A PAOLO ROSSI NOSTRO COMPAGNO

dai Diari di Nenni Alla università le cose si sono complicate. Lo studente Paolo Rossi è morto. Era un giovane socialista della sezione studentesca alla quale è iscritta anche Maria Vittoria. Ieri sera la facoltà di diritto era stata occupata dagli studenti antifascisti. Il rettore Papi, molto criticato per il suo atteggiamento complessivo, ha chiesto alla polizia di intervenire per lo sgombero: il che è avvenuto senza incidenti. Sulla morte del giovane Rossi corrono due versioni: che fosse stato bastonato e che sia caduto dal muricciolo dove si era rifugiato per un deliquio susseguente alle botte prese; che si tratti di una disgrazia pura e semplice. L’autopsia dovrebbe darci la chiave dell’enigma. Siamo comunque di fronte a un rifiorire di faziosità e intolleranza di destra che può avere gravi conseguenze. È ciò che ho telegrafato al padre del giovane Rossi e ai suoi compagni di gruppo. Stasera c’è stata alla università una grossa manifestazione di protesta. Ho ricevuto a Palazzo Chigi Codignola, Bertoldi, Marisa Rodano, Lelio Basso, Ingrao che erano preoccupati per possibili incidenti notturni in seguito alla occupazione di alcune facoltà. Si sono fatti eco di accuse, mi pare piuttosto fondate, contro il commissario di polizia del quartiere di San Lorenzo, sospettato di simpatie fasciste. Ho telefonato a Taviani e al capo della polizia che se, anche stanotte, il rettore chiede l’intervento della polizia per sgombrare la facoltà occupata lo invitino ad andare lui tra gli studenti, se ha l’autorità per farlo. Così è stato convenuto. Domani Taviani risponderà alla Camera e Gui al Senato alle interrogazioni sugli incidenti universitari. [Dai diari di Nenni 28 aprile 1966] …. Imponenti e commossi i funerali del giovane Paolo Rossi. Vi ho partecipato con l’animo doppiamente oppresso per il mio lutto e per la morte di un giovane che aveva davanti a sé tutta una vita da vivere. All’università il discorso commemorativo è stato tenuto da Walter Binni, ordinario della facoltà di lettere e durissimo con il rettore. E’ vero che l’autopsia ha confermato che la morte risale alla caduta dal muricciolo dove era salito. Ma la responsabilità morale non muta per questo. [Dai diari di Nenni 30 aprile 1966] Testimonianze Ero con Paolo Rossi quando sulle scalinate di Lettere alla Sapienza fu aggredito e ucciso dai fascisti. Aveva 19 anni. Poi conobbi il padre, pittore, che aveva fatto il partigiano nell’appennino umbro. Mi regalò questa foto (immagine di copertina ndr) che conservo con amore da più di 50 anni. [Prof. Franco Maria Fontana] UN ARTICOLO TRATTO DAL CORRIERE DELLA SERA di Vittorio Emiliani | Non è soltanto per affetto che va ricordato, a 50 anni dalla scomparsa, il ventenne studente di architettura Paolo Rossi, cattolico, non violento, iscritto alla Federazione Giovanile Socialista e all’Unione Goliardica, colpito con un pugno di ferro da aggressori fascisti alla Sapienza e poi precipitato da un muro alto cinque metri. Ma anche per rammentare a tanti giovani inconsapevoli quanto fu difficile conquistare negli Atenei, pur in pieno centrosinistra, spazi di libertà, di discussione pacifica. I genitori di Paolo, entrambi pittori, erano stati nella Resistenza trasmettendo ai figli quel messaggio. Non vollero sapere chi fossero gli autori di quel delitto certo non internazionale. Pretesero però che una sentenza spazzasse via (e così fu) le menzogne della Polizia che, rimasta a guardare l’ennesima aggressione «nera», aveva attribuito la morte ad una malattia del ragazzo (invece sanissimo, uno sportivo, un alpinista). Vergogna subito avallata da un rettore di antica fede mussoliniana, l’economista Giuseppe Ugo Papi, che stava tollerando una serie agghiacciante di atti squadristici, il letterato Walter Binni non volle neppure pronunciarne il nome nell’appassionata orazione funebre, mentre 51 professori di ruolo offrirono al presidente della Repubblica le loro cattedre rifiutandosi di insegnare «in un’atmosfera appestata dal teppismo tollerato e quindi indirettamente istigato», scrisse un anno dopo Bruno Zevi, «dalle massime autorità accademiche». «La mia unica colpa è quella di aver combattuto, sempre, i docenti di sinistra», protestò protervo Papi quando fu rimosso. I funerali furono imponenti. Vicino ai famigliari, Pietro Nenni al quale i lager nazisti avevano portato via la figlia «Vivà». Ferruccio Parri aveva parlato al sit-in degli studenti che si apprestavano ad occupare Lettere e altre facoltà rischiando l’espulsione da tutti gli Atenei. Anche Paolo VI ebbe parole commosse di cordoglio. Nell’ultima fotografia si vede chiaramente Paolo trattenere un compagno che vuol reagire duramente alla violenza squadrista. Alcuni degli aggressori dovevano essere implicati, tre anni più tardi, nelle «trame nere» con le quali si cercò di scardinare lo Stato democratico. Anche per questo Paolo Rossi non va dimenticato. Anzi andrà ricordato, con passione civile ogni 27 aprile, almeno con un fiore, primo caduto di una nuova Resistenza romana. Fonte: Corriere della Sera Paolo Rossi è ricordato nella canzone Giulio Cesare di Antonello Venditti, in cui una strofa recita, in riferimento all’anno 1966, “…Paolo Rossi era un ragazzo come noi”. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

