LIBIA, SVOLTA TRUMP: PASSA CON HAFTAR. RISCHIO GUERRA PER PROCURA. DANNI PER NOI

di Giuseppe Scanni – Socialismo XXI Lazio | Hag Sameah, Buona Pasqua, Happy Easter, Frohe Ostern, con tanto timore per l’equilibrio e la pace nel mondo, più specificatamente per quello che si combatte sulla porta mediterranea dell’Europa. Nel corso della settimana appena passata, erano rincorse voci di un coinvolgimento degli Stati Uniti nell’appoggio al generale Haftar dell’Arabia Saudita. Il nostro giornale ne dette notizia e oggi quelle voci risultano persino in difetto di una realtà più pericolosa. Il Presidente del Consiglio Conte è  intervenuto d’urgenza lo scorso giovedì al Senato, che era impegnato nella discussione sul DEF, per informare il Parlamento della «forte preoccupazione» per la situazione in Libia in riferimento alle possibili conseguenze sui flussi migratori verso l’Italia o altro territorio dell’Ue, anche se, ha detto Conte, «dalle informazioni in nostro possesso non emerge allo stato un quadro di imminente pericolo», non « ci sono interessi economici o geopolitici che possano giustificare scorciatoie militari ed in ultima analisi il rischio di una nuova guerra civile in Libia». Il presidente aggiunse che «ad oggi gli scontri hanno spinto circa 18.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni e gli sfollati interni sarebbero ancora in rapido aumento». Conte non si è poté esimere dall’affermare che «la situazione di caos e violenza accresce fortemente anche il rischio di una recrudescenza del fenomeno terroristico, del resto ancora ben presente in Libia». C’era bisogno di chiarire quello che già si sapeva e che era stato discusso nei giorni precedenti? Il nostro quotidiano aveva, per esempio, allarmato i decisori politici sull’effetto nebulizzante che le dichiarazioni del ministro Salvini sul piano del cessate il fuoco, sulla chiusura dei porti, sul conflitto e sulle prospettate fughe di rifugiati e non migranti economici, che lo avrebbero autorizzato ad assumere il comando delle operazioni di chiusura dei porti, anche delle Forze Armate. Che il ministro dell’Interno indebolisse la posizione negoziale italiana apparve da subito una questione di primaria importanza anche per le evidenti connessioni con politiche differenti di quelle del governo. Insomma il tema era conosciuto. Possiamo presumere che Conte abbia usato il Senato per rivolgersi alla Casa Bianca al fine di ricordare il ruolo di interesse e di centralità che ricopre l’Italia nell’area di crisi. Che il messaggio sia giunto e sia stato elegantemente respinto, elegantemente si fa per dire, lo desumiamo dalla telefonata di Donald Trump a Khalifa Haftar telefonata nel corso della quale gli Stati Uniti riconoscono «il ruolo significativo del maresciallo di campo nella lotta al terrorismo e nella sicurezza delle risorse petrolifere». Trump ed il generale, si legge nel resoconto non ufficiale della telefonata – reso pubblico da un giornalista del pool della Casa Bianca, rilanciato da tutte le maggiori agenzie di stampa mondiali ed arabe- «hanno discusso una visione condivisa per una transizione della Libia verso un sistema politico, stabile e democratico». Diverse fonti diplomatiche hanno sottolineato la singolarità della telefonata del capo della prima potenza mondiale ad un personaggio come Haftar, che “ha ben poca legittimità e soprattutto che non abbia sentito il dovere di chiamare anche Serraj”.   Gli ambienti diplomatici non sono granché meravigliati dal contatto di Trump con Haftar, del quale ricordano i buoni rapporti anti Gheddafi con i sistemi americani, e sottolineano che viene confermata la «nuova politica mediorientale di Trump, imperniata sugli uomini forti e sull’alleanza con Emirati Arabi ed Arabia Saudita, sponsor principali del generale, mentre a Roma sembra ripartire il dialogo con Parigi sulla Libia e sul terreno resta una situazione di stallo. Come in pochi speravano il buon senso ha prevalso tra Parigi e Roma, e non pochi osservatori suppongono un lavoro difficile e diretto del Quirinale. Sembra passato un lungo tempo invece che poche settimane dalla chiamata “per consultazioni” a Parigi dell’ambasciatore francese a Roma e la dichiarazione congiunta dei due ministri degli Esteri transalpini, Yves Le Drian ed Enzo Moavero, con la quale si afferma che non sono «possibili progressi in Libia senza una solida intesa franco-italiana». Parigi e Roma sono oramai entrambe convinte che è reale il rischio della trasformazione della Libia in nuovo Yemen, devastato da un conflitto per procura che si sta già riproponendo nel Paese nordafricano. Un conflitto per procura nel quale il passo