GIUSEPPE BARBAROSSA

Siamo nel maggio del 1921: è questo il momento più triste per l’avvocato Giuseppe Barbarossa e la sua famiglia; l’avvocato Barbarossa, nato a Canosa nel 1868, socialista, antifascista, già consigliere comunale e assessore alla pubblica istruzione del Comune di Canosa, è costretto a lasciare la città natale per sempre per mettere in salvo la propria vita. Appena qualche giorno prima, infatti, è stata fatta esplodere una carica di dinamite dietro la porta di casa; per fortuna non ci sono state vittime, ma le minacce subite da parte dei fascisti canosini si sono aggravate e sono ormai diventate realtà. L’avvocato Barbarossa lascia Canosa per trasferirsi definitivamente a Napoli. Giuseppe Barbarossa si laurea a Napoli in giurisprudenza e nelle città campana matura le proprie idee politiche aderendo al Partito socialista. Tornato a Canosa, dove esercita la professione di avvocato, si getta nella battaglia politica divenendo consigliere comunale nel 1892 e assessore alla pubblica istruzione nel 1910: a Giuseppe Barbarossa si deve l’istituzione di una scuola tecnica secondaria che sarà intitolata a Giovanni Bovio. I 30 anni dell’attività politica del Barbarossa sono gli anni in cui in Puglia e a Canosa si ha un forte radicamento dell’anarchismo e del sindacalismo rivoluzionario e l’emergere di una figura carismatica che sarà punto di riferimento per tutta l’Italia: Giuseppe Di Vittorio. Giuseppe Barbarossa sarà anche una delle poche figure di intellettuali della nostra città; fonda ben due giornali: “Cronache Ofantine” e “La Gogna”. Gli anni del “biennio rosso” e l’avvento del fascismo a Canosa La parte più interessante del libro, dal punto di vista storico della nostra città, è certamente il biennio 1920-1922; sono gli anni, a livello italiano, del cosiddetto “biennio rosso”, gli anni cioè in cui i partiti di sinistra ed in particolar modo il Partito Socialista, si affermano alle elezioni, conquistando moltissime amministrazioni comunali. E sono gli stessi anni in cui il Partito Fascista fa sentire, anche fisicamente, la sua presenza. Sono due anni tremendi perché la lotta tra socialisti e fascisti a livello nazionale non sarà solo politica ma anche piena di violenze e di durissimi scontri con centinaia di vittime da entrambe le parti: la violenza della Prima Guerra Mondiale che si trascina negli anni a seguire della vita politica italiana. Anche a Canosa nelle elezioni dell’ottobre 1920 per la prima volta vince il Partito Socialista; per la prima volta nella storia della città ad amministrarla non saranno più le famiglie rappresentanti l’aristocrazia terriera, ma saranno gli strati operai della città: amministratori e assessori sono fabbri, falegnami, calzolai; il sindaco è un fotografo, Saverio Violante. Ma l’amministrazione canosina del Partito socialista dura pochi mesi: gli scontri con i fascisti saranno violentissimi; quando dopo scontri violenti i socialisti bruciano le masserie dei fascisti la rappresaglia sarà durissima: il 4 aprile 1921, i fascisti nel corso della notte danno l’assalto alla Camera del Lavoro, della Lega dei contadini e soprattutto assalgono il Municipio. Saverio Violante, il sindaco, sarà costretto a rassegnare le dimissioni anche perché, come in tutta Italia la forza pubblica non reagisce; il suo posto sarà assegnato a un commissario prefettizio, Gabriele De Santis. Questi passaggi, accennati nel libro, e certamente meritevoli di ulteriori approfondimenti storiografici, hanno il pregio di raccontare una parte della storia di Canosa che fa giustizia di una verità sottaciuta e di una versione edulcorata della storia: anche a Canosa gli scontri fisici tra socialisti e fascisti furono molto violenti. Ma l’assalto al municipio non deve essere considerato una mera causalità dovuta agli scontri dei giorni precedenti tra socialisti e fascisti, ma come la concreta attuazione di una precisa strategia politica decisa a livello nazionale. Scrive infatti Giulia Albanese nel suo libro “La marcia su Roma” (Laterza 2005, pag. 22): “Tra il 1920 e il 1921 la lotta fascista per la conquista del potere si configurò principalmente come una contesa per la conquista dell’egemonia locale, a spese soprattutto dei socialisti, e da questa lotta lo squadrismo trasse legittimazione presso le forze moderate. L’obiettivo principale delle squadre fasciste fu, nel caso delle amministrazioni governate dai socialisti, l’occupazione dei palazzi municipali”. Anche la sostituzione del sindaco Violante con la nomina di un commissario prefettizio rientra nella casistica nazionale dell’appoggio dato dalla vecchia classe dirigente allo squadrismo in funzione antisocialista. Scrive ancora la Albanese che il successo della strategia fascista era dovuto anche “grazie al sostanziale appoggio del ministero dell’Interno, che invece di tutelare lo svolgimento di libere elezioni o di salvaguardare le giunte legalmente elette, commissariava i comuni oggetto di attacchi fascisti”. Davvero illuminante allora il libro di Cecilia Valentino che dimostra come non via sia soluzione di continuità tra la microstoria delle realtà locali, come Canosa, e la storia nazionale. Gli avvenimenti canosini rientrano perfettamente nella strategia e nel disegno politico nazionale. Ma la stessa microstoria consente di comprendere più da vicino, toccare quasi con mano la portata degli eventi storici: in una nazione come l’Italia che non ha avuto la Rivoluzione Francese ma ha avuto il Bonapartismo, il “biennio rosso” ha davvero una portata ed un significato rivoluzionario: in una città come Canosa, gli artigiani e i contadini arrivano a conquistare il potere di una città esautorando per la prima volta l’aristocrazia terriera che per secoli ha amministrato la città; è una piccola autentica forma di “rivoluzione”, quasi una “Comune di Parigi”. Perciò si comprendono meglio i motivi per i quali la vecchia classe dirigente italiana, aristocratica e liberale (Giolitti per esemplificare), insieme alle forze dell’ordine e alla Monarchia, sostanzialmente appoggino il movimento fascista, quale partito d’ordine necessario per ristabilire lo “status quo”. In quest’ottica allora leggere l’allontanamento del Barbarossa da Canosa; impedire che i movimenti di popolo socialisti potessero avere l’appoggio della classe intellettuale anche nelle piccole realtà locali. Staccare le teste pensanti dal resto della popolazione. Nel 1929, ad acque ormai chetate, il notaio Gaetano Maddalena, amico fraterno, scriverà una lettera al Barbarossa dicendogli che tutto è pronto per il suo ritorno a Canosa, purché scriva una lettera al consiglio fascista provinciale di Bari. Barbarossa comprende che scrivere la lettera significa fare un atto …