AMILCARE CIPRIANI

di Marco Sassi | Era il 2 maggio 1918 quando Amilcare Cipriani, dopo una lunga, rocambolesca, sofferente e onestissima esistenza, lasciò questo mondo. Da qualche tempo si era dissipata quella forza fisica che lo aveva accompagnato durante tutta l’incredibile vita – incredibile per davvero perché, in alcuni casi, andò oltre ogni limite del possibile –, e la spola tra la piccola abitazione parigina, una piccola tana piena di libri e giornali alle pendici di Montmartre, e l’ospedale si era fatta sempre più frequente. L’ultimo ricovero alla casa di salute Dubois, in un popolare quartiere della capitale francese, fu dovuto ad un attacco che dapprima parve essere leggero ma che invece non gli diede scampo. Aveva guardato fin troppe volte la morte in faccia, ora era arrivato il momento giusto per cedere alle sue insistenze. E stanotte si è spento; lieve come un soffio, la morte è passata sulla esigua fiamma che attestava ancora, in un gigantesco corpo in sfacelo, la più generosa delle anime – si leggerà il giorno successivo al decesso sulle colonne di uno dei maggiori quotidiani italiani. Morì quasi solo, pochi gli amici rimasti al suo fianco; i più se n’erano andati già da tempo, gli altri gli voltarono le spalle dopo la sua scelta interventista mai compresa e che, con troppa leggerezza, avevano accostato a quella mussoliniana. Niente di più sbagliato. Cipriani con Mussolini aveva ormai solo una cosa in comune, il nome. Il padre del futuro dittatore, per omaggiare uno dei suoi grandi miti contemporanei, al momento della nascita diede infatti al figlio, come secondo nome, quello di Cipriani: Amilcare. Ma chi fu realmente Cipriani? A questa domanda è forse impossibile rispondere. Non lo era troppo chiaro neppure ai suoi contemporanei. Le risposte sono troppe e in contraddizione, ebbe a dire Luigi Cesana all’epoca direttore de «Il Messaggero». Nato ad Anzio nel 1843 ma trasferitosi a Rimini a pochi mesi, era stato fin da ragazzino – e sempre lo rimase – un convinto garibaldino. Con l’Eroe condivise diversi campi di battaglia, dalla Sicilia al Tirolo, e con ogni probabilità i Vosgi. Dopo i fatti d’Aspromonte fu costretto a fuggire dall’Italia perché agli occhi della monarchia sabauda era solo un disertore da catturare, e dunque s’imbarcò per la Grecia dove partecipò ad una rivoluzione contro la casa reale. Da qui fuggì nuovamente approdando ad Alessandria d’Egitto, dando vita a diverse Società di mutuo soccorso di stampo mazziniano. Mazzini lo conobbe qualche anno più tardi, a Londra, dove si era rifugiato quando fu costretto a lasciare l’Egitto per un triplice omicidio commesso per legittima difesa e ne fu amico e seguace, per poi allontanarsi. Cipriani era più uomo d’azione che di trame e filosofie, e prediligeva il campo di battaglia all’organizzazione politica. A Londra incontrò sia Marx che Bakunin, fece molte letture, si avvicinò all’internazionalismo oscillando tra il pensiero anarchico e quello socialista ateo e rivoluzionario e poi, di punto in bianco, fece armi e bagagli per dirigersi a Parigi ed unirsi alla Comune. Fu tra i protagonisti di quella meravigliosa esperienza come colonnello di Place Vendôme e, al suo termine, venne arrestato rimanendo però miracolosamente in vita al bagno di sangue che seguì. Aveva già la bara pronta, ma la pena di morte venne commutata in lavori forzati in Nuova Caledonia, dove rimase otto anni. Dall’esperienza comunarda e dalla successiva pena in Oceania, il suo nome esplose nel mondo libertario e in esso, in seguito, si riconobbero in tanti, anarchici, socialisti, comunisti, parlamentaristi e antiparlamentaristi. Perché, come si diceva, lui fu un po’ tutto questo, difficilmente collocabile con precisione in una corrente politica univoca. Ma non fece in tempo a godersi la libertà, perché subito dopo la liberazione ecco che nuovamente venne arrestato, questa volta in Italia e per cospirazione contro lo Stato, ma non si trovarono prove schiaccianti per tenerlo alle catene e così, vigliaccamente,venne rispolverato quel triplice omicidio di tanti prima. Condannato ad una pena di venticinque anni, venne destinato al temuto carcere di Portolongone, dove l’intenzione era quella di fare impazzire il prigioniero applicando, senza alcuna umanità, un regolamento rigidissimo e insopportabile. Lui, però, riuscì ancora a farcela. Uscì da quel bagno penale dopo otto anni, anni in cui all’esterno in tanti si batterono per lui, intellettuali e persone del popolo, lo candidarono anche diverse volte come deputato alla Camera nelle file socialiste. E fu anche eletto, certamente, ma le porte del carcere rimasero chiuse fino a che, l’odiatissimo Umberto I – e ricordiamoci che Cipriani anni dopo scrisse un pamphlet in difesa di Gaetano Bresci – firmò la grazia. Una grazia che il prigioniero si era sempre rifiutato di chiedere. Di questa carcerazione, che fece il giro d’Europa e se ne parlò su quasi tutti i giornali dell’epoca, ci ha lasciato un diario preciso, una testimonianza preziosa per comprendere le condizioni di un detenuto politico di quel tempo. Un diario pubblicato a puntate nel 1888 su circa sessanta numeri de «Il Messaggero» e che ora ho riunito nella seconda parte del mio recentissimo libro Amilcare Cipriani il rivoluzionario, edito da Bookstones Edizioni. La prima è dedicata invece alla sua biografia, ricca, movimentata, a volte tragica e dove, più che il Cipriani politico si vuole indagare il Cipriani uomo, perché in lui i due aspetti sono una cosa sola. È questa un’occasione per ricordare uno degli eroi d’Italia oggi dimenticati, quell’eroe che, come ha scritto Vittorio Emiliani nella Prefazione a questo libro era alto, bello, elegante nel portamento, coraggioso e forte in modo leggendario. Un combattente senza paura, pronto a sacrificarsi per la libertà dei popoli oppressi, rischiando sovente la vita. MARCO SASSI, Amilcare Cipriani il rivoluzionario, Bookstones Edizioni 2019, pp. 324. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ANDREA COSTA