successivo potrebbe essere l’intervento diretto delle potenze contrapposte, Emirati e Arabia Saudita da una parte e Qatar dall’altra. Il richiamo incessante alla lotta al terrorismo identificato con l’Islam politico trasformerebbe la Libia in un terreno di scontro ideologico, che finirebbe per distruggere il Paese, eliminando un potenziale concorrente economico nella regione e gettando nella disperazione un popolo che si avvierebbe inesorabilmente nella pratica della violenza quotidiana, come è avvenuto in Somalia. Lo scenario non è un esercizio di analisi, visto che da più giorni fonti assai credibili sostengono essere vere le notizie circolate in rete sull’impiego di droni degli Emirati per i bombardamenti della scorsa notte a Tripoli. Il rispetto per i lettori impone di riportare notizie provenienti da ambienti informati, con la speranza, naturalmente, che esse, pur circolando, non siano confermate. Non è sfuggito agli osservatori che il capo della diplomazia francese abbia avuto il tempo di incontrare a Sant’Egidio il fondatore della Comunità, Andrea Riccardi, ed il presidente Impagliazzo. Senza dubbio la solidarietà di Sant’Egidio per il drammatico incendio di Notre Dame era importante, ma l’accenno alla necessità di «lavorare rapidamente perché ci sono tutti gli ingredienti perché le cose si deteriorino in Libia», che «il dialogo deve riprendere immediatamente e questo può avvenire solo con un immediato cessate il fuoco», avvertendo che la crisi «può diventare molto pericolosa. A Palermo prima e ad Abu Dhabi poi eravamo molto vicini ad un accordo, eravamo vicinissimi, arrivare ad un accordo è possibile, ma ci vuole il cessate il fuoco» sono dichiarazioni assai significative del riconosciuto ruolo di Sant’Egidio da parte della Francia.  «Sono molto contento», ha detto Yves Le Drian, «di aver potuto incontrare dei rappresentanti della Comunità che svolge un ruolo importante per la pace nel mondo e in particolare in Africa». Si è rafforzata l’idea che parlando a Sant’Egidio il governo …

LIBIA, ECCO LE MOSSE DEL ‘GABINETTO DI CRISI’

di Giusepe Scanni | “Fugit inreparabile tempus” sottolineava Virgilio che alludeva, con l’aggettivo “inreparabile”, alla irrimediabilità del danno che il Tempo arreca. Chissà come avrebbe commentato l’autore del verso della terza Georgica le poche ore che sono trascorse dalla tarda sera del 12 aprile al mattino di ieri nelle quali ha funzionato il Gabinetto di Crisi sulla Libia formato dal presidente del Consiglio Conte e suggerito dalla diplomazia, dalla Difesa, dai servizi di intelligence e verosimilmente auspicata dall’alta autorità del Quirinale e smontata, davvero in poco tempo, dall’onorevole Salvini. Il danno provocato alla rottura della univoca azione del governo, a causa dell’invito del ministro dell’Interno italiano al vice-presidente libico del Consiglio del governo di riconciliazione nazionale, Ahmed Maitig, a discutere a tu per tu, nel suo ufficio al Viminale, della situazione sul terreno non è ancora quantificato. Si sono delineate due diverse linee di azione diplomatica italiana. Quella di Salvini – “Stiamo lavorando perché non ci sia guerra, speriamo che il peggio sia passato, il blitz di Haftar è fallito e noi siamo al lavoro perché si fermino i missili”- solo apparentemente ricalca quella del Governo di cui lui stesso fa parte, perché la via diplomatica intrapresa dal “sistema” nazionale prevede una azione di persuasione statunitense sull’Arabia Saudita e gli Emirati, che dell’attacco armato al governo riconosciuto dalle Nazioni Unite- e perciò internazionalmente legittimo- sono generosi finanziatori. La definizione di unica responsabilità di Haftar, altro “cliente” degli Stati Uniti, dove ha vissuto venti anni lasciando buoni ricordi antigheddafiani, impedisce di fatto all’Italia di perseguire celermente il suo obbiettivo di far dichiarare a Stati Uniti e Russia la loro accettazione di un appello comune alle parti, per il cessate il fuoco e la ripresa dei negoziati diplomatici. Gli Stati Uniti, alleati con l’Arabia Saudita, che legittima il suo interesse alla vittoria di Haftar con la lotta al terrorismo, non possono intervenire senza una motivazione conciliabile coi propri interessi immediati; giacché è oramai un dato tristemente non controvertibile quello che ci detta l’esperienza di vicende che ancora oggi viviamo: la difficoltà del sistema americano di prevedere un futuro che non si evolva secondo i piani previsti dagli strateghi stella e strisce. Se Haftar rappresenta gli interessi arabo sauditi gli Stati Uniti ne tengono conto, ed il generale può continuare a dichiarare, ed anche a pensare, che in