PARLIAMO DI DAZI

La recente vittoria di Trump, nelle elezioni presidenziali statunitensi, ha riportato all’attenzione politica il tema dei dazi doganali. Penso quindi utile esaminare più a fondo questo tema per aiutarci nel giudicare nel merito questa promessa azione da parte degli USA. Cosa sono i dazi I dazi sono imposte che uno stato applica sulle merci importate. In pratica, quando un prodotto proveniente da un altro paese entra nel territorio di uno stato che ha imposto un dazio, l’importatore deve pagare una somma di denaro allo stato. Il dazio può essere calcolato in percentuale sul valore della merce importata o come un importo fisso per unità. Generalmente a mettere i dazi sono i paesi in cui il costo del bene A è più alto del costo dello stesso bene importato da un paese estero. In tal modo, imponendo un dazio il costo del bene importato si incrementa spostando la domanda verso il bene prodotto internamente. Se ad esempio il bene A costa nazionalmente 100 e il costo del bene importato costa 80, un dazio di 20 rende uguali i costi dei due beni (se il dazio fosse di 10 il costo del bene importato salirebbe a 90 e quindi ancora più conveniente, mentre se fosse 30 non sarebbe più concorrenziale con il bene prodotto internamente). Attenzione esistono strumenti che hanno lo stesso scopo del dazio ma hanno un meccanismo diverso. Penso ad esempio, allo strumento contenuto nell’ Inflation Reduction Act detto anche Ira di Biden. Con questo atto gli USA regalano ad ogni bene prodotto lavorato negli States un bonus che invece è negato agli stessi beni se importati. Invece di imporre una tassa sul bene importato si regala un bonus ai beni prodotti localmente: il risultato è lo stesso.  In una recente intervista l’ex ministro Tremonti richiesto di un parere sull’eventuale imposizione di dazi da parte degli USA ha risposto “è vero che gli USA metteranno i dazi. Ma anche l’Europa li ha. C’è l’IVA sulle importazioni che è di fatto un dazio permanente su tutte le importazioni, da ovunque provengano. E ha un peso enorme (…). Personalmente non conosco la differenza tra dazio e IVA”. Sconcertante risposta che non tiene conto che l’IVA è una imposta sul consumo che colpisce sia le importazioni che le produzioni domestiche mentre i dazi colpiscono solo le importazioni; la differenza c’è e si vede. Globalizzazione Ovviamente l’imposizione dei dazi contrasta la convenienza di consumare beni prodotti all’estero privilegiando i consumi nazionali. Ma è altrettanto ovvio che l’imposizione di dazi spingerà i paesi, da cui si contrasta l’importazione, a imporre a sua volta dei dazi scatenando una guerra commerciale. Inoltre, se un dazio può aiutare la produzione interna in termini di crescita, economia di scala e occupazione, ma a danno del consumatore nazionale, nel lungo termine un eccessivo protezionismo può danneggiare il paese protetto che perde in produttività essendo carente lo stimolo a innovare creato dalla concorrenza di altre imprese.  Storicamente ci sono stati periodi di pesante protezionismo, ma recentemente la strada di un accordo tra molti paesi di puntare ad una limitazione e regolamentazione dei dazi è stata la via prescelta che si è concretizzata, dopo i negoziati dell’Uruguay Round e come successore dei GATT, nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (O.M.C.) conosciuta anche come World Trade Organization (W.T.O). Compito del W.T.O. è quello di stabilire regole commerciali globali, risolvere le controversie internazionali e anche di sostenere i paesi in via di sviluppo. I paesi aderenti al W.T.O. sono 164 cui si aggiungono altri paesi osservatori coprendo così oltre il 90% del commercio mondiale di beni e servizi. Da osservare che i dazi, in talune circostanze, sono ammessi dal W.T.O. in quanto misure ritorsive o compensative di comportamenti scorretti rappresentati da aiuti o sussidi all’esportazione di beni (aiuti di stato) o da operazioni di dumping. Si definisce dumping la pratica di esportare prodotti ad un prezzo inferiore a quello applicato nel mercato domestico Di crescente importanza è l’attività del W.T.O. nel regolamentare ed intervenire contro le barriere non tariffarie; rientrano in questa definizione una vasta gamma di vincoli economici e/o normativi che ostacolano di fatto gli scambi internazionali. E’ chiaro che se l’amministrazione Trump applicasse dazi ingiustificati sconvolgerebbe quel fenomeno detto globalizzazione che stava diffondendosi su tutto il globo, acuendo quel clima di polarizzazione che sta caratterizzando questa fase storica. Effetti dei dazi trumpiani Trump aveva già imposto dazi nel suo precedente mandato nel 2016 sia contro le importazioni dalla Cina che quelle provenienti dall’Europa. Ma i dazi contro la Cina sono parte della guerra dichiarata dagli USA perché quel paese, secondo Trump, ha applicato politiche commerciali scorrette finalizzate ad aumentare enormemente il proprio quantitativo di beni prodotti esportati negli USA. Le misure prese contro l’Unione europea sono invece il risultato dell’esercizio “legale” di un diritto di rivalsa sancito dalle norme W.T.O., compensative in risposta a un comportamento sleale ed “illegale” costituito dagli effetti distorsivi nella competizione degli aiuti di stato di cui Airbus, il colosso europeo dell’industria aeronautica, ha goduto negli anni a danno del suo principale concorrente, il colosso Boeing. Questi dazi “compensativi” hanno colpito il settore agro-alimentare (in particolare quello italiano) perché gli USA possono scegliere liberamente i prodotti sui quali imporre i loro dazi. Infatti, se i dazi avessero colpito l’importazione dal nostro paese di macchinari e di apparecchiature, che sono molto utilizzate dalle imprese statunitensi, i dazi avrebbero causato danni agli USA stessi. E’ da ritenere che anche nella situazione odierna i dazi saranno selezionati accuratamente in modo da creare vantaggi ai produttori statunitensi senza danneggiare le imprese produttive, con conseguenze indesiderate sull’occupazione. A parte la Cina, di cui parlerò più avanti, è mia convinzione che il vero soggetto europeo da colpire, disconoscendo la presenza di un soggetto come l’Europa, sia la Germania la cui vicinanza industriale con la Russia ha sempre creato l’irritazione delle amministrazioni USA. Non dimentichiamo mai come lo strumento di stretta collaborazione tra Germanie e Russia, il Nord Stream Uno e Due sia stato militarmente distrutto e silenziato; un atto di guerra di cui nessuno più …