Fu uno dei fondatori del socialismo italiano. Si laureò in lettere all’Università di Bologna, in cui ebbe come compagno Pascoli. Ventenne, inizia la sua attività politica nel 1871, divenendo in breve tempo uno dei dirigenti della federazione italiana della Prima Internazionale, per l’attrazione subita dalle idee anarchiche di Bakunin, di cui divenne segretario. Dedicandosi alla propaganda politica e fondando il “Fascio operaio” prima, e il “Martello” poi. Arrestato per l’insurrezione di Bologna (marzo 1873) di cui ne fu il principale organizzatore, due anni dopo nel 1876 fu rilasciato dopo il processo. Andrea Costa in carcere. L’adunanza preliminare del congresso (nazionale di Bologna), che ebbe luogo la mattina del 16 marzo (1873), passò liscia liscia. La polizia non aveva dato segno alcuno di vita, e noi cominciavamo a sperare ormai che il congresso potesse aver luogo tranquillamente, quando, la sera del 16, uno stuolo di agenti di polizia, di guardie e di carabinieri invase la sede della Federazione socialista di Bologna, ove parecchi di noi ci trovavamo, e trasse tutti in arresto. La Federazione socialista aveva allora la sua sede al disopra dei Caffé del Comunale. Per il Caffé, che fu fatto chiudere, la polizia salì alle stanze superiori; e qualche amico ebbe, appena, il tempo di gridare «Le guardie!», che già le guardie ci erano addosso. Quella invasione tuttavia non ci turbò. In questura l’interrogatorio, a cui mi sottoposero, fu assai breve: nome, cognome, condizione, se apparteneva all’Internazionale, se aveva in essa qualche ufficio, e così via. Finito l’interrogatorio, mi condussero al Torrione, che era allora il peggiore carcere di Bologna; e mi lasciarono nelle mani paterne dei guardiani; i quali, dopo una minutissima perquisizione addosso, fattisi precedere da uno «scopino », che portava un saccone di paglia ed una coperta, mi rinchiusero finalmente nella « segreta », che mi era destinata, augurandomi la buona notte. Andrea Costa (dall’Autobiografia). Cittadini Giurati! «Le idee che voi professate, diceva il P.M., sono contrarie al senso comune; voi avete senso comune; dunque, professandole, siete in mala fede». Sì, Pubblico Ministero, se le idee che noi professiamo fossero quelle che voi esponeste, avreste ragione di chiamarci pazzi o malvagi: ma voi sapete per primo che quelle idee non le professiamo, e male vi opponeste quando credeste si ridesse di noi alla esposizione poco felice e poco originale di ciò che chiamavate i principii dell’internazionale! Non si rideva di noi, perché le idee nostre sono abbastanza conosciute e voi le avete fatte conoscere maggiormente; ma si rideva di voi, che tenevate e Giurati e Difensori e Cittadini tutti tanto ingenui da credere per un momento, che noi potessimo professare le idee da voi esposte. Quella accusa di mala fede o P. M., non giunge fino a noi. “Giù la maschera”, diceva il P.M. – Noi, non vogliamo ritorcere contro di voi, questo grido, perché noi che secondo voi non crediamo in nulla, crediamo pur sempre nella integrità della natura umana; e questo grido facciamo conto di non aver udito, per non ritorcerlo contro di voi. «Voi volete distruggere la scienza”. Sì, la scienza che mette il mondo creato da seimila anni; la scienza che mandava al rogo Giordano Bruno, la scienza che torturava Galileo, la scienza vostra che tiene per disonesti coloro che non credono, questa scienza non siamo noi che vogliamo distruggerla: essa è già morta. Ma la scienza nuova, dei progresso, della luce, la scienza che ha atterrati i vecchi idoli e i vecchi pregiudizi e che atterrerà per la sua efficacia i vecchi privilegi, di quella scienza noi siamo modesti sì, ma appassionati cultori, ed è nostro vanto applicarla al sistema sociale, e da essa attingiamo la nostra forza. «Voi non avete fede!» replicò il P.M. E come sopporteremmo allora calmi e tranquilli le vostre ingiurie, le vostre carceri, i vostri birri e le continue vessazioni alle quali siamo esposti se non avessimo fede profonda nella giustizia delle rivendicazioni sociali per le quali ci adoperiamo? Via dunque, queste accuse di voi indegne, dettate da odio partigiano… E con questo, cittadini giurati, ho finito. La coscienza popolare che voi rappresentate si è già abbastanza. manifestata. Che, se nonostante tutto questo, voi doveste condannarci, noi non ci appelleremo ad una Corte di Cassazione del Regno; noi ci appelleremo invece ad un tribunale ben più severo e formidabile, un tribunale, o cittadini, che deve un giorno giudicare noi imputati, e voi giudici: noi ci appelleremo all’avvenire ed alla Storia! Andrea Costa (dall’autodifesa al processo di Bologna del 1876). Nel giugno dello stesso anno dirige il giornale “Il Martello”, ma nel maggio del 1877 scoppiati nuovi tumulti insurrezionali a San Lupo di Benevento, per sfuggire alla repressione è costretto a lasciare l’Italia e riparare prima in Svizzera, poi in Francia. In Svizzera conosce e si lega ad Anna Kuliscioff. Nell’esilio matura, abbandona l’anarchismo e inizia a superare quella concezione ribellistica e antilegalitaria della lotta politica. Nel 1880 fonda la “Rivista internazionale del socialismo”, più tardi (1881) nasce l’Avanti! non ancora quotidiano ma settimanale. Quando torna in Italia quattro anni dopo, nel 1882, alla creazione del partito socialista rivoluzionario, relega l’anarchia, perché ritiene essere importante le lotte nell’agone politico per un cambiamento del sistema elettorale e per varare collegialmente con gli altri partiti le riforme necessarie all’Italia. Fu dunque tra i primi protagonisti della diffusione delle organizzazioni socialiste, anche se con il maturare del movimento vide la sua linea un po’ romantica perdere terreno, pur restando un chiaro punto di riferimento dei socialisti riformisti. Nel 1882 è lui il primo socialista ad entrare in Parlamento, nella quale sedette – salvo una breve interruzione dal ’93 al ’95- fino all’anno della sua morte. Nelle sue battaglie politiche fu un tenace oppositore delle politica coloniale del governo Crispi, della repressione poliziesca e dell’autoritarismo umbertino. Nel 1892 dopo aver stretto rapporti con Bissolati e la lega socialista milanese partecipa a Genova al congresso di fondazione del Partito dei Lavoratori, (poi Partito Socialista Italiano). Anche lui come Bissolati sarà al centro della repressione dopo i fatti del 1898 a Milano …

RANIERO PANZIERI

RANIERO PANZIERI – 9 OTTOBRE 1964 Se un uomo come Panzieri restò nel PSI anche nella fase della maggiore “comunistizzazione e stalinizzazione” di questo partito è perché nel PSI aleggiava una storia nella quale la LIBERTA’ (la libertà di ricerca, la libertà politica, la libertà del cittadino) aveva sempre avuto un peso straordinario. [Emanuele Macaluso] Raniero Panzieri nacque a Roma il 14 febbraio 1921 da Alfredo e da Ines Musatti. Dopo aver terminato gli studi medi superiori al liceo Mamiani, nel 1940 si iscrisse al Pontificium institutum utriusque iuris, non potendo frequentare le università pubbliche, in quanto proveniente da una famiglia ebraica, a causa delle leggi razziali emanate dal 1938. Dopo l’8 settembre 1943 si rifugiò nella basilica di San Giovanni in Laterano e, alla liberazione di Roma (4-5 giugno 1944), iscrittosi al Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), iniziò a lavorare al Centro studi socialisti, avvicinandosi progressivamente alle posizioni della corrente di sinistra guidata da Rodolfo Morandi. Sostenuti tutti gli esami presso il Pontificium institutum, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Urbino, dove il 30 ottobre 1945 si laureò con Arturo Massolo con la tesi L’utopia rivoluzionaria nel Settecento. Il «Code de la Nature» (1755). Nel marzo 1946 cominciò la collaborazione con l’Istituto di studi socialisti diretto da Morandi, che lo chiamò a far parte della segreteria di redazione della rivista Socialismo. Nel settembre dello stesso anno fu inviato a Bari a svolgere lavoro politico presso la locale federazione del PSIUP, guidata da Ernesto De Martino: l’incontro con l’antropologo, nonostante i contrasti sorti, fu all’origine dell’interesse di Panzieri per il mondo delle classi subalterne e per i temi di quella che successivamente sarà definita «inchiesta operaia». Nel mese di gennaio del 1948 intervenne al XXVI congresso del Partito socialista italiano (PSI), tenutosi a Roma, schierandosi a favore della costituzione delle liste del Fronte popolare. Dopo le elezioni del 18 aprile, vinte dalla Democrazia cristiana (DC), aderì alla mozione della sinistra, guidata da Pietro Nenni e Morandi, che si trovò però in minoranza al congresso di Genova. Per Panzieri, la duplice sconfitta aprì un periodo di grave incertezza sul proprio futuro politico, che lo portò a meditare se iscriversi al Partito comunista italiano (PCI). Nel settembre 1948 sposò Giuseppina (detta Pucci) Saija – da cui ebbe tre figli: Susanna, Davide e Daniele – e, alla fine dell’anno, grazie a Galvano Della Volpe, ottenne l’incarico, che tenne per tre anni, di filosofia del diritto alla facoltà di lettere dell’Università di Messina. Nell’estate 1949, dopo il congresso socialista di Firenze, che riportò la sinistra alla maggioranza, assunse in Sicilia incarichi di direzione politica e, nel marzo 1950, guidò l’occupazione delle terre sui monti Nebrodi (l’anno seguente fu processato e assolto): Panzierì definì questa esperienza come il proprio «punto di Archimede» nella ricerca di una rinnovata identità socialista avente come obiettivo la «rivoluzione democratica» (L’alternativa socialista, 1982, pp. 133 s.). Nel gennaio 1951 partecipò, come delegato della Federazione di Messina, al XXIX congresso nazionale del PSI, tenutosi a Bologna e, su proposta di Nenni, fu eletto membro del Comitato centrale e della Direzione e, pochi mesi dopo, fu nominato segretario regionale in Sicilia. Nell’aprile 1953 assunse l’incarico di responsabile nazionale della stampa e della propaganda (lasciato nel maggio 1955, quando passò alla guida del settore culturale), opponendosi senza successo all’allontanamento di Gianni Bosio, da parte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli con l’accordo della Commissione culturale del PCI, dalla direzione della rivista Movimento Operaio. Nel luglio dello stesso anno uscirono, per le Edizioni Rinascita, i due volumi del libro II del Capitale di Karl Marx, tradotti dalla moglie Giuseppina in collaborazione con Panzieri stesso (seguirono le traduzioni della Situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels e, per le Edizioni Avanti!, della Critica del programma di Gotha di Marx). In quel periodo curò l’organizzazione di alcuni importanti convegni: in difesa del cinema italiano (Venezia, settembre 1954) e sulla libertà della cultura (Bologna, settembre 1954). Quest’ultima iniziativa si concluse con una sessione del Comitato centrale del PSI sul medesimo tema, nel corso del quale Panzieri svolse la relazione principale sottolineando l’inadeguatezza della cultura di sinistra nel comprendere le trasformazioni della società italiana. Panzieri promosse inoltre il convegno su Rocco Scotellaro nel primo anniversario della morte (Matera, febbraio 1955, con la partecipazione di Franco Fortini e Carlo Levi). Anche attraverso questi convegni, Panzieri riuscì a creare una rete di intellettuali che, semplificando, si potrebbero definire «marxisti critici» o appartenenti alla tradizione del «socialismo di sinistra». Nel settembre-ottobre 1955 fece parte della delegazione del PSI guidata da Nenni che compì un viaggio nella Repubblica popolare cinese, e incontrò Mao Zedong. Nell’aprile 1956 fu uno dei fondatori dell’Istituto Rodolfo Morandi, con lo scopo di pubblicare gli scritti del vicesegretario del PSI, morto l’anno precedente. Di fronte all’invasione sovietica dell’Ungheria, nel suo discorso al Comitato centrale del 16 novembre 1956 condannò l’intervento, ma criticò l’identificazione tra stalinismo e comunismo compiuta da Riccardo Lombardi. Per Panzieri, infatti, lo stalinismo, anticipando la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto allo sviluppo effettivo delle forze produttive, aveva attuato la separazione di fatto del controllo dei mezzi di produzione dai produttori. La soluzione della crisi richiedeva quindi, attraverso il recupero di tutta la tematica consiliare del Gramsci dell’Ordine Nuovo e del giovane Morandi, il ritorno del movimento operaio alla sua autonomia, attraverso la creazione di nuove forme di democrazia diretta sul piano delle strutture produttive. Sul piano internazionale Panzieri respingeva completamente la concezione dello Stato-guida, attraverso una ripresa dei temi dell’internazionalismo proletario, con una particolare attenzione agli sviluppi della rivoluzione cinese e ai fenomeni di decolonizzazione. Nel gennaio 1957 svolse la relazione introduttiva e le conclusioni al convegno Azione politica e culturale, tenutosi al circolo Carlo Pisacane di Roma, riaffermando il rifiuto della partiticità della cultura intesa come direzione burocratica che riduce la ricerca culturale a strumento tattico dell’azione politica. L’attenzione per questi temi, nell’ottica della morandiana «politica unitaria» (cioè dell’unità di classe dei lavoratori), costituì il filo rosso degli ultimi anni di impegno politico (e di vita) di Panzieri. Al …

