INTELLIGENZA ARTIFICIALE RIVOLUZIONE E CONFORMISMO

L’intelligenza artificiale costituisce un passaggio fondamentale nello sviluppo del “modo di produzione” nella storia dell’umanità. La tecnologia, da sempre, modifica le modalità con le quali agiamo sulla natura per trasformare beni di scarsa utilità in beni con alto valore positivo per la nostra sopravvivenza. Ogni sviluppo tecnologico rappresenta un ampliamento del dominio della nostra ragione nel produrre strumenti che ci superano modificando il rapporto tra il contributo dato dall’uomo rispetto a quello dato dalla macchina. Scrive Claudio Napoleoni che da un sistema in cui la tecnologia è un semplice strumento che aiuta l’opera dominante dell’operaio, “con le macchine, cioè con il processo produttivo reso omogeneo al capitale, il rapporto è rovesciato: all’inizio c’è, in posizione attiva, il sistema delle macchine, in cui sono incorporate la scienza e l’organizzazione, mentre è l’attività dell’operaio, “ridotta a una semplice astrazione di attività”, a mediare il rapporto delle macchine con la natura. Quindi non è più l’abilità dell’operaio che determina l’uso dello strumento, ma è la legge di funzionamento della macchina che determina l’attività dell’operaio. Ora, prosegue Marx, in forza di questo rovesciamento “la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che, a sua volta – questa loro ‘powerful effectiveness’ – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dalla stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione” . L’avvento dell’Intelligenza artificiale modifica il rapporto uomo/macchina nel senso che la macchina in questo caso non si presenta come alternativa al lavoro fisico dell’uomo ma come alternativa al lavoro intellettuale; la cosa non è nuova, da tempo con le calcolatrici e ancor di più con il computer abbiamo delegato alle macchine gran parte del nostro lavoro intellettuale, ma con l’Intelligenza Artificiale lo spostamento di funzioni è enormemente più ampio che mai. Nascono discorsi filosofici sul fatto se quello dell’I.A. sia veramente “pensiero” e nel caso che lo fosse se la macchina sia cosciente di questo pensiero, se cioè abbia coscienza di ciò che ha elaborato. La risposta, a mio parere, è che l’I.A. con le centinaia di miliardi di dati di cui è stata alimentata, con la rete neuronale che crea connessioni tra entità a una velocità impossibile per un uomo, ponderando ogni connessione con la frequenza degli input acquisiti, ha decisamente la capacità di superare l’uomo nell’attività intellettuale e di ciò non dobbiamo aver timore se l’uomo continua ad avere potere gestionale sulla tecnologia che va usata razionalmente e con i limiti posti a suo tempo da Asimov. Ma il punto che voglio approfondire sta nell’alternativa, posta nel titolo di questo articolo, tra rivoluzione e conformismo. Tutto nasce da una semplicissima premessa: l’I.A. opera con i dati che gli sono stati messi a disposizione, da quello che si chiama “data entry”. L’I.A. nasce dal matrimonio tra computer e internet; l’I.A. ha a disposizione centinaia di miliardi di dati che trova contattando internet o ogni altro input che gli sia fornito. L’I.A. ha una capacità straordinaria di ricercare, con le sue reti neuronali, le connessioni tra i miliardi di dati cui ha accesso in tempi inimmaginabili in un uomo. Il test di Turing è un test per cui un esaminatore interroga una controparte, che il ricercatore non vede e che non sa se sia uomo o macchina, e che alla fine di un esame riconosce la razionalità delle risposte che, se fornite non da un uomo ma da una macchina, permettono di definire come “intelligenza artificiale” la controparte esaminata. Ma questo test può benissimo verificare se si sta dialogando con un uomo o con una macchina; basterà che faccia una semplice domanda “Quanto fa 143.255 moltiplicato per 87.998?” bene dopo pochi secondi l’I.A. svelerà la sua presenza dando il risultato che l’uomo non riesce a dare. Ma se molto, se non tutto, dipende dal data entry occorre essere molto attenti al tipo di data entry di cui è nutrita l’I.A. che stiamo utilizzando. Abbiamo due alternative: ● Immissione di dati scientifici galileianamente testati; ● Immissioni di informazioni che nascono da opinioni, pareri o dalla informazione pubblica. L’elaborazione fatta partendo dal primo tipo di dati è quella dalla quale ci si possono aspettare  risultati notevoli se non rivoluzionari in tutti i campi, dalla medicina (migliorando in modo estremo la diagnostica) alla fisica, dall’ingegneria alla biologia (potremmo capire i linguaggi degli animali). Questo perché nel metodo della scienza i risultati di un esperimento vengono comunicati alle altre università perché testino l’esperimento ripetendolo ed eventualmente confermandolo. Ecco che allora un dato scientifico ha una dimensione universale che, entrando in una I.A. come data entry unifica a livello universale la qualità dei dati immessi ed elaborati producendo risultati accettati da tutti. Se invece il tipo di dati di cui alimentiamo l’I.A. deriva da ciò che si trova su internet, allora ciò che risulterà sarà come prodotto dell’I.A. generativa il massimo del conformismo che si possa immaginare. Le opinioni fuori main stream avranno meno frequenze e necessariamente collocate nel basso della classifica creata dalla rete neuronale. Pensiamo ad esempio al data entry relativo all’informazione italiana che sta a livelli bassi nella classifica della libertà di stampa avendo peraltro perso ben cinque posizioni recentemente (verrebbe da dire shit-in shit-out). Facciamo un esempio chiarificatore: immaginiamo di chiedere quale sia la situazione di Taiwan interrogando una I.A. alimentata da un data entry statunitense e un’altra I.A. alimentata da un data entry cinese. Troveremo due risposte diametralmente opposte e rispondenti al più bieco conformismo con il pensiero dominante nei due diversi paesi. Se dovremo d’ora in poi diffidare non solo da testi redatti dall’I.A. ma anche da foto o video prodotti dalla stessa I.A. ci potremo invece fidare dalle risultanze di elaborazioni fatte in campo scientifico, aspettandoci da tali elaborazioni risposte estremamente utili se non rivoluzionarie. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la …