GIULIANO VASSALLI

Nato a Perugia il 25 aprile 1915, morto a Roma il 21 ottobre 2009, giurista, dirigente e parlamentare socialista, ministro, presidente emerito della Corte Costituzionale, Medaglia d’argento al valor militare. Dopo essere stato professore di Diritto penale nelle Università di Urbino, Pavia, Padova e Genova, Giuliano Vassalli, dal 1960, ebbe la cattedra all’Università di Roma. Professore emerito a “La Sapienza” e membro dell’Accademia dei Lincei, l’insigne giurista fu decorato al valore per il contributo dato alla Resistenza. Dopo l’8 settembre 1943, Vassalli prese infatti parte alla Guerra di liberazione. nelle file della Resistenza romana. Membro della Direzione clandestina del PSIUP, nei mesi dell’occupazione tedesca fu tra i capi delle formazioni socialiste a Roma. Dall’ottobre 1943 alla fine di gennaio del 1944, sostituì Sandro Pertini nella Giunta militare centrale del CLN. Nel gennaio del 1944 organizzò l’evasione dello stesso Pertini e di Giuseppe Saragat dal carcere di Regina Coeli. Fu poi anche ispettore del CLN in pericolose missioni nell’Italia centrale. Il 3 aprile 1944, Vassalli fu catturato, a Roma, dalle SS che lo rinchiusero nel carcere di via Tasso. Vi restò, sottoposto a stringenti interrogatori e a tortura, sino alla liberazione della Capitale. Nel dopoguerra, con la scissione di Palazzo Barberini, uscì dal PSI. Dal 1947 al 1949, fece parte della Direzione del PSLI e, dal 1949 al 1951, di quella del PSU, non rientrando nel Partito socialdemocratico dopo che i due partiti si rifusero. Nel 1957 Vassalli fu insignito del “Premio di fedeltà alla Resistenza” per l’attività svolta, come avvocato e come pubblicista, a favore degli ideali della Resistenza. Rientrato nel PSI nel 1959, Vassalli fu consigliere comunale e capogruppo di quel partito a Roma e poi fu deputato del PSI nella quinta Legislatura. Eletto senatore nel 1983 e riconfermato nel 1987, è stato presidente della Commissione Giustizia e poi del Gruppo parlamentare socialista. Nel 1987 è stato nominato ministro della Giustizia nel governo di Giovanni Goria e riconfermato nei governi De Mita ed Andreotti, lavorando alla stesura del nuovo Codice di procedura penale del 1989. Tra le numerosissime pubblicazioni scientifiche di Giuliano Vassalli (che ha anche ricevuto la laurea “honoris causa” in Giurisprudenza dall’Università di Bologna), si possono ricordare L’interpretazione della legge Merlin, del 1965, e Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico-chirurgico, pubblicate nel 1972. Fonte: ANPI SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RICCARDO LOMBARDI

Nato nel 1901 a Regalbuto (Enna). E’ indubbiamente una delle figure più originali e significative della storia del movimento socialista italiano. Giovane seguace di Guido Miglioli e delle idee del sindacalismo cattolico di sinistra nei primi anni’20, militante di Giustizia e Libertà e poi tra i fondatori del Partito d’Azione nel 1942, prefetto di Milano al momento della Liberazione, ministro dei Trasporti nel primo governo De Gasperi (la sua unica esperienza governativa), allo scioglimento del Partito d’Azione Lombardi confluirà nel PSI, partito nel quale militerà fino alla morte, leader con Nenni della corrente autonomista e poi, dopo la rottura all’atto della formazione del primo governo di centrosinistra, della minoranza di sinistra. A dispetto di questa biografia così ricca, su Riccardo Lombardi (come, peraltro, per altri personaggi di rilievo della storia italiana di questo secolo) manca ancora uno studio che ne ricostruisca complessivamente l’azione. Tale, infatti, non può essere considerata la biografia di taglio giornalistico di Miriam Mafai (Lombardi, Feltrinelli, Milano 1976), mentre il saggio più documentato resta quello di Emanuele Tortoreto (La politica di Riccardo Lombardi dal 1944 al 1949, Edizioni di Movimento operaio e socialista, Genova 1972), cronologicamente però limitato all’arco di pochi anni. Gli storici dei partiti e dei movimenti politici spesso lamentano, per i propri studi, la mancanza di documentazione. Eppure, in questo caso, i documenti, le carte necessarie sono ormai a disposizione degli studiosi, grazie alla donazione da parte dello stesso Lombardi e dei suoi famigliari, dell’archivio (diverse migliaia di documenti ed oltre novemila lettere: cfr. l’inventario curato da Emilio Capannelli per il Servizio beni culturali e librari della Giunta regionale toscana) alla Fondazione di studi storici “Filippo Turati” di Firenze. Alcuni di queste lettere e documenti (in parte già pubblicati nei due volumi di scritti lombardiani curata per Marsilio nel 1978 da Simona Colarizi), relativi al periodo 1943-1947, al passaggio dalla lotta clandestina e partigiana alla Liberazione e alla costruzione della democrazia, appaiono oggi in questo volume curato (con qualche refuso di troppo) da Andrea Ragusa. Ne emerge, ancora una volta, la particolarità della figura di Lombardi nell’ ambito del socialismo italiano di questo dopoguerra. Ingegnere, studioso di Keynes e Schumpeter più che di Marx, attento alla comprensione dei problemi più che alla lotta quotidiana di governo e di sottogoverno, in Lombardi la pratica politica si coniugava al delineare scenari come momento non disgiunto dall’azione politica stessa. Da qui, forse, la critica spesso rivolta a Lombardi di presbiopia politica, per la sua capacità, appunto, di vedere politicamente lontano, perdendo di vista il dato politico immediato o forse, meglio, quello partitico. In realtà, Lombardi fu anche uomo di partito, cosciente che a spaccare si fa piu’ presto che unire. Da qui la critica, tipica di Rosselli e di GL prima, del Partito d’Azione poi, al socialismo prefascista e a quello che Lombardi chiama il “verbalismo rivoluzionario”. Insomma, un Lombardi, più che presbite, lucidamente visionario o utopisticamente concreto, se si preferisce, come di fronte al problema del blocco dei licenziamenti, una misura adottata populisticamente durante l’ultimo periodo della RSI e la cui revoca Lombardi dovette affrontare come Prefetto di Milano, sottolineando che la questione non è di moralità; essa è di politica economica, ma anche insistendo sul dato politico sulla necessita’ assoluta che si provveda senza indugio non solo alla avocazione dei profitti di regime, ma altresi’ a una politica fiscale degna di un governo democratico e che faccia pagare il costo della guerra e del fascismo e l’onere della ricostruzione a tutti coloro che risultano detentori di ricchezze. Centrale diventa quindi, in questi scritti, la questione della costruzione della democrazia: Che cosa è essenziale per la nascita di una democrazia in Italia? E’ essenziale che il Paese sia attivizzato, che il piu’ gran numero possibile di lavoratori di tutti i ceti sia interessato politicamente ed economicamente ad uno Stato democratico, al punto che tutti si sentano minacciati quando la democrazia è in pericolo. E cosi’ altri progetti, come l’istituzione di un istituto di revisione nazionale (strumento per garantire ai lavoratori che le condizioni della libertà economica siano fatte coincidere con i loro interessi essenziali e quindi con il benessere generale), la sottolineatura del ruolo dell’Europa e di quello delle autonomie locali (fino a proporre, lui Prefetto di Milano, l’abolizione della figura stessa di Prefetto). Il teorico delle riforme di struttura, dell’azione riformatrice e non riformista, l’ideologo (e lo sconfitto) del primo centrosinistra è già in queste pagine. Riccardo Lombardi morì nel 1984. Fonteweb   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