mancanza di altolà la sua pur rovinosa cavalcata nel deserto è approvata dalla Casa Bianca. Eredi di una grande scuola diplomatica i governanti egiziani hanno esaltato l’impresa di Haftar ma non l’hanno accompagnata da nessun gesto solidale: né uomini, né rifornimenti. Ed il generale se ne è pubblicamente lamentato. La Russia è molto prudente. Considera di aver già dato molto facendo sapere che in caso di una risoluzione anti “golpe” di Haftar avrebbe usato il suo diritto di veto; di fatto ha permesso la continuazione del claudicante intervento militare ed aspetta che la diplomazia europea, segnatamente quella italiana, apra le porte quel tanto che basta al cessate il fuoco senza indicare precise responsabilità, rinviando la decisione se e quando interporre i Caschi Blu, a quel punto necessariamente guidati dagli italiani. La Francia si è più o meno comportata come la Russia. La Francia è uno Stato di interesse mondiale ma non è una potenza planetaria e sa valorizzare i propri limiti, perché, assieme ai pregi, li conosce, grazie al “senso” dello Stato che, nonostante le attuali difficoltà coinvolge il gruppo, dirigente della Repubblica. Parigi ha bloccato la risoluzione di condanna preparata dalla Commissione europea ed appoggiata dalla Germania; Berlino si muove con difficoltà tra i timori di un nuovo fronte sud e di un aumento esponenziale di attacchi terroristici e, d’altro canto, considera impossibile differenziarsi immediatamente dal suo partner privilegiato nella UE. La Francia è stata accusata da una sola fonte, il sito libico legato al governo di Tripoli “Libya Observer”, di aver partecipato con sei “consiglieri militari”, leggi mercenari, ad una azione di appoggio allo stesso Haftar assieme a trenta egiziani e quattordici libici. Il Tweet, mai trasformato in articolo né sul sito inglese né sulla sua edizione araba, è stato usato secondo i vari interessi in tutto il mondo; in Italia è stato diffuso soprattutto dalla Lega, trovando buona eco sulla stampa – in nome dell’inspiegabile complesso di inferiorità, nei confronti della Francia, che avviluppa parte del giornalismo e della cultura italiana -. L’intendimento tripolino di spingere Roma ed altri alleati, soprattutto il Qatar e la Turchia, a intraprendere strade militari e non diplomatiche per risolvere l’aggressione di Haftar è evidente. Fuori dai nostri confini nazionali un altro misterioso cinguettio, apparso sempre su Libya Observer, ha informato che il portavoce di Haftar, generale Al Mismari, ha sostenuto che l’aviazione che bombarderebbe le truppe anti tripoline e di Misurata sarebbe pilotata da italiani ed americani. Il che ha insospettito, alla vigilia dell’incontro del Presidente Conte con il vice presidente libico ed il vicepremier qatarino Sceicco Mohammed Al Thani, anche persone normalmente aduse a non considerare del tutto improponibile discettare sul terrapiattismo. Un blitz che non riesce si trasforma in una guerra lunga o in una fuga precipitosa. Il blitz di Haftar non è riuscito ma non si è ancora trasformato in guerra o fuga. Ed è questo il momento magico della diplomazia. Brecht fa dire dal cappellano a Madre Coraggio che la guerra «va incontro a tutte le esigenze, anche a quelle pacifiche». La diplomazia italiana, fatto salvo l’interesse “politico” dell’onorevole Salvini, è quello che il gabinetto di crisi ha individuato: far comprendere particolarmente a Washinton, che è concreto il rischio di vedere trasformata la Libia in una nuova Somalia, zona franca di uno stato islamico dove combattono gruppi terroristici diversi attratti dalla possibilità di finanziamento rappresentato dal petrolio. Da qui la necessità di veicolare il consenso diplomatico per la pace con Usa, Ue e Russia, con gli alleati dichiarati di questi ma anche, Siria docet, con i loro “compagni di strada” – insospettabilmente partecipanti ad alleanze militari o commerciali diverse da quelle ufficialmente esposte nei combattimenti-. È un compito difficile quello dell’Italia …

IL DISCORSO DI SANCHEZ