LA VOLONTA’ GENERALE DI ROUSSEAU

Sulla Repubblica del 28 aprile Maurizio Molinari riporta uno scritto di Isaiah Berlin in cui si legge: ● “il più sinistro e formidabile nemico della libertà in tutta la storia del pensiero moderno” è Jean Jaques Rousseau perché è stato lui a creare gli strumenti filosofici essenziali alla tirannia contemporanea giustificando l’idea di un rapporto diretto tra il leader ed il popolo che si contrappone in maniera netta al pensiero di Montesquieu sull’equilibrio fra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario su cui sono fondate le democrazie contemporanee. Per quanto io conosca il pensiero di Rousseau ritengo di non concordare con quanto affermato da Berlin nel testo di Molinari. Se infatti il pensiero di Rousseau ha una componente tanto indefinita quanto metafisica costituita dal concetto di “volontà generale”, ciò non permette di dedurne “un rapporto diretto tra il leader ed il popolo” fonte delle forme più deteriori del populismo se non di tirannia. Rousseau, nel suo “Contratto sociale” parte da una premessa, ovvero che nello stato naturale della società i popoli erano liberi ed uguali, ma sono stati rovinati dallo sviluppo delle scienze e delle arti, presentandosi oggi come una situazione in cui dominano disuguaglianza e ingiustizia. Per superare questo stadio ed in particolare per poter superare le disuguaglianze di proprietà e di diritti, attualmente caratterizzanti le società odierne, si rende necessaria una alienazione totale a favore di un’entità superiore di cui gli individui sono soci. In tal modo tutti i cittadini difendendo la comunione difendono sè stessi e difendendo sé stessi difendono, di riflesso, la comunione. Sparisce in tal modo ogni ingiustizia e ogni disuguaglianza tra i cittadini. Lo stato nasce attraverso un contratto per cui ciascuno rinuncia alla libertà illimitata della condizione di natura, non però per consegnarsi nelle mani di un sovrano, non sottoscrivono cioè un pactum subiectionis bensì ricevono da ogni altro membro della comunità la stessa rinuncia: questa alienazione dà origine ad una persona sociale, il sovrano, la cui volontà è la volontà generale. Scrive Rousseau nel capitolo sesto del libro primo del Contratto sociale: ● Queste clausole, beninteso, si riducono tutte ad una sola, cioè all’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità: infatti, in primo luogo, dando ognuno tutto sé stesso, la condizione è uguale per tutti, e la condizione essendo uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla gravosa per gli altri”. Il potere sovrano viene esercitato dall’assemblea di tutti i membri della comunità riuniti insieme: ogni legge che viene espressa dalla volontà generale ha per oggetto il bene generale della comunità. Il potere sovrano è inalienabile: non può essere esercitato da un rappresentante eletto per legiferare in nome dell’assemblea. Esecutivo, legislativo e giudiziario sono indivisibili essendo una emanazione del potere sovrano della volontà generale. Su questa non-separazione dei poteri Berlin ha ragione, ma ha assolutamente torto a sostenere un rapporto diretto tra leader e popolo ovvero un rapporto personalistico populistico, autocratico se non tirannico. Vi leggerei invece una vocazione ad un comunismo pre-scientifico, derivante dall’alienazione totale di ciascun associato, coniugato con elementi di democrazia diretta costituita dalla gestione del potere sovrano da parte dell’assemblea di tutti i membri della comunità. L’utopia russoviana nasce, a mio parere, da una concezione metafisica della volontà generale e dalla forzata indifferenza tra il possesso personale del particolare e il possesso associato del globale. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LE VARIAZIONI ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE APPROVATE DALLA 1° COMMISSIONE PERMANENTE

Premessa Faccio seguito al mio articolo apparso su questo sito il 15 gennaio sulla PROPOSTA DI RIFORMA COSTITUZIONALE per aggiornarvi sulla relazione della 1°commissione permanente affari costituzionali che ha approvato la nuova versione della riforma proposta dal governo Meloni. Questa riforma andrà certamente a referendum perché non raggiungerà i 2/3 dei voti di entrambe le camere nel secondo turno di votazioni. E’ quindi indispensabile che tutti noi si sia informati a fondo sull’argomento su cui dovremo pronunciarci. Ma è anche nostro compito diffondere le nostre osservazioni critiche alla proposta revisione stante lo stravolgimento istituzionale che quella proposta comporta. Come osservato nel precedente articolo questa proposta fa venir meno quell’equilibrio tra i poteri che la Costituzione aveva costruito, infatti, il ruolo del presidente del consiglio eletto diventa di gran lunga prevalente a scapito dei poteri del Capo dello Stato e del Parlamento. Non mi soffermerò sulle minori variazioni apportate dalla Commissione affari costituzionali, focalizzando le mie osservazioni sui punti interessanti risultanti dal nuovo testo.  Modifica all’articolo 83 della Costituzione L’articolo in questione prevede che il Presidente della Repubblica venga nominato dal Parlamento con un quorum di due terzi per i primi tre scrutini e con la maggioranza assoluta negli scrutini successivi. La proposta variazione sposta a dopo il sesto scrutinio l’abbassamento del quorum. La variazione raddoppio il numero degli scrutini nei quali ricercare un consenso più largo per l’elezione del Presidente della Repubblica. Modifica all’articolo 89 della Costituzione L’articolo in questione prevede che tutti gli atti del Presidente della Repubblica siano controfirmati dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità. La variazione della commissione è di natura tecnica nel senso che esclude la controfirma in quegli atti che sono di esclusiva potestà del Presidente della Repubblica quali: la nomina del presidente del consiglio dei ministri, la nomina dei giudici della Corte Costituzionale, la concessione della grazia e la commutazione delle pene, il decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, i messaggi alle Camere e il rinvio delle leggi. Modifica dell’articolo 92 della Costituzione E’ l’articolo che prevede l’elezione diretta e contestuale a suffragio universale del presidente del consiglio dei ministri e delle Camere. Una prima variazione consiste nello stabilire che l’elezione del presidente del consiglio, proposta per la durata di cinque anni, venga stabilita a “non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi”. Questa variazione mira ad evitare che un singolo presidente del consiglio resti in carico per un numero eccessivo di legislature; mi pare una proposta sensata anche se è difficile capire le motivazioni relative alla possibilità di un terzo mandato. La commissione non ha avuto nulla a che dire sulla contestualità dell’elezione delle Camere e del presidente del consiglio. Faccio notare che laddove esiste il presidenzialismo (cui si può assimilare la proposta di premierato) cioè laddove il potere di un singolo tenda ad esorbitare rispetto al potere degli altri organi costituzionali, penso ad esempio alle regole degli USA, i due organismi ovvero capo dell’esecutivo e del suo organo di controllo sono eletti in date diverse per evitare che la maggioranza prevalente nel momento determini contestualmente i due organi, creando quindi un elemento di diversificazione e quindi di rafforzamento nell’equilibrio dei poteri. Questa precauzione è impossibile nella proposta presentata dal governo, e accettata dalla commissione, stante il meccanismo di rapporto tra le due elezioni costituito dal premio di maggioranza, oggetto della seconda variazione. La seconda variazione prevede che il premio di maggioranza spettante in ciascuna camera alle liste e ai candidati collegati al presidente del consiglio eletto venga modificato dal 55% ad “una maggioranza”. Come noto la Corte Costituzionale aveva bocciato il premio di maggioranza qualora non fissasse un minimo risultato effettivo e ciò per non stravolgere la volontà dei cittadini votanti. Da sottolineare che la Corte Costituzionale nella sua sentenza non faceva riferimento a nessuna norma della Costituzione, ma affermava un principio insito nella natura di uno stato democratico ovvero quello di non stravolgere la volontà popolare. Da notare inoltre che la logica del premio di maggioranza alle Camere era collegato all’espressione della volontà popolare nelle votazioni delle Camere, mentre nel caso della riforma meloniana, è la votazione relativa all’elezione del presidente del consiglio che determina il premio di maggioranza a modifica della composizione delle Camere. Ora lo stravolgimento è evidente se pensiamo a quanto avvenuto alle recenti elezioni regionali sarde, laddove, se applicassimo lo stesso principio proposto dal governo, succederebbe che, avendo il centro destra vinto le elezioni ed avendo il centro sinistra prevalso nel voto disgiunto per il presidente, la volontà popolare prevalsa nell’elezione del presidente andava a rovesciare la volontà popolare espressa per i membri del consiglio regionale. Ma facciamo un esperimento mentale: si presentano alle elezioni 3 liste: centrosinistra, destra e centro; e tre candidati presidenti del consiglio: Schlein, Meloni e Draghi. Allo spoglio delle schede centrosinistra e destra prendono il 45% ciascuna e il centro prende il 10%. Ma per l’elezione del presidente del consiglio stravince Draghi per cui i seggi alle Camere “garantiscono una maggioranza” al centro. Ora la maggioranza può essere relativa, assoluta o qualificata, e ciò lo prevederà la legge elettorale, e quindi nei tre casi avremo i seguenti seggi alle Camere: Caso Centrosinistra Destra Centro Volonta del Popolo 45 45 10 Maggioranza Relativa 33 33 34 Maggioranza Assoluta 24,5 24,5 51 Maggioranza Qualificata 22,5 22,5 55 E’ evidente l’assurdità di questa proposta con cui garantendo una maggioranza, e non specificando quale, si delega il tutto ad una legge elettorale che, rispettando la Costituzione, potrebbe arbitrariamente assegnare un premio che abbiamo ipotizzato al 55% ma potrebbe essere qualsiasi percentuale. La terza variazione consiste nel fatto che il Presidente della Repubblica, su proposta del presidente del consiglio eletto, oltre a nominare, come nella originaria proposta, può ora anche revocare i ministri. Mi sembra che in effetti ci si era dimenticati di questo ulteriore potere da conferire al presidente del consiglio che il Presidente della Repubblica, da buon burattino, deve eseguire. Modifica all’articolo …