INES ODDONE BITELLI

Ines Oddone arrivò a Bologna nel 1904, dopo le nozze con Giovanni Bitelli. Lei, di estrazione borghese (il padre era ingegnere), aveva conseguito il diploma magistrale alla Normale di Roma; lui, di estrazione proletaria, era stato operaio specializzato prima di vincere una borsa di studio per la Normale di Urbino. Erano stati entrambi attivi nell’Unione Magistrale fin dalla sua costituzione. In una nota della Prefettura di Bologna, datata novembre 1905, si legge di Giovanni Bitelli: “… verso la famiglia si comporta benissimo. Egli vive in perfetto accordo con la propria moglie Ines Oddone anch’essa socialista propagandista, ed è solito accompagnarla tutte le volte che la medesima si reca in paesi limitrofi per tenervi conferenze di propaganda”. Dopo pochi mesi dalla sua venuta nel capoluogo felsineo, Ines entrò a far parte dell’Esecutivo della Camera del Lavoro, dove si legò al gruppo sindacalista rivoluzionario. I sindacalisti rivoluzionari, seguaci del pensiero di Sorel (che considerava lo sciopero generale strumento di “azione diretta” per sovvertire la società borghese), avevano giocato un ruolo determinante nello sciopero generale indetto proprio nel 1904. Forti infatti della vittoria conseguita insieme agli intransigenti di Ferri al Congresso nazionale del Partito Socialista che si era svolto a Bologna nel 1904, dove avevano messo in minoranza per la prima volta l’ala riformista turatiana, avevano acquistato un peso determinante soprattutto all’interno delle Camere del lavoro. Anche a livello locale si stavano vivendo situazioni di tensione tra i rappresentanti dei diversi gruppi: “… vi erano in mezzo a quel proletariato dissidi profondi di tendenza e di Partito, ed ella (Ines Oddone) con la sua bontà accompagnata da una grande energia che impone rispetto e autorità, seppe in breve tempo assopire i dissidi e ristabilire la pace e la fratellanza fra i forti organizzati di Bologna”. Era una straordinaria oratrice e, probabilmente anche per queste doti, fu inviata nel gennaio del 1905 come delegata al terzo Congresso Nazionale della Resistenza che si tenne a Genova insieme al quinto Congresso Nazionale delle Camere del Lavoro. Nel dibattito allora in corso all’interno del movimento operaio la Oddone si batteva per l’autonomia delle organizzazioni politiche da quelle “economiche”, posizione che al Congresso risultò minoritaria. A Bologna, il 5 luglio 1905, Ines Oddone pubblicò il primo numero di “La donna socialista” presso la tipografia Azzoguidi, che divenne anche la sede del giornale. Ines quindi, a un solo anno dal suo arrivo a Bologna e nonostante l’esito poco incoraggiante dei tentativi precedenti, iniziò la pubblicazione di un giornale destinato alla propaganda socialista fra le lavoratrici. “La donna socialista” uscì a Bologna dal luglio al novembre del 1905 e continuò a essere pubblicato fino all’aprile 1906 a Gallarate, dove la Oddone si trasferì in seguito alla nomina del marito a segretario della locale Camera del Lavoro. La storia dell’autofinanziamento di questo “giornaletto”, come lo definiva la stessa Ines per la sua modesta veste editoriale, e dei sacrifici che la direttrice dovette affrontare per tenerlo in vita per 39 numeri consecutivi, e’ documentata passo passo nella rubrica “Per la donna socialista”, ove la Oddone annotava l’andamento settimanale della campagna abbonamenti. Nei primi numeri sollecitava semplicemente i rivenditori a essere puntuali nei pagamenti: “è necessario che tutti gli abbonati e rivenditori concorrano con sollecitudine a mantenere in vita il nostro giornale”. Accennava pure ai pesanti sacrifici personali che doveva affrontare: “noi facciamo immensi sacrifici finanziari, fieri di proseguire nell’opera intrapresa”. A volte le ristrettezze economiche non le permettevano neppure le trasferte necessarie per la sua opera di propaganda: “sono ben felice di venire tra voi, ma le forze finanziarie non mi permettono di fare quanto voi vorreste… qualche mese fa si poteva, ma ora tutti quello che guadagno è destinato a ‘La donna socialista’, che costa, e non poco”. Nel consuntivo di fine anno (6 gennaio 1906) nonostante fosse ancora fiduciosa (“entriamo nel secondo anno di vita pieni di fede e speranza, suffragati dall’unanime consenso delle nostre compagne”), doveva tuttavia ammettere che “bersagliati come siamo dai rivenditori e abbonati insolvibili, il ‘giornaletto’ è passivo”. Il 31 marzo 1906 buttava la spugna: “ci è doloroso constatare come il nostro tentativo di far sorgere e mantenere in Italia un giornale di propaganda femminile minaccia di fallire miseramente”. Individuava varie cause, ma attribuiva la maggiore responsabilità’ del fallimento della sua iniziativa ai rivenditori morosi, che accusava di “mancare ai più elementari doveri di onestà, facendosi inviare per mesi e mesi il giornale e rimanendo poi sordi ai reiterati inviti di pagamento”. Il giornale cessò del tutto dopo altre due emissioni, nonostante un ultimo appello dell’infaticabile e combattiva redattrice torinese Annita Fontana, che considerava una vera e propria “disfatta” il fallimento del terzo tentativo in Italia, dopo ‘Eva’ della Melli e ‘Cronache femminili’ della Mariani a Torino, di creare “un giornale femminile che parli proletariamente”. A ostacolare la vita del giornale contribuì’ anche una serie di interventi censori. Con un editoriale, “Sequestro” (21 ottobre 1905), la Oddone (che in questa circostanza precisò che gli articoli non firmati erano suoi, assumenendosene completa responsabilità) denunciava che un “articolo di propaganda antimilitarista ha destato gli scrupoli del Signor Procuratore del Re, che ne ha ordinato il sequestro perchè esponeva l’esercito al disprezzo del pubblico”. “La donna socialista” era ormai entrata nel mirino della censura: “il 28 ottobre il Procuratore di Bologna ordinò il sequestro questa volta di un articolo di Tolstoj, “Reclute russe”, già pubblicato nella “Critica sociale” di Turati e circolante liberamente in opuscoli da cinque centesimi, come informava la Oddone per dimostrare la pretestuosità dell’intervento della polizia. La Oddone come direttrice del giornale e autrice del primo articolo incriminato, “La riserva” (14 ottobre 1905), e Nello Gamberini come gerente responsabile furono processati presso il Tribunale di Bologna, e assolti con sentenza del 10 dicembre 1906. Dopo il trasferimento del giornale a Gallarate la pressione non rallentò: due articoli della direttrice, “La Francia laica” e “L’educazione nelle caserme”, apparsi nel secondo numero pubblicato a Gallarate (2 gennaio 1906), vennero sequestrati. Per niente intimorita, anzi convinta che i sequestri del giornale alla fine avrebbero giovato alla causa antimilitarista, …

