CAPITALISM’S TRIPLE CRISIS

di Mariana Mazzucato* | After the 2008 financial crisis, we learned the hard way what happens when governments flood the economy with unconditional liquidity, rather than laying the foundation for a sustainable and inclusive recovery. Now that an even more severe crisis is underway, we must not repeat the same mistake. LONDRA – Il capitalismo sta affrontando almeno tre grandi crisi. Una crisi sanitaria indotta da una pandemia che ha rapidamente innescato, una crisi economica con conseguenze ancora sconosciute per la stabilità finanziaria, e tutto ciò si sta svolgendo sullo sfondo di una crisi climatica, la quale non può essere affrontata con il solito motto “tutto come sempre“. Fino a soli due mesi fa, i media erano pieni di immagini spaventose di vigili del fuoco impegnati allo stremo, non di stremati operatori sanitari. Questa tripla crisi ha rivelato diversi problemi riguardo a come noi ci interfacciamo con il capitalismo, la somma dei quali deve essere risolta contemporaneamente con la nostra immediata emergenza sanitaria. Altrimenti, ne risolveremo semplicemente alcuni in un posto mentre ne creeremo di nuovi altrove. Questo è quello che successe con la crisi finanziaria del 2008. I politici inondarono il mondo di liquidità senza dirigerla verso buone opportunità d’investimento. Di conseguenza, i soldi finirono nel settore finanziario che era (e rimane) inadatto allo scopo. La crisi COVID-19 sta mettendo in luce ancora più difetti nelle nostre strutture economiche, non da ultima la crescente precarietà del lavoro, a causa della crescita della gig economy e di un deterioramento decennale del potere contrattuale dei lavoratori. Il telelavoro semplicemente non è un’opzione per la maggior parte dei lavoratori, e sebbene i governi stiano offrendo loro assistenza con contratti regolari, i lavoratori autonomi possono essere lasciati in asso. Ancora peggio, i governi stanno ora estendendo prestiti alle imprese in un momento in cui il debito privato è già storicamente elevato. Negli Stati Uniti, il debito totale delle famiglie, poco prima dell’attuale crisi, era di $ 14,15 trilioni, che risulta essere $ 1,5 trilioni in più rispetto al 2008 (in termini nominali). E non dobbiamo scordarcelo, è stato il debito privato elevato che ha causato la crisi finanziaria globale. Purtroppo, nell’ultimo decennio, molti paesi hanno perseguito l’austerità, come se il debito pubblico fosse il problema. Il risultato fu quello di erodere le istituzioni del settore pubblico, le stesse che sono necessarie per superare una crisi come l’attuale pandemia da coronavirus. Dal 2015, il Regno Unito ridusse i budget per la salute pubblica di £ 1 miliardo ($ 1,2 miliardi), aumentando l’onere per i medici in formazione (molti dei quali abbandonarono del tutto il Servizio Sanitario Nazionale) e contemporaneamente tagliando gli investimenti a lungo termine necessari per assicurarsi che i pazienti siano trattati in strutture affidabili, aggiornate, dotate di personale consono e a tempo pieno. E negli Stati Uniti – che non ha mai avuto un sistema di sanità pubblica adeguatamente finanziato – l’amministrazione Trump ha costantemente cercato di decurtare finanziamenti e poteri ai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, in mezzo ad altre istituzioni essenziali. Oltre a queste ferite autoinflitte, un settore imprenditoriale eccessivamente “finanziato” sottrasse valore all’economia premiando gli azionisti attraverso schemi di riacquisto di azioni, piuttosto che sostenere la crescita a lungo termine investendo in ricerca/sviluppo, salari, e formazione dei lavoratori. Di conseguenza, le famiglie sono state impoverite da quelle riserve finanziarie, rendendo loro più difficile la fruizione di beni di base come l’accesso all’edilizia abitativa e all’istruzione. La cattiva notizia è che la crisi COVID-19 sta esacerbando tutti questi problemi. La buona notizia è che possiamo utilizzare l’attuale stato di emergenza per iniziare a costruire un’economia più inclusiva e sostenibile. Il punto non è quello di ritardare o bloccare il sostegno del governo, ma strutturarlo correttamente. Dobbiamo evitare gli errori dell’era post 2008, quando i salvataggi consentirono alle società di ottenere profitti ancora più elevati al termine della crisi, ma non riuscirono a gettare le basi per una ripresa solida e inclusiva. Questa volta, le misure di salvataggio devono assolutamente essere accompagnate da una lista di condizioni. Ora che lo Stato è tornato a recitare un ruolo da protagonista, deve essere scelto come eroe piuttosto che come un ingenuo zimbello. Ciò, significa fornire soluzioni immediate, ma progettarle in modo tale da servire l’interesse pubblico a lungo termine. Ad esempio, possono essere messe in atto una serie di condizioni per le imprese che ottengono il sostegno dal governo. Le imprese che ricevono i salvataggi dovrebbero essere invitate a trattenere i lavoratori e garantire che, una volta superata la crisi, investiranno nella loro formazione e nel miglioramento delle condizioni di lavoro. Meglio ancora, come [si sta facendo] in Danimarca, il governo dovrebbe sostenere le imprese affinché continuino a pagare i salari anche quando i lavoratori non lavorano, aiutando contemporaneamente le famiglie a preservare i loro redditi, impedendo così la diffusione del virus e rendendo più facile per le imprese riprendere la produzione una volta che la crisi sarà finita. Inoltre, i salvataggi dovrebbero essere progettati per orientare le aziende più grandi verso la premiazione di creazione di valore anziché la sua estrazione, impedendo i riacquisti di azioni (buy-back) e incoraggiando gli investimenti nella crescita sostenibile e una riduzione dell’impatto ambientale. Avendo Business Roundtable [Confindustria USA] dichiarato l’anno scorso che adotterà un modello di valore stakeholder [inclusioni delle parti sociali], questa è l’occasione per sostenere le sue affermazioni con l’azione. Se l’America delle corporation è ancora riluttante a metterlo in pratica, dovremmo andare a vedere il suo bluff. Quando si tratta di famiglie, i governi dovrebbero guardare oltre la concessioni di prestiti offrendo l’opportunità di alleggerire il debito, soprattutto alla luce degli attuali livelli elevati di debito privato. Come minimo, i pagamenti dei creditori dovrebbero essere congelati fino a quando la crisi economica in corso non sarà risolta, iniettando direttamente denaro per quelle famiglie che hanno un bisogno più stringente. E gli Stati Uniti dovrebbero offrire garanzie governative per pagare l’80-100% dell’assegno salariale delle aziende in difficoltà, come hanno fatto il Regno Unito e molti paesi dell’Unione Europea e …