RIFLESSIONI SULL’EURO

Ragioniamo senza pregiudizi Un interessante articolo di Gabriele Guzzi (Limes 2/2024) ci invita ad un ragionamento, dopo una ventina di anni, sui risultati dell’adozione dell’euro come moneta unica da parte di molti paesi europei. So che questo è un argomento quasi sacro ed indiscutibile, ma da esseri razionali, quali crediamo di essere, non dovrebbe essere sacrilego interrogarci su questa santità. Sono note le preoccupazioni di molti governatori di Bankitalia (Baffi in primis) e di molti economisti (Caffè) sull’introduzione dell’euro, non come atto finale della realizzazione dell’unità europea, ma come atto acceleratore di un processo in essere. Possiamo dire che fu un atto volontaristico non supportato dal parere favorevole degli economisti. Il Governatore Fazio, ad esempio, rimarcò che “non esistevano le condizioni, ben presenti nella teoria economica, per l’adozione di una moneta comune” (Fazio – Le conseguenze economiche dell’euro – Cantagalli). Le preoccupazioni vertevano sul fatto che delle tre armi economiche utilizzabili dallo Stato per regolare gli effetti monetari, ovvero: gestione del cambio, determinazione del tasso di interesse e politica fiscale; i primi due erano persi dai singoli paesi e attribuiti ad autorità europee la cui legittimità democratica era tutta da dimostrare, avendo come risultante una moneta senza Stato, di uno Stato senza esercito e senza poteri di una redistribuzione federale. C’era, e c’è, la palese contraddizione tra una moneta unica in presenza di stati in diversissime situazioni economico-finanziarie, senza prevedere quegli aggiustamenti presenti in un paese a conduzione federale, scaricando le contraddizioni sul singolo paese che dispone poi dell’unica arma fiscale per governarsi. Con la moneta unica la nostra economia, abituata a correggere le parità con i “terremoti finanziari” che con la svalutazione ridavano respiro (precario) alle nostre esportazioni, fu irrigidita comportando, senza risultati concreti, ad un rarissimo fenomeno: un più che ventennale avanzo primario connesso ad un indebitamento che si avvia ai 3.000 miliardi di euro. Riporto dall’articolo in commento: “Nel complesso, quindi, l’euro ha favorito quei paesi che meglio si adeguavano all’impostazione ordo-liberale dei trattati. Uno studio del Central for European Policy di Friburgo ha provato a quantificare i benefici per le singole nazioni. La Germania e i Paesi Bassi avrebbero avuto un dividendo dall’euro rispettivamente di 1.893 e 346 miliardi di euro. L’Italia e la Francia avrebbero subito una perdita rispettivamente di 4.325 e 3.591” miliardi di €. La fretta e la sordità (o il non considerare) ai pareri degli economisti, portarono i politici ad affrettarsi ad una decisione storica (e ritenuta liberatoria) che avrebbe potuto essere più ponderata. L’adesione all’euro non fu un errore degli economisti, come spesso si ritiene, ma fatto dai politici “per raggiungere una peraltro indefinita finalità politica su cui ormai è lecito avanzare forti e radicali perplessità”. Cosa ci aspettavamo dalla moneta unica ● Il varo dell’euro auspicava il raggiungimento di diversi obiettivi tra cui: la promozione della crescita economica, la riduzione delle divergenze tra i vari paesi e una importanza internazionale in competizione con il dollaro. Dopo una ventina di anni osserviamo che: ● l’Eurozona è cresciuta molto meno degli USA, è in notevole ritardo nei settori tecnologici (come ci ricorda Draghi nel suo recente intervento a La Hulpe); Andrea Bonanni su Repubblica del 17 aprile così introduce il suo commento sul discorso di Draghi “L’Europa non sta perdendo la sfida economica con le altre potenze globali, Cina e Stati Uniti. L’ha già persa, a causa della propria frammentazione”. ● La divergenza all’interno dell’Eurozona è aumentata; l’Italia è passata da competitrice con l’industria tedesca a subfornitore di quella economia, senza che l’economia tedesca accettasse di aumentare la domanda interna per rendere meno pesante la sua posizione di esportatrice cronicamente mercantilista. ● L’euro, tranne alcune sporadiche proposte dei paesi arabi esportatori di petrolio che lo indicavano come moneta alternativa al dollaro, è oggi molto marginalizzato con la crescita dei paesi BRICS che ormai coinvolgono un terzo della popolazione mondiale ed un quarto dei traffici internazionali. L’euro non ha una potenza militare, non ha un mercato unico dei capitali (vedasi ancora il discorso di Draghi), non ha una unione bancaria, tutti elementi che ne fanno una moneta non competitiva con il dollaro o con la nascente moneta dei BRICS. E’ lecito chiedersi se la scelta fatta venticinque anni fa abbia mantenuto le sue promesse? E quali soluzioni o proposte possono essere avanzate? Che fare? Nelle sue conclusioni Gabriele Guzzi prospetta quattro possibili percorsi per pensare ad un nuovo disegno per l’euro: 1 – Unione fiscale e monetaria, ovvero, praticamente, unificare la politica monetaria e fiscale di tutti i paesi in una unica gestione europea, rendere cioè europeo il nostro debito così come quello di tutti gli altri paesi aderenti all’euro. Opzione quasi impossibile perché non tutti i paesi della UE hanno adottato l’euro come moneta.   2 – Adottare una soluzione tipo il “bancor” proposto da Keynes a Bretton Woods (ma uscendone perdente). Il “bancor” è una moneta non in circolazione perché tutti i paesi mantengono la loro moneta, ma hanno con il bancor un cambio fisso. Tale moneta è usata per i pagamenti tra i paesi partecipanti e il gestore ogni anno rivede i comportamenti di ciascun paese aderente e può dietro a imposizioni, cui i destinatari devono attenersi, rivedere la fissità del cambio; le imposizioni non sono comminate solo a chi ha bilanci con troppe importazioni ma anche a quei paesi che eccedono nelle esportazioni. 3 – Uscita dell’Italia dall’euro, proposta che, stante il nostro debito, sarebbe più che altro un suicidio. 4 – Lasciare le cose come stanno condannando il nostro paese ad un declino economico che, collegato con il declino demografico e culturale, ci porterà all’irrilevanza. Personalmente condivido la proposta numero 2 ma ciò come risposta economica, conscio che, aggiungere questo tema ai vagiti di una Europa in decisa crisi identitaria, non farebbe che aggravare la crisi. Ma una presa di coscienza è comunque doverosa.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e …