CALOGERO CANGELOSI

Calogero Cangelosi, 41 anni, esponente del Partito Socialista Italiano e segretario della Camera del lavoro di Camporeale, in provincia di Palermo, viene assassinato il 1° aprile 1948. Quella sera si incontra con altri compagni sindacalisti per decidere come agire in vista delle elezioni del 18 aprile seguente: la «povera gente» vuole finalmente dare una lezione ai «lorsignori», i padroni del feudo. Ma proprio per questa e per altre iniziative scomode Calogero è da tempo nel mirino della mafia. Non è infatti per cortesia che Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli, finita la riunione, si offrono di accompagnare a casa il loro dirigente sindacale. Vogliono proteggerlo, ma purtroppo non è sufficiente. Sono quasi arrivati, quando dall’angolo della strada dove Cangelosi abita con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli (Francesca, 11 anni, Giuseppe, 5, Michela, 3 e Vita, appena 2 mesi), si sente un crepitare di mitra. Decine di colpi ad altezza uomo si abbattono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangelosi cade per terra, spirando all’istante. Anche Liotta e Di Salvo vengono feriti gravemente. Rimangono invece illesi Calandra e Natoli. Sono le 22.30. Il corpo di Calogero viene trasportato a casa del suocero e qui i carabinieri usciti per l’emergenza si raccomandano di non spostarlo fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Passano ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degni di mettere piede in paese. Quando è finalmente possibile celebrare i funerali, in mezzo ai contadini del paese e ai familiari c’è anche il segretario nazionale del Psi, Pietro Nenni, venuto a onorare il compagno di partito, trentaseiesimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra. Per quest’omicidio, la giustizia non riesce nemmeno a imbastire un processo. Tutti pensano che a dare l’ordine di morte sia stato il proprietario terriero Serafino Sciortino, e che a sparare ci abbiano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi picciotti, eppure gli inquirenti decidono di procedere contro ignoti. Di lì a poco, sulla vicenda cade il silenzio. Dopo la morte di Calogero Cangelosi alle elezioni del 18 aprile il Fronte democratico popolare, composto dal Psi e dal Pci, viene sconfitto in tutta la Sicilia, tranne a Camporeale, dove ottiene ancora più voti che nelle regionali del 1947. La ricostruzione Era la sera del 1° aprile 1948. Non faceva più freddo e la piazza di Camporeale pullulava di contadini, che discutevano animatamente tra loro. In quei giorni, l’argomento era sempre lo stesso: le elezioni politiche del 18 aprile e la «lezione» che la povera gente avrebbe potuto dare a “lorsignori“, i padroni del feudo. Anche alla Camera del lavoro quella sera si era tanto parlato di questo, insieme alle lotte da organizzare per l’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e 40 e sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e malcoltivate degli agrari. Poi, Calogero Cangelosi, quarantunenne segretario della Cgil, guardò l’orologio, si accorse che si era fatto tardi e salutò i presenti per tornare a casa. «Calogero, aspetta che ti accompagniamo noi», gli dissero Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Il loro non fu un gesto di cortesia, ma un modo per proteggere il dirigente sindacale, che era nel mirino della mafia. L’offerta di una «scorta», insomma. Tutti e cinque uscirono dalla sede della Camera del lavoro, che si trovava in piazza, e si avviarono verso via Perosi, dove Cangelosi abitava con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli: Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. Erano quasi arrivati, quando dalla parte alta di via Minghetti, che faceva angolo con via Perosi, si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione e ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangelosi cadde per terra, spirando all’istante. Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero, invece, Calandra e Natoli. Erano le 22.30. Il rumore degli spari attirò tanta gente. Qualcuno capì quello che era accaduto ed andò di corsa a chiamare i cognati del sindacalista ucciso e i parenti dei due feriti. Questi ultimi furono trasportati all’ospedale, mentre Cangelosi fu portato nella casa del suocero. La moglie Francesca stava allattando la piccola Vita, seduta su una seggiola, quando arrivò un fratello a chiamarla. Immediatamente lasciò la neonata ad una vicina di casa e corse a casa del padre. Calogero era stato sdraiato sul letto, col corpo crivellato dai proiettili. Urla, scene di disperazione. Poi arrivarono i carabinieri, fecero le domande di rito e raccomandarono di non toccare il cadavere fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Allora Camporeale faceva ancora parte della provincia di Trapani e passarono ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degnasse di mettere piede in paese. «Nel mentre mio marito era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile », avrebbe poi raccontato la moglie. Finalmente si poterono svolgere i funerali, a cui parteciparono tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari di Cangelosi c’era anche il segretario nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni, venuto ad onorare il suo compagno di partito, 36esimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra. Il 35esimo era stato Placido Rizzotto a Corleone (10 marzo) e il 34° Epifanio Li Puma a Petralia Sottana (2 marzo). Disperazione e rabbia si toccavano con mano. Erano palpabili. «La sera del 16 aprile ’48 – racconta Nicola Cipolla, uno dei capi contadini siciliani di quel periodo – al comizio di chiusura della campagna elettorale, i mafiosi scomparvero tutti dalla piazza per paura dei contadini». Ed accadde un «miracolo»: il 18 aprile il «Fronte Democratico Popolare», composto dal Psi e dal Pci, fu sconfitto in tutta la Sicilia, ma non a Camporeale, dove ottenne ancora più voti delle regionali del ’47. Fu l’ultimo regalo di Calogero Cangelosi ai suoi contadini. …