LA SANITA’ DOPO IL CORONAVIRUS

  di Alberto Leoni –  Coordinatore Socialismo XXI Veneto |   E’ l’animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi scriveva duemila anni fa Seneca a Licinio. E’ il nostro modo di “vedere” il sistema sanitario, ma soprattutto la tutela della salute che dovremo cambiare, dopo questa tragedia che sta cambiando il mondo e mettendo in discussione  il suo modello di sviluppo. La prima cosa da stampare nella mente: questa è stata la terza pandemia in meno di 17 anni. È probabile, senza interventi correttivi nel rapporto uomo ambiente, che altre ne seguiranno a ritmi temporali più veloci. Debellata una se ne presenta un’altra. La nostra salute la difenderemo con ogni azione utile per diminuire la invasione umana, la deforestazione, lo spazio rubato agli animali, l’inquinamento dell’aria, che non è stato presumibilmente fattore secondario in pianura padana della velocità di trasmissione del Covid19. Prima di essere un problema sanitario la pandemia è un problema di sviluppo economico  sostenibile. Succederà ancora, purtroppo. E lo si affronterà con una solida cabina di regia mondiale, europea e ovviamente nazionale. Una cabina che organizzi e integri, in una banca dati condivisa, tutti i dati scientifici per capirne l’evoluzione e i trattamenti efficaci. Una cabina che coordini la ricerca ed i contributi degli scienziati evitando la frammentazione ed il protagonismo dei singoli. Una epidemia seria, in Italia, non va proprio delegata alla gestione delle Regioni che dovranno cooperare e attuare le direttive nazionali dell’Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Superiore di Sanità. Poi urge una correzione profonda sul nostro sistema sanitario, che rimane un buon sistema sanitario, al di là delle inutili polemiche di questi giorni: non a caso l’Italia è il quarto paese al mondo per spettanza di vita della popolazione e registra uno dei tassi di mortalità adulta ed infantile più bassi al mondo). Dove si deve intervenire? a) In primo luogo sul capitale professionale. Noi non abbiamo meno medici della media europea, pur con l’esodo biblico di questi ultimi 10 anni (pensionamenti e fughe nel privato), ma abbiamo molte specialità scoperte, soprattutto quelle meno remunerative (pronto soccorsisti, anestesisti, radiologi, chirurghi adesso). Tra il 2009 ed il 2017 la sanità pubblica ha perso 8 mila medici e più di 13 mila infermieri. Dobbiamo investire sui medici, dar loro il governo clinico degli ospedali, introdurre i neo laureati in corsia da dove iniziano la specializzazione sul campo, alternata alle lezioni della scuola Universitaria: era così fino ai primi anni ’90 ed era buona prassi perché favoriva quotidianamente la trasmissione del sapere pratico dal medico esperto al giovane. Ed allo stesso modo un percorso analogo va fatto per i giovani medici che vogliono fare i medici di base: questa è una grande opportunità per tornare ad avere medici che prendono realmente in carico il loro assistito, accompagnati da medici di base più esperti, nella prima fase, a volte con la supervisione dello specialista (la specialistica attuale è troppo frammentata e mai ricondotta ad una visione globale della persona che non è sommatioria di organi).  A Bergamo, in piena emergenza, giovani neolaureati sono andati in prima linea. Hanno fatto e fanno una esperienza dolorosissima, ma fondamentale per il loro futuro: scommetto che diverranno ottimi medici. b) Si deve intervenire sugli Ospedali che abbiamo: nel 2017 erano 1000 in tutta Italia con 216 mila posti letto, il 51,8% pubblici il 48,2% privati accreditati, pari a 3,6 posti letto ogni 1000 abitanti. Nel 1998 gli ospedali erano 1381, il 61% pubblici, il 39% privati accreditati, con 5,8 posti letto ogni 1000 abitanti. E’ evidente la sensibile diminuzione ed il cambio di rapporto tra pubblico privato a favore di quest’ultimo. Una tedenza che va rivista con attenzione selettiva, soprattutto dove la ospedalità privata è inefficiente e le convenzioni onerose. La scelta strategica è qualificare  sempre più i nostri ospedali per la cura degli acuti, rafforzare le aree critiche, ripristinare almeno una quota parte degli 8 mila medici e dei 13 mila infermieri persi in 10 anni. Non vanno riaperti i piccoli ospedali dismessi. Spesso sono “pericolosi” per la sicurezza del paziente perché non dotati dei servizi necessari in casi di emergenza. Le risorse invece vanno investite nella messa a norma del patrimonio edilizio ospedaliero, spesso vetusto, nel rafforzamento della vigilanza igienico sanitaria (mai dimenticare i 49 mila morti per infezioni ospedaliere annue!)  nella dotazione di personale, nelle strutture territoriali  che dovevano essere la vera alternativa alla chiusura dei piccoli ospedali e mai sono veramente decollate. c) I territori, le città hanno bisogno quindi di ospedali molto qualificati per acuti. La vicenda del Covid19 ha evidenziato la necessità di disporre, in modo flessibile, di almeno il doppio di posti di terapia intensiva e subintensiva. I 5 mila esistenti, diminuiti negli ultimi 10 anni, non sono sufficienti durante eventi eccezionali. Durante questa tragedia ne sono stati attivati ulteriori 4 mila, grazie allo straordinario apporto di aziende e volontari. Fino a febbraio 2020 l’Italia disponeva di 8,558 posti letto di terapia intensiva ogni 100 mila abitanti, contro i 29,2 della Germania. Questi posti, creati in un un mese, andranno mantenuti, con la necessaria flessibilità (in alcuni periodi ne serviranno, si spera, meno) perché il nostro futuro è ancora condizionato da possibili gravi eventi avversi. Non dobbiamo essere impreparati. d) La vera priorità, emersa in Lombardia soprattutto, è la necessita di una rete territoriale socio sanitaria efficiente e tempestiva, in grado di curare a casa le situazioni di malattia non acute. Soprattutto in situazioni pandemiche. Le buone pratiche non sono mancate in questi anni, ma sono esempi isolati. Da domani  il perno del sistema deve esserlo la medicina di comunità, basata sul medico di base, sull’infermiere di comunità, sulla stessa assistente sociale, con la supervisione degli specialisti  in caso di situazioni più complesse. E’ la logica dell’integrazione Ospedale Territorio, per evitare di riempire gli ospedali. Medicina di base forte e strutture intermedie, un’assistenza domiciliare integrata che va a casa della persona (in grado di prendere in carico almeno l’8% dei dimessi fragili ospedalieri), sono la risposta più adeguata alla …