DA SCHUMPETER A SUSSIDISTAN

1 – Cominciamo da alcune notizie stampa Il Sole 24 ore. Da evidenziare anche che nel 2023 le imprese italiane «hanno continuato a beneficiare di importanti misure a sostegno dell’attività produttiva, ricevendo 23,8 miliardi di euro di contributi alla produzione (-12,1% rispetto al 2022) e 31,4 miliardi di euro di contributi agli investimenti, di cui una componente significativa è relativa al Piano Transizione 4.0». Lo scrive l’Istat in un comunicato sui conti nazionali per settore. Il totale degli aiuti – erogati dall’Italia ma anche dalle istituzioni europee – è di 55,2 miliardi. Lo scorso anno sulle imprese private italiane sono piovuti aiuti e sussidi per oltre 55 miliardi di euro. È circa 7 volte la spesa complessiva annua per il reddito di cittadinanza, accusato da Confindustria di trasformare l’Italia in un “sussidistan” e prontamente abolito dal governo Meloni. L’Istat scrive che nel 2023 le imprese italiane “hanno continuato a beneficiare di importanti misure a sostegno dell’attività produttiva, ricevendo 23,8 miliardi di euro di contributi alla produzione (-12,1% rispetto al 2022) e 31,4 miliardi di euro di contributi agli investimenti, di cui una componente significativa è relativa al Piano Transizione 4.0. Risorse che quindi arrivano sia dall’Italia che dall’Ue. Qualcosa sarà arrivato anche pescando dai soldi delle tasse pagate dalle famiglie. Sempre l’Istat scrive che le imposte correnti pagate dalle famiglie italiane sono aumentate di 24,6 miliardi di euro (+10,7% rispetto al 2022) per la crescita dell’Irpef (+10,2%) e delle ritenute sui redditi da capitale e sul risparmio gestito (+23,0%). “Il saldo degli interventi redistributivi nel 2023 – scrive l’istituto statistico – ha sottratto alle famiglie 118,8 miliardi di euro”, 16,5 in più rispetto al 2022. Per le imprese, le imposte sulla produzione segnano un aumento di 2,2 miliardi di euro (+7,5%).(Il fatto quotidiano). 2 – Quante imposte pagano le imprese Il gettito IRES (Imposta sulle persone giuridiche) nel 2023 è stato di 51.750 milioni di € come risulta dal seguente prospetto pubblicato dal Ministero dell’Economia: Entrate Tributarie 021-2023 (milioni di Euro) A conti fatti, e se ci riferiamo ai soli dati IRES, le imposte pagate dalle imprese sono redistribuite alle imprese che innovano e/o investono, anzi i sussidi distribuiti eccedono il gettito IRES attingendo alle imposte pagate da lavoratori e pensionati. 3 – L’imprenditore schumpeteriano L’ondata ideologica scattata dopo i “gloriosi trenta”, in concomitanza con la cessata convertibilità del dollaro in oro e con la successiva implosione dei regimi comunisti occidentali, ha portato ad esaltare la figura dell’imprenditore schumpeteriano, ovvero dell’imprenditore che supera la competitività marginalistica, che si basa sul risparmio sul costo della mano d’opera ma che invece opera con genialità ed entusiasmo sulle innovazioni tecnologiche, l’invenzione di nuovi prodotti, la scoperta di nuovi mercati, la scientificità della gestione manageriale. Questa ideologia ha comportato la marginalizzazione dell’intervento dello stato nell’economia limitandolo a custode e garante del libero mercato; le privatizzazioni sono dilagate lasciando libere praterie all’iniziativa privata neo-liberista. E’ in questa fase storica che lo stato esternalizza molte delle sue funzioni; i contratti di e-government appaltano le funzioni della pubblica amministrazione a consulenti esterni che nel depauperare le risorse interne della burocrazia, occupano spazi enormi delle competenze dello stato, così come raccontano Mariana Mazzucato e Rosie Collington nel loro libro “Il grande imbroglio”. Schumpeteriano era certo Enrico Mattei, non certo la saga Agnelli-Elkan, che ha usato lo stato in tutti i modi, facendosi per anni il vero decisore del come utilizzare il plusprodotto nazionale, prodotto da tutti e gestito per i propri fini dalla sola famiglia. Per il resto, il nanismo aziendale e il familismo capitalistico sono poi le componenti delle nostre imprese, componenti che privilegiano la produzione basata sul basso costo della mano d’opera piuttosto che l’innovazione tecnologica, scarsamente sensibili all’allargamento della proprietà al di fuori dell’ambito familiare e che hanno falsificato la situazione irenica sopra esposta. Peraltro, quando la presidente Meloni esalta il record nell’occupazione in presenza di un PIL che viene diminuito dall’1,2% all’1% (mentre la Banca d’Italia prevede lo 0,6%) non fa altro che dichiarare che si produce quello che si produceva l’anno precedente con più ore di lavoro, ovvero tradotto in ricerca e sviluppo (R&S) tra i più bassi in Europa, ma dove siamo primi nelle statistiche dei morti sul lavoro. 4 – Interviene lo stato Di fronte ad una situazione preoccupante per i destini del nostro sistema produttivo, i governi in carica hanno disegnato incentivi per spingere le imprese a imboccare una strada schumpeteriana; iniziò il ministro Visco con la dual income tax, provvedimento che detassava gli utili reinvestiti in azienda e non distribuiti ai soci capitalisti; questo provvedimento fu poi adottato con il nuovo nome di ACE (aiuto alla crescita economico) oggi cancellato dal governo Meloni. Ma chi, occorre riconoscerlo, ha centrato il problema più di altri, finalizzando i sussidi alla ricerca di innovazione tecnologica, alla digitalizzazione è stato Carlo Calenda con i bonus 4.0. Corretto individuare nell’innovazione tecnologica la strada per rendere il sistema produttivo nazionale competitivo con il mercato europeo ed estero; corretto collegare l’incentivo ad azioni concrete di perseguimento di risultati finalizzati alla produttività abbandonando le politiche insulse degli incentivi a pioggia. Certo siamo ancora nella logica dell’incentivo, della subordinazione al primato del privato cui si danno incentivi perché solo lui ha le capacità, o si suppone che abbia, per impiegarle nel modo più razionale: è una subordinazione indiscussa, assunta ex ante senza metterla in discussione anche quando i risultati non sembrano essere quelli che ci si attendeva. E’ una di quelle “normalità” (nel senso di norma naturale) che non viene sottoposta ad analisi né tantomeno a critica. Su questo punto due riflessioni: ● Rivoltare logicamente e come obiettivo politico questa “norma” significa contestare che la razionalità economica risieda dell’iniziativa privata, nell’egoismo individuale che sgocciola benessere al resto dell’umanità; significa porre il socialismo come intelligenza collettiva che opera sulla individuazione di obiettivi condivisi e che ne programma l’attuazione nella pari corresponsabilità di tutti gli operatori. Il socialismo non è solo appropriazione del plusvalore sottratto al lavoratore dal capitale; socialismo è scelta razionale dell’impiego del plusprodotto che lo sviluppo della tecnologia potrà, con l’intelligenza artificiale e con i computer quantistici, essere in grado di realizzare nella concreta vita …