GIUSEPPE SARAGAT

Giuseppe Saragat nasce il 19 settembre 1898 a Torino. La famiglia di origine sarda è di stirpe catalana. Aderisce come simpatizzante al neonato partito socialista. Fin da giovane è su posizioni riformiste, la stessa corrente degli storici padri del socialismo nazionale tra cui Filippo Turati, Claudio Treves, Andrea Modigliani, Camillo Prampolini e Ludovico D’Aragona. Volontario nella prima guerra mondiale prima come soldato semplice e poi come ufficiale viene stato decorato con la croce di guerra. Nel 1922 si iscrive all’allora Partito Socialista unitario e tre anni dopo entra nella sua direzione. L’avvento del fascismo e della dittatura mussoliniana vedono il quasi trentenne Saragat collocarsi all’opposizione del nuovo regime ed imboccare la via dell’esilio: prima l’Austria e poi la Francia dove incontrerà e collaborerà con tutti i massimi esponenti dell’antifascismo in esilio: da Giorgio Amendola a Pietro Nenni. È in questo clima e alla luce di molte corrispondenze che gli giungono dalla Spagna, dove è in corso la guerra civile, che matura una profonda avversione per il comunismo sovietico e per ogni sua “propaggine” occidentale. Di converso comincia ad abbracciare il filone socialdemocratico nordeuropeo figlio della II Internazionale. La posizione saragattiana antisovietica fu assai lungimirante e poi confermata, nell’ultimo decennio del Novecento, dagli stessi avvenimenti storici, ma non altrettanto lungimirante fu l’accettazione acritica delle posizioni secondointernazionaliste che erano state travolte dalla Prima Guerra Mondiale e dal lungo primo dopoguerra che aveva visto, anche a causa della debolezza della sinistra fortemente divisa tra massimalisti leninisti e riformisti socialdemocratici, la genesi e l’instaurarsi in Europa delle dittature fasciste e nazista. Dopo la caduta di Mussolini Giuseppe Saragat ritorna in Italia e, con Pietro Nenni e Lelio Basso, riunifica tutte le correnti socialiste dando origine al Partito Socialista di Unità Proletaria (Psiup) in cui, come in tutta la tradizione socialista, conviveranno sia le istanze riformiste, sia quelle massimaliste senza trovare, e anche questo fa parte della tradizione del socialismo italiano, un punto di sintesi e di accordo. Nel II Governo guidato dal “demolaburista” Ivanoe Bonomi, Saragat è Ministro senza portafoglio. Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente i socialisti sono, con oltre il 20 % dei suffragi, il secondo partito italiano alle spalle della Democrazia Cristiana e superano per pochi voti i comunisti del Pci di Palmiro Togliatti. In quanto seconda forza politica della penisola, al partito del sol dell’avvenire va la presidenza dell’Assemblea Costituente, e Nenni, entrato nel frattempo nel Governo guidato dal democristiano Alcide De Gasperi (Dc), indica Giuseppe Saragat come candidato socialista per ricoprire tale carica e il leader riformista viene eletto con la convergenza di tutti i partiti antifascisti (Dc, Pci, Psiup, Pri, Pd’A, Udn, Pli) che costituivano i governi di unità nazionale. Ma è proprio in questi mesi che l’ennesima e insanabile rottura tra i due tronconi del socialismo italiano: da un lato il sanguigno e “popolare” Pietro Nenni si batte per una stretta collaborazione con i comunisti (fino a ipotizzare una unificazione dei due partiti della sinistra) e per una scelta neutralista sul piano internazionale, dall’altra parte il colto e raffinato Giuseppe Saragat, che si ispira ai modelli scandinavi, si oppone strenuamente a tale ipotesi. Le fratture in casa socialista, seguendo la peggiore tradizione, sono sempre insanabili e nel gennaio 1947 Giuseppe Saragat abbandona il Psiup con gli uomini a lui fedeli e dà vita ad un partito socialista moderato e riformista (che sarà per anni l’unico referente italiano del rinato Internazionale Socialista), il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli). Tale partito pochi anni dopo, con l’unificazione con la piccola pattuglia dei membri del Partito Socialista Unificato (Psu) dell’ex ministro Giuseppe Romita, assumerà definitivamente il nome di Partito Socialista Democratico Italiano (Psdi) di cui Giuseppe Saragat sarà unico leader. Il partito socialdemocratico assumerà ben presto posizioni molto moderate e filoatlantiche in contrasto con tutti gli altri partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti d’Europa. Su 115 deputati socialisti eletti nel 1946 ben 52 se ne vanno con Saragat che, pur non riuscendo mai a conquistare il cuore della “base” socialista riuscirà a portare nella sua orbita sindacalisti, giornalisti e intellettuali che ritorneranno nel Psi solo nella seconda metà degli anni ’60: in questa fase di fine anni ’40 il movimento socialista si trovava in una peculiare e paradossale situazione per cui Nenni e il Psi avevano i voti e i militanti, Saragat e il Psdi la classe dirigente e i quadri intermedi. Simultaneamente all’assunzione della guida della nuova creatura politica, Saragat abbandona la guida di Montecitorio alla cui presidenza viene eletto il comunista Umberto Terracini a cui spetterà l’onore di tenere a battesimo, insieme al Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (Dc) ed al Guardasigilli Giuseppe Grassi (Pli), la nostra Costituzione repubblicana. Nella primavera del 1947 De Gasperi si reca negli Usa ed al rientro estromette comunisti e socialisti dal governo varando una formula di governo quadripartito centrista composta, oltre che dalla Dc, dai repubblicani di Pacciardi (Pri), dai liberali di Einaudi (Pli) e dai socialdemocratici di Saragat (Psli) che assumerà la Vicepresidenza del Consiglio dei Ministri. È la svolta moderata nella politica italiana che verrà confermata dalle urne il 18 aprile 1948 quando al Democrazia Cristiana sconfiggerà duramente con il 48,8 % dei voti, il Fronte Democratico Popolare, la lista unitaria della sinistra composta, per volontà di Nenni, dal Pci, dal Psi e da alcuni ex esponenti del Partito d’Azione, che si fermerà ad uno scarso 32 % dei consensi. In questa competizione elettorale Giuseppe Saragat si presenterà alla guida di una lista, composta dal suo Psli e da alcuni ex membri del Partito d’Azione che non avevano aderito al tandem Togliatti-Nenni, con il nome di Unità Socialista conquistando un eccellente 7 % di voti: è questo il più alto risultato mai conseguito dai socialisti riformisti. Durante la prima legislatura i saragattiani, contro i quali si scateneranno l’ira e le accuse di tradimento della classe operaia dei comunisti, parteciperanno ai governi egemonizzati dalla Dc, ricoprendo, al pari delle altre forze laiche (Pli e Pri) un ruolo di comprimari, tanto che nel nuovo …