di Lorenzo Borla (Emanuele Macaluso, Facebook) Su Repubblica di qualche giorno fa è apparsa una intervista al segretario del Psoe (Partito socialista spagnolo), Pedro Sanchez, capo del governo di Madrid. Come è noto, Sanchez era a capo di una coalizione di minoranza, con ministri socialisti, subentrato all’esecutivo di Mariano Rajoy (che era stato battuto in parlamento da una mozione di censura presentata dallo stesso Sanchez). Tuttavia il governo a guida socialista è durato solo 10 mesi e Sanchez si è dimesso, dato che in Parlamento non è stata approvata la legge finanziaria, perché non votata dal gruppo separatista della Catalogna. Il Parlamento è stato, quindi, sciolto e sono state indette nuove elezioni che si svolgeranno il 28 aprile. L’intervista di Sanchez è interessante, se si tiene presente il travaglio che ha attraversato il Partito socialista: ha conosciuto divisioni come tutte le sinistre; recentemente i socialisti sono stati sconfitti alle elezioni regionali in Andalusia, dove governavano da 30 anni. Tuttavia, il socialismo spagnolo, in questi anni, ha recuperato prestigio, forza e un’unità che, alla vigilia delle elezioni, nei sondaggi viene collocato come prima forza politica del Paese. Ecco gli ultimi dati: Psoe 28,6%, Pp 21,2%, Ciudadanos 15,2%, Podemos 12,6%, Vox 12%. Il Partito socialista è il protagonista principale della vicenda politica che si svolge oggi in Spagna. E l’intervista di Sanchez ci dice che la sua battaglia e quella dei suoi compagni si può riassumere in queste parole: «Più progresso per tutti, noi socialisti vogliamo una Spagna inclusiva». Di fronte allo scenario politico internazionale, caratterizzato dall’ascesa di una destra populista e razzista, Sanchez dice che questa destra si è radicalizzata: in passato c’era, ma era stata contenuta nei partiti moderati, come il Partito popolare. E annota: «Questa radicalizzazione può costituire anche un’opportunità per la socialdemocrazia, per rivendicare valori che noi abbiamo difeso in termini storici: la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. A differenza della destra, che prospetta vecchie ricette per un mondo nuovo, noi dobbiamo proporre nuove risposte. Dobbiamo decidere se vogliamo un progresso inclusivo, dove nessuno resti indietro, oppure un progresso di una minoranza a spese della maggioranza. Dobbiamo decidere se continuare a conquistare diritti e libertà per realizzare così una eguaglianza effettiva tra uomini e donne, oppure no». Ho ripreso questa intervista per dire quel che ho già detto altre volte: il socialismo non è morto come predicano tanti, tra cui alcuni che dicono di essere di sinistra. Non è morto in Spagna, in Gran Bretagna, dove in questi giorni la signora May ha dovuto riconoscere il ruolo essenziale e decisivo dei laburisti di Corbyn per uscire, se si potrà uscire, dal pantano in cui è precipitato il Paese con la Brexit. Il socialismo non è morto in Svezia dove è al governo. Nemmeno in Germania né in Francia, dove certo attraversa una seria crisi esistenziale. Se guardo all’Italia, vedo che il Pd, nel suo simbolo elettorale, ha messo anche il socialismo europeo. Però, deve essere chiaro che, se vuole recuperare forza e prestigio nazionale e internazionale, deve definire la sua identità. E lo dico anche a quei cattolici che militano nel Pd. A loro ricordo che gli anni migliori del socialismo francese sono stati quelli di Mitterrand e del cattolico socialista Delors. Capisco che sono scelte non facili in questo Pd, ma con calma e anche determinazione questo partito, se vuole avere un avvenire, deve stare con coerenza nella famiglia socialista europea e, quindi, definire con nettezza il suo profilo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

NETANYAHU, LA GEOPOLITICA ALLA BASE DELLA SUA VITTORIA

di Giuseppe Scanni | Benjamin Netanyahu ha ragione, avvicinandosi al quinto mandato può esclamare: «È una vittoria immensa». Non ha surclassato il rivale, Benny Gantz, che ha conseguito un risultato pari al suo, ma soltanto lui può formare una coalizione di governo. In un paese che pratica la democrazia come pochi al mondo, che ha della memoria e del valore simbolico degli avvenimenti un culto speciale, inviare ancora una volta       “Bibi” alla Presidenza superando il record ( quattro mandati) del padre fondatore dello Stato, Ben Gurion, non è un risultato casuale. Semmai è discutibile con quali raccomandazioni Netanyahu è stato iscritto nei libri di storia. Il voto essenziale della coalizione di destra è un evidente appoggio alla politica estera (che nel caso specifico si riflette su quella interna più che altrove) ma non è un consenso illimitato alla persona che vorrebbe identificare il voto con una “impunità” presidenziale che è estranea alla tradizione israeliana. Gli israeliani che si sono recati alle urne sono stati il 67,8% degli aventi diritto, una percentuale molto più alta della media europea ed italiana. Tenendo conto della scarsa affluenza dei votanti arabo-israeliani la partecipazione è stata ancora più rimarchevole. Nel sistema parlamentare israeliano conta più raggiungere in coalizione 61 seggi sui 120 della Knesset piuttosto che superare in percentuale ed in seggi il diretto contendente. Il settantenne Netanyahu ha dato al Likud cinque