CONCORDATO PREVENTIVO BIENNALE

L’evasione fiscale esercitata da alcune imprese era, in gran parte, attuata tramite la sovrafatturazione delle fatture dei fornitori o meglio ancora dichiarando fatture passive inesistenti; con tali mezzi si aumentano fittiziamente i costi e si riducono quindi i profitti d’impresa da assoggettare a tassazione. Certo le imprese emittenti fatture sovrafatturate si trovavano ad avere più ricavi e quindi più profitti e conseguentemente più tasse. Ma erano pure tante le imprese fantasma che scomparivano dopo soli pochi anni dalla costituzione alimentando il “magazzino” di imposte e tasse non riscuotibili da parte dell’Agenzia delle Entrate (AdE). Ricordo che l’attuale magazzino di imposte dichiarate o accertate non più incassabili per incapacità della pubblica amministrazione di esercitare la riscossione ammonta a 1.200 miliardi di €, quasi metà del debito pubblico. Ricordo anche che il governo, poche settimane fa, ha emesso un decreto delegato che cancella quei crediti non incassabili dopo 5 anni di tentata riscossione. Il governo ha anche aumentato a 120 rate mensili il pagamento delle imposte non pagate. Il fisco “amico” del governo Meloni vuole aiutare chi vuol pagare ma si trova in difficoltà. Ma chi vuol pagare, una volta fatta la dichiarazione dei redditi, mette da parte i soldi dovuti e non se li spende per poi trovarsi in difficoltà alla scadenza. Peraltro, recentemente, la cassazione ha stabilito, con provvedimento 7707/2024, che la mancanza di liquidità non è causa di forza maggiore, che giustificherebbe il non pagamento delle tasse, ma spesso risultato di mala, se non programmata, gestione. Ma il governo Renzi a suo tempo ha messo in atto un provvedimento, suggerito da Vincenzo Visco, che è risultato uno degli strumenti più efficaci per combattere lo strumento delle fatturazioni fittizie. Questo strumento si chiama “fatturazione elettronica” e funzione, grosso modo, come segue. Mentre prima la fatturazione era una relazione tra impresa fornitrice e impresa cliente non pre-controllata per cui erano possibili le fatturazioni fittizie, oggi interviene l’AdE che riconosce la fattura passiva dell’impresa cliente solo se la stessa fattura è dichiarata e registrata dalla impresa fornitrice. Il processo di fatturazione è allora pre-controllato dall’AdE che può altresì predisporre le dichiarazioni precompilate Iva delle imprese. Con l’introduzione del concordato preventivo biennale si reintroduce il pericolo che rientri il fenomeno delle sovrafatturazioni o delle fatturazioni per operazioni inesistenti. Infatti, predeterminando il reddito imponibile per il prossimo biennio, una impresa che aderisce a questa possibilità, potrà emettere a suo piacere fatture sovrafatturate o per operazioni inesistenti al fine di fornire ad un’impresa, con cui si sono presi accordi evasivi, costi fasulli con cui abbassare l’imponibile e le imposte. Alla fine del biennio, con risultati molto più positivi di quelli sulla base dei quali il concordato preventivo era stato definito, l’impresa non aderirà più, qualora le fosse proposto, a quel regime concordatario. Un altro effetto fiscale, derivante dalla tentata evasione fiscale, si riscontra nella differenza tra magazzino contabile e magazzino reale. Se infatti un imprenditore vende “in nero” fa uscire fisicamente le merci dal suo magazzino, ma contabilmente non registra nessuno scarico, per cui le quantità reali e quelle contabili non corrispondono. Ecco che allora il fisco “amico” di questo governo emette un decreto che permette al costo di un 15% (naturalmente del costo e non certo del ricavo occultato) di sistemare le differenze tra reale e contabile, senza far scattare le verifiche accertatrici. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

I SOCIALISTI E L’ECONOMIA

I dati positivi riportati da Nomisma per il 2023 relativamente all’economia italiana dovrebbero tuttavia approfondire quanto dell’aumento del PIL sia dovuto al superbonus che sta portando oneri al bilancio statale per oltre 200 miliardi di € e dovrebbe anche considerare che se l’occupazione aumenta in modo superiore all’aumento del PIL, allora non si può che concludere che l’incremento dell’occupazione, non generando PIL, è il risultato di una decrescente produttività, indice questo deludente da trent’anni a questa parte. Più orientati alle future prospettive della nostra economia sono gli articoli seguenti apparsi sul numero di febbraio di Limes: ● Fabrizio Maronta – All’Italia serve l’industria, all’industria serve lo Stato; ● Giovanni La Torre – Il declino ce lo siamo scelto; ● Alessandro Aresu – Usciamo dal giorno della marmotta. Indicherò alcuni indici, comparativi con quelli della Francia e della Germania, che dovrebbero farci pensare anche ai fini di un programma politico per i socialisti, non solo, ma soprattutto italiani. INDICI ITALIA GERMANIA FRANCIA Fatto 100 il PIL del 2007, il PIL nel 2023 è 95,6 116,7 117,6 Non abbiamo ancora recuperato il crollo del 2008       Aumento della produttività dal 2000 al 2023 1% 21% 22% In venti anni nessun progresso tecnologico       Una delle cause il nanismo       Imprese non finanziarie  (000) 3.640 2.845 3.084 Imprese fino a 9 dipendenti (000) 3.449 2.098 2.923 % sul totale 94,7% 73,7% 94,7% Imprese con più di 249 dipendenti (000) 3,647 10,780 4,897 % sul totale 0,10% 0,38% 0,15% Valore aggiunto grandi imprese 36,50% 55,80% 53,10% Valore aggiunto piccole imprese 25,20% 17,80% 13,50% %uale dipendenti grandi imprese 24,20% 43,00% 48,30% %uale dipendenti piccole imprese 42,50% 18,90% 23,10% Nanismo vuol dire non investire in R&S       % PIL in R&S 1,35% 3,02% 2,19% Altri indici       Pressione fiscale 42,90% 42,10% 48,00% Costo orario in € 29,1 39,5 40,8 Ore lavorate 1.694 1.341 1.511 Frontiera tecnologica       Numero aziende semiconduttori 4 1 358 Vendite in € (000) 1.063 15.251.126 597.000 %uale 0,0035% 38,0000% 2,0000%         L’analisi degli indici sopra riportati ci dà una idea del nostro paese come un paese in inesorabile declino, “un paese” come scrive Maronta che “viene da trent’anni di delocalizzazioni, dismissione della grande industria buttata a mare con l’acqua sporca di un Iri degradato a mangiatoia partitica, accaparramento di impianti e infrastrutture già pubblici da parte di capitalisti senza capitali desiderosi di rendite e refrattari all’investimento”; un paese che crede ancora che “competere con la Cina facendo i cinesi – o fingendo di essere ancora l’Italia povera e speranzosa degli anni 50 – sia una strada saggia o anche solo furba”; un paese dove la grande assente, da anni, è la politica industriale, lasciata ad una libera competizione di imprenditori mediocri. Per quanto tempo potrà resistere la struttura industriale italiana stante il divario tecnologico tra noi e gli altri paesi, divario che tra l’altro, si prospetta in ulteriore espansione. Come scriveva Alessandro Pansa su Limes una decina di anni fa, il nostro paese “ha sviluppato – forse non del tutto inconsapevolmente, ma di sicuro molto attivamente – un processo di deindustrializzazione e disinvestimento, ostacolando ripetutamente la creazione di grandi imprese in settori strategici”, le cause di ciò vanno ricercate nella mancanza di una adeguata politica industriale, nel familismo del capitalismo nostrano ritroso a cedere il controllo delle loro creature, nella difficoltà ad agganciare lo sviluppo tecnologico. Sempre secondo Pansa l’Italia “non è riuscita ad internalizzare la microelettronica nei prodotti e nei servizi offerti dalle sue imprese. Dagli anni novanta in poi, mentre i concorrenti investivano nell’elettronica, l’ammontare di tecnologia contenuta nei prodotti italiani ha cominciato a calare. Questo paradigma ormai l’abbiamo perso e non possiamo fare nulla per ricuperarlo”. Basta andare a rileggere le pagine di Mariana Mazzucato sull’indispensabile ruolo dello stato nell’innovazione tecnologica, un ruolo ineludibile se si vuole restare in corsa nella competizione produttiva dei nostri tempi, ruolo che consiste nella scelta di obiettivi strategici futuri realizzabili, nella programmazione dei passi necessari al raggiungimento di quegli obiettivi, nella capacità di unire nello sforzo nazionale imprenditori, capitali privati e forze sindacali coinvolti, ciascuno con le sue responsabilità, nel perseguimento di un obiettivo condiviso. Ecco che allora, a mio parere, è sterile per un partito socialista porsi come obiettivo politico la redistribuzione del prodotto cercando di costruire un welfare state basato su un sistema produttivo declinante, mentre dovrebbe porsi come obiettivo primario il tema del sistema produttivo, una politica industriale che nella razionalità programmatoria sia in grado di assorbire e sviluppare il massimo di innovazione tecnologica, sviluppare in modo sistematico la formazione e la professionalizzazione degli operatori residenti e immigrati (benvenuti grazie al declino della nostra natalità), trattenere le intelligenze che oggi fuggono all’estero. Le battaglie per il salario minimo, per l’abbassamento della pressione fiscale, il perseguire una competitività basata sul basso coto della mano d’opera, sono battaglie di retroguardia; ben altro dovrebbe essere l’obiettivo dei socialisti italiani ed europei in un mondo che vede il riposizionamento internazionale dei poli politici e dei paesi loro aderenti. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