LA NASCITA DEL PSI

La nascita del PSI: ragioni e significato La data di nascita del PSI è ben impressa nella memoria di molti socialisti e non socialisti: il 15 agosto 1892. Il luogo di nascita dovrebbe essere altrettanto conosciuto, ma a volte si fa confusione su di esso. Molti ritengono che sia a Genova, nella sala Sivori. Sbagliandosi, perché alla sala Sivori fu consumata la separazione tra anarchici e socialisti. Il nuovo partito, che non aveva ancora la denominazione di Partito socialista italiano, fu fondato invece il giorno successivo nella sala dei “Carabinieri genovesi”, il corpo dei fucilieri garibaldini. Si è voluto ravvisare, da più parti, quasi un significato simbolico in questa coincidenza, un trait d’union tra la tradizione risorgimentale impersonata dall’esponente di essa più sensibile alle istanze del socialismo nascente e le idealità del sorgente partito dei lavoratori Italiani. Senza dubbio qualche tratto di continuità c’è stato, specie se si fa riferimento ai numerosi garibaldini, e allo stesso Garibaldi, che si erano proclamati socialisti ben prima della nascita del partito. O anche ad alcuni “protosocialisti” di fede mazziniana, quali Carlo Bianco di Saint-Jorioz, oppure a un Carlo De Cristoforis, o allo stesso Pisacane.(1) Fisicamente, uomini di tradizione risorgimentale, tra i fondatori del partito, era possibile rintracciarne ben pochi. Erano, per la maggior parte, umili operai ed anche intellettuali di idee socialiste, troppo giovani per aver preso parte al moto risorgimentale. Tra essi, il gruppo di “Critica Sociale” che aveva da qualche tempo iniziato a far circolare in Italia le idee marxiste che rapidamente si stavano diffondendo, contrassegnando incontrovertibilmente l’identità ideologica del movimento. Un compito analogo si era assunto da parte sua Antonio Labriola, tuttavia assente a Genova perché critico verso l’impostazione che veniva data al nuovo partito. Esisteva un rapporto ideale tra il moto risorgimentale e quello di emancipazione dei lavoratori. C’erano però ben due ragioni storiche a distaccare da quel moto quest’esperienza dell’organizzazione che muoveva i suoi primi passi, per divenire ben presto adulta e protagonista della vita sociale e politica del paese. La prima risiedeva nel fatto che mentre il Risorgimento era stato, per sua natura e ragione storica, dominato dalla “questione nazionale”, la nascita del partito dei lavoratori era il risultato di un’altrettanto legittima ragione storica di segno diverso, quella che faceva assumere priorità assoluta alla “questione sociale”, rispetto anche alla stessa “questione nazionale”. Non per un caso il partito si qualificò immediatamente come internazionalista e pacifista. La tesi del “Risorgimento incompiuto”, cara a Gramsci e ai gramsciani di vecchio e nuovo conio, ha espresso il concetto – letterariamente seducente e non privo di efficacia propagandistica – dell’eredità, affidata al movimento dei lavoratori, di portare a compimento la rivoluzione risorgimentale non realizzata dalle classi dirigenti Italiane dell’800. Proprio il sorgere del partito dei lavoratori, e i modi in cui esso è nato e si è affermato, testimoniano la genericità di questa tesi e ne rappresentano una confutazione. In realtà, il Risorgimento e la conseguita unità nazionale si presentavano già sulla fine del secolo scorso come un processo storico-politico ben definito, che aveva trovato il suo compimento con la costruzione dello Stato monarchico-costituzionale sui fondamenti di un sistema politico liberale. Ancora fragile ma con connotazioni inconfondibili. La seconda, effettiva ragione storica che conduce alla costituzione del Partito socialista sta nel fatto che le classi subalterne, e tra di esse la classe operaia che s’era andata estendendo e irrobustendo negli ultimi decenni, erano e si sentivano del tutto escluse dalla vita e dalla gestione delle istituzioni liberali, rappresentative e di governo, da quelle centrali come da quelle locali. La stessa introduzione dei sistemi di rappresentanza elettiva, fondata su una ristrettissima base elettorale, rendeva palese la realtà di questa netta esclusione, che conduceva a una separazione conflittuale tra lo Stato e le grandi masse lavoratrici. Una esclusione sempre di più inaccettabile, a mano a mano che in Italia si sviluppano le basi di un’economia moderna in seguito all’estensione del sistema di produzione industriale. Avviene, in Italia, quel che era avvenuto e avveniva in Inghilterra, in Germania, in Francia e in molti altri Stati europei, con la Rivoluzione industriale e la susseguente nascita ed espansione della classe operaia: il mondo dei lavoratori, escluso dalla partecipazione alla gestione delle istituzioni e assoggettato alle strutture del potere economico, si autorganizzava come partito rappresentativo delle esigenze sociali emergenti e si configurava quale soggetto politico nuovo, che in breve volgere di tempo si ergeva a protagonista, in forme organizzative, propagandistiche, di lotta politica del tutto innovative rispetto alle tradizioni e ai comportamenti politici vigenti. Un soggetto sociale e politico di questa natura e di questa forza tendeva a contrapporsi non soltanto al potere delle controparti sociali, ma anche al potere delle istituzioni statuali, almeno fin quando non si trovasse ad essere in esse rappresentato. Tendeva a contrapporsi allo Stato, non soltanto alle classi dominanti, finendo per identificare queste con quello. In tale processo risiede, infatti, la ragione della fortuna che immediatamente ebbe, nei movimenti dei lavoratori della seconda meta dell’800, la formula marxista dello Stato come “comitato politico della borghesia”. Nelle diverse esperienze di formazione dei partiti dei lavoratori di ciascuna delle società europee industrializzate si rivela un tratto comune: la forma che tali partiti assumono (la “forma-partito”) si differenzia nettamente dalle forme tradizionali di altri soggetti politici collettivi ad essi preesistenti o anche coesistenti. Occorre qui fare una considerazione di natura più generale. Osserva opportunamente uno studioso italiano di storia dei partiti, il Brigaglia, che il termine “partito” ha una “valenza variabile sia da un punto di vista descrittivo che da un punto di vista valutativo”(2) aggiungendo che dal punto di vista descrittivo esso accomuna fenomeni diversi: “dai gruppi religiosi contrapposti alle fazioni parlamentari, alle organizzazioni sociali volte alla realizzazione di scopi politici”. Tra queste ultime, la forma-partito moderna, detta anche partito di massa, si contraddistingue, nelle sue varie fattispecie storiche, dalle forme-partito di epoche storiche diverse per una serie di caratteristiche relative all’organizzazione su base territoriale, ai rapporti con le strutture collettive sociali come il sindacato, le cooperative ecc. per la continuità del lavoro …