MAI SENZA EUROPA

  di Luigi Ferro –  Socialismo XXI Campania |   L’UE in questi giorni si sta interrogando su alcune misure finanziare da adottare per superare la grave emergenza sanitaria ed economica causata dalla pandemia internazionale da COVID -19. Il governo italiano insiste, come sappiamo, sull’emissione di Coronabond per superare le gravi difficoltà economiche. Sulla scia dell’italia anche altre nazioni come la Francia, per esempio, rompendo l’ormai proverbiale asse con Berlino. Tutti, insomma, chiedono l’emissione di Coronabond o, meglio , di Eurobond. La quesione non è soltanto semantica. La differenza è sottile, ma evidente. Gli eurobond sono strumenti finanziari straordinari. Si tratta di titoli di stato comunitari garantiti dalla BEI (Banca Europea degli investimenti). Sono obbligazioni “comuni” a disposizione degli Stati che hanno bisogno di liquidità nel circuito nazionale. L’Italia, ma anche Francia, Slovenia, Irlanda, Grecia, Lussemburgo, Spagna, Belgio, Portogallo, chiedono  l’emissione di Eurobond per un valore di circa 500 miliardi di euro. La spesa degli Eurobond dovrebbe avvenire a debito degli Stati nazionali. Ciò richiederebbe la stabilizzazione dei tassi, cosa non facile in questo periodo, per supportare lo sforzo nell’incremento del debito pubblico. L’Italia, come altri Paesi, però necessiterebbe di un volume di investienti sproporzionato con le ricadute del costo netto del finanziamento su altri Paesi. Da qui discende l’opposizione di Germania e Olanda, secondo cui sono stati messi in campo altri strumenti finanziari ugualmente validi ( i 750 miliardi di euro stanziati dalla BCE per acquistare titoli di stato ed iniettare liquidità nelle economie più fragili). L’ultima riunione tra i leader dell’UE si è conclusa con una fumata nera rinviando di qualche settimana ogni decisione e consumando ancora una volta del tempo prezioso anche perché la pandemia economica generata dal COVID-19 è più veloce delle nostre istituzioni nazionali ed europee.  L’atteggiamento dell’Italia, nel caso non dovessero essere accolte le richieste avanzate, si può riassumere nelle parole del nostro premier “ faremo da soli”. E’ chiaro che non siamo in grado di fare da soli e le parole di Ursula Von der Leyen (eletta anche con  i voti italiani di PD e 5 STELLE) che hanno bollato come slogan detta affermazione in realtà hanno un contenuto di verità. Conte è schiacciato dalle opposizioni storicamente antieuropeiste, come del resto una parte della flotta pentastellata oggi al governo. Ed il timore di essere schiacciato sul fronte interno ha determinato un atteggiamento “quasi intimidatorio” del governo italiano in sede europea che rischia, però, ritengo, di mettere in un angolino il nostro Paese. Conte sa perfettamente che non siamo in grado di andare avanti da soli. I problemi si risolvono in Europa e con l’Europa, sempre che non si voglia ricorrere all’atavica tentazione di adottare strumenti fiscali interni come la patrimoniale e l’aumento dell’I.V.A. che avrebbero unicamento l’effetto di frenare la domanda, i consumi e la crescita economica sostenuta, gettando il sistema Paese nel caos, nella disperazione, oltre ad esporlo alla speculazione internazionale ed alla vendita low cost dei nostri asset strategici. La Francia, oggi schierata con l’Italia, più diplomaticamente è rimasta in silenzio, ma sono convinto, e non ho paura di essere smentito, che in queste ore con Berlino stia cercando una soluzione, una mediazione, per ottenere le risorse  necessarie onde affrontare e superare la doppia emergenza sanitaria ed economica.  Le parole di Macron apparse su alcuni quotidiani italiani in questi giorni non lasciano dubbi a riguardo. Un nuovo asse PARIGI-BERLINO metterebbe in quarantena il gruppo dei “rivoltosi” capeggiato dall’Italia, costretto ad accettare un eventuale accordo al ribasso franco-tedesco. E allora occorre muoversi in fretta, non temporeggiare, fare pressing, e non perdere la primogenitura delle proprie azioni sul fronte politico in chiave europeista. Mi sembra più positivo e più cauto nelle ultime ore l’approccio di Conte che ha spiegato alla Merkel che occorre l’impegno e la solidarietà di tutta l’UE per superare il momento di difficoltà dopo la frattura dei giorni passati. Finalmente si discute per una intesa. Ma avanziamo delle proposte per uscire da questo pantano. In primis, insisto nel sostenere che il Governo italiano deve correttamente qualificare detto strumento finanziario perché non diventi uno strumento a termine  fino al superamento dell’emergenza sanitaria in Europa. Gli Eurobond spiegherebbero i propri effetti nel medio e lungo periodo. Ed è qui il nodo da sciogliere. Il capo della BCE Christine Lagarde, anche se timidamente, sarebbe disponibile all’emissione di Coronabond, ma una tantum cioè “una volta soltanto”. Ciò appare francamente inaccettabile. Oltre agli strumenti finanziari già messi in campo (circa 750 miliardi di euro dalla BCE), appaiono sempre più necessari anche gli Eurobond con effetti nel lungo periodo per finanziare la sanità europea e la ripresa economica, una volta superata l’emergenza. Non abbiamo bisogno di misure  una tantum o a termine. Farebbero bene i Governi tra cui l’Italia a sottolineare con più vigore questo aspetto della vicenda. Ecco perché si deve insistere sull’emissione di Eurobond e non limitare ipotetici interventi finanziari solo nel breve periodo fino al superamento della pandemia (i Coronabond). In secundis, qualora l’Europa non dovesse accettare l’emissione di Eurobond, cosa fare? L’Italia certamente non potrà fare da sola. L’Europa è importante ed irrinunciabile, a  prescindere da un certo patriottismo un po’ edulcorato sbandierato in questi giorni. Lo sa anche Conte. Oltre ai 750 miliardi di euro stanziati dalla BCE, c’è il MES (fondo salva-stati), altro strumento finanziario. Ma le condizioni devono cambiare perché solo in questo caso sarà possibile dare impulso all’economia nazionale ed europea, anche perché mantenere sistemi economici deboli nell’eurozona non conviene a nessuno  neanche a quegli apparati statali  finanziariamente più virtuosi. Le regole dei mercati sono note a tutti. Qualcuno direbbe: “Ma l’Italia non vuole ricorrere al MES!” Questa affermazione è vera solo in parte perchè se cambiassero le condizioni se ne potrebbe discutere. Una ristrutturazione del debito fissata a venticinque anni e a tassi molto agevolati, consentirebbe all’Italia di finanziare e di sostenere pienamente la ripresa economica e nel lungo periodo di disporre  di notevoli risorse per rientrare dal debito. In questi termini si potrebbe ricorrere al MES. In tertiis, si potrebbe richiedere alla BCE un ulteriore …