parlamentari in più della passata legislatura ed il milione e duecentomila voti (25,94%) del leader della formazione di centro sinistra Bleu Bianco rappresentano una grande soddisfazione personale per l’ex Capo di stato maggiore Benny Gantz che, assieme al suo ex collega Yaïr Lapid e l’ex ministro della Difesa Moshe Yaalon, è riuscito in soli tre mesi a formare ed a rendere competitiva la lista, dimostrando che la crisi del partito laburista, giunto al suo minimo storico di 7 parlamentari, impedisce non soltanto un governo alternativo al centro destra, ma neppure , in caso di necessità, la formazione di un governo di unità nazionale. In queste elezioni gli indecisi ed il voto protestatario non si sono né astenuti né dispersi, si sono diretti verso le formazioni maggiori, dando ragione a Netanyahu per la tattica di mobilitazione “disperata” lanciata durante la campagna elettorale. Netanyahu ha polarizzato lo scontro anche con metodi inusuali; non ha esitato a dipingere il generale Gantz come uno “squilibrato”; né ad usare i social media per diffamare i generali che sostenevano Bleu Bianco definiti pericolosi “sinistrorsi”; né a mettere in discussione la lealtà della minoranza araba. Ha legittimato gli eredi del rabbino oltranzista Meir Kahane, xenofobo e suprematista ed ha attaccato con inusuale violenza la stampa, la polizia ed i magistrati che hanno lavorato sulle inchieste per corruzione ed abuso di potere che macchiano la sua reputazione. I suoi avversari sperano che entro l’anno il procuratore generale Avichaï Mandelblit lo incrimini. Nello stesso Likud non sono poche le voci preoccupate che evocano foschi scenari nei quali l’equilibrio dei poteri sarà messo in discussione e nel venire d’un tempo, sperato da alcuni, temuto da molti, nel quale la vittoria elettorale e la formazione del governo nulla potranno dinnanzi ad un processo ed a una condanna. Eppure “Bibi” sa di avere diverse buone possibilità di uscire ammaccato ma in vita dalle prossime prove. A differenza di molti ha da tempo compreso le mutate condizioni della vasta area geo politica che interessa Gerusalemme. Nei tempi che furono, le faglie che percorrevano il territorio politico, distinguendolo, erano longitudinali e nella lunga Guerra fredda est ed ovest distinsero il confronto arabo israeliano con i nemici dello stato israeliano collocati sia ad Est (Giordania, Siria, Iraq, Arabia Saudita) che ad Ovest (Egitto, Libia ed Algeria). A questa cesura si aggiungeva quella tra Iran ed Iraq eredi di due imperi, quello orientale-persiano, quello occidentale-ottomano. Complicato ma comprensibile. La natura tellurica della geografia politica del territorio restò sostanzialmente intatta nel corso degli anni ’90 perché la potenza unica, gli Stati Uniti, per quanto praticasse una politica contradditoria,  seppe gestire contrasti e discordanze: tutelando Israele usò l’Islam politico per tenere sotto controllo il nazionalismo arabo filosovietico; impresse un ritmo positivo al confronto arabo-israeliano ma fallì impietosamente su quello israelo-palestinese; tenne a bada, profittando della loro storica rivalità, Iran e Iraq. Dal 2001 cambiò il mondo. Il confronto nel segno del sangue e del fuoco con l’Islam, rappresentato dalla carneficina dell’11 settembre, ha cambiato il corso della storia. Il frustrato malato miliardario saudita Bin Laden spinse la grande potenza ad una guerra che si è rilevata lunga, mortale, asimmetrica, aggravata dall’invasione dell’Iraq che ha spalancato le porte dell’<impero ottomano>, all’erede di quello persiano, all’Iran. Il nuovo terremoto ha sconvolto la zona e nuove faglie hanno diviso il delicato Medio Oriente delimitandolo latitudinalmente. Il terremoto Erdogan ha creato un susseguirsi di scosse interne delle quali non è ancora adesso semplice comprendere a fondo la pericolosità. Non perché sia un vincente, tesi questa sostenuta da buona parte degli analisti il giorno dopo la repressione del così detto golpe che Ankara, alla faccia della dichiarata volontà di esercitare una politica che non andasse a cercare guai con i vicini, addebitò agli Stati Uniti- responsabili di ospitare quello che era stato il suo maestro, Fethullah Gülen-. Più probabile invece che quella di Recep Tayyp Erdogan sia stata una manovra tanto cinica quanto al momento efficace per trasformare una protesta in un grande repulisti di tutti gli oppositori, soprattutto di quelli sospettati di simpatie occidentali, segnatamente statunitensi, per avere mano libera nel più ardito uso di doppio binario nel sistema di Alleanza militare finora conosciuto. Membro della NATO la Turchia acquista missili anti aerei russi; pur conscia dell’impegno statunitense nell’abbattimento di Assad fiancheggia in Siria Russia ed Iran; provoca l’Europa professando il desiderio di entrare nell’Unione ma pratica una pesante repressione interna e minacciando ambizioni territoriali ai confini sud orientali aumenta il costo della chiusura della rotta balcanica delle migrazioni. La sconfitta elettorale soprattutto ad Istanbul ha chiaramente messo in rilievo che il tanto osannato fallimento del golpe è stato invece l’inizio di un …