GUIDO ALBERTELLI

Guido Albertelli nasce a Parma il 24 gennaio 1867. Di modeste origini (era figlio di un fabbro) seguì studi tecnici e si laureò in ingegneria all’università di Bologna. Si occupò principalmente di ingegneria idraulica e urbanistica, progettando acquedotti, bonifiche e piani regolatori edilizi. Pubblicò studi sulle acque salienti e sulla formazione idrogeologica della valle del Po e della Sicilia. Si devono a lui il progetto del nuovo acquedotto di Parma, della fabbrica del ghiaccio di Parma e di vari acquedotti in Sicilia. Il paese di Carlentini gli concesse nel 1912 la cittadinanza onoraria e gli intitolò una piazza per aver costruito, in quattro anni di lavoro, l’acquedotto che portava l’acqua al paese. Fu tra i fondatori del Partito socialista, al congresso di Genova del 1892, e partecipò a tutti gli altri successivi congressi fino al fascismo; fu pure tra i fondatori della Camera del lavoro di Parma (1893) e svolse un’intensa attività di propaganda e di organizzazione, specie tra i contadini della Bassa parmense. Orientato verso posizioni riformiste, assunse un atteggiamento moderato in occasione dell’agitazione agricola del 1901, iniziatasi con lo sciopero di Montechiarugolo, così come, alcuni anni più tardi, in occasione delle agitazioni promosse dal movimento di Alceste. De Ambris in provincia di Parma. Fu eletto al Parlamento del Regno d’Italia per il collegio di Parma nord nella XXI Legislatura (1900-1902) e nella XXIV e XXV Legislatura (1913-1921). Durante la prima guerra mondiale assunse posizioni neutraliste e tale atteggiamento gli costò qualche pubblica manifestazione ostile da parte anche di alcuni suoi elettori. In parlamento fu però molto ben considerato, contando tra i suoi estimatori Agostino Berenini, Filippo Turati, Claudio Treves e Camillo Prampolini. Fu eletto più volte consigliere comunale e provinciale di Parma. Nelle elezioni del 1921 fu sconfitto dal nuovo capo carismatico delle masse popolari parmigiane, Guido Picelli. Nel 1925 sfuggì a stento ad un attentato tesogli dai fascisti, durante il quale la sua casa e lo studio di Borgo Tommasini furono distrutti, e fu costretto a trasferirsi con la famiglia a Roma, a suo dire “in esilio”, dove morì nel 1938. Si sposò con Angela Gabrielli, laureata in lettere a Bologna con Giosuè Carducci e insegnante di italiano alle Scuole Magistrali di Parma. Ebbero tre figli, ai quali venne dato il nome di eroi garibaldini: Nullo, Ippolito Nievo e Pilo. Nullo (1900-1968) fu un valente ingegnere e collaborò con il padre a diversi progetti; Ippolito Nievo (1901-1938) fu un celebre violoncellista; Pilo (1907-1944), filosofo e attivista antifascista, fu ucciso dai nazisti nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. A Parma gli è intitolata, assieme al figlio Pilo, strada Guido e Pilo Albertelli, una via che collega via Garibaldi a via Verdi. Progettò il ponte del Littorio, sul fiume Parma tra Colorno e Mezzano Superiore. Inaugurato nel 1932, nel dopoguerra venne rinominato Ponte Albertelli. FonteWeb   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GIACINTO MENOTTI SERRATI

Nato nel 1872 a Spotorno da Giacinto – piccolo armatore decaduto, costruttore edile e commerciante, seguace di Mazzini e Garibaldi, sindaco di Oneglia nel 1865-1866 e nel 1867-1870 –, e da Caterina Brunengo. Primogenito di sei fra fratelli e sorelle, trascorre l’infanzia ad Oneglia e nel 1889-1891 segue gli studi liceali a Mondovì, che però interrompe per dedicarsi alla politica. Nel 1892, collaboratore del settimanale sanremese Il Pensiero, è tra i promotori della prima Lega socialista di Oneglia e, l’anno dopo, è tra i fondatori del suo organo, La Lima. Trasferitosi nel 1893 a Milano, dove collabora alla Lotta di classe, partecipa in agosto al Congresso internazionale socialista di Zurigo, il mese seguente al II Congresso del Psi e subito dopo subisce il primo arresto, a causa delle manifestazioni seguite all’eccidio di Aigues Mortes. In questi anni che volgono alla fine del secolo, colpito più volte dalla repressione, come anche i fratelli Ricciotti e Manlio, è costretto a riparare a Marsiglia: una prima volta nel 1894 e una seconda volta tre anni dopo. Dopo aver fatto in precedenza il guardiano dei docks, il garzone di farmacia e lo scaricatore di carbone dai piroscafi, è in questa circostanza, agli inizi del 1898, che si imbarca per l’Oceano indiano dal quale torna soltanto nell’autunno dell’anno seguente. Stabilitosi in Svizzera, riprende subito la militanza nelle fila dell’Unione socialista di lingua italiana (Usli) che, divenutone il segretario nel 1900, contribuirà in seguito alla sua trasformazione in Partito socialista italiano in Svizzera (Psis), collaborando all’Avvenire del lavoratore. Nel 1902 si lega sentimentalmente ed ha un figlio, Libero, con Cesarina (Rina) Marsanasco che, già sposata e madre di cinque figli, potrà riunirsi a Serrati solo nel 1905 anche perché, nello stesso 1902 Serrati parte alla volta di New York, dove assume la direzione de Il Proletario. Due anni dopo ritorna in Svizzera e nel 1905 diviene segretario del Psis. Avverso sia al sindacalismo rivoluzionario che al riformismo, ed ormai anche all’“integralismo” sempre più trasformistico di Enrico Ferri, al ix (1906), al X (1908) e all’XI (1910) Congresso del Psi si schiera a favore delle posizioni “intransigenti” (nel 1909 era nel frattempo rientrato in Italia). Alla fine del 1911 ottiene la segreteria della Cdl di Oneglia e la direzione della Lima. Dopo un’attiva partecipazione alle vicende del movimento operaio imperiese e savonese, dove collabora al periodico socialista locale Il Diritto, nell’ottobre del 1912 si trasferisce a Venezia come segretario della Cdl e direttore de Il Secolo nuovo di Elia Musatti. Sempre nello stesso anno avversa l’avventura coloniale tripolina, coniando la parola d’ordine “Vinca il Turco!”, e accentua la sua battaglia contro la corrente riformista del partito. Candidato non eletto alle elezioni politiche del 1913, nell’aprile dell’anno seguente, al XIV Congresso del Psi, è eletto nella Direzione del partito e in novembre viene chiamato alla direzione dell’Avanti!, che orienta fortemente in senso internazionalista e contro la guerra. Membro della delegazione italiana alla conferenza di Zimmerwald nel 1915, nel 1917 si schiera con la rivoluzione russa. Nel “processone” del giugno 1918, a seguito dei moti scatenatisi nel capoluogo piemontese nell’agosto dell’anno precedente, è condannato a tre anni e mezzo di carcere. Riacquistata la libertà nel febbraio del 1919, grazie all’amnistia per la vittoria, riprende il suo posto di direttore dell’Avanti! e con oltre il 72% dei voti alla sua mozione “massimalista elezionista” domina il XVI Congresso del Psi in ottobre. Subito dopo promuove la nuova rivista Comunismo e nell’estate del 1920 partecipa al ii Congresso dell’Internazionale comunista. Pensando di portare tutto il Psi sulle posizioni della nuova Internazionale, non accetta i “21 punti” stabiliti a Mosca e non segue quindi la frazione comunista nella scissione operatasi nel corso del XVII Congresso del Psi (Livorno, gennaio 1921), che riserva alla sua mozione dei “comunisti unitari” quasi il 57% dei voti. Una scelta “centrista” che non paga, dal momento che sono proprio i riformisti di Turati e Treves a lasciare il partito nel successivo congresso dell’ottobre e a dare vita al Psu. Mentre in Italia il fascismo sta conquistando il potere, nel novembre 1922 si apre a Mosca il IV Congresso dell’Ic. In rappresentanza del Psi Serrati raccoglie ora l’invito del gruppo dirigente dell’Internazionale all’unificazione con il Pcd’i, nonostante i dissapori mostrati dai comunisti italiani verso tale decisione. Ma a questo punto, subito dopo il rientro in Italia, è proprio il suo partito a tradirlo. Complice un nuovo arresto nel marzo 1923, al XX Congresso del Psi, svoltosi a Milano il mese dopo in sua assenza, Nenni, capo del “Comitato di difesa socialista”, fa passare una mozione contraria all’unificazione con i comunisti. Estromesso dall’Avanti! e dalla Direzione del partito, nel giugno 1923 dà vita al quindicinale Pagine rosse, nel giugno-luglio 1924 partecipa ancora a Mosca al V Congresso dell’Ic e in agosto entra definitivamente con la frazione dei “terzini” di Fabrizio Maffi nel Pcd’i. Cooptato da subito nel suo Comitato centrale e direttore de Il Sindacato rosso, partecipa ancora al III Congresso del partito (Lione, gennaio 1926), ma pochi mesi dopo muore per un attacco cardiaco. Fonte: Archivio biografico del Movimento Operaio SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