VENDOR FINANCING

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Si definisce il “vendor financing” come quella pratica per cui un ente, uno stato, una impresa finanziano un cliente affinché lo stesso acquisti beni o servizi dal finanziatore. Praticamente io ti faccio un prestito a condizione che tu con i fondi del prestito acquisti miei prodotti. Questa strategia è pervicacemente perseguita della Germania all’interno della Comunità Europea disegnando i meccanismi europei a sostegno della sua strategia, penso al sistema del Target 2, allo stesso MES, e al rifiuto di rispettare il vincolo del 6% quale massimale di avanzo commerciale ed infine al negare ogni disponibilità a controbilanciare l’esorbitante privilegio di una moneta unica con un Meccanismo Generale di Riciclo dei Surplus (GSRM) Il caso più eclatante è stato quello del salvataggio della Grecia; nel 2012 il Wall Street Journal rivelava che Berlino e Parigi avevano preteso l’acquisto di armamenti come condizione per approvare il piano di salvataggio della Grecia. (Vedasi in appendice un articolo di dettaglio). In quel caso i due paesi posero come condizione del salvataggio la vendita di loro prodotti bellici, con l’astuzia che il credito (il salvataggio) promesso non era a carico dei due paesi beneficiari, ma era (a proposito di mutualizzazione) a carico dell’intera Comunità Europea (l’Italia contribuì con 50 miliardi). Nella prefazione al libro di Marcello Minenna “La moneta incompiuta” (Ediesse 2016) Romano Prodi, riferendosi a quanto scritto a pagina 201 del testo, così crive: “L’analisi dei saldi netti del Target 2 fornisce un’istantanea molto nitida dell’Eurozona all’epoca della crisi: da un lato i Paesi core (con l’eccezione della Francia) mostrano saldi netti positivi e crescenti, con la Bundesbank che fa la parte del leone; dall’altro lato, la periferia unitamente alla Francia mostra saldi netti del sistema Target 2 via via sempre più negativi. Le straordinarie dimensioni del saldo netto positivo della Germania (500 miliardi di euro al picco della crisi) (861 miliardi alla fine del 2019 n.d.r.) si spiegano considerando che la Germania ha implementato quella che in economia è nota come strategia del vendor pricing. Fino al 2011 il sistema bancario tedesco aveva elargito enormi quantità di credito alle economie dei Paesi periferici; in parallelo, il surplus delle partite correnti tedesche aveva continuato a crescere (e il disavanzo della periferia a deteriorarsi) perchè i Paesi periferici avevano usato una considerevole parte dei finanziamenti ricevuti per importare i beni prodotti dalla manifattura tedesca”. Mi preme sottolineare che il nostro Paese, pur essendo esportatore netto, abbia un significativo saldo Target 2 negativo (482 miliardi a fine 2019), cosa che si può spiegare solo con un saldo finanziario molto maggiore di quello economico. La cultura mercantilista tedesca correttamente sostiene che non è colpa sua se la sua industria e la sua economia è più efficiente delle altre e non si vede nè modo nè ragione di chiedere agli operatori tedeschi di ridurre le loro esportazioni. Questa posizione di schietta marca liberista, oltre a non considerare in alcun modo la missione di una Comunità di puntare a far convergere i fondamentali, è connotata da una scarsa visione a lungo termine; infatti quand’anche nel breve termine la vendor financing sia molto conveniente per il Paese che la pratica, a lungo termine si espone a grossi rischi. Riportiamo quanto scriveva Keynes al proposito (Activities 1940-1944 pp. 276-7): “Un paese che si trovi in posizione di creditore netto rispetto al resto del mondo (comunità) dovrebbe assumersi l’obbligo di disfarsi di questo credito, e non non dovrebbe permettere che esso eserciti nel frattempo una pressione contrattiva sull’economia mondiale (comunitaria) e di rimando, sull’economia dello stesso paese creditore.Questi sono i grandi benefici che esso riceverebbe, insieme a tutti gli altri, da un sistema di clearing multilaterale (…). Non si tratta di uno schema umanitario filantropico e crocerossino, attraverso il quale i paesi ricchi vengono in soccorso ai poveri. Si tratta, piuttosto, di un meccanismo economico altamente necessario, che è utile al creditore tanto quanto al debitore”. In sintesi Keynes avverte gli esportatori abituali che dall’altra parte si ritroveranno degli importatori abituali che prima o poi, con mille peripezie, si troveranno nell’incapacità di pagare i loro debiti e falliranno, e fallendo loro genereranno un danno al paese esportatore che non riesce più a incassare i suoi crediti. Quindi tanto nell’interesse concreto dell’esportatore, e  non nel suo spirito crocerossino, quanto in quello del paese importatore la situazione di cronico sbilancio, nei due sensi, della bilancia commerciale va superata. Ma c’è il MES! Il MES è costituito da fondi versati (o impegnati) da parte di tutti i paesi dell’unione per costituire uno strumento per aiutare un paese eventualmente trovatosi in difficoltà. Così se dovesse verificarsi il problema indicato da Keynes, se un paese non ce la facesse più a pagare i suoi debiti, ecco che il Mes interviene con prestiti che in primis vanno a saldare i debiti commerciali contratti e poi devono essere ripagati nel tempo con gli interessi. Sembrerebbe quindi che il MES più che aiutare l’importatore incallito (che rimane pur sempre con il suo debito non più verso l’esportatore e grazie all’UE dilazionato) sembra aiutare l’esportatore incentivandolo a perseguire nella sua strategia di vendor financing. E questo incentivo a proseguire in una pratica squilibrante è ciò che dovrebbe invece essere evitato perchè l’azione preventiva che tenda a prevenire le situazioni di difficoltà finanziaria è molto più efficace e economicamente meno costosa che non una operazione successiva. Quello che veramente manca è quel sistema di clearing multilaterale citato da Keynes nel suo scritto, sistema che in pochissime parole è basato su una moneta non coniata, una moneta di conto che rileva tutte le transazioni tra i paesi aderenti, controllando che questi, sia se creditori che debitori, rimangano entro certi limiti e prevedendo “punizioni” non solo per gli eccessivi importatori ma anche per gli eccessivi esportatori, spingendoli a tendere verso il pareggio di bilancia commerciale. Si tratta del sistema BANCOR proposto da Keynes a Bretton Woods. In quella sede, però, prevalse la linea del dollaro egemone sostenuta da Dexter White, linea cancellata …