RODOLFO MORANDI

Rodolfo Morandi nacque a Milano il 30 luglio 1902 da Enrico e da Enrica Maraviglia, terzogenito dopo due figli maschi. La famiglia proveniva da Agra, nei dintorni del Lago Maggiore. Il padre, un attivo imprenditore del settore alberghiero di simpatie mazziniane e radicali, fu impegnato in politica durante la crisi di fine secolo. Dopo la sua prematura scomparsa fu la madre a curare l’educazione dei figli, creando attorno a essi un ambiente ricco di sentimenti e forza morale. Compiuti gli studi al Liceo Parini di Milano, in anni di entusiasmo interventista e con il fratello partito volontario, Morandi si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia. Qui aderì al Partito Repubblicano e al gruppo degli studenti socialisti, conobbe Lelio Basso e Giuseppe Faravelli ma non partecipò attivamente alla lotta politica. Tra 1921 e 1925 si dedicò a un intenso studio filosofico e storico, iniziato con la lettura delle opere di Giuseppe Mazzini e proseguito con un tentativo di aggiornare la cultura democratica attraverso il sistema hegeliano e le correnti più moderne del pensiero progressista e socialista. Dopo il delitto di Giacomo Matteotti maturò l’idea di un impegno politico diretto. Fondò, prima, con Basso e altri studenti un movimento di opposizione, i Gruppi goliardici per la libertà, e poi la rivista Pietre, distaccandosi via via dall’ambiente repubblicano. Considerava l’Aventino – la scelta dei deputati antifascisti di abbandonare i lavori parlamentari dopo l’uccisione di Matteotti – un grave errore e del tutto inadeguata l’azione precedente delle forze politiche antifasciste. La collaborazione al Quarto Stato di Carlo Rosselli e Pietro Nenni e poi un lungo viaggio di studio in Germania (in cui approfondì il pensiero socialista tedesco), lo spinsero verso un’impostazione ideologica di tipo marxista e classista. Inoltre, sempre attento agli studi e all’attività culturale (negli anni Trenta fu anche direttore di due collane dell’editore Corticelli) decise di dedicarsi a settori di ricerca innovativi. Ne scaturì la sua opera più importante, la Storia della grande industria in Italia (Bari 1931) che, nonostante la sua giovane età, ebbe un discreto successo e una notevole attenzione critica. Nel volume ricostruiva la formazione della grande impresa privata, evidenziando il ruolo delle concentrazioni industriali nella prima modernizzazione capitalistica del paese tra Otto e Novecento e durante la Grande guerra. Per Morandi si era centrato un obiettivo mancato dopo l’Unità, ma restavano problemi profondi: la borghesia italiana si era dimostrata carente di cultura civile e visione globale, responsabile di uno sviluppo insufficiente e di gravi arretratezze (come testimoniava il persistere di una questione meridionale). Le idee espresse nel volume si richiamavano al suo orientamento politico, maturato alla fine degli anni Venti, nel movimento di Giustizia e libertà (GL), di cui tentò di rendere efficace l’azione clandestina, qualificandolo altresì in senso socialista; ma proprio su questo terreno, nell’autunno 1931, giunse a una rottura con l’organizzazione, segnata da un polemico confronto politico-ideologico con Rosselli. Le posizioni liberalsocialiste del fondatore di GL si scontrarono con le tesi classiste e marxiste dell’intellettuale milanese che assegnava al proletariato la direzione della rivoluzione antifascista e sosteneva l’impossibilità di risolvere la crisi italiana con il semplice ritorno alla democrazia borghese. Morandi abbandonò GL ma non aderì al Partito Comunista del quale condivideva molte analisi e la funzione storico-politica della Rivoluzione d’ottobre, ma del quale respingeva l’approccio autoritario, statalista e burocratico che intravedeva nell’azione e soprattutto nell’esperienza sovietica (nonostante un intenso confronto con Giorgio Amendola). Altrettanto severo il giudizio sulla socialdemocrazia: la vecchia organizzazione del movimento operaio era del tutto inadeguata e impreparata, rispetto sia alla sfida del fascismo, sia ai nuovi bisogni della società europea. Nel suo pensiero le politiche collettiviste e le nazionalizzazioni, proprie della tradizione marxista, convivevano dunque con l’attenzione alla partecipazione di base e all’autonomia delle organizzazioni di classe. A metà degli anni Trenta Morandi, che nel frattempo aveva sposato Fausta Damiani, dalla quale nel 1934 ebbe la sua unica figlia, Adriana, riprese l’azione clandestina, schierato su posizioni di assoluta intransigenza verso il regime. Lo scenario politico internazionale stava cambiando. La vittoria di Hitler in Germania aveva costretto le sinistre europee ad avvicinarsi. Il Partito Socialista in esilio liquidò l’esperienza della concentrazione antifascista, strinse il Patto di unità d’azione con il PCI e decise di ricominciare l’attività politica nel paese. Morandi fu protagonista della costituzione del Centro Interno Socialista in patria (in collaborazione con tutte le correnti del PSI ora riunificato tra cui spiccavano i riformisti di Giuseppe Saragat, Angelo Tasca e Faravelli o uomini come Lucio Luzzatto e Eugenio Colorni). Dopo una prima fase stentata sul piano operativo e attenta soprattutto al lavoro ideologico, il Centro iniziò a penetrare nel mondo intellettuale e in alcune fabbriche, specie all’inizio della guerra di Spagna. Morandi concepì la sua azione di animatore del Centro anche come occasione di rinnovamento del profilo ideologico del partito: nel dibattito aperto tra i socialisti e nella sinistra sulle alleanze con i ceti medi e sul ruolo della democrazia borghese enunciò il fondamento della politica di transizione. Il movimento proletario poteva – a suo dire – allearsi provvisoriamente con settori borghesi in funzione antifascista, ma senza scalfire le sue caratteristiche rivoluzionarie e classiste, decisive per la successiva costruzione dello stato pianificatore e collettivista. Non mancarono, come nel caso del manifesto che il PCI indirizzò ai militanti delle organizzazioni fasciste proponendo loro una ipotetica alleanza per «la salvezza dell’Italia», prese di distanza dai comunisti, ma ciò non mise in discussione la sua linea unitaria e classista (Agosti, 1971, p. 271). L’intensificarsi del lavoro clandestino, in parallelo alla guerra di Spagna, non era però passato inosservato; la polizia fascista nell’aprile 1937 arrestò gran parte dei dirigenti del Centro insieme a militanti comunisti e repubblicani. Morandi, sfuggito alla prima retata, invece di cercare la fuga si lasciò arrestare considerandosi il principale responsabile dell’organizzazione. Processato insieme agli altri dal Tribunale speciale, fu condannato a 10 anni di reclusione: scontati prima nel penitenziario di Castelfranco Emilia e poi, dal novembre 1940, a Saluzzo, dove per le sue precarie condizioni nel febbraio 1943 gli fu accordata la libertà condizionale. In carcere, pur tra …