CAOS LIBIA, L’ITALIA SI SCUOTA

di Giuseppe Scanni | Alle 10,58 di ieri l’Ansa ha informato che: “sono 34 i combattenti delle milizie del maresciallo della Cirenaica, Khalifa Haftar, che si sono arresi alle forze del Governo di accordo nazionale di Tripoli. Lo riferisce una nota del comando della capitale secondo cui i combattenti si sono consegnati dopo gli scontri a sud di Tripoli, a pochi chilometri dall’aeroporto Mitiga. I combattenti del premier Fayez al-Serraj hanno preso possesso anche di diversi blindati. “Molti erano senza carburante, segnale che i rifornimenti non arrivano e che le milizie di Haftar sono state abbandonate”, si legge nella nota del comando di Tripoli.” I sei giorni di combattimenti nella battaglia hanno dimostrato che entrambi i fronti, quello che fa capo al premier del governo di Unità Nazionale, Fayez Sarraj, scelto dalla comunità internazionale perché è un politico, un civile e non un militare, e l’altro fronte, quello comandato da Khalifa Haftar, formato soprattutto da veterani dell’esercito di Gheddafi motivati dalla stanchezza per il caos provocato dallo strapotere delle milizie, si affrontano in scontri non convenzionali. Entrambi sono un amalgama di gruppi armati scoordinati, abituati alla guerriglia piuttosto che alla guerra, sebbene Haftar, possa contare a Bengasi su uno dei migliori generali libici, Osama Juheili di Zintan; non guastano certamente gli aiuti sauditi, degli emirati e dell’Egitto che preferiscono il militare di lungo corso Haftar a Sarraj soprattutto per il controllo che intendono esercitare sulle ricchezze minerarie del paese. Proprio perché Arabia Saudita e Emirati sono produttori, il controllo del prezzo del petrolio è molto importante. Ieri a mezzogiorno le Agenzie di stampa battevano:” le quotazioni del petrolio continuano a salire con l’escalation del conflitto in Libia e sull’onda delle accresciute tensioni in Iran con gli Usa. I contratti sul greggio Wti con scadenza a maggio guadagnano 17 centesimi a 64,57 dollari al barile. Il Brent sale fino a 71,16 dollari.” La caduta del prezzo del barile degli scorsi mesi, sceso addirittura a 50$, aveva messo in difficoltà la Russia, l’Iran ed i paesi arabi produttori. L’aumento costante di quest’ultima settimana è un ristoro che vale ben più di quanto investito per consentire ad Haftar di saldare la sua alleanza con i Warfallah, i Warshafannah, i volontari di Bani Walid, di Mizdah, la settima brigata di Tarhouna, coi quali ha attestato alcune truppe avanzate nell’area dell’aeroporto internazionale di Meitiga e Wadi Rabia, chiuso da cinque anni, ma utile per minacciare con mortai e missili Tripoli, ad appena 15 Km di distanza. Haftar contesta il mondo occidentale che, col riconoscimento delle Nazioni Unite, gratifica Sarraj come interlocutore istituzionale e relega lui al ruolo di capo delle Forze Armate dipendente dal potere civile. La debole interlocuzione di Sarraj è dovuta alla sua dipendenza, in quanto civile, dalla obbligata protezione delle milizie di Misurata; dal sostegno di una trentina di milizie islamiche tripoline legate al muftì Sadik al Ghariani; dall’appoggio politico e finanziario della Turchia e del Qatar, che giocano una partita estroversa del loro contezioso con i sauditi e gli iraniani. Le milizie di Misurata non intendono affrontare Haftar sino a quando questi non minaccerà Misurata, giudicando che non ha senso morire per Tripoli sino a quando Sarraj, l’Onu e l’Italia dichiareranno impossibile qualsiasi accordo con Haftar. Il che non è una contraddizione logica. Disarmato Haftar le uniche milizie armate resterebbero quelle di Misurata e del muftì Sadik al Ghariani, che condizionerebbero per un lungo periodo l’intera Libia. La diffidenza occidentale è seriamente allertata dai continui proclami degli imam legati a Sadik al Ghariani per la “guerra santa” contro Haftar e l’aiuto dei Fratelli Musulmani che spaventa l’Egitto. Intanto, nella tarda serata di lunedì, il premier Giuseppe Conte ha avuto un colloquio telefonico con il presidente del Consiglio presidenziale libico Fayez Serraj. A quanto appreso da Palazzo Chigi, Conte e Serraj hanno discusso della situazione nel Paese. Il presidente del Consiglio ha ribadito il no alla violenza e ha fatto appello alla fine del conflitto e alla ripresa del dialogo politico tra le parti.