LEGGENDO DRAGHI SUL FINANCIAL TIMES

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   La prima domanda è: a chi si rivolge Draghi? Mi pare che Draghi si rivolga ai decisori politici per fissare concetti semplici, ma di estrema importanza. Il discorso pare si rivolga ai decisori politici italiani, ma l’obiettivo finale sono i decisori politici europei, quelli che potrebbero salvarci da questa situazione difficile, ma che, senza che Draghi lo dica espressamente, non si rendono conto della gravità della situazione in cui ci troviamo. Quali sono i punti da cui Draghi parte per fare le sue proposte? E’ abbastanza evidente che Draghi parta dal paragonare la tragedia, che stiamo affrontando e che si prospetta di dimensioni potenzialmente bibliche, alla situazione in cui ci siamo trovati alla fine della seconda guerra mondiale, e in seconda istanza fa un esplicito riferimento alla crisi del ’29. “Una profonda recessione è inevitabile” occorre evitare che questa recessione si trasformi in una depressione di lungo, lunghissimo termine. Non cita a mio parere la crisi del 2007 perché l’attuale crisi non è colpa di nessuno (come invece era colpa del capitalismo finanziario quella crisi), ma rischia di distruggere posti di lavoro e capacità produttiva; non è una crisi che sorge dalla finanza ma colpisce l’economia reale creando shock sia sul fronte della domanda che sul fronte dell’offerta. Quali sono allora le proposte per uscirne? Se la crisi non è colpa di nessuno, se essa rischia di distruggere l’economia reale è allora inutile, se non dannoso, di fasciarsi la testa con gli equilibri finanziari; bisogna concentrarsi per tenere in piedi il massimo delle imprese produttive e, soprattutto, le imprese che si impegnano a mantenere i livelli occupazionali che avevano prima della crisi.  Le imprese, di tutte le dimensioni, si troveranno se già non si trovano, in crisi di liquidità, non riusciranno a pagare i dipendenti, non riusciranno a pagare i debiti fiscali, commerciali o finanziari rischiando concretamente di fallire. Vanno bene i sussidi statali ai dipendenti rimasti senza stipendio, vanno bene le sospensioni dal pagamento delle imposte, va bene aver vietato alle banche di revocare i fidi concessi ma tutto ciò non basta. La proposta è che si crei liquidità per tutte le imprese che sono disposte a salvare i posti di lavoro, o attraverso l’emissione di obbligazioni, o attraverso ampliamento illimitato dei fidi e dei prestiti fatti dalle banche o anche dalle poste. Naturalmente le banche devono essere sostenute in questa azione di creazione di liquidità, e deve allora essere lo Stato a garantire tutto questo ampliamento di credito e le garanzie concesse devono essere a costo zero. La proposta vede quindi l’erogazione di linee di credito alle imprese da parte delle banche e ciò non solo per sostenere il fabbisogno di liquidi per l’ordinaria vita aziendale ma anche per programmi di sviluppo onde non compromettere la loro capacità di investire in seguito. “E se l’epidemia del virus e le conseguenti chiusure di attività dovessero durare, (le imprese) potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito accumulato per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato”.  Le banche a loro volte ottengono garanzie statali a costo zero, indipendentemente sia dal livello di rischio connesso con la garanzia, sia dal costo che queste garanzie possano generare allo Stato. Lo Stato si fa quindi carico del debito privato, ed il debito pubblico necessariamente aumenterà, ma operare in modo differente causerebbe guasti ben più profondi e duraturi, prospettando una crisi senza fine dalla quale potrebbe essere molto difficile rientrare. Solo salvando l’economia reale e sacrificando il debito pubblico si può pensare di uscire, anche se non in tempi stretti, dalla crisi. Ma allora i trattati europei? L’Esm, il fiscal compact, il saldo debito/Pil? E’ a questo punto che Draghi parla all’Europa, e le parla con le seguenti parole “Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra” e questo cambiamento di mentalità riguarda direttamente i decisori politici europei chiamati “in quanto europei a sostenersi a vicenda nel perseguimento di ciò che è evidentemente una causa comune”. Ma una volta affrontato il disastro, tutto sarà come prima? Su questo fronte Draghi non si pronuncia, anche se si può pensare che “il cambiamento di mentalità” significhi un cambiamento permanente di paradigma, non si potrà più continuare come se nulla fosse successo; dopo averla sospesa occorrerà rivedere la legge di stabilità e tutto il sistema europeo. Gli industriali, leggendo i vari commenti, sono entusiasti delle proposte di Draghi, in particolare per quel passaggio che ho messo in neretto in cui si prospetta la “cancellazione del debito”; noi socialisti, considerando le indicazioni di Draghi come senza alternativa, dovremo unirci per affrontare quel grosso scontro di classe che si ripresenterà proprio nel momento in cui viene scritto il decreto di aprile, prima e tutta la redistribuzione degli sforzi e delle energie richieste per il rilancio dell’economia e per il rientro dal debito. Ad esempio dovremmo, a mio parere, mettere un punto fermo per cui quando siano previsti trasferimenti a favore del capitale, tali trasferimenti non siano concessi a fondo perduto, ma siano un investimento, una partecipazione statale nelle imprese beneficiate. Poiché il presidente Bonomi già ha messo le mani avanti escludendo qualsivoglia forma di Irizzazione, ebbene è proprio su questo punto, e su tanti altri similari (imposta patrimoniale, tasse di successione, etc.) che dovremo dimostrare di essere presenti uniti e determinati.                   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