FILIPPO TURATI

Filippo Turati nasce a Canzo (Como) il 26 novembre 1857. Frequenta il liceo classico Ugo Foscolo di Pavia e sin da giovanissimo collabora con varie riviste d’orientamento democratico e radicale. E’ ricordato per la sua linea politica marxista, influenzata fortemente dalle idee della compagna russa Anna Kuliscioff, nonchè dallo stretto rapporto con gli ambienti operai milanesi. Nel 1886 Turati sostiene apertamente il Partito Operaio Italiano, fondato a Milano nel 1882 dagli artigiani Giuseppe Croce e Costantino Lazzari, per poi fondare nel 1889 la Lega Socialista Milanese, ispirata a un marxismo non dogmatico (l’emancipazione del proletariato costituisce l’obiettivo, ma si deve mirare ad ottenerla attraverso le riforme), che rifiutava apertamente l’anarchia. er 35 anni, dal 1891 al 1926, dirige la rivista “Critica sociale”. Al congresso operaio italiano (Milano, 2 e 3 agosto 1892) si decide di fondare il periodico “Lotta di classe”. Il “Giornale dei lavoratori italiani” nasce poi il 30 luglio 1892: sarà diretto formalmente da Camillo Prampolini, ma di fatto dalla coppia Turati e Kuliscioff. Filippo Turati avrebbe voluto un organo in cui far confluire tutte le organizzazioni popolari, operaie e contadine: queste idee vengono accolte al congresso di Genova del 1892, occasione in cui nasce il Partito dei Lavoratori Italiani, divenuto poi Partito Socialista Italiano nel 1895; la formazione del partito ha un’impronta riformista e utilizzerà la lotta parlamentare per soddisfare le aspirazioni sindacali. Turati si candida al Parlamento e viene eletto deputato nel giugno del 1896. Nonostante il Presidente del Consiglio Francesco Crispi tentasse di bandire tutte le organizzazioni di sinistra, Turati si fa fautore di un’apertura all’area repubblicana mazziniana e a quella radicale, nel tentativo di dare una svolta democratica al governo: il giorno 1 marzo 1899 viene dichiarato decaduto dal mandato parlamentare e messo agli arresti con l’accusa d’aver guidato la cosiddetta “protesta dello stomaco” di Milano; Turati viene tuttavia liberato il successivo 26 marzo in quanto rieletto alle elezioni suppletive: farà ostruzionismo contro il governo reazionario di Luigi Pelloux. Nel 1901, in sintonia con le sue istanze “minimaliste” (il cosiddetto programma minimo, che si poneva come obiettivi parziali riforme, che i socialisti riformisti intendevano concordare con le forze politiche moderate oppure realizzare direttamente qualora al governo), Turati appoggia prima il governo liberale moderato presieduto da Giuseppe Zanardelli, e successivamente (nel 1903) quello di Giovanni Giolitti, che nel 1904 approva importanti provvedimenti di legislazione sociale (leggi sulla tutela del lavoro delle donne e dei bambini, infortuni, invalidità e vecchiaia; comitati consultivi per il lavoro). A causa della politica messa in atto da Giolitti, la quale favoriva solo gli operai meglio organizzati, la corrente di sinistra del PSI, capeggiata dal rivoluzionario Arturo Labriola e dall’intransigente Enrico Ferri, mette in minoranza la corrente di Turati nel congresso che si svolge a Bologna nel 1904. La corrente riformista torna a prevalere nel congresso del 1908 in alleanza agli integralisti di Oddino Morgari; negli anni seguenti Turati rappresenta la personalità principale del gruppo parlamentare del PSI, generalmente più riformista del partito stesso. In questa veste si ritrova come l’interlocutore privilegiato di Giolitti, che stava allora perseguendo una politica di attenzione alle emergenti forze di sinistra. La crisi della guerra di Libia del 1911 provoca una frattura irrimediabile tra il governo giolittiano e il PSI, in cui peraltro stavano di nuovo prevalendo le correnti massimaliste. Turati sarà favorevole all’interventismo dopo la disfatta di Caporetto del 1917, convinto che in quel momento la difesa della patria in pericolo fosse più importante della lotta di classe. Turati è un pensatore pacifista: la guerra per lui non può risolvere alcun problema. È avversario del fascismo ma anche della rivoluzione sovietica, che è un fenomeno geograficamente limitato e non esportabile e che non fa uso di intelligenza, libertà, e civiltà. Nel dopoguerra e dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il PSI si sposta sempre più su posizioni rivoluzionarie, emarginando i riformisti; nell’ottobre 1922 Filippo Turati viene espulso dal partito. Dà vita al Partito Socialista Unitario assieme a Giuseppe Modigliani e Claudio Treves. Per Turati il fascismo non è solo mancanza di libertà ma minaccia per l?ordine mondiale: Turati individua elementi comuni tra fascismo e comunismo sovietico perché entrambi ripudiano i valori del parlamentarismo. Le sue tesi erano in collisione con la dottrina del socialfascismo adottata fino al 1935 dal Comintern e quindi dal partito comunista italiano. A seguito del delitto Matteotti partecipa alla secessione dell’Aventino, e nel 1926 a causa delle persecuzioni del regime fascista, è costretto a fuggire prima in Corsica e poi in Francia (con l’aiuto di Italo Oxilia, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e Carlo Rosselli); dalla Francia svolge un’intensa attività antifascista, collaborando tra l’altro al quindicinale “Rinascita socialista”. Nel 1930 collabora con Pietro Nenni per la riunificazione del PSI: morirà a Parigi due anni dopo, il 29 marzo 1932, all’età di 75 anni. Fonte: Biografia SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it