+ Una iniziativa di buona volontà che si scontra con l’ultimo bilancio degli scontri: 47 morti, 181 feriti e oltre 2.800 sfollati l’ultimo bilancio di cinque giorni di scontri a seguito dell’operazione militare lanciata dalle forze del generale Khalifa Haftar, soprannominata “Diluvio di dignità”, a cui il governo di accordo nazionale di Fayez al Sarraj ha risposto con la controffensiva definita “Vulcano di rabbia”. L’appello di Conte ad una tregua umanitaria si aggiunge a quelli della Comunità internazionale per il cessate il fuoco e per il ritorno al tavolo del negoziato. Le violenze hanno fatto annullare la Conferenza nazionale libica, organizzata dall’Onu per il 14-16 aprile a Ghadames con l’intento di arrivare a un accordo che metta fine alla divisione del Paese tra due governi e definisca una road map per arrivare alle elezioni e al referendum costituzionale. Due giorni or sono l’inviato Onu per la Libia, Ghassan Salamè, aveva ammesso che “tenere la conferenza in queste condizioni è dura”, ma aveva dichiarato “la volontà di tenerla come previsto a metà aprile” e ieri ha dovuto ammettere che “circostanze impellenti ci costringano a rinviarla”; l’inviato Onu ha ribadito che la missione delle Nazioni Unite non fugge e che “continua a lavorare da Tripoli”, pronta a garantire assistenza “in questo momento difficile e critico”. Sempre l’Onu ha rilanciato un appello rimasto inascoltato per una tregua umanitaria e il capo della diplomazia Ue, Federica Mogherini, ha anche invitato a evitare un’escalation e a riprendere il negoziato politico. Se possibile più duro il monito arrivato dagli Stati uniti, con il segretario di Stato, Mike Pompeo, che ha chiesto ad Haftar “l’immediata cessazione delle operazioni militari contro la capitale libica”, sottolineando che “non può esserci soluzione militare al conflitto in Libia”. Tuttavia il severo monito è stato in parte contraddetto dall’annuncio del comando Usa per l’Africa (Africom) del ritiro da Tripoli di un contingente di forze americane “in risposta alle condizioni di sicurezza”. La Russia, da più parti indicata come corresponsabile degli aiuti ad Haftar, ha tenuto a far sapere che mantiene …

IL FUTURO DELLA GRANDE TECNOLOGIA E LA MINACCIA MORTALE DEGLI EUROSCETTICI

The Economist Perché Big tech deve avere (davvero) paura dell’Europa (Traduzione a cura di Luca Angelini) Gli Stati Uniti hanno 15 delle 20 imprese tech di maggior valore al mondo, l’Europa solo una. Eppure, scrive l’Economist («Perché Big tech farebbe bene ad aver paura dell’Europa»), «se volete capire dove sta andando l’industria più potente del mondo, non guardate a Washington e alla California, ma a Bruxelles e Berlino». Per una volta, mentre l’America tergiversa (nonostante i proclami di Elizabeth Warren sul fare a pezzi Facebook), l’Europa agisce. Vedi l’ennesima multa miliardaria inflitta a Google dalla commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager. O le nuove regole in arrivo sul copyright. Soprattutto, «l’Ue è la pioniera di una nuova dottrina tech che punta a dare agli individui il controllo sulle proprie informazioni e sui profitti che ne derivano e a forzare le aziende tecnologiche ad aprirsi alla concorrenza. Se tale dottrina funziona, beneficerà milioni di utenti, darà una grande spinta all’economia e porrà limiti a giganti tech che hanno accumulato un enorme potere senza un corrispondente senso di responsabilità». E, alla faccia di chi sbeffeggia l’Europa come «deserto imprenditoriale e patria spirituale della burocrazia», il Vecchio Continente non solo ha delle idee, ma anche la forza per imporle, visto che è il blocco economico più grande al mondo e Google, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft ne ricavano almeno un quarto dei loro profitti. Inoltre è meno soggetta alle lobby (non avere giganti tech in casa aiuta) e più sensibile alla privacy, avendo esperienza diretta delle dittature. L’approccio europeo non punta a «spezzettare» i giganti o a trattarli come fornitori di servizi pubblici, ma a rendere gli utenti padroni dei propri dati (tanto da poterli trasferire da una piattaforma all’altra quando vogliono) e a impedire che Big tech si mangi i concorrenti, comprandosi ogni startup potenzialmente minacciosa. Non è detto che funzioni. L’Europa potrebbe restare isolata. Ma la California ha appena introdotto una legge simile al GDPR (la normativa Ue sulla privacy). Può essere un segnale. Financial Times E perché la minaccia mortale