ANTONINO SCUDERI

Antonino Scuderi, contadino trentacinquenne, consigliere comunale socialista, da pochi mesi segretario della cooperativa agricola di Paceco, fu ucciso in un agguato mentre tornava a Dattilo in bicicletta. Era il 16 febbraio del ’22. In quell’epoca, scrive Pietro Grammatico, «la morte di un socialista non valeva il fastidio di eseguire delle indagini per accertare le cause della soppressione violenta». Nessuno di noi ha conosciuto Scuderi; le scarne notizie biografiche sudi lui sfumano nebbiose nel mito. Scuderi è un archetipo; è il calore delle lotte contadine; è l’epopea degli oppressi; la tensione etica verso un mondo migliore, di pace, di giustizia, di libertà, di benessere, verso l’utopia del “sol dell’avvenire”. Scuderi è uno dei tanti agnelli sacrificali che gli agrari, i fascisti e i mafiosi, hanno preteso fra il 1920 e il 1924; soltanto un mese prima, il 16 Gennaio del ’22, Paceco aveva pagato un altro terribile tributo di sangue con l’assassinio di Domenico Spatola e dei figli poco più che ventenni, Mario e Pietro Paolo, del dirigente socialista Giacomo Spatola. Scuderi non aveva particolari velleità; era un contadino con le scarpe grosse e il cervello fino, un uomo che amava la vita, la famiglia, gli amici e il paese. Come molti altri, si è speso per migliorare la propria condizione e quella della sua gente ma non aveva in programma di fare l’eroe; aspirava soltanto, come molti altri, a diventare pacificamente padrone delle proprie braccia, del proprio pezzetto di terra, del proprio lavoro. Scuderi è uno, uno dei tanti, uno dei più sfortunati, uno che emancipa faticosamente se stesso divenendo dirigente politico locale e che, insieme ad altri, dà voce, speranza e forma politica ai sentimenti, alla sofferenza atavica e alle utopie della sua gente. Per questo, il monumento a Scuderi non raffigura il suo volto ma l’ansia corale di riscatto che è emersa dalle viscere di Dattilo, di Paceco, della Sicilia. Nessuno di noi ha conosciuto Scuderi, dicevo, ma l’eco della sua breve vita persiste; è arrivata fino a noi ed andrà oltre perché egli ha espresso i valori che ciascuno di noi vorrebbe esprimere. Consacrare le utopie ed i valori che Scuderi e la sua gente hanno espresso è utile e necessario, come monito per tutti, come termine di paragone per consentire a ciascuno di noi di non disancarare le proprie azioni dal territorio, dai sentimenti, dai valori alti e dalle utopie della propria gente.. Fonte: C.tro siciliano di docum. Giuseppe Impastato (PA) “Erano in vista le elezioni provinciali e i socialisti dopo il suo assassinio pensano di ritirarsi; la vedova di Scuderi, Ninetta Gigante, davanti al corpo del marito, dice: “I socialisti non sono vili, voi dovete scendere in lotta e vincere…”. Riuscirono a vincere le elezioni. I figli di Nino Scuderi sono emigrati. Uno di essi, Carlo, è morto da partigiano nel 1943. Ninetta Gigante è morta nel 1983.” SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