POLITICA E TECNOLOGIA

Quella che si è svolta recentemente negli USA mi è parsa una delle campagne elettorali più becere e volgari; piena di slogan e di parolacce, di insulti personali e di falsità. Dico subito che il problema non mi pare sia Trump quanto invece quei milioni di cittadini statunitensi che lo votano; ebbene considero il livello medio dello statunitense molto basso come peraltro pare essere il livello intellettuale e culturale; soggetti mediocri dotati di scarso senso critico, attratti da argomentazioni di infimo livello, semplicisti nelle argomentazioni rifuggono dalle argomentazioni più complesse incapaci di sollevare i loro giudizi critici. D’altra parte gli Stati Uniti sono quel paese che, assieme alla Cina, è il più avanzato nella ricerca scientifica, nello sviluppo tecnologico, nella innovazione. Ed è proprio sul fronte della tecnologia, sulle sue scoperte e conquiste che è segnato il cammino del progresso in questa era storica. La tecnologia, a partire dal piccolo strumento manuale usato dall’artigiano, ha sempre più allargato il suo campo di azione, con cicli con una certa ricorrenza storica e temporale, che ha segnato il tempo storico della nostra vita sociale. E negli ultimi anni la tecnologia ha fatto innegabili passi avanti grazie anche e soprattutto alle scoperte scientifiche ed alle loro ricadute sul modo di produrre storicamente determinato. La tecnologia non è socialmente neutrale, quindi ne va analizzata l’essenza in modo approfondito; partirei intanto dalla considerazione che la tecnologia, sia nella fase in cui è semplice strumento di aiuto al lavoro vivo che nella fase in cui lo rimpiazza con l’automazione o addirittura con le vette dell’intelligenza artificiale, si sostituisce al lavoro umano non solo alleviandone la fatica o, visto da un’ altra prospettiva, eliminando posti di lavoro, ma con maggiore efficacia, capacità, produttività; risulta cioè migliore del lavoro umano. Se questo concetto è facilmente accettabile se ci si domanda, ovvero si osserva nella realtà fattuale, ad esempio, se sul piano del moto sia meglio andare a piedi o con un calesse, o con un auto, o con un aereo, o con un razzo. Nessuno mette in dubbio che la tecnologia, nei suoi sviluppi, ha sopravanzato alla grande le capacità umane, pur nella consapevolezza orgogliosa che i prodotti tecnologici sono un prodotto umano, ubbidienti e soggetti al dominio e al comando umano.  Più difficile è l’ammissione che la tecnologia, con l’intelligenza artificiale, possa essere migliore del cervello umano. Su questo fronte si sollevano subito obiezioni di tipo filosofico che affermano che la macchina nelle sue elaborazioni non ha coscienza di quello che, pur con risultati sorprendenti, fa. Il tema se la macchina abbia o meno la coscienza di quello che fa, mi pare un falso problema se si riconosce che la macchina è più capace di noi, che le sue reti neuronali sono più capaci delle nostre, e che quindi può essere di grande aiuto al nostro processo intellettuale purché noi si sia sempre in grado di guidarla, gestirla, dominarla. Basti al proposito ricordare le tre regole di Asimov. Un altro punto da tenere presente è la sinergia tra scienza e tecnologia; la tecnologia è un sottoprodotto della scienza e la scienza è figlia della ricerca. Quindi di fronte all’esaltazione del prodotto tecnologico, sia esso rivolto alla produzione che al consumo, di fronte alla ingenua esaltazione ed enfatizzazione delle svolte epocali a cui è destinata l’umanità grazie alle rivoluzioni tecnologiche, occorre rimandare la nostra attenzione al ruolo della scienza e di conseguenza della ricerca. Su questo fronte Draghi, nel suo rapporto sulla competitività, sottolineando che in Europa siamo indietro di due rivoluzioni tecnologiche (digitalizzazione e intelligenza artificiale) rispetto a USA e Cina, è molto tranciante: o investiamo 800 miliardi l’anno per dieci anni in ricerca e sviluppo, oppure l’Europa è destinata ad una lenta inesorabile agonia. Ecco che allora la via indicata da Draghi diventa, a mio parere, il programma concreto della sinistra europea, superando ogni sovranismo nazionalistico. Ma oltre al rapporto tecnologia-scienza, è evidente che è difficile produrre saperi e prodotti tecnologici senza il sostegno di grandi quantità di capitali; ecco che allora ci si presenta un ulteriore nesso che non è privo di conseguenze. Ecco che allora l’aspetto proprietario, conseguente all’apporto di capitali, comporta una riflessione critica interpretativa del fenomeno fatta da parte dell’economia politica. La ricerca, la scienza, le conseguenti scoperte sono fondamentalmente un processo sociale, il risultato di iniziative fatte dalla comunità nell’ambito statuale; la scuola, l’Università, i centri di ricerca sono a monte del processo di cui stiamo discutendo. Sono le indimenticabili parole e scritti di Mariana Mazzucato a chiarirci i meccanismi mediante i quali il prodotto sociale viene trasferito alla sfera privata. La scelta tra le scoperte da finanziare è esercitata dal venture capital in base alle previsioni di profittabilità della stessa. Una scelta fatta con altri parametri, diversi da quelli della profittabilità, porterebbe molto probabilmente a esiti diversi. E la scelta del finanziamento selettivo tra le scoperte della scienza e della tecnologia segna il cammino del paese; non è quindi indifferente se il criterio di scelta sia il profitto o, ad esempio, il bene comune. Non condivido appieno la tesi operaistica secondo cui (mi riferisco al libro di Andrea Cengia Le macchine del capitale”) “Le macchine e la tecnologia sono attratte dal capitale e, sotto la forma del macchinario, si schierano a suo fianco. Il problema non sono le macchine, capaci di alleviare le fatiche dell’uomo, ma il loro uso capitalistico come dimostra Marx nel Capitale con l’aumento dello sfruttamento dei lavoratori per mezzo dell’introduzione e la presenza del sistema delle macchine nella grande industria che incrementano la loro sussunzione reale”. Nel condividere che “il problema non sono le macchine” ma dell’uso che se ne fa, non credo che lo scopo sia di sfruttare ulteriormente i lavoratori, bensì sia la ricerca di maggior profitto che può comportare la riduzione di bisogno di lavoro vivo e quindi di licenziamenti di massa. Va da sé che produrre di più e diminuire la domanda conseguente al minor ricorso al lavoro vivo, rappresenta una contraddizione di difficile soluzione. Abbiamo quindi una duplice contraddizione: da …

LA SINISTRA, OGGI

Fermandomi un attimo a riflettere su cosa significhi oggi essere di sinistra, temo di poter giungere alla conclusione che la sinistra è un vero partito conservatore. Conservatore perché, messa alle corde dalla situazione attuale, la sinistra non sa che porsi come difensore delle conquiste fatte dalla sinistra nel passato senza alcuna proposta costruttiva per il futuro. La sinistra negli anni del secondo dopoguerra si è posta come la grande innovatrice sul fronte costituzionale ed economico, ponendosi come vero soggetto “rivoluzionario”,  ovvero come vera portatrice di valori innovativi, di costruttrice di una nuova società solidale che nulla aveva a che fare con il classismo borghese del passato e soprattutto completamente diversa dalla visione sociale del fascismo. La grande positività della sinistra nel secondo dopoguerra è stata la capacità di schierarsi dalla parte della creatività della libertà anche in opposizione ai limiti di un bolscevismo vittima di una logica del potere incapace di perseguire la creatività dell’esplosione della libertà delle classi oppresse. La scrittura della costituzione ha disegnato la percorribilità di una società socialista all’interno delle libertà democratiche, la costruzione di uno stato sociale ha costituito la realizzazione della visione gramsciana dell’eguaglianza, basata sulla trasformazione delle classi subalterne in soggetti consapevoli delle responsabilità di chi deve assumersi la capacità di governare nel concreto il cammino di un popolo. L’assunzione della responsabilità di combattere il fascismo come premessa comune a tutte le forze alla costruzione di una concreta democrazia sostanziale e non formale. L’appello a tutte le coscienze responsabili a collaborare alla costruzione di una egemonia che svilisse la gretta mentalità borghese subalterna al profitto, ha fatto nascere in molti di noi il dovere di porsi come protagonista di una lenta, inesorabile, razionale, graduale, inarrestabile costruzione di un mondo più umano. Ero direttore amministrativo di una multinazionale statunitense con possibilità di carriera trasferendomi negli USA, non avevo problemi nell’immaginare un mio percorso nel futuro per la vita della mia famiglia. Eppure l’ingenua, oggi giudicabile come irresponsabile, mia pulsione per la costruzione dal basso di una società nuova, mi portò a dare le dimissioni per entrare nel movimento cooperativo. Non rinnego la mia scelta, ma constato che non è servita a nulla. La rinascita delle borgate romane che, grazie a Petroselli, da inabitabile rifugio di centinaia di migliaia di persone furono portate ad essere vivibili agglomerati di esseri umani, furono il segno di quanto fosse difficile lavorare per realizzare i progetti della sinistra ma di quanto fosse possibile farlo sull’onda di una comune visione di costruzione di civiltà. C’era nelle discussioni in sezione, nell’incontro tra famiglie di diversa provenienza, nel confronto tra “intellettuali” e strati di popolazione più “incolta”, un vero processo di costruzione congiunta, dell’uno che sentiva il bisogno dell’apporto dell’altro e viceversa, fino a giungere ad una scelta comune. Un processo dalla base, dal basso che preludeva ad un cammino comune per la creazione di una democrazia sostanziale, di un superamento di un secolare classismo razziale. Negli anni questo percorso si è sfaldato. E’ scomparsa ogni idea di un obiettivo da raggiungere se non quello di votare a sinistra (per fare che?) lasciando spazio all’indifferenza sfociata nel non voto, che oggi non è un non voto di ex compagni ma è un non voto di veri e genuini indifferenti. Non abbiamo più quel minimo di progettualità rappresentato persino da quei governi Prodi. Siamo ridotti a difendere l’esistente attaccato da una destra risorgente non solo a livello locale o nazionale, ma mondiale. Ci battiamo per portare la spesa per la sanità dal 6,3 al 7,2 del PIL, ci battiamo per un salario minimo di 9 euro l’ora, ci diamo da fare per organizzare un referendum contro il premierato, un altro referendum per abrogare l’autonomia differenziata, un altro ancora per lo jus scholae. Assistiamo inerti allo stravolgimento della fiscalità, alla violazione di ogni principio di progressività dell’imposta, al furto perpetrato ai danni del lavoro dipendente e dei pensionati. Argomenti forti utilizzabili contro lo sfruttamento dei ceti bassi e medi vengono ignorati anche se violano palesemente la costituzione ed il principio marginalista della progressività. Ci accodiamo supinamente alla concezione del messaggio di “meno tasse per tutti” incapaci di un sussulto morale alla Padoa Schioppa. Non abbiamo una visione per il futuro, se non cercare, da buoni conservatori, di difendere da posizioni obiettivamente soggiacenti, quella parvenza di democrazia che avevamo cercato di creare. Ci limitiamo a difenderci dalle manovre fascisteggianti di una destra che ha il chiaro progetto di abbattere la divisione dei poteri ed arrivare ad un esecutivo assoluto padrone. Noi ci opponiamo alla soluzione albanese del problema immigratorio, ma non abbiamo una proposta alternativa; ci opponiamo al “piano Mattei”, perché non sappiamo in che consista, ma non abbiamo alcun piano alternativo; ci opponiamo al premierato ma non abbiamo una proposta per rimediare ad un bolso sistema di funzionamento delle istituzioni; ci opponiamo ma non abbiamo proposte alternative, non abbiamo creatività. Anche se ci rivolgiamo al socialismo non abbiamo la minima idea di cosa sia questo socialismo, in che cosa si concretizzi, quali obiettivi si ponga.    Eppure ci sono temi enormi di fronte a noi: la subalternità dell’Europa agli USA, la debolezza europea nel campo della rivoluzione tecnologica condotta da USA e Cina, la lenta agonia di una Europa incapace di disegnarsi uno ruolo nella polarizzazione del mondo.  Eppure Draghi ci pone il tema con disarmante concretezza; siamo di fronte all’agonia dell’Europa.  Forse un obiettivo, magari anche solo quello della sopravvivenza, ce l’avremmo. Ma il silenzio è tombale. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LE PREVISIONI DEL PIL NEL MONDO

Le previsioni del Pil nel mondo per il 2024 danno i seguenti risultati: PRODOTTO INTERNO LORDO percentuali sull’anno precedente 2024 2025 Mondo 3,2 3,3 India 6,7 6,8 Cina 4,8 4,6 USA 2,4 2,1 Area Euro 0,8 1,4 Italia 1,0 1,1 Quindi il mondo viaggia al triplo della velocità dell’Europa (e dell’Italia) trascinato da economie come India e Cina che viaggiano ad una velocità rispettivamente de 6 e 5 volte quella europea. Gli USA si piazzano in mezzo con una velocità doppia rispetto alla nostra. Quali sono le ragioni di queste differenze? I paesi emergenti, partendo da livelli inferiori realizzano facilmente crescite più marcate, ma attenzione né India né Cina vanno più considerate economie in via di sviluppo. Un’altra ragione va ricercata negli investimenti in R&I, nelle nuove tecnologie, dai computer quantistici all’Intelligenza Artificiale. Su questo fronte il rapporto Draghi ha scritto cose fondamentali, ispirato da una visione Schumpeteriana, che preludono, se non si cambia strada da subito, ad una lenta agonia del nostro continente. Non conosco appieno le potenzialità dell’India, ma è chiaro che USA e Cina primeggiano sul fronte dell’innovazione tecnologica guidate l’una dal Pentagono, l’altra dal partito comunista. Certo c’è da chiedersi se il modello socialdemocratico europeo caratterizzato da un capitalismo ansimante corretto da una redistribuzione sociale sempre più senza spazio, non sia un modello da riconsiderare; certo che le cose, per il futuro non si prospettano rosee. Una proiezione al 2050 ci presenta la seguente situazione: Pos. Nome Paese Previsioni PIL in $ (2050) Quota % sul PIL mondiale 1 Cina 42,96 trilioni 19,10% 2 India 38,68 trilioni 17,21% 3 Stati Uniti 26,58 trilioni 11,82% 4 Indonesia 6,60 trilioni 2,93% 5 Russia 5,69 trilioni 2,53% 6 Giappone 5,20 trilioni 2,31% 7 Germania 4,92 trlioni 2,18% 9 Regno Unito 3,74 trilioni 1,66% E per quel che riguarda il nostro paese cosa prevede l’articolo di Money.it? L’Italia è al 14° posto, proceduta da Brasile (10°), Vietnam (11°), Egitto (12°) ed Etiopia (13°), e seguita da Australia (15°), Spagna (16°), Arabia Saudita (17°), Pakistan (18°), Polonia (19°) e Myanmar (20°). Il PIL italiano nel 2050 si stima varrà 2,16 trilioni di dollari, per un peso sul PIL mondiale dello 0,96%, mentre la popolazione ci si attende scenderà a 52.250.000 (dagli attuali 58.990.000). Certo, non è corretto comparare tassi di crescita con risultati assoluti, ma alcune considerazioni vanno fatte. I paesi Brics dominano la situazione. La dedollarizzazione sarà un fenomeno che muterà gli scenari futuri; sarebbe il caso di cominciare a pensarci. I paesi a regime socialista competono con quelli a regime capitalista, anzi avanzano nella classifica; voglio prendere ad esempio il Vietnam, colonia francese ove gli USA, subentrati nella difesa della democrazia, hanno subito una sconfitta storica. La guerra degli USA era per esportare democrazia e benessere in Vietnam contro il regime del nord di quel paese. Sembrava una guerra tra due mondi: da una parte libertà e progresso, dall’altra dittatura e miseria. Ora il Vietnam, con una economia socialista, ci sorpassa (è all’undicesimo posto contro il nostro quattordicesimo), è diventato luogo di turismo e di crescita, tutto pare tranne che il paese del male. La Banca Mondiale ha scritto nel suo rapporto che: «Il Vietnam è stato una storia di successo nello sviluppo economico. Le riforme economiche avviate nel 1986 con il Đổi Mới (Rinnovamento), insieme alle tendenze globali positive, hanno contribuito a far passare il Vietnam da una delle nazioni più povere del mondo a un’economia a medio reddito in una sola generazione. Tra il 2002 e il 2022, il Prodotto interno lordo pro capite è aumentato di 3,6 volte, raggiungendo quasi tremilasettecento dollari. Il tasso di povertà (3,65 dollari al giorno, 2017 PPA) è sceso dal quattordici per cento del 2010 al 3,8 del 2020». Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) prevede che il prodotto interno lordo del Vietnam aumenterà del 5,8 per cento nel 2024, collocandosi al secondo posto nella regione. La crescita del Vietnam non ruota più solo intorno all’agricoltura, ma si è posizionata in settori ad alta tecnologia, tra cui l’Industria 4.0, i chip semiconduttori, l’IA e l’idrogeno, e sta attirando capitali internazionali. (Rainer Zitelman La logica del mercato) Non sto chiedendo di instaurare il socialismo in Italia, sto solo considerando che servirebbe una politica industriale, specie se a livello europeo. Che c’è, nella legge di bilancio 2025, a questo proposito? Regali alle imprese 5.0 senza che siano corrisposte allo stato partecipazioni, vendita dei gioielli di famiglia (Poste, Eni etc.) appelli a Elon Musk,  al Black Rock e a Microsoft.  La Schlein continua a richiedere REDISTRIBUZIONE, ma de che? Non è tempo di redistribuire ciò che non c’è, è tempo di costruire, investire, innovare, fare ricerca, guidare (affiancando o sostituendosi ad esso) un capitalismo ansimante che vede il crollo del suo idolo torinese, la famiglia Agnelli, che abbandona l’Italia (dopo tutti i soldi ricevuti), abbandona l’auto, non mantiene gli impegni e evade l’imposta di successione. A mio parere, un partito socialista degno del suo ruolo dovrebbe far proprio l’approccio (non necessariamente tutte le conclusioni – mi riferisco alla difesa) del documento Draghi: o l’Europa cambia o è destinata a sparire. Quel documento denuncia l’incapacità del nostro capitalismo ad avere uno ruolo nel futuro dell’Europa, servono 800 miliardi l’anno per dieci anni, non certo da erogare in sussidi e crediti di imposta, ma da investire e l’investimento è di chi ci mette i fondi (li trova e li deve restituire), lo Stato europeo. In fondo è una implicita risposta alla semplice domanda: ma siamo sicuri che affidare gli investimenti al capitalismo che sceglie e decide non in base ai bisogni del paese o in base ad un piano, ma in base al profitto che ne può ricavare, sia una scelta razionale? Mi pare che ciò che succede al mondo stia dando una risposta definitiva.  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere …

FINANZIARIA E PIANO SETTENNALE

Ho sempre sostenuto che questo governo si sarebbe trovato in grosse difficoltà nel predisporre la finanziaria per il 2025 e, dopo la sospensione per il Covid, con il piano di rientro del debito da programmare per i prossimi sette anni. Noi ci troviamo con un debito che sfiora i tremila miliardi di euro, siamo sotto procedura europea per eccesso di deficit, siamo in grossa difficoltà produttiva, le previsioni di andamento del PIL sono, come dice Prodi, dello zero virgola. Dobbiamo quindi ridurre il debito, ma per ridurre il debito dobbiamo passare da un bilancio in deficit a uno con risparmio primario (cioè senza considerare gli interessi), oppure (o contestualmente) dobbiamo incrementare il PIL di modo che il rapporto debito/PIL migliori. Ma per aumentare il PIL dobbiamo fare investimenti, spendere cioè dei soldi che necessariamente vanno ad incrementare il deficit. Sono obiettivi che richiedono interventi che confliggono l’uno con l’altro e che comunque devono fare i conti con le pretese dei partiti al governo: chi vuole anticipare la possibilità di andare in pensione, chi non vuole che si tassino i super profitti, chi non vuole sentir pronunciare la parola “SACRIFICI”. Insomma non invidio Giorgetti. Vediamo allora di esaminare i vari possibili interventi: ● Il debito a fine 2023 era pari al 134.8 del PIL e siamo richiesti di ridurlo di un punto percentuale di PIL per ogni anno fino alla fine del piano settennale. La riduzione del tasso debito/PIL si ottiene o riducendo il debito o (magari contestualmente) aumentando il PIL. ● La riduzione del debito richiede che annualmente si generi un avanzo primario (al netto cioè degli interessi) e tale riduzione si ottiene o aumentando le entrate o (magari contestualmente) riducendo le uscite. ● L’aumento delle entrate si ottiene con tre azioni: combattere l’evasione fiscale, aumentare le imposte e le tasse oppure vendendo i gioielli di famiglia. ○ Sul fronte dell’evasione fiscale non vedo nelle azioni del governo un programma preciso. Eppure nel programma di governo di due anni fa c’era l’indicazione di utilizzare in modo proficuo l’Intelligenza Artificiale che, utilizzando tutte le banche dati a disposizione del governo, potesse, individuare scompensi significativi tra spese e redditi dichiarati (o non dichiarati) dal contribuente. Ricordo che l’evasione si aggira sui 90/100 miliardi annui e che quindi, oltre a combattere un furto evidente, la lotta all’evasione darebbe un buon contributo ai nostri conti. Ricordo ancora che con provvedimenti seri, come quello della fatturazione elettronica ideata da Vincenzo Visco ed attuata dal governo Renzi,  si è potuto abbattere in buona misura l’evasione dell’IVA e conseguentemente quella delle imposte sui redditi. Ci sono altre proposte, sempre di Visco, che potrebbero essere attuate se ci fosse la volontà politica. ○ Aumentare le imposte. Da anni, su questo fronte vige il motto “meno tasse per tutti”, smentendo l’opinione di un ministro delle finanze che riteneva che le imposte fossero un chiaro esempio di solidarietà nazionale. Tutti i partiti rifiutano di ricorrere a questo mezzo che è ritenuto un sicuro vulnus contro il consenso elettorale: mai aumentare le tasse se non si vogliono perdere voti. Chi veramente può ricorrere a questa scelta è il governante cui non interessa il consenso; generalmente quando servono azioni anche impopolari si ricorre al “governo tecnico” (vedi Dini, Monti, Draghi) che affronta il problema senza preoccupazioni elettorali e imposta azioni più o meno condivisibili ma efficaci per raggiungere lo scopo. Classico esempio è la riforma Fornero, contestata eternamente da quel buffone di Salvini ma che contribuisce a rimediare ai problemi della finanza pubblica. A questo proposito si parla di “aumentare le tasse” quando si prospetta la revisione del valore catastale degli immobili che hanno ristrutturato ricorrendo al bonus 110%. ○ Ebbene se chi ha ricorso al superbonus ha incrementato il valore del suo fabbricato e di conseguenza dovrebbe pagare più imposte (se dovute) basate sul valore catastale dell’immobile,  non può inquadrarsi nella fattispecie dell’aumento delle imposte. Mi spiego, se mi hanno promosso a dirigente e quindi mi hanno aumentato lo stipendio, pagherò certamente più tasse ma non perché hanno aumentato le imposte ma perché è aumentata la base imponibile su cui applicare le imposte. Se quindi con soldi che lo stato mi ha regalato ho ristrutturato casa e quindi la casa ha un maggior valore, non mi hanno aumentato le tasse, ma hanno applicato le imposte dovute su una maggior  base imponibile. Diverso è il caso in cui il governo Draghi (guarda caso un governo tecnico) ha modificato l’art. 67 del Tuir, rendendo tassabile la plusvalenza realizzata dalla vendita di un immobile che abbia goduto dei benefici del superbonus anche se la casa è posseduta da più di 5 anni dal momento dell’acquisto. In questo caso sì esiste una nuova imposta; non nel caso della rivalutazione catastale dell’immobile il cui valore è obiettivamente aumentato. Al proposito c’è da chiedersi perchè tutti i possessori di edifici il cui valore commerciale è decisamente e permanentemente aumentato (vicinanza di una stazione metro, essere locati nei pressi di Piazza Navona, godere di una situazione commercialmente richiesta) non abbiano richiesto la revisione della rendita catastale che comporta un aumento dell’IMU se dovuta e delle imposte di successione. ○ Ma un sistema per aumentare il gettito fiscale sarebbe quello di tornare al dettato costituzionale della progressività delle imposte, progressività che opera solo nei confronti di lavoratori dipendenti e pensionati ma che è stata eliminata (regalo elettorale) a tanti soggetti con l’introduzione della flat tax, che il programma di questo governo vorrebbe estendere a tutti, mandando il paese allo sfascio. ○ Vendere i gioielli di famiglia: si parla delle privatizzazioni, quelle che in abbondanza furono eseguite dal governo Prodi, più che per ragioni di riduzione del debito, per seguire una ideologia libero-mercatistica di dubbia efficacia economica. Ebbene, questo governo sta vendendo quote di Poste Italiane e di Eni al fine di recuperare fondi con cui ridurre il debito pubblico. Lo Stato mantiene comunque la “golden rule”, ovvero il potere di guidare le scelte di questi investimenti strategici, ma perde, negli anni futuri, dividendi derivanti dalle sua partecipazioni azionarie; …

DA SRAFFA A DRAGHI

Pochi conoscono il lavoro di Piero Sraffa, lavoro elaborato negli anni ’30, ma uscito come libro nel 1960 con il titolo PRODUZIONE DI MERCI A MEZZO DI MERCI. Questo lavoro contesta l’egemonica teoria economica neo-classica basata sul marginalismo Marshalliano e di Walras. In tale  teoria l’equazione che partendo dalla produzione arriva al prodotto finale sul mercato del consumo, in regime di libero scambio, senza cioè presenza di monopoli né di interventi da parte dello stato, ritrova sempre un suo equilibrio rappresentato dall’incontro tra domanda e offerta nella corrispondenza del valore marginale dei soggetti economici interessati. Tale equazione si può sintetizzare come: (1) contributo della terra + contributo del capitale + contributo del lavoro = prodotto finale Per ogni accadimento esogeno, e lo sviluppo tecnologico è considerato tale, i vari operatori economici rideterminano il loro valore marginale che, prima o poi, ritrova il suo equilibrio grazie ai meccanismi del libero mercato. In tale visione non può esistere contrasto tra gli operatori, non esiste sfruttamento di un operatore sull’altro, entrambi operando sulla base di concorde incontro tra i valori marginali. Non sono concepibili situazioni di prevaricazioni del capitale sul lavoro, non esiste sfruttamento, non esistono classi sociali, non servono interventi dei sindacati che altro non farebbero che intralciare il meccanismo di mercato, così come lo intralcia ogni intervento dello stato. Un lavoratore, ad esempio, confronta il decrescente valor marginale del salario offerto sul mercato con la fatica crescente del lavoro prestato; finché il valor marginale della paga è superiore alla fatica marginale dell’ora lavorata, il lavoratore presta lavoro; quando la fatica eccede il valore del salario il lavoratore cessa di prestare lavoro; nel punto di incontro si determina sia il salario che il tempo di lavoro, il tutto nella libera volontà del lavoratore. Il fondamento di questa teoria si basa su elementi psicologici, quali il valore marginale che ignorando le reali condizioni dei rapporti tra i soggetti sociali, viaggiano in una atmosfera ideologica poco compatibile con la dura realtà dell’economia. Sraffa nel suo lavoro, oppone alla teoria neo-classica un “ritorno ai classici”, Smith, Marx ma soprattutto Ricardo. Questo ritorno ai classici evidenzia punti fondamentali che contestano il marginalismo: ● L’equazione della produzione (1) è lineare, ma nella realtà occorre studiare l’economia come un processo circolare, nel senso che l’output di una industria diventa input di una industria successiva. Studiare il processo economico utilizzando una equazione lineare è quindi contestabile a livello di principio, parrebbe molto più adatto utilizzare le tabelle di input-output di Wassili Leontief; ● Il non considerare la circolarità del processo porta ad una pesante contraddizione. Infatti, quando nella formula dell’equazione lineare (1)  leggiamo “contributo del capitale” dobbiamo renderci conto che il capitale apporta macchinari, merci, prodotti di altre industrie. Apporta cioè prodotti di cui dovremmo aver determinato con una appropriata equazione lineare i relativi valori. Quindi la formula inserisce come dato un valore che deve essere determinato dalla formula stessa; è una evidente pecca logica che inficia tutto il sistema teorico neo-classico. ● L’equazione (1) ignora lo sviluppo tecnologico che viene considerato come elemento esogeno, estraneo al processo produttivo. Un altro economista, l’austriaco Joseph Schumpeter, contesta la pace perfetta del mondo marginalista opponendogli una lotta tra operatori sul mercato basata sull’innovazione tecnologica sia nella produzione che nella ricerca dei mercati, innovazioni che sconvolgono il mercato dando un temporaneo vantaggio all’operatore innovatore che i concorrenti tentano di azzerare introducendo nuove innovazioni, sapendo di rischiare l’emarginazione, il fallimento in caso di inerzia. Nel modello di Sraffa si parte da un modello di produzione circolare in cui i quantitativi prodotti sono esattamente uguali a quelli utilizzati nel processo produttivo; se consideriamo ad esempio un modello con tre componenti: grano, ferro, carbone, avremo: (2) 240 q grano + 12 t ferro + 18 porci = 450 q grano        90 q grano +   6 t ferro +  12 porci =   21 t ferro        120 q grano +   3 t ferro +  30 porci =  60 porci Riscontriamo che l’output di ogni prodotto è uguale alla somma degli inputs delle imprese che utilizzano quel prodotto; ad esempio i 450 quintali di grano prodotto entrano nella produzione di grano, ferro e porci esattamente per 450 quintali. Lo stesso per ferro e porci. In tale modello abbiamo tre equazioni e tre incognite (i prezzi dei vari beni) rendendo insolubile il sistema. Ma se adottiamo un prodotto come prodotto misura dei valori e poniamo il suo prezzo uguale ad 1 riduciamo le incognite a 2 rendendo possibile la soluzione matematica della determinazione delle ragioni di scambio e dei prezzi (relativi al prodotto misura). Ma quando grazie alle innovazioni tecnologiche, alla formazione dei lavoratori, a nuovi metodi di produzione si crea produttività, allora i quantitativi prodotti eccedono quelli necessari al processo produttivo generando un surplus. Adottando il precedente esempio vediamo come mutano le equazioni: (3) 240 q grano + 12 t ferro + 18 porci = 570 q grano meno  450 = sovrappiù  120         90 q grano +   6 t ferro +  12 porci =   31 t ferro    meno   21 =  sovrappiù    10          120 q grano +   3 t ferro +  30 porci =  60 porci         meno  60 = sovrappiù       0 Ci si pone ora la domanda di come si posa ripartire tra i fattori della produzione (ovvero tra capitale e lavoro) quel sovrappiù generato. Secondo la teoria neo-classica il sovrappiù viene redistribuito secondo gli equilibri marginali, tema questo ideologico stante i difetti intrinseci dell’equazione lineare (1); secondo Sraffa la ripartizione del sovrappiù non conosce una legge se non quella dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Le equazioni di una produzione con sovrappiù sono tutte risolvibili matematicamente qualunque sia la ripartizione del sovrappiù tra capitale e lavoro. Di certo sappiamo che saggio di salario più saggio di profitto danno come risultato 1. Possiamo quindi ipotizzare un saggio (o di lavoro o di profitto)  ricavando l’altro saggio per differenza. Infatti nulla vieta di considerale tutte le possibili combinazioni adottando, per esempio in un primo caso un saggio di salario che assorbe il 100% …

PREMIERATO E VOLONTA’ POPOLARE

Il comportamento di Macron che violenta la volontà popolare espressa in un voto voluto da Macron dopo le elezioni europee, offre motivi di riflessione sulla legge costituzionale in approvazione alle Camere. La riflessione vede uno scontro tra due posizioni: a) la volontà popolare domina le scelte di una democrazia, b) la volontà popolare va ridisegnata per favorire stabilità e tempestività dell’esecutivo. La scelta non può essere ideologica e l’alternativa proposta non è banale ma va ponderata seriamente. Infatti, superato l’indubbio riconoscimento al valore essenziale in democrazia della volontà popolare, ne segue che viviamo in un tempo che sta dimostrando in moltissime evenienze la crisi sistemica della democrazia. Basta guardare il mondo che ci circonda, dal tentato golpe di Trump che potrebbe ripetersi negli USA, alle prepotenze di Macron, al voto di AfD in Germania, al fatto che la maggioranza dei paesi del mondo non hanno fatto una scelta democratica, agli indubbi successi che un regime non democratico come quello cinese stanno avendo, per riconoscere che l’alternativa posta è tutt’altro che banale. Nel tentativo di coniugare stabilità del governo con il regime democratico il governo Meloni ha presentato alle camere un disegno di legge costituzionale che è in corso di approvazione. Vorrei approfondire questa proposta di riforma. Due sono i punti che mi paiono critici: 1 – l’elezione del premier cambia il risultato delle elezioni La formulazione originaria per cui al partito o all’alleanza che avesse proposto il nome del/della premier risultante eletta, spettava il 55% dei seggi in entrambe le camere, rispolverando la legge Acerbo, è stata modificata eliminando l’indicazione del 55% e modificandola in una garanzia che assicuri al partito o all’alleanza “una maggioranza” non specificata e lasciata alla legge elettorale. La scelta del premio è lasciata ad una legge ordinaria che, nel rispetto della costituzione che fosse in tal senso modificata, non è soggetta a referendum confermativo anche se approvata con meno dei due terzi dei voti. Ma la vera anomalia sta nel fatto che il premio di maggioranza non viene generato sulla base dei dati elettorali espressi dal popolo (come succedeva anche con la legge Acerbo), ma viene generato dall’elezione relativa all’esecutivo. Per essere più chiari è il voto al candidato premier che va a modificare il voto del potere legislativo. Quindi il voto per l’esecutivo modifica il voto per il legislativo, subordinandolo e snaturando la dignità del parlamento che diventa così il ratificatore delle scelte legislative dell’esecutivo. Faccio un esempio: si presentano alle elezioni sinistra, destra e Calenda. La sinistra propone Schlein come premier, la destra propone la Meloni, Calenda propone Draghi. Il risultato delle elezioni è 50% destra, 40% sinistra, 10% Calenda. Per il premier Draghi prende il 60% delle preferenze Meloni e Schlein prendono il 20% ciascuna. Ebbene Draghi sarà premier e nel Parlamento Calenda avrà la maggioranza (relativa, assoluta, qualificata non si sa) e destra e sinistra si spartiranno i seggi dell’opposizione.  Lo stravolgimento della volontà popolare è evidente. 2 – Il sistema non raggiunge l’obiettivo Ricordo che l’obiettivo è avere un governo che duri per tutta la legislatura. La vita media dei governi fino ad oggi è di due anni. Anche il governo Meloni prima ancora di compiere i due anni sta vivendo una fase di criticità, se non altro per l’evidente conflitto tra Lega e Forza Italia. Ebbene, poiché la media dei due anni non nasce dal nulla né dal caso ma dalle difficoltà di mantenersi stabili che le alleanze sembrano comportare, vediamo come la nuova legge affronterebbe il caso di crisi all’interno dell’alleanza che ha indicato il premier. Tolto al Presidente della Repubblica ogni potere decisionale in caso di rottura dell’alleanza al governo e sfiducia o dimissioni del premier, resta la possibilità su scelta del premier sfiduciato di sciogliere le Camere e andare a nuove elezioni o, in taluni casi, scegliere un nuovo premier ma nell’ambito della coalizione che ha vinto le elezioni. Immaginate se mai la Meloni sfiduciata a causa della rottura con la Lega, accetterà mai di indicare Salvini come nuovo premier. Nei fatti non rimane che lo scioglimento delle Camere e l’indizione di nuove elezioni. Conclusione: è vero che i governi dureranno tutta la legislatura, ma saranno le legislature a durare mediamente due anni. 3 – Un’ultima considerazione La legge in approvazione nega al Presidente della Repubblica la possibilità di cercare in caso di crisi maggioranze possibili come quelle che portano a governi tecnici. Ora nel nostro sistema, con il personale politico che c’è, notiamo una contraddizione evidente: tutti i partiti sono incapaci di leggi serie e necessarie che generino opposizione e quindi perdita di voti tra gli elettori. Oggi con la nuova legge di stabilità non puoi certo non generare opposizione popolare, nessun partito è così suicida. Solo un governo tecnico, di governanti che non sono condizionati dal timore di perdere consenso elettorale, può affrontare situazioni estremamente difficili come la legge di bilancio. Da tempo prevedo che questa legge di bilancio scatenerà la crisi dell’attuale governo, ma ciò che mi preme sottolineare che perdere la possibilità di formare governi tecnici è una scelta pericolosa contenuta in questa proposta di legge costituzionale. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DRAGHI PRESENTA IL RAPPORTO SULLA COMPETITIVITA’

Presentando il suo rapporto sulla competitività, che uscirà a metà settembre, Draghi ha anticipato i punti salienti del suo rapporto; riportiamo di seguito i punti più stimolanti. Draghi inizia ricordando che l’Europa, invece di fare sistema, ha guardato più che altro a ricercare concorrenza all’interno tra i paesi membri. “Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale.” Questo misurarsi all’interno del mercato comune ci ha fatto perdere l’attenzione su come il mondo stava cambiando:  “Ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa.” Il mondo, tradendo lo spirito del WTO sta perseguendo strade protezioniste, riferendosi oltre alla Cina, credo, all’Inflation Reduction Act di Biden: “ Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva. Nella migliore delle ipotesi, queste politiche sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre; e, nel peggiore dei casi, sono progettati per renderci permanentemente dipendenti da loro. (…) Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini – compresa quella delle aziende europee – mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento.” E prosegue rilevando che:” Ci manca una strategia su come tenere il passo in una corsa sempre più spietata per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi investiamo meno in tecnologie digitali e avanzate rispetto a Stati Uniti e Cina(…). Manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da un terreno di gioco globale ineguale causato da asimmetrie nelle normative, nei sussidi e nelle politiche commerciali.” Come risultato nei paesi concorrenti le “industrie non solo devono far fronte a costi energetici più bassi, ma devono anche far fronte a un minore onere normativo e, in alcuni casi, ricevono massicci sussidi che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere.(…) La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze.” Ecco che allora occorre pensare a “ realizzare la trasformazione dell’intera economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’UE; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deep-tech e nel digitale” Draghi indica allora “tre filoni comuni per gli interventi politici. Il primo filo conduttore è consentire la scalabilità. I nostri principali concorrenti stanno approfittando del fatto di essere economie di dimensioni continentali per generare scala, aumentare gli investimenti e conquistare quote di mercato per i settori in cui conta di più. In Europa abbiamo lo stesso vantaggio in termini di dimensioni naturali, ma la frammentazione ci frena.(—) . Potremmo affrontare questo ostacolo, tra le altre cose, rivedendo l’attuale regolamentazione prudenziale sui prestiti bancari e istituendo un nuovo regime normativo comune per le start-up nel settore tecnologico.  Il secondo filone riguarda la fornitura di beni pubblici. Laddove ci sono investimenti da cui tutti beneficiamo, ma che nessun paese può portare a termine da solo, abbiamo validi motivi per agire insieme (…). Le reti energetiche, e in particolare le interconnessioni, ne sono un esempio. Si tratta di un chiaro bene pubblico, poiché un mercato energetico integrato ridurrebbe i costi energetici per le nostre aziende e ci renderebbe più resilienti di fronte alle crisi future. (…). Ma le interconnessioni richiedono decisioni sulla pianificazione, sul finanziamento, sull’approvvigionamento di materiali e sulla governance che sono difficili da coordinare – e quindi non saremo in grado di costruire una vera Unione dell’energia se non raggiungiamo un approccio comune. Un altro esempio è la nostra infrastruttura di supercalcolo. L’UE dispone di una rete pubblica di computer ad alte prestazioni (HPC) di livello mondiale, ma le ricadute sul settore privato sono attualmente molto, molto limitate. Questa rete potrebbe essere utilizzata dal settore privato – ad esempio startup di intelligenza artificiale e PMI – e in cambio, i benefici finanziari ricevuti potrebbero essere reinvestiti per aggiornare gli HPC e sostenere l’espansione del cloud nell’UE.(…). L’UE dispone di risparmi privati molto elevati, ma sono per lo più incanalati nei depositi bancari e non finiscono per finanziare la crescita come potrebbero in un mercato dei capitali più ampio. Questo è il motivo per cui il progresso dell’Unione dei mercati dei capitali (UMC) è una parte indispensabile della strategia complessiva per la competitività. Il terzo filo conduttore è garantire la fornitura di risorse e input essenziali.(…). Attualmente stiamo in gran parte lasciando questo spazio agli attori privati, mentre altri governi guidano direttamente o coordinano fortemente l’intera catena.(…). Ad esempio, potremmo prevedere una piattaforma europea dedicata ai minerali critici, principalmente per gli appalti congiunti, la sicurezza dell’approvvigionamento diversificato, la messa in comune, il finanziamento e lo stoccaggio. Un altro input cruciale che dobbiamo garantire – e questo è particolarmente importante per voi, parti sociali – è la nostra offerta di lavoratori qualificati. Nell’UE, tre quarti delle aziende segnalano difficoltà nel reclutare dipendenti con le giuste competenze.(…) Uno degli attori più importanti in questo senso sarete voi, le parti sociali. Siete sempre stati fondamentali in tempi di cambiamento e l’Europa farà affidamento su di voi per contribuire ad adattare il nostro mercato del lavoro all’era digitale e dare maggiore potere ai nostri lavoratori. Questi tre filoni ci impongono di riflettere (…). Ripristinare la nostra competitività non è qualcosa che possiamo raggiungere da soli, o solo battendoci a vicenda. Ci impone di agire come Unione europea in un modo mai fatto prima. I nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come un unico paese con un’unica strategia e allineare dietro di essa …

L’INVASORE INVASO

Lucio Caracciolo dalle pagine della Repubblica ci parla della ferita al cuore della Russia e ci aiuta a orientarci nella complessa situazione della guerra russo/ucraina. Riporto alcune frasi scritte dal direttore di Limes e aggiungo mie considerazioni personali che amerei condividere con chi mi legge. Il primo punto è la situazione di Putin “per cogliere l’effetto dell’incursione ucraina in Russia c’è un solo indicatore vero: la faccia di Putin. (…) molte delle teste sedute intorno al suo tavolo salteranno. L’alternativa oggi assai improbabile è che salti la sua”. Putin quindi eclissato dalla sua operazione speciale che sta colpendo a fondo il clima politico russo da quando il paese invasore è diventato, a sua volta, un paese invaso. Cede la logica paese invasore/paese invaso, ma crolla con essa il mito di Putin. Con la consapevolezza che chi gli succedesse potrebbe essere peggio di lui. Il secondo punto riguarda Zelensky la cui poltrona potrebbe saltare “se l’avanzata volgesse in rotta con il sacrificio delle migliori tra le truppe ancora a disposizione per non crollare nel Donbass”. Ora è giusto e corretto che Zelensky voglia (o debba) difendere il suo paese invaso, senza dimenticare ciò che è successo nel 2014 né quello che è successo con l’invasione pacifica della NATO nei primi anni 2000 con Clinton. La difesa scelta da Zelensky è stata quella di affidarsi, utilizzandoli, ai paesi occidentali chiedendo loro armi più armi più armi. La scelta di affidarsi alla solidarietà dei paesi occidentali è stata finalizzata alla “vittoria” senza definire ciò che questa vittoria significasse. Facile temere che escalation dopo escalation il livello dello scontro si avvicinasse, giorno dopo giorno, alla terza world war, prospettando che ad un certo livello lo scontro (specie se la Russia si trovasse, come si trova, in difficoltà) portasse all’uso dell’arsenale atomico. La miopia strumentale di Zelensky associata al tentennante comportamento degli USA (i famosi 60 miliardi bloccati per mesi) ed alla nullità della posizione europea sta rischiando di rendere sempre più vicina uno scontro catastrofico. Il terzo punto. “Ed è su questo che conviene orientarsi. Vale specialmente per noi italiani e per gli altri europei finora (auto)esclusi da qualsiasi ruolo politico, ridotti a fornitori di armi su cui non abbiamo controllo” dobbiamo pensare al dopo, alla ricostruzione del paese distrutto, al suo ingresso nell’Europa “ottenuto in deroga alle regole di ingaggio opposte da Bruxelles agli aspiranti consoci. (…) I costi dell’ammissione di Kiev sono insostenibili per l’UE nella configurazione geopolitica-finanziaria vigente. Il tasso di solidarietà con le vittime dell’Orso è e sarà in calo fisiologico.” Un’idea di come comportarci dopo il conflitto, di quale posizione cui puntare per non subire le decisioni altrui sembra il minimo che possiamo aspettarci dai nostri politici nazionali ed europei. Come quarto punto la NATO. “Kiev pretende una garanzia di sicurezza da Washington e alleati. L’esperienza di questi anni con americani, britannici e altri nordici che a parole spingevano gli ingenui leaders ucraini verso la Nato mentre nei fatti precostituivano l’impossibilità di ammettervela scoprendo all’uopo l’informalità delle istituzioni e la precarietà della locale democrazia, non promette bene”. Gli USA sono orientati al fronte pacifico e tendono ad orientalizzare la NATO lasciando agli europei il cavarsela in questa situazione. Infine, la possibile soluzione. “Il compromesso territoriale è fattibile. Al netto delle aree russe oggi penetrate dall’incursione ucraina, l’attuale linea del fronte lascia infatti alla Russia spazi abitati quasi interamente da russi, filorussi o opportunisti. All’Ucraina una geografia umana meno disomogenea di prima. (…) Ciò di cui i dirigenti ucraini sono da tempo coscienti e di cui trattano con gli interlocutori amici e/o rilevanti, ma evitano di esporre in pubblico. (…) Il punto critico è lo status dell’Ucraina ridotta forse di un quinto del territorio e di metà degli abitanti che aveva nel 1991 (da 51 milioni a 25)”. Se la soluzione è questa, realisticamente perseguibile non rimane che trovare che prende l’iniziativa diplomatica uscendo da quella sterile posizione tra occupante ed occupato (oggi forse meglio vedere come occupante/a sua volta occupato) ed agire nella cogente finalità di disinnescare il processo delle escalations. Ma l’Europa, e non solo lei, è rassegnata e inoperante dando “per scontato che dopo le elezioni americane si tratterà sul serio, forse sopravvalutando l’impegno e la capacità di Trump o di Harris”. Ancora una volta una Europa egemonizzata e marginalizzata.       SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RAPPORTO SULLA COMPETITIVITA’ DI MARIO DRAGHI

Ritengo fondamentale che noi tutti approfondiamo lo stato dell’Europa a fronte dei nostri concorrenti, USA e Cina in primis. Quelle potenze fanno programmazione a livello statale o, come gli USA con l’IRA di Biden, reintroducono i dazi doganali. L’Europa vive una irenica libera concorrenza quando servono industrie europee capaci di competere e di stare sul mercato, altrimenti siamo destinati all’emarginazione. Studiamo allora l’allegato rapporto di Draghi. Buongiorno a tutti. In un certo senso questa è la prima volta che ho l’opportunità di iniziare a condividere con voi come si stanno delineando la struttura e la filosofia di quello che sarà il mio rapporto. Per molto tempo la competitività è stata una questione controversa per l’Europa. Nel 1994, il futuro economista premio Nobel Paul Krugman definì l’attenzione alla competitività una “pericolosa ossessione”. La sua tesi era che la crescita a lungo termine deriva dall’aumento della produttività, che avvantaggia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la propria posizione relativa rispetto agli altri e acquisire la loro quota di crescita. L’approccio adottato nei confronti della competitività in Europa dopo la crisi del debito sovrano sembrava dimostrare la sua tesi. Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale. Ma la questione fondamentale non è che la competitività sia un concetto errato. Il fatto è che l’Europa ha avuto un focus sbagliato. Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno: con una bilancia commerciale positiva, dopo tutto, non abbiamo prestato sufficiente attenzione alla nostra competitività all’estero come una seria questione politica. In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo confidato nella parità di condizioni globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva. Nella migliore delle ipotesi, queste politiche sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre; e, nel peggiore dei casi, sono progettati per renderci permanentemente dipendenti da loro. La Cina, ad esempio, mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate e sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie. Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a un significativo eccesso di capacità in molteplici settori e minacciando di indebolire le nostre industrie. Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini – compresa quella delle aziende europee – mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento. Non abbiamo mai avuto un “accordo industriale” equivalente a livello UE, anche se la Commissione ha fatto tutto ciò che era in suo potere per colmare questa lacuna. Pertanto, nonostante una serie di iniziative positive in corso, manca ancora una strategia generale su come rispondere in molteplici aree. Ci manca una strategia su come tenere il passo in una corsa sempre più spietata per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi investiamo meno in tecnologie digitali e avanzate rispetto a Stati Uniti e Cina, anche per la difesa, e abbiamo solo quattro attori tecnologici europei globali tra i primi 50 a livello mondiale. Manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da un terreno di gioco globale ineguale causato da asimmetrie nelle normative, nei sussidi e nelle politiche commerciali. Un esempio calzante è rappresentato dalle industrie ad alta intensità energetica. In altre regioni, queste industrie non solo devono far fronte a costi energetici più bassi, ma devono anche far fronte a un minore onere normativo e, in alcuni casi, ricevono massicci sussidi che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere. Senza azioni politiche strategicamente progettate e coordinate, è logico che alcune delle nostre industrie ridurranno la capacità produttiva o si trasferiranno al di fuori dell’UE. E ci manca una strategia per garantire di avere le risorse e gli input di cui abbiamo bisogno per realizzare le nostre ambizioni senza aumentare le nostre dipendenze. Abbiamo giustamente un’agenda climatica ambiziosa in Europa e obiettivi ambiziosi per i veicoli elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, tale agenda deve essere combinata con un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica. La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze. Ma abbiamo bisogno di un’UE adatta al mondo di oggi e di domani. E quindi quello che propongo nella relazione che il Presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare è un cambiamento radicale, perché è ciò di cui abbiamo bisogno. In definitiva, dovremo realizzare la trasformazione dell’intera economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’UE; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deep-tech e nel digitale. Ma poiché i nostri concorrenti si muovono velocemente, dobbiamo anche valutare le priorità. Sono necessarie azioni immediate nei settori con la maggiore esposizione alle sfide verdi, digitali e di sicurezza. Nella mia relazione ci concentriamo su dieci di questi macrosettori dell’economia europea. Ogni settore richiede riforme e strumenti specifici. Tuttavia, nella nostra analisi emergono tre filoni comuni per gli interventi politici. Il primo filo conduttore è consentire la scalabilità. I nostri principali concorrenti stanno approfittando del fatto di essere …