KEYNES OGGI

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Il presente contributo non vuole certamente essere un compendio dell’opera di Keynes, ma vuol cercare di indicare alcune vie di approccio alle problematiche presenti nella situazione economica attuale, figlia della crisi del 2007, che rappresenta il culmine della crisi del sistema del capitalismo nella sua fase finanziaria. Premessa La Teoria generale di Keynes venne pubblicata nel 1936, quando ancora erano pienamente in atto le conseguenze del “Giovedì nero” e della Grande depressione. Il reddito nazionale degli Stati Uniti crollò e la disoccupazione raggiunse livelli estremamente alti. In questa situazione la validità della legge di Say, in base alla quale è sempre verificata l’equivalenza tra produzione e domanda e, di conseguenza, è impossibile che il sistema economico funzioni al di sotto della piena occupazione, fu messa decisamente in dubbio. In questo contesto trovava terreno fertile, in opposizione alla teoria ortodossa, come sostenuto, tra gli altri, dall’economista e storico del pensiero economico John Kenneth Galbraith, l’opera di Keynes, il quale imputò la crisi al livello estremamente basso degli investimenti, e all’incapacità degli economisti classici di affrontare con successo quell’evento intimamente sconvolgente.  Keynes  socialista? La critica all’incapacità degli economisti classici non fa di Keynes un socialista; lo scrive esplicitamente nel libro VI al capitolo 24 “Filosofia sociale” capo III: “Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione al consumo, in parte mediante il suo sistema di imposizione fiscale, in parte fissando il tasso di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l’influenza della politica bancaria sul tasso di interesse sarà sufficiente da sola a determinare un livello ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con l’iniziativa privata. Ma oltre a questo non si vede nessun’altra necessità di un sistema di socialismo di stato che abbracci la maggior parte della vita economica della collettività. Non è importante che lo Stato si assuma la proprietà dei mezzi di produzione. (…) Ma se le nostre autorità centrali di controllo riuscissero a stabilire un volume complessivo di produzione corrispondente per quanto possibile alla piena occupazione, la teoria classica si affermerà di nuovo da quel punto in avanti”. Il non-socialismo di Keynes non sta tanto nel rifiuto del “socialismo di stato” (cioè di un regime burocratico, elefantiaco, da gosplan, tarpatore della creatività) nel contesto di una frase in cui la rilevante indicazione è quella di una “certa socializzazione”, quanto nella frase finale in cui afferma il riaffermarsi della teoria classica “da quel punto in avanti”. E quel punto è la consapevolezza della cronica incapacità dei mercati di garantire la piena occupazione dei fattori della produzione, consapevolezza questa che permea tutto il pensiero di Keynes. Ma la precondizione al riaffermarsi della teoria classica è che “le nostre autorità centrali di controllo riescano a stabilire un volume complessivo di produzione corrispondente per quanto possibile alla piena occupazione”. Non sarà socialismo, nel senso che non contempla la contraddizione insita nel capitalismo tra le classi antagoniste, ma è sicuramente una critica profonda ai due massimi assiomi liberisti secondo i quali: a) ogni uomo perseguendo egoisticamente la propria felicità contribuisce a realizzare quella di tutti; b) il mercato è il sistema che meglio di ogni altro contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione. Keynes vuole salvare il capitalismo? Credo piuttosto che Keynes persegua nella sua opera obiettivi pragmaticamente perseguibili, condivisibili e finalizzati alla efficienza del sistema. Esaminerò in questo contributo i temi della: ● Piena occupazione ● Capitalismo finanziario ● Bilance commerciali ● Tecnologia La piena occupazione  La “piena occupazione” mi sembra un obiettivo condivisibile per chi si ritiene socialista, anche se tale obiettivo non significa l’emancipazione del lavoro dipendente, tema quest’ultimo oggetto di un punto successivo. Come noto in presenza di un’economia che fatica a crescere, con una disoccupazione dei fattori della produzione che deprime la domanda aggregata e quindi la crescita Keynes propone che lo Stato vari un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare con una politica di deficit spending  che, tramite il famoso moltiplicatore, faccia ripartire la domanda aggregata, la conseguente attività produttiva, l’occupazione creando ulteriore domanda fino al raggiungimento della piena occupazione. Quattro elementi vanno però considerati per applicare la ricetta del deficit spending. Il primo elemento consiste nel presupposto che esista una disoccupazione dei fattori della produzione, perché solo in tal caso l’investimento pubblico non genererebbe inflazione cosa che invece succederebbe con un deficit spending in presenza di piena occupazione dei fattori della produzione. E’ importante sottolineare ciò perché nella vulgata il keynesismo passa per una politica di deficit spending comunque, magari, e questo è il caso del nostro Paese, per finanziare la spesa corrente o, come vedremo al secondo punto, per finanziare investimenti non produttivi. Il secondo punto è che gli investimenti fatti indebitandosi siano produttivi in termini di PIL, ovvero essi possono anche essere improduttivi in termini ragionieristici di economia aziendale ma devono invece essere in grado di innescare quel moltiplicatore che porta effetti concreti sul PIL. La creazione della domanda aggregata deve cioè scaturire da un piano di investimenti che crei posti di lavoro, metta in moto l’attività produttiva, che si espanda in una spirale virtuosa sull’azienda nazionale, espandendo così la domanda che crea nuova attività indotta. Insomma per essere sintetici, Keynes non avrebbe mai cercato l’aumento della domanda erogando 10 miliardi l’anno sotto forma di bonus da 80 € al mese (helicopter money).. Il terzo elemento è che l’indebitamento crei una equa ripartizione dei sacrifici/benefici tra le generazioni. Se si facessero gli investimenti sulla base di una politica di risparmi ed una conseguente accumulazione per gli anni necessari ad accantonare la somma necessaria (quello che può essere uno degli aspetti dell’austerità europea), se tale politica avesse successo avremmo due risultati: primo che l’investimento parte dopo 10 anni di accumulazione e che la generazione che risparmia si fa carico di tutti i sacrifici mentre la generazione che gode dei frutti dell’investimento ha solo …