2024 ANNO DI ELEZIONI

In questo 2024 quasi tutto il mondo si apprestare ad andare a votare per scegliere chi guiderà i paesi nel preoccupante scenario mondiale che ci si prospetta. Le elezioni più importanti sono naturalmente in Russia, in Europa e negli USA. Non mi occuperò della Russia e affronto il tema dal mio angolo di osservazione: quello economico. Al momento è sicuramente la situazione geopolitica che preoccupa, stante i conflitti in corso, che conoscono solo escalations e tingono di grigio scuro l’orizzonte. Ma l’aspetto economico è poi alla base di ogni conflitto, sia esterno che interno, ed è quello che più conta se si guarda alle elezioni con un orizzonte lontano ma le cui basi si impostano qui ed ora. La situazione degli USA A mio parere Biden si presenta alle elezioni con una situazione economica straordinariamente forte. Le sue aziende raggiungono da sole un livello record di capitalizzazione, che supera quello di tutto il resto del mondo. Le borse mondiali capitalizzano 110 mila miliardi di dollari, gli USA fanno la parte del leone, il New York Stock Exchange (Nyse) capitalizza 25 mila miliardi, il Nasdaq 21.700, ma ciò che va sottolineato è che mentre il Nyse dal 2016 è cresciuto del 35.1%, il Nasdaq è cresciuto del 189.3%. E sappiamo che il Nasdaq quota titoli tecnologici, quelli che grazie all’intelligenza artificiale, stanno conoscendo risultati incredibili. I nomi delle aziende tecnologiche che investono nell’I.A. sono noti: Microsoft, Apple, Amazon, Meta e Alphabet. Microsoft capitalizza 3 mila miliardi di dollari (il PIL italiano nel 2023 è di 2 mila miliardi di dollari), Ndivia, una stella nascente, che produce programmi per istruire i computers per operare con l’I.A., regina nel settore, registra utili incredibili; ha fatturato 60 miliardi di dollari e ha realizzato profitti per 33 miliardi. E’ ovvio che dietro a questi risultati ci siano investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) che sono alla base del successo schumpeteriano dell’economia statunitense. Gli investimenti in R&S in Europa sono un quinto di quelli negli USA e la metà di quelli in Cina. Gli investimenti sull’I.A. negli USA sono 50 volte quelli europei. L’azienda europea che ha investito di più nel 2023 è la Volkswagen (investimenti sull’auto elettrica) con 18.9 miliardi di euro, Google (Alphabet) ha investito il doppio, 37,1 miliardi, Meta 31,5, Microsoft 25,5, Apple 24,6 e, fuori dagli USA, la cinese Huawei ha investito 20,9 miliardi e la coreana Samsung 18,5 miliardi. (Vedasi l’articolo di Eugenio Occorsio su Affari e Finanza di lunedì 11 marzo). Gli USA, smentendo le previsioni di qualche anno fa, hanno una economia che continua a correre grazie alla politica, un tempo europea, di finanziare la crescita a debito. Washington, per affrontare la crisi Covid, ha stanziato 5 trilioni di dollari; ha poi aggiunto altri 2 trilioni di dollari come incentivi pubblici pluriennali agli investimenti con misure quali l’Infrastructure Investment and Jobs Act, il Chips Act e l’Inflation Reduction Act. Quest’ultimo atto, poi, prevedendo incentivi per gli acquisti di merci che fossero prodotte negli USA, ha praticamente introdotto i dazi doganali non con il prelievo fiscale all’importazione ma escludendo i beni importati dagli incentivi concessi alle produzioni USA. Ritorna, ci siamo dimenticati di Mariana Mazzucato?, l’importanza del ruolo del pubblico nel sistema economico statunitense con una preminenza programmatoria determinante. Tema che dovrebbe essere molto presente nel mondo socialista per intervenire in questo colossale trasferimento di fondi dal mondo del lavoro al capitale. Ma conosciamo pure che questa stampa di dollari senza limiti è fonte di inflazione che viene limitata grazie all’ “esorbitante privilegio” derivante dal fatto che i dollari sono tolti dalla circolazione dai paesi che li tengono come riserve valutarie nelle loro casse. Ma il processo di de-dollarizzazione ha raddoppiato, dagli inizi di questo anno, il numero di paesi aderenti, contrastando l’effetto anti-inflazionistico a favore del dollaro. Ecco una variabile che non potrà non incidere sul futuro degli USA. La situazione dell’Europa La situazione europea penso possa essere descritta facendo riferimento a quanto dice Draghi, incaricato dalla Commissione europea di redigere un rapporto sul dossier competitività. Draghi insiste sulla necessità di mobilitare enormi investimenti per consentire all’Europa di poter competere con gli USA e con la Cina i paesi che stanno affrontando da protagonisti la sfida per l’egemonia economica negli anni futuri. Secondo Draghi i soldi necessari per questi investimenti sono solo una parte del problema, occorre rivedere anche le regole che l’Europa ha costruito per il suo funzionamento e che non sono funzionali ad una politica di vitalità ed efficacia nella ricerca di un protagonismo economico. Esiste un problema di estrema evidenza: come può l’Europa essere competitiva se l’energia elettrica ci costa il doppio di quanto costa negli USA e il gas naturale ci costa cinque o sei volte tanto?  Chiaramente la nostra politica estera è chiamata ad affrontare questo tema che ci rimanda al come porci di fronte al tema Ucraina nel caso gli USA, come sta succedendo, si defilino lasciando alla sola Europa la gestione di questa guerra su commissione. Particolare enfasi è posta da Draghi alla rapida accelerazione della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica ed in particolare dello sviluppo dell’I.A. generativa le cui applicazioni pratiche in ambiti quali la sanità e l’istruzione sono di vasta portata. La situazione è molto critica e richiede una riflessione seria sulla riduzione del rischio delle potenziali vulnerabilità. La situazione italiana Le preoccupazioni per il nostro paese non possono ignorare quanto è successo con il superbonus del 110%. Con l’obiettivo di ridurre la emissione di gas serra abbiamo speso, accertati finora, 150 miliardi di euro che hanno sì creato PIL, ma graveranno sui bilanci pubblici per i prossimi 5 anni. Ma investire nell’edilizia non ha comportato nessun effetto positivo sulla competitività del sistema, sono state costituite centinaia di imprese edili senza professionalità con dipendenti a tempo determinato o in nero, i prezzi sono esplosi “tanto poi paga lo stato” ponendo le basi per pressioni inflazionistiche. Nel mondo, come ricerca sull’I.A. siamo al 22esimo posto, abbiamo preferito l’edilizia, potevamo almeno produrre quei pannelli fotovoltaici che importiamo dalla Cina. Nel 2023 l’ISTAT …

SALE IL DEFICIT, SCENDE IL DEBITO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | I dati pubblicati dall’ISTAT ci dicono che nel 2023, a fronte di un deficit indicato nel NaDef pari al 5.3%, il deficit effettivo è del 7.2%; nel contempo il debito pubblico chiude con un 137.3% sul PIL contro un 140,2 indicato dal governo nello stesso documento. Insomma, rispetto alle previsioni del governo, aumenta il deficit ma diminuisce il debito. La prima osservazione è una poca attendibilità delle cifre e delle previsioni fatte dal governo, ma anche, come sostiene il Foglio, una scarsa attendibilità (o un silenzio complice) della Ragioneria di Stato visto che i dati che stiamo esaminando ce li ha forniti l’Istat. La questione non è semplice: vediamo di esaminarla per singola causa: ● Gli effetti dell’inflazione. Se quando andiamo a fare la spesa, dopo anni di inflazione vicino allo zero, ci accorgiamo di aver comperato quantitativamente di meno ma pagato di più, abbiamo una idea della differenza tra dati reali e dati nominali, ovvero diminuiscono le quantità di merce acquistata ma aumenta la spesa monetaria. Questo effetto si ha anche sul PIL: il PIL reale può diminuire (ma anche aumentare) ma il PIL nominale  aumenta molto di più di quello reale perché sono aumentati i costi, perché l’inflazione ha spinto al rialzo il parametro monetario dei beni prodotti. Si noti però che il debito non è modificato dall’inflazione, esso non viene ricalcolato ai nuovi prezzi inflazionati ma rimane quello che era aumentato solo dal nuovo deficit. Per cui nel calcolo del rapporto debito/PIL, mentre il numeratore non è influenzato dall’inflazione il denominatore aumenta proprio a causa dell’inflazione; come risultato abbiamo una riduzione dell’indice. Va da sé che l’aumento dell’inflazione va, per la stragrande quantità, a pesare sui bilanci familiari stante la gran lotta di classe che si mette in moto in fase inflazionistica; chi può scaricare l’effetto inflattivo (che nel caso attuale proviene dall’aumento dei prezzi di importazione, estranea cioè alla temuta rincorsa prezzi-salari) lo scarica su chi non ha la possibilità di rivalersi su nessun altro. Evidentemente il costo dell’inflazione si scarica sulle famiglie che di riflesso diminuiranno la domanda di beni, creando cioè un effetto negativo sulla produzione. L’unico ente che lotta contro l’inflazione è la BCE che lotta con l’unica arma di cui dispone: aumento del costo del denaro, strumento tutt’altro che positivo nell’economia di una nazione indebitata come la nostra. L’intervento del governo con il trimestre antiinflazione risulta ridicolo specie se pensiamo ai provvedimenti presi dalla Spagna con il governo Sanchez che è riuscito a mantenere l’inflazione su livelli molto più bassi dei nostri. ● Le tax expenditures. E’ diventata ormai strutturale la prassi contabile dello Stato di camuffare le spese sotto forma di crediti di imposta. Mi spiego, se ritengo di fare una certa spesa invece di metterla a bilancio nel capitolo spese, la trasformo in un credito d’imposta. Con tale prassi dico che quel provvedimento di spesa preso non va ad incidere nelle spese dello stato ma si tradurrà in futuro in mancato introito di imposte. “Il pranzo gratis” quello che Veronica De Romanis illustra nel suo libro, consiste nel camuffare come bonus, come regalo ciò che si tradurrà in minor introito dello Stato.  A quanto ammonta questa spesa non contabilizzata ma che si traduce in minor gettito? Bene siamo a livelli di 120 miliardi/anno derivanti da 626 bonus elargiti in questa presa in giro dei contribuenti italiani. E i bonus promessi dal governo A vengono riconfermati dal successivo governo B di qualunque colore essi siano. Una gestione seria del nostro bilancio dovrebbe prevedere il superamento di questa prassi tornando a contabilizzare le spese  come spese e cancellando i crediti di imposta. In questo gioco del camuffamento delle spese come crediti di imposta subentra un elemento temporale dovuto al fatto che nei bilanci pubblici la spesa non è conteggiata quando è effettuata ma quando viene esercitata la compensazione delle imposte dovute con i crediti di imposta, cioè quando si realizza il mancato gettito. La questione se conteggiare in bilancio l’uscita al momento della nascita del credito di imposta o al momento successivo del mancato introito è a lungo dibattuta. Gli effetti sono nei clamorosi errori di previsione della nostra gestione finanziaria. Esempio classico di errori nelle previsioni del NaDef è quello relativo al superbonus; i saldi di finanza pubblica predisposti nel NaDef includevano per il 2023, 37 miliardi di mancato incasso a causa dell superbonus (importo così ricalcolato a ottobre rispetto ai 14 miliardi stimati in aprile), i dati Istat di fine anno portano il mancato introito a 76 miliardi. ● Le norme europee. Negli anni Covid le norme di bilancio, severe o corrette o meno che fossero, sono state sospese e tutti gli stati hanno aggravato la loro posizione debitoria; il famoso parametro del 60% del debito ammesso è ormai obsoleto e inattendibile. Dall’anno prossimo torneranno però le norme su deficit e debito che, comunque rettificate, richiederanno una politica restrittiva da parte del governo di dimensioni non insignificanti. La domanda cui la Meloni non ha mai risposto è stata sul come agiremo: più tasse, meno spese, più sacrifici. Di lì non si scappa. Il PNRR ci finanzia con due tipi di fondi: quelli a debito e quelli cosiddetti a fondo perduto. Chiaramente la gestione del PNRR deve prevedere che gli investimenti fatti generino nel futuro tanto PIL in più sufficiente a ripagare i debiti concessici. L’errore è quello di ritenere che i fondi erogatici a fondo perduto non siano da restituire; è un errore di prospettiva che va segnalato. I finanziamenti a fondo perduto non sono considerati come debito e come tali non vanno contabilizzati nel bilancio dello Stato. Ma quando l’Europa dovrà ripagare i prestiti ottenuti per finanziare il PNRR, dovrà rimborsare anche i fondi concessi a fondo perduto ai paesi beneficiari (e l’Italia ha l’ammontare più alto) e per rimediare i soldi necessari dovrà rivalersi sulle quote annue dovute da ciascun paese. Il dato positivo per l’Italia è che non dovrà ripagare il 100% dei fondi a fondo perduto …