EMILIO LUSSU

Nasce ad Armungia, piccolo paese in provincia di Cagliari, il 4 dicembre 1890. Della vita paesana serberà sempre un ricordo indelebile, considerandola indispensabile per la sua formazione democratica. Laureato in giurisprudenza, è favorevole all’entrata in guerra contro l’Austria. La consapevolezza politica, dopo il confuso agitazionismo interventista che ne ha caratterizzato il periodo studentesco, nasce sui fronti della Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipa come capitano di fanteria della Brigata “Sassari”. E’ l’occasione in cui, non soltanto Lussu, ma una intera generazione di contadini e pastori sardi, hanno la possibilità di aprire gli occhi sulla propria condizione sociale: la guerra diventa perciò scuola rivoluzionaria (vedi Un anno sull’altipiano). La Sardegna post-bellica, gravemente impoverita dal conflitto, è terreno fertile per l’azione politica del Partito Sardo d’Azione, fondato nel 1921 da Lussu, Bellieni ed altri ex combattenti, che si pone a sinistra come portatore delle istanze delle classi proletarie in un quadro di recupero della questione nazionale sarda. Lussu è eletto deputato nelle elezioni del 1921 e del 1923, il periodo di ascesa del movimento fascista. Il sardismo si divide: abilmente gli emissari di Mussolini portano dalla loro una parte del partito, e lo stesso Lussu inizialmente non valuta a pieno il pericolo di un dialogo con i fascisti. Tuttavia la posizione successiva è netta: antifascismo intransigente. Dopo il delitto Matteotti, partecipa alla «secessione aventiniana». Nel ’26 è dichiarato decaduto dal mandato parlamentare e viene perseguitato dai fascisti: nello stesso anno è aggredito in casa da squadristi sardi e per legittima difesa è costretto ad uccidere uno degli assalitori (vedi Marcia su Roma e dintorni). La magistratura cagliaritana, non ancora soggiogata dal regime, lo assolve, ma viene immediatamente confinato a Lipari. E’ l’isola che ospita di lì a poco un altro personaggio chiave del movimento antifascista: Carlo Rosselli. I due, con Fausto Nitti, e grazie all’indispensabile aiuto di Gioacchino Dolci e Paolo Fabbri, riescono ad evadere in motoscafo nel luglio del ’29 (vedi La catena). Raggiunta Parigi si mettono in contatto con i fuorisciti riuniti intorno alla figura di Salvemini: nasce il movimento Giustizia e Libertà. Pur partecipando in modo saltuario alla vita politica a causa delle precarie condizioni di salute, riesce a collaborare con una certa assiduità al settimanale ed ai quaderni del Movimento, facendosi promotore di un suo più marcato e consapevole indirizzo socialista (vedi Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di Giustizia e Libertà; La teoria dell’insurrezione). Dopo l’assassinio di Carlo Rosselli nel ’37 eredita il timone del Movimento, del quale evita la dispersione, specialmente nel difficile periodo dell’offensiva tedesca in Francia. Inizia il periodo della “diplomazia clandestina”, con l’aiuto importantissimo dalla moglie Joyce, durante il quale tenta di proporre agli Alleati il progetto di un colpo di mano che permetta di far crollare il regime fascista a partire dall’insurrezione della Sardegna. Il suo peregrinare fra i centri di comando degli Alleati non porta alcun appoggio concreto al progetto, ma mostra loro, in ogni caso, l’esistenza di un fronte antifascista pronto ad assumere la responsabilità di una partecipazione diretta al conflitto (vedi Diplomazia clandestina). Riesce a rientrare in Italia soltanto nell’agosto del ’43. Nel frattempo ha saputo della nascita del Partito d’Azione, nel quale, pur consapevole delle differenze politiche, ma spinto dalla superiore esigenza unitaria della lotta di liberazione, fa confluire il Movimento GL. Si installa nella Roma occupata dai nazisti e insieme a Ugo La Malfa regge il partito sino alla conclusione della guerra. Mentre il PdA si lacera in una lotta intestina fra filosocialisti (riuniti intorno a Lussu) e filocentristi (guidati da La Malfa), assume l’incarico di ministro nei governi Parri e De Gasperi (vedi Sul Partito d’azione e gli altri). E’ inoltre deputato alla Costituente e senatore di diritto. Ma anche il Partito sardo, che aveva lasciato al momento dell’esilio su posizioni di sinistra, è ora retto da una maggioranza moderata, molto attenta agli interessi dei ceti proprietari e delle libere professioni, per di più attraversata da umori separatisti: la sua battaglia per riportare il partito allo spirito originario viene persa e Lussu va via per formare una gruppo che poi aderirà al PSI (con tessera retrodatata al 1919, l’anno delle grandi lotte contadine e operaie combattute in Sardegna, che lo videro fra i principali protagonisti). Il periodo da parlamentare socialista è ricco di interventi in aula e fuori: dalla questione dell’adesione alla NATO al riconoscimento della Cina comunista, dalla difesa della Repubblica democratica e antifascista alle lotte per lo sviluppo economico e il progresso sociale della Sardegna (vedi Essere a sinistra; Discorsi parlamentari). Il 1964 segna la rottura con il PSI: la decisione di Nenni di entrare nel governo di centrosinistra a guida democristiana provoca la scissione che porta alla fondazione del PSIUP, una formazione che avrà però vita breve: la sconfitta elettorale ne accelera l’adesione al PCI, ma Lussu, coerentemente con la sua storia, rifiuta di confluire. Si spegne a Roma nel 1975. Fonte: Antifascismo SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