DOPO I MORTI I FANTASMI

di Beppe Sarno | Il governo Conte all’articolo 76 del decreto cura Italia autorizza, «la costituzione di una nuova società interamente controllata dal Ministero dell’economia e delle Finanze ovvero controllata da una società a prevalente partecipazione pubblica anche indiretta». Pur non riuscendo a revocare le concessioni autostradali, per effetto congiunto della crisi della società Alitalia e della emergenza del coronavirus, il governo Conte ha avuto il coraggio di saltare il fosso e di nazionalizzare la compagnia di bandiera. Ma la nazionalizzazione non basta. Non basta per Alitalia ed andrebbe estesa anche ad altre aziende strategiche che senza l’intervento diretto dello stato rischiano la chiusura. E’ il caso della ex ILVA, che andrebbe sottratta agli sciacalli della Alcelor MITTAL e messa sotto il controllo dello Stato. Come pure andrebbero rinazionalizzate tante aziende strategiche regalate  a finanzieri senza scrupoli. Il decreto “Cura-Italia” che è la risposta alla drammatica situazione sanitaria che stiamo vivendo, oltre al problema del funzionamento delle strutture sanitarie per far fronte all’emergenza del coronavirus si pone anche il problema del sistema produttivo dedicandogli un intero titolo. Il secondo in ordine di importanza “misure a sostegno del lavoro”  -nessuno dovrà perdere il lavoro- dice Conte. Ci voleva il coronavirus per accorgersi che esistono gli operai. Ci si illudeva che con la globalizzazione questa forza  fosse solo  un’opzione trascurabile e di cui si poteva fare a meno. Le navi che arrivavano dalla Cina ci portavano tutto quello di cui avevamo bisogno a prezzi stracciati alla portata di tutte le tasche. Il mondo del lavoro  invece esiste e il governo ha messo in evidenza la necessità di dare ai lavoratori una protezione che fino a qualche giorno fa pareva inimmaginabile. Esiste lo Stato, esistono i lavoratori, si comincia a nazionalizzare, il sistema di Maastricht scricchiola. L’austerità sta facendo i bagagli, la Lagarde potrebbe fare i bagagli e se non li farà è stata sicuramente ridimensionata. Molti analisti, che non riescono a vedere la luce oltre il tunnel del coronavirus auspicano la necessità di elaborare un “piano Marshall” per la ripresa economica europea dopo i disastri che questa pandemia comporterà. Niente sarà come prima! Dopo i morti i fantasmi. Quante piccole e medie aziende e quanti artigiani piccoli commercianti non supereranno il momento drammatico che stiamo vivendo? Quanti lavoratori prederanno il lavoro? Quante saracinesche rimarranno abbassate? E i migranti che vagano per le strade senza alcun sostegno? Dopo questa tragica pandemia dovremo trovare gli strumenti per risollevarci. L’Italia, Europa, avranno bisogno di un gigantesco piano economico per evitare il definitivo deterioramento delle condizioni economiche politiche e sociali che una folle politica di austerità ha generato nelle economie delle nazioni più deboli dell’Europa. Il problema da porsi da subito è capire chi dovrà elaborare e gestire questo futuro così pieno di incognite, così difficile da affrontare e gestire. La nazionalizzazione delle industrie strategiche come Alitalia ex ILVA e tante altre è solo una risposta, certamente condivisibile, ma non è la risposta o almeno non è l’unica. “Insieme ce la faremo” è il mantra di questi giorni. Sta in parte funzionando, paradossalmente non sta funzionando solo nei luoghi in cui un’oligarchia di imprenditori ottusi e superficiali interpreta quell’ “insieme” per tutti, ma non per loro. Non a caso il morbo fa più vittime dove le attività si sono fermate solo per finta. Sindacati ed imprenditori seduti allo stesso tavolo insieme al governo decidono di chiudere la aziende non strategiche per la produzione. Viene chiesta solidarietà e collaborazione. Ed giusto farlo in questo momento come è giusto che la scienza detti le regole da osservare. L’attuale crisi ha dimostrato inconfutabilmente che le politiche economiche che l’Europa ha fino ad oggi adottate sono fallimentari ed è pertanto necessario elaborare un diverso modello di sviluppo, che ponga al centro delle scelte l’intera collettività. Non più un sistema produttivo finalizzato esclusivamente al profitto gestito dalle multinazionali finanziarie, ma un sistema che ponga al centro le necessità e i bisogni delle collettività rappresentate dagli Stati nazionali che recuperando la loro sovranità costituzionale diventano strumento di governo autonomo e democratico delle scelte economiche e sociali. La domanda è questa: da dove bisognerà ripartire quando l’emergenza sanitaria sarà finita? La risposta è semplice e ce la offrono gli avvenimenti di questi giorni: la nostra Carta Costituzionale! Attuare la Costituzione significa però in primo luogo ridiscutere le regole per un’Europa più democratica individuando nella nostra carta costituzionale quegli strumenti, quelle leve che facciano diventare la collettività protagonista della rinascita economica e sociale. Bisogna rimanere in Europa, ma non più nell’Europa di Maastricht, dove gli stati nazionali sono spettatori assenti di decisioni prese da un gruppo di burocrati irresponsabili, ma in un Europa dove gli Stati nazionali si pongono il problema del bene comune secondo le regole che la carta costituzionale ha scritto con il sangue della Resistenza. Uno stato sovrano che affronti il problema dell’equilibrio fra sistema produttivo e l’ambiente, la gestione produttiva, la salute delle aree industriali, modifica dei metodi di produzione, limiti del concetto di PIL, l’uso collettivo e democratico della tecnologia e degli strumenti di comunicazione di massa. “Insieme ce la faremo!” Ma dopo? Niente sarà come prima. Dovremo ricostruire il tessuto sociale ed economico dalle macerie che questa guerra senza nemico avrà prodotto. Dopo dovremo essere di nuovo insieme. Solidarietà, però, non è collaborazione. Infatti nella nostra Carta Costituzionale tra i diritti e i doveri dei cittadini nei rapporti economici si trovano in ordine i diritti del lavoro, dell’iniziativa economica, e della proprietà. Vi sono disposizioni che indicano i fini dell’azione dello Stato che potremmo definire una costituzione economica che prende lo spunto da quello che fu definito il Codice di Camaldoli ispirato dall’allora cardinal Montini nel 1943, che aveva appunto lo scopo di creare la piena occupazione, riequilibrare il sud con il nord del Paese e, contemporaneamente, risanare il bilancio dello Stato. Fra questi l’opzione delle nazionalizzazioni, e socializzazioni (art.43), la protezione della proprietà terriera, la protezione dell’artigianato e della cooperazione e infine “la tutela del risparmio in tutte le sue forme” (art.46) Per ripartire ecco la …

IL MEZZOGIORNO SOTTO ATTACCO?

   di Silvano Veronese – Vice presidente di Socialismo XXI |   Ritorno sull’argomento del “come” affrontare le drammatiche conseguenze di questa terribile epidemia virale che ci ha aggredito, che ritengo la priorità in assoluto del nostro impegno e dei nostri pensieri per la vita e la salute dei cittadini. Ho sentito in TV, come penso molti,  l’accorato appello del Presidente della Regione Puglia Emiliano e ritengo doveroso, anche come nativo del “profondo Nord” e oggi residente in una delle Regioni maggiormente colpite, rivolgere un sentimento di grande, affettuosa e fraterna solidarietà nei confronti dei Pugliesi, ma anche di tutte le popolazioni del Mezzogiorno, in quanto in un momento in cui sembra (ripeto sembra) maturare nelle Regioni settentrionali più colpite un rallentamento (che non vuol dire l’arresto del grave fenomeno) del numero dei  nuovi contagiati, dei deceduti, dei ricoverati, appare evidente che le necessarie  misure restrittive decise dalle Autorità alla mobilità delle persone  e a molte attività e lavorazioni non sono da sole sufficienti a fermare la diffusione dell’epidemia che, se non affrontata anche con altre misure potrebbe drammaticamente ripetersi al Mezzogiorno con effetti devastanti data la diversa condizione della Sanità nel Sud rispetto a Lombardia, Veneto ed Emilia. Diceva il governatore Emiliano che la Regione Puglia ha già cominciato ad aumentare le disponibilità di reparti e di degenze dell’area infettivi e terapie infettive, anche con personale specializzato, oltre a proseguire con intensità nelle attività di prevenzione della infezione e di restrizione alla mobilità. Ma –  ha denunciato il Presidente della Giunta Pugliese – mancano strumentazioni e dispositivi per rendere efficace l’attività di prevenzione prima e di terapia dopo: tamponi per i test, mascherine e guanti, respiratori e le bombole di ossigeno necessarie per la respirazione di coloro che sono in terapia intensiva. E non sono ancora giunte nei c/c, alla data odierna, in Puglia le quote di risorse destinate alla Regione per far fronte alle emergenze sanitarie e socio-economiche. Sono invece arrivati in Puglia circa 27.000 cittadini pugliesi che lavoravano al Nord rimasti, a causa delle restrizioni per l’epidemia, senza lavoro, senza reddito e senza domicilio. Potrebbero essere in parte, lo scongiuriamo, ma venendo in buona parte dalla Lombardia, dei possibili “positivi” o soggetti a rischio. Come può allora una Regione procedere a dei “test” di massa per una verifica in tal senso per prendere le eventuali contromisure se mancano tamponi e le possibilità di dotare queste persone di mascherine ed altri dispositivi ? Lo abbiamo già detto implicitamente  in una precedente nota: i DPCM o altre disposizioni ministeriali non si attuano da soli se a queste determinazioni non seguono, anziché tante interviste ministeriali, fatti attuativi concreti e rapidi, in particolare per dotare subito le Unità Ospedaliere degli strumenti, dispositivi e del personale medico-infermieristico necessari oppure per trasmettere, non ad aprile o maggio ma ora, la parte regionale di risorse necessarie per il loro acquisto o per il sostegno economico a lavoratori dipendenti ed autonomi colpiti dalla interruzione forzata dell’attività.   Le misure restrittive, anche rigorose, della mobilità delle persone e di molte attività lavorative e servizi pubblici, da sole non arrestano i focolai di contagio: oggi lo possono essere persino gli Ospedali e i Centri della stessa Protezione civile o di esercizi necessariamente a contatto della gente (come le Farmacie ad es.). Vedi il caso del commissario Bertolaso, purtroppo colpito – come tanti valorosi medici – proprio mentre operava nell’attività anti-epidemia ed al quale rivolgiamo un caldo augurio di pronta guarigione. Per questo, insistiamo ancora una volta, affinché si vada oltre alle misure dei vari DPCM e con rapidità.     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