TASSARE I ROBOT

(ma di chi sono i robot?) “Per Bill Gates il passaggio dalla situazione attuale a quella futura, in cui avremo solo operai robot e autisti robot, avverrà praticamente tutto in una volta: per questo i governi – e non le aziende – devono cominciare a pensare a come affrontare la situazione per evitare che si formino nuovi tipi di ineguaglianze e disoccupazione di massa. Tra le molte strade possibili Gates ne cita una, che non esclude le altre: introdurre una tassa sui robot, e siamo nel 2017.(,,,) Gates non è il primo a proporre di tassare il lavoro dei robot o qualcosa del genere, ma quest’idea è anche molto criticata. Il 16 febbraio il Parlamento europeo ha votato una risoluzione che invita la Commissione europea a stabilire delle regole su varie questioni che riguardano i robot, tra cui quelle relative alla responsabilità civile in caso di incidenti. Sempre su questo tema, però, ha votato contro la proposta di inserire in una risoluzione l’obbligo per le aziende che scelgono di automatizzare la propria produzione di pagare dei corsi di formazione per i lavoratori che perdono il posto. La proposta – contenuta in una relazione dell’europarlamentare lussemburghese Mady Delvaux, del gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici – è stata osteggiata dall’International Federation of Robotics, un’organizzazione internazionale che rappresenta l’industria robotica, secondo cui tassare il lavoro delle macchine danneggerebbe il settore. Già solo questo fatto ha confutato una delle cose dette da Bill Gates nell’intervista a Quartz, e cioè che le aziende che producono i robot non dovrebbero scandalizzarsi troppo all’idea che siano tassati. Una persona che invece è favorevole a prendere precauzioni contro la progressiva automazione dell’industria è il candidato socialista alle prossime elezioni presidenziali francesi, Benoît Hamon, anche se la sua proposta non è proprio uguale a quella di Bill Gates. Hamon propone come soluzione alle perdite di lavoro un reddito minimo di cittadinanza in parte finanziato da una tassa sui robot. Una posizione simile è anche quella dell’imprenditore Elon Musk, amministratore delegato di SpaceX e Tesla. Su Forbes il giornalista economico britannico Tim Worstall – sostenitore dello UKIP, il partito indipendentista del Regno Unito – ha contestato duramente l’idea di Gates. Secondo lui la proposta del fondatore di Microsoft si basa su un errore, e cioè che la tassa sui robot sarebbe l’equivalente delle imposte sul reddito dei lavoratori. Dato che i robot non hanno un reddito, spiega Worstall, quello che propone Gates è di fatto un’altra tassa sulle imprese. Poiché tassando qualcosa se ne ottiene una riduzione, tassare la produzione la farebbe diminuire causando un danno all’economia. Secondo Worstall, per risolvere il problema dell’aumento dell’automazione bisognerà semplicemente continuare a tassare redditi e consumi delle persone, perché questi aumenteranno con l’aumento della produzione. La tesi sposata da Gates assomiglia a quella annunciata, a settembre, da un interlocutore un po’ diverso: Jeremy Corbyn, il segretario del Labour Party britannico. Corbyn, in una conferenza del partito a settembre, ha annunciato che il ruolo della politica è di «riprendere il controllo» sulla tecnologia e soprattutto sulla robotica, il segmento più sensibile per impatto sociale. La via di massima sarebbe appunto una robot tax, un’imposta ad hoc, per evitare che i benefici dell’automazione si concentrino nelle mani «di chi estrae ricchezza senza generare ricchezza». È il come che va ancora chiarito. Ad oggi non ci sono «risposte certe», vale a dire programmi, ma Corbyn ha assicurato che i labour sono inclini a «ripensare radicalmente» il problema. L’ipotesi di un’aliquota speciale per l’automazione è emersa più volte anche all’Europarlamento, senza trasformarsi comunque in una proposta di legge specifica.” (DA WIKIPEDIA) MA DI CHI SONO I ROBOT? Le interessanti discussioni sulla tassazione dei robot, recentemente riportate alla nostra attenzione dall’intervento di Aldo Potenza, partono da un momento successivo al quello che, a mio parere, è il nodo della discussione; partono dall’interrogativo chiave alla base del ragionamento socialista, ovvero “Ma di chi sono i robot?” Partiamo dall’inizio: il capitale che vuol creare un’impresa destina a quella impresa un capitale iniziale che l’imprenditore si impegna, al suo meglio, a combinare con gli altri componenti del sistema produttivo per la realizzazione dello scopo sociale; l’imprenditore con il contributo del capitale ovvero con il capitale conferito dai soci, acquisterà i macchinari più adatti, assumerà i dipendenti più adeguati al lavoro da svolgere, organizzerà i servizi più adatti al completamento dell’assetto produttivo. L’impresa si confronterà sul mercato con altri concorrenti ed auspicabilmente troverà una situazione economico-produttiva soddisfacente. E’ ovvio, tuttavia, che col passare del tempo i macchinari invecchiano, nuove tecnologie si affacciano sul mercato, i lavoratori necessitano di un aggiornamento formativo. Servono cioè nuovi investimenti e nuove risorse, ecco che allora il capitale, che abbia accantonato riserve limitandosi nella distribuzione di utili, ovvero ricorrendo al credito bancario, trovi i fondi necessari all’innovazione tecnologica; ecco affacciarsi la tematica robot. Se il capitale, con mezzi propri o con prestiti bancari, fornisce i fondi necessari i bilanci societari non necessiteranno di svalutare il valore dei macchinari nei bilanci aziendali; il capitale, in tal modo, avrebbe aggiornato il suo contributo nell’assetto produttivo stante il deterioramento o l’obsolescenza del precedente apporto originario. Ma l’attuale disciplina contabile (e fiscale) permette di appostare come costo aziendale quello che è l’aggiornamento del contributo del capitale; si è inventata la possibilità di far comparire come costo, fiscalmente deducibile, il contributo del capitale spostando l’onere sull’impresa invece di lasciarlo a carico del capitale stesso: questo istituto contabile-fiscale si chiama ammortamento. Si apposta cioè in bilancio un onere non sostenuto ma creato in nome di una logica capitalistica. (Da notare che i sussidi statali 4.0, prevista da una prima impostazione di legge, permetteva, ai fini fiscali, una deduzione dall’imponibile maggiore di quella effettiva). Inoltre, nel caso in cui il capitalista sia ricorso al credito bancario, i relativi costi di interesse saranno comunque deducibili. La conseguenza del maggior costo relativo all’ammortamento è quella di aumentare i costi dei prodotti rendendo quindi necessario un aumento dei prezzi di vendita; ecco un ulteriore spostamento di oneri: dall’originario onere per il capitale siamo passati all’onere per l’impresa e quindi, di conseguenza, ad un maggiore onere per il consumatore. Ne consegue la logica domanda: ma i maggiori investimenti, i robot acquistati di …