EUGENIO COLORNI

Eugenio Colorni nasce a Milano il 22 aprile 1909 da genitori ebrei. Il padre Alberto è un imprenditore commerciale di origine mantovana, la madre Clara Pontecorvo è di famiglia pisana (il fisico nucleare Bruno e il regista cinematografico Gillo sono figli di un suo fratello). Nella formazione di adolescente di Eugenio ‑ come racconta egli stesso nella Malattia filosofica ‑ conta molto il rapporto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti maggiori di lui. Enzo in particolare, socialista e sionista convinto, esercita una forte influenza ideale e religiosa, tanto che a quattordici anni Eugenio si avvicina per breve tempo al sionismo. Durante il liceo ‑ frequenta il Manzoni di Milano si appassiona al Breviario di estetica di Benedetto Croce. Nel 1926 si iscrive alla facoltà milanese di Lettere e filosofia: i suoi insegnanti prediletti sono Giuseppe Antonio Borgese e Piero Martinetti, col quale si laurea in filosofia nel 1930 discutendo una tesi su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano (a Leibniz dedicherà in seguito la maggior parte dei suoi studi). Risale agli anni universitari l’amicizia con Guido Piovene, poi giornalista e scrittore, che s’interromperà bruscamente nel 1931 a causa di alcuni articoli antisemiti pubblicati da Piovene su “L’Ambrosiano”. In quel periodo partecipa all’attività dei Gruppi goliardici per la libertà di Lelio Basso e Rodolfo Morandi. Nel 1928, con lo pseudonimo di G. Rosenberg pubblica su “Pietre”, la rivista di Basso, un articolo sull’estetica di Roberto Ardigò. Nel 1930 si accosta al gruppo milanese di Giustizia e Libertà; collabora in seguito col nucleo giellista torinese, che fa capo prima a Leone Ginzburg e poi a Vittorio Foa. Nel 1931 compie un viaggio di studi a Berlino: oltre a incontrare Benedetto Croce e discutere con lui, conosce la giovane ebrea berlinese Ursula Hirschmann, che sposerà nel 1935 e dalla quale avrà tre figlie (Silvia, Renata, Eva). Dal 1931 comincia a scrivere recensioni e articoli per “Il Convegno”, “La Cultura”, “Civiltà moderna”, “Solaria” e la “Rivista di filosofia” di Martinetti. Nel 1932 pubblica L’estetica di Benedetto Croce. Studio critico (Società editrice “La Cultura”, Milano). Nel 1932-33 è lettore d’italiano all’Università di Marburgo; con l’avvento del nazismo torna in Italia. nel 1933, conclusa la tesi di perfezionamento su La filosofia giovanile di Leibniz, vince il concorso per l’insegnamento di storia e filosofia nei licei; dopo una prima assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, nel 1934 ottiene la cattedra di filosofia e pedagogia all’istituto magistrale Carducci di Trieste; qui conosce e frequenta, fra gli altri, Umberto Saba (ritratto poi in Un poeta), Pier Antonio Quarantotti Gambini, Bruno Pincherle e Eugenio Curiel. Nel 1934, nella collana scolastica che Giovanni Gentile dirige per Sansoni, pubblica una traduzione della Monodologia di Leibniz, preceduta da una lunga introduzione: Esposizione antologica del sistema leibniziano. Come scrive Eugenio Garin, “Leibniz lo costringe ad affrontare studi di logica e di matematica, a rimettere in discussione il modo stesso di concepire la scienza, e i rapporti fra scienza e filosofia. […] Ripartì da Kant e dalla problematica kantiana, e meditò sulle conseguenze che la fisica teorica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali”. Quando, come si legge in Un poeta, Umberto Saba gli domanderà “perché fa filosofia?”, Colorni conclude: “Da quel giorno, io non faccio più filosofia”. “In realtà non era la filosofia che rifiutava, ma un orientamento legato a quell’idealismo di cui erano seguaci […] Croce come Gentile e Martinetti” (Garin). Intensifica intanto l’impegno politico e l’attività antifascista. Quando gli arresti del maggio 1935 annientano il gruppo torinese di Giustizia e Libertà, prende contatto con il Centro interno socialista creato a Milano nell’estate del 1934 da Rodolfo Morandi, Lelio Basso, Lucio Luzzato, Bruno Maffi e altri. Nell’aprile del 1937, dopo gli arresti di Luzzato e Morandi, Colorni diventerà uno dei principali dirigenti del Centro. Nell’estate del 1937, in occasione del IX Congresso internazionale di filosofia, incontra a Parigi Carlo Rosselli, Angelo Tasca, Pietro Nenni e altri esponenti della direzione del Psi. Con vari pseudonimi, ma soprattutto con quello di Agostini, nel 1936-37 pubblica importanti articoli su “Politica socialista” e sul “Nuovo Avanti”. L’8 settembre 1938, all’inizio della campagna razziale, è arrestato a Trieste come ebreo e antifascista militante: in ottobre vengono pubblicati contro di lui, sul “Piccolo” di Trieste e sul “Corriere della Sera”, alcuni articoli di particolare livore antisemita. Dopo qualche mese di carcere a Varese, viene condannato a cinque anni di confino. Dal gennaio 1939 all’ottobre 1941 è nell’isola di Ventotene, dove prosegue i suoi studi filosofico-scientifici e discute intensamente con gli amici confinati, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria e Altiero Spinelli: un’eco fedele di quelle discussioni si ritrova nei sette Dialoghi di Commodo, scritti in collaborazione con Spinelli e pubblicati postumi. E’ di questo periodo la sua adesione alle idee federaliste, elaborate soprattutto da Spinelli e Rossi (nel 1944, con una sua prefazione, Colorni pubblicherà a Roma il Manifesto di Ventotene, redatto da Rossi e Spinelli nel 1941). Nell’ottobre del 1941, grazie anche all’intervento di Giovanni Gentile, ottiene di essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza. Nel 1942, insieme con Ludovico Geymonat, elabora il progetto di una rivista di metodologia scientifica. Il 6 maggio 1943 riesce a fuggire a Roma ed entra in clandestinità. Si dedica all’organizzazione del Psiup, nato dalla fusione del Psi col gruppo giovanile del Movimento di unità proletaria. Il 27-28 agosto partecipa a Milano, in casa di Mario Alberto Rollier, alla riunione che dà vita al Movimento federalista europeo. Dopo l’8 settembre svolge a Roma un’intensissima attività nella resistenza: fa parte della direzione del Psiup, è redattore capo dell’”Avanti!” clandestino, s’impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione giovanile socialista e nella creazione della prima brigata partigiana Matteotti. Il 28 maggio 1944, pochi giorni prima della liberazione di Roma, viene fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della banda Koch: tenta di fuggire, ma è inseguito in un androne e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all’Ospedale San Giovanni, muore il 30 maggio sotto la falsa identità di Franco Tanzi. a cura di …

ARGENTINA ALTOBELLI

Argentina Altobelli è incredibilmente rimasta nell’ombra della storiografia ufficiale, pur essendo stata una protagonista delle prime lotte sociali, una convinta sostenitrice dell’emancipazione femminile, tra i fondatori della prima organizzazione sindacale agricola, della Cassa Nazionale Assicurazioni Sociali (che è poi diventata l’Inps). Con Decreto Luogotenenziale del 19 giugno 1919 viene riconfermata a far parte del Consiglio Superiore della Previdenza e delle assicurazioni in rappresentanza dei lavoratori agricoli, unitamente a Bruno Buozzi e Ernesto Barengo. Argentina Altobelli, una dirigente sindacale di primo piano, non ha avuto i riconoscimenti che ha così ampiamente meritato soprattutto perché si è impegnata a favore di donne e di uomini, contadini, mezzadri, braccianti tenuti ai margini della società, allora, e forse tuttora poco considerati anche nel contesto della “lotta di classe”che cominciava a prendere forma in quegli anni. E’ anche probabile che la “distrazione” degli storiografi “ufficiali” della sinistra italiana sia stata e sia una sorta di vendetta politica contro il riformismo di Argentina Altobelli, che non risparmiò certo critiche e polemiche agli errori e all’arroganza dei massimalisti che cominciavano a egemonizzare il socialismo e il sindacalismo italiani. Fin dal 1918, infatti, Argentina Altobelli contestò fermamente ai socialisti massimalisti (divenuti, di lì a poco, i comunisti della scissione di Livorno), l’antica e pedissequa velleità di imitare la allora recentissima rivoluzione Sovietica. Si oppose, pertanto, all’espropio generalizzato e indiscriminato di terre da distribuire ai contadini, proponendo invece che espropriate fossero le terre incolte, da mettere a frutto affidandole al lavoro collettivo di braccianti e contadini. I massimalisti reagirono tentando di mettere in dubbio le capacità organizzative di Argentina Altobelli e, quindi, il suo titolo a dirigere la Federterra, arrendendosi soltanto all’evidente constatazione per cui, nel 1920, la Federterra organizzava circa 900.000 dei 2.200.00 iscritti alla CGdL. Ma, agli occhi dei massimalisti in procinto di divenire comunisti, Argentina Altobelli fu soprattutto colpevole di non aver aderito all’ondata di scioperi politici, che nel “biennio rosso” 1919-1920, nell’illusione di importare in Italia la allora neonata “Repubblica dei Soviet”, agitò l’industria italiana, culminando nella “storica” (e sindacalmente perdente) occupazione della Fiat. La cultura politica, condita di non poco settarismo, di chi all’epoca criticò e combatté il riformismo di Argentina Altobelli ha ispirato e condizionato molta, troppa parte della storiografia “ufficiale” del movimento operaio italiano. Facendo ad Argentina Altobelli un “torto storico” cui la Fondazione Argentina Altobelli e la Uila, per come possono, intendono riparare, recuperando agli studi e al dibattito sul sindacalismo agricolo, la storia, le idee, le proposte, le battaglie e le sofferenze di una donna, dirigente sindacale e socialista riformista, quale fu Argentina Altobelli. La terza motivazione è legata al personaggio “Argentina Altobelli”, al suo entusiasmo, ancora contagioso, nell’affrontare le traversie della vita, alla tenacia che le consentì di conseguire tanti risultati positivi per i lavoratori. Dalla sua biografia emerge non solo una grande sindacalista, ma anche un esempio di come l’impegno sindacale sia stato vissuto senza nulla togliere al suo ruolo di donna, di moglie e di madre. Argentina Altobelli intuì già all’inizio del secolo scorso due grandi verità, che solo a distanza di molti decenni il movimento operaio avrebbe fatto proprie: innanzitutto che la sinistra politica e sindacale non potevano avanzare sulla strada delle conquiste sociali e politiche se non fosse riuscita a coinvolgere anche le donne e poi che le lotte sindacali non potevano essere fine a se stesse, ma dovevano essere strettamente collegate alla realtà politica, sociale ed economica del momento. È sorprendente trovare nei suoi scritti di inizio secolo la convinzione che il ruolo del sindacato, la tutela positiva dei diritti dei lavoratori sia “un problema complesso che coinvolge moltissimi altri problemi economici, politici, morali”. E che pertanto “il sindacato senza abbandonarsi alla impulsività di scioperi improvvisi e tumultuosi … deve prima pazientemente discutere le condizioni dell’industria e dell’agricoltura”. Insomma incontrando sui libri Argentina Altobelli, apprezzando il suo modo di pensare e di fare il sindacato, condividendo le sue scelte a favore di un sindacalismo laico e riformista, svolto solo nell’interesse dei lavoratori ci è sembrato di incontrare … una di noi, una della Uila» Fonte: Fondazione Argentina Altobelli SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ANTONIO GIOLITTI

Antonio Giolitti, antifascista e partigiano, ha svolto un ruolo centrale nella storia italiana del dopoguerra nella sua triplice figura di dirigente politico, di governante e di intellettuale della sinistra. Deputato alla Costituente e nelle due prime legislature repubblicane per il PCI, nel 1957 ha aderito al PSI, partito per il quale è stato deputato dal 1958 al 1979. Sostenitore del centrosinistra, fautore di una politica come costruzione di una società progressivamente migliore e strenuo ideologo di una programmazione del sistema economico mutuata dalle teorie di Keynes e della scuola di Cambridge, è stato ministro del Bilancio nel I gabinetto Moro, del Bilancio e della Programmazione economica nel III gabinetto Rumor e nel governo Colombo, di nuovo del Bilancio nel IV e V gabinetto Rumor. Commissario CEE (1977-85), eletto senatore come indipendente nelle liste del PCI nel 1987, nel 1992 si è ritirato dalla politica attiva. Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2006). Nipote dello statista liberale Giovanni Giolitti, quasi destinato alla politica per tradizione familiare, nel 1937 si è laureato in Diritto civile presso l’Università La Sapienza di Roma, trasferendosi due anni dopo a Torino per lavorare nella fabbrica di lime dello zio Federico e stringendo amicizia con intellettuali quali L. Geymonat, C. Pavese, N. Bobbio e G. Einaudi. In questi anni Giolitti ha iniziato a interessarsi alla politica, frequentando a Roma il gruppo di Giustizia e libertà ed entrando in contatto nel 1940 con il gruppo dei giovani comunisti, tra cui A. Trombadori, A. Amendola e P. Ingrao. Parallelamente alla sua attività politica, G. ha costruito una solida collaborazione con la casa editrice Einaudi, che nel 1943 aveva aperto la sua sede a Roma e per la quale aveva già tradotto opere dal tedesco. Nei mesi precedenti la caduta del fascismo ha iniziato ad assumere un ruolo militante nel PCI, e dopo l’8 settembre, con P. Colajanni, ha organizzato le prime bande partigiane tra Barge, Cavour e il Monte Bracco. Tornato a Roma nel 1945, Togliatti lo ha incaricato del “rapporto con gli intellettuali” nell’ambito dell’ufficio propaganda della direzione del partito; eletto membro dell’Assemblea costituente nel 1946, è stato deputato del PCI dal 1948 al 1957, quando, in forte polemica con la dirigenza del partito, se ne è dimesso dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, approdando tra le fila del Partito socialista per il quale è stato deputato dal 1958 al 1979. Sostenitore del centrosinistra, profondamente impegnato nel dibattito politico e culturale di quegli anni, è stato ministro del Bilancio nel I gabinetto Moro (dicembre 1963 – luglio 1964), del Bilancio e della Programmazione economica nel III gabinetto Rumor e nel governo Colombo (marzo 1970 – febbraio 1972), di nuovo del Bilancio nel IV e V gabinetto Rumor (luglio 1973 – novembre 1974), trovandosi a fronteggiare complesse congiunture economiche che lo hanno visto elaborare un approccio di tipo “socialdemocratico” nella volontà di definire un metodo democratico atto a garantire una coesione egualitaria della società. Nel 1977, sentendosi emarginato all’interno del Psi e interessato dalla possibilità di lavorare per la Comunità Europea, ha accettato l’incarico per due mandati come commissario europeo per la Politica Regionale, ruolo ricoperto fino al 1985, non cessando di interessarsi alla vita politica italiana ed esprimendo critiche verso la deriva partitocratica del PSI che lo avrebbero portato a rompere con questa formazione politica. Nel 1987 è stato eletto senatore nel gruppo misto con il PCI; nel 1992, a fine mandato si è ritirato definitivamente dalla vita politica. Affiancandola al suo lavoro di pubblicista (vanno citate, tra le altre, le sue collaborazioni con le testate “Rinascita”, “Mondo Operaio”, “Tempi Moderni”, “Astrolabio”, “L’Espresso”, “Il Calendario del Popolo”, “Lettera Internazionale”), di traduttore e di consulente editoriale (si ricordi, ad es., la cura di collane Einaudi quali la “Serie di politica economica”), G. ha definito la propria linea politica in saggi quali Riforme e rivoluzione (1958) e Un socialismo possibile (1967), lavoro che documenta il clima di riflessioni tra utopia e pratica politica proprie del socialismo europeo. Nel 1992 ha pubblicato il volume autobiografico Lettere a Marta: ricordi e riflessioni. Una serrata disamina del ruolo ricoperto da G. nella storia italiana del dopoguerra è stata pubblicata nel 2012 a cura di G. Amato sotto il titolo Antonio Giolitti. Una riflessione storica. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it