per l’Ue sono gli euroscettici che ci restano (Traduzione a cura di Gianluca Mercuri) A distruggere l’Unione europea non saranno gli euroscettici che l’hanno lasciata, ma quelli che sono rimasti. Non sarà il velleitarismo autolesionista di Boris Johnson, ma il cinismo lucido di Viktor Orbán. Simon Kuper è arrivato a questa conclusione dopo aver letto e ascoltato diversi esperti, e la argomenta con la consueta efficacia. La tattica degli euroscettici-restanti, spiega, è ormai consolidata: succhiare le risorse dell’Ue e disapplicarne le regole sgradite; fare incetta di sussidi e rifiutare le quote di migranti; sfruttare gli infiniti vantaggi del mercato unico e violare i fondamenti della liberaldemocrazia, come l’indipendenza del potere giudiziario e dell’informazione. Capita soprattutto all’Est, ma anche certe ambiguità dei Paesi fondatori ledono l’impalcatura: Francia e Italia, per esempio, non rispettano le regole di bilancio dell’eurozona ma possono indebitarsi a tassi d’interesse bassi perché ne fanno parte. L’attitudine al cherrypicking — a godersi i vantaggi e scansare gli svantaggi — è insomma diffusa. È quello che hanno fatto gli inglesi per 40 anni, salvo poi impazzire e uscire dalla stanza dei bottoni, condannandosi d’ora in poi — comunque vada il negoziato sulla Brexit — a subire la forza dell’Ue senza avere più una sedia al tavolo. Gli euroscettici-restanti hanno mandato Londra in avanscoperta, hanno visto il danno che si è inferta e ora non si sognano nemmeno di uscire: stanno dentro e si prendono quello che vogliono. L’Europa è un bancomat inesauribile e un alibi perfetto. Il mostro burocratico esiste solo nella propaganda sovranista, al punto che la Commissione Ue si rivolge sempre meno alla Corte di Giustizia contro le infrazioni. Il progetto federalista — il fantomatico «Superstato» — pare defunto, mentre il mercato unico colleziona successi, come gli accordi con Giappone e Canada. Kuper crede che abbia ragione Timoty Garton Ash: l’edificio europeo non crollerà di colpo, sta già crollando man mano che l’euroscettico-restante di turno sfila un mattoncino, cacciando dagli asili i figli dei migranti o non mettendo fuorilegge i sacchetti di plastica. «La morte dell’Ue potrebbe arrivare così gradualmente che forse non ce ne accorgeremo neanche». SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL MANIFESTO DI VENTOTENE

Ventotene, agosto 1941 I – LA CRISI DELLA CIVILTA’ MODERNA La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettino: 1) Si è affermato l’eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato nelle sue caratteristiche etniche geografiche linguistiche e storiche, doveva trovare nell’organismo statale, creato per proprio conto secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo. L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali. La nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini, che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana. E’ invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo “spazio vitale” territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti. In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l’efficenza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi; la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e dell’odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi ed a sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo. Gli stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente la unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all’odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere. 2) Si è affermato l’uguale diritto per i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere, o almeno di attenuare, molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dai regimi passati. Ma la libertà di stampa e di associazione e la progressiva estensione del suffragio rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo. I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi istrumenti per dare l’assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte speciali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle maggiori fortune, le esenzioni dei redditi minimi, e dei beni di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l’aumento delle spese di assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate cittadelle. Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all’uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell’uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari. D’altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.    Di fatto poi i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei …