti per 123 seggi: ogni seggio è dunque costato 60.819 voti. Nel 2016 i socialisti avevano ottenuto 5.443.846 voti per 85 seggi, con un costo di 64.045 voti ciascheduno: si può dunque pensare non solo a una crescita nel voto socialista, come è evidente, ma anche a una migliore distribuzione territoriale, di una dimensione ancora più accentuata di partito nazionale ed “europeo”, considerata la precisa definizione adottata da Sanchez nelle prime dichiarazioni post – voto. Secca flessione per il PP sceso da 7.941.236 voti a 4.356.023, con un decremento di 3.585.213 voti. I popolari dimezzano praticamente i seggi scendendo da 137 a 66. Nel 2016 per ogni seggio il PP aveva dovuto ottenere 57.965 voti, nel 2019 il costo è salito a 66.000 per ogni singolo suffragio, quindi con una caduta anche nella capacità di dimensione territoriale del Partito. L’entità della caduta dei popolari è stata soltanto compensata dall’incremento di Vox e di Ciudadanos. Vox ha indubbiamente fatto registrare un ottimo risultato e segnato l’inedita presenza dell’estrema destra nel Parlamento spagnolo con 2.677. 173 voti e 24 seggi (111.548 voti a costo unitario) mentre Ciudadanos ha avuto 4.136. 600 voti e 57 seggi (72.571 voti a seggio). Nel 2016 Vox non aveva realizzato rappresentanza parlamentare fermandosi a 47.182 voti, mentre Ciudadanos aveva ottenuto 3.140.570 voti e 32 seggi (98.205 voti per seggio: si può affermare che Ciudadanos si è sicuramente affermata anch’essa come partito nazionale). Nel complesso Vox e Ciudadanos incrementano di 3.626.021 voti: considerata la caduta del PP si può parlare sostanzialmente di un interscambio di voti nel centro destra, ferma restando la registrazione di uno spostamento complessivo, da questo punto di vista, verso l’estrema. Non si può però parlare di “sfondamento” a destra. Risultato mediocre per Unidad Podemos: nel 2016 la lista di sinistra aveva avuto 3.227.123 voti per 45 deputati (71.713 voti a seggio); nel 2019 i voti sono scesi a 3.118.191 (meno 108.932) e i deputati a 35 (89.091 il costo unitario). Nella sostanza Podemos realizza una tenuta sul piano del voto generale, ma un restringimento nelle proprie dimensioni di partito nazionale probabilmente a vantaggio delle liste di sinistra indipendentiste in Catalogna ma non solo. Esaminiamo allora il comportamento di alcune delle principali liste rappresentati le nazionalità. L’Esquerra Repubblicana di Catalogna ha avuto un rilevante incremento passando da 632.234 voti a 1.015.355 con un più 383.121 voti. I deputati sono saliti da 9 a 15: nel 2016 ERC aveva pagato ogni deputato 70.248 voti, nel 2019 67.690. Jxcat Junts, partito catalano indipendentista, ha avuto (senza riscontro con il 2016) 497.638 voti per 7 deputati: costo unitario 71.091. Ogni deputato è costato a Jxcat circa 40.000 voti in meno di quanto è costato a Vox. E’ questa una delle particolarità da notare nel già descritto sistema elettorale spagnolo. Sono cresciuto entrambi i partiti baschi: il PNV da 287.014 voti a 394.627 passando da 5 a 6 seggi (65.771 voti a costo unitario) mentre Bildu da 184.713 a 258.840 raddoppiando i seggi da 2 a 4 (64.710 voti per deputato). Un altro esempio del tipo di distorsione che la formula elettorale spagnola provoca nella traduzione dei voti in seggi parlamentari lo si riscontro evidente nel risultato di NA+, il partito rappresentante della Navarra: 107.124 voti per 2 seggi, costo unitario 53.562 voti, la metà di quello per Vox, 7.000 in meno del costo pagato per ogni seggio dal PSOE. Si è così esaminato in modo molto sommario l’esito delle elezioni spagnole per quel che riguarda i principali partiti sottolineando, com’era nello scopo di questo lavoro, il tipo di distorsione che la formula elettorale realizza oggettivamente nella sua capacità di tradurre i voti in seggi. Ne esce un sistema politico abbastanza frammentato soprattutto sul versante della faglia localistica (che come sappiamo in …