APERICENA E CORONAVIRUS

   di Silvano Veronese – Vice presidente di Socialismo XXI  |   Condivido l’articolo del New York Times (ripreso da Il Riformista). Il Governo (ed anche qualche Autonomia locale) ha agito allo scoppio dell’epidemia virale con troppa lentezza ed ha mandato segnali contradditori ed incerti sul come procedere ed ha anche insistito in qualche comportamento sbagliato, in particolare per quanto riguarda il sostegno (anche finanziario) alle attività ed ai redditi che venivano meno per l’arresto del lavoro nonché nella comunicazione. Prima sembrava che l’esigenza primaria fosse “non bloccare la vita e l’economia del  Paese”, poi quando l’emergenza, per quanto riguarda il bene piu’ profondo che sono la vita e la salute dei cittadini, ha assunto dimensioni sconvolgenti, sono stati presi  provvedimenti, ma con gradualità, tendenti all’isolamento dei contagiati e ad impedire la mobilità e i contatti fra cittadini, fra i quali il virus stava diffondendosi rapidamente ed a “macchia d’olio”! Giusto, ma perché non decidere ed attuare fin da subito e con rigore i forti provvedimenti presi di ieri e che il Ministro Speranza chiedeva da qualche settimana? La comunità scientifica e medica aveva spiegato che la caratteristica principale di questo virus era la facilità e la rapidità nell’espandersi e nel contagiare. Perché non si è dato loro ascolto approntando subito provvedimenti e misure – in particolare “anticontagio” non limitate ai soli divieti alla mobilità extradomiciliare?  In controtendenza, il “governatore” del Veneto Zaia da qualche settimana  ha obbligato la gente, in particolare nelle aree e nei settori di lavoro piu’ esposti al rischio di contagio, a fare i “tamponi” e a blindare le zone dove erano scoppiati i primi casi come Vo’ Euganeo in provincia di Padova. La differenza con la Lombardia si vede ora: Lombardia abitanti 10.018.000  tamponi 66.730 alla data odierna, dopo il  disastro  e gli “apericena” alla Zingaretti in centro a Milano a alla Gori sindaco di Bergamo; Veneto abitanti 4.907.000 (meno della metà dei “lumbard”) tamponi 53.700  pari all’81% di Lombardia che ha il doppio di residenti! I dati conseguenti, purtroppo drammatici, dicono: Lombardia positivi 17.370 di cui la metà in isolamento (in cura?) a casa propria; Veneto positivi 4.214  (se i veneti  avessero seguito gli esempi di Zingaretti e del sindaco di Bergamo sarebbero stati 8.000). I deceduti sono nel Veneto pari al 5% della Lombardia e  non il 50% se avessero seguito  la tendenza della Lombardia. I ricoverati con sintomi in Veneto (compresi quelli in terapia intensiva) sono il 12% di quelli della Lombardia. Quindi, da subito in Veneto c’è stato piu’ rigore nell’attuare prescrizioni antimobilità ed anticontatto tra persone nonché nel reprimere violazioni delle ordinanze ma anche, fin da subito, si sono messe in piedi con sollecitudine strutture mediche di accoglienza degli infetti da curare, ordinato macchinari (es. i respiratori) e strumenti anticontagio (tamponi per verificare infettati o meno), mascherine, guanti). Non ho mai votato Zaia, però devo riconoscere che sul piano del “fare” e non delle “chiacchere” non ha rivali in tutti gli altri “attori” pubblici nazionali e locali. Non finiremo mai di ringraziare con commozione ed affetto il personale ospedaliero medico, infermieristico ed ausiliario, in particolare, ma anche le forze dell’ordine, della protezione civile e del volontariato (non poche di queste persone sono state contagiate anche con effetti mortali e altre restano esposte al rischio) per essersi prodigate con abnegazione e senza sosta essendo da tempo “sotto-organico” e con insufficienti strumenti e macchinari a causa dei tagli intervenuti nella Sanità (ben 37 miliardi negli ultimi 10 anni). Il S.S.N. in  Lombardia, in merito a ciò, data la vastità del drammatico fenomeno, è a rischio del collasso. Paga così la scelta di responsabilità antiche della Regione e di complicità nazionali che hanno indirizzato fino ad oggi non poche risorse verso il settore sanitario privato anziché procedere in direzione di un potenziamento delle strutture sanitarie  pubbliche e del personale medico-infermieristico necessario, non preventivando che, nella vita di un Paese, prima o poi, scoppi di catastrofi  o epidemie possono sempre accadere, e quindi un Paese moderno deve essere sempre pronto a fronteggiarle per le conseguenze che ne possono derivare per la vita e la salute della gente o per l’economia del Paese stesso. Oggi è il tempo della solidarietà e dell’aiuto reciproco e non dei processi, ma al termine di questa terribile prova a cui siamo stati chiamati, per la quale auspichiamo una conclusione  rapida, dovremo fare una profonda analisi autocritica delle responsabilità e delle scelte sbagliate praticate fino ad oggi e per programmare un profondo rinnovamento nel merito e nel metodo di governo di questo Paese.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA CRISI

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Certamente la crisi del 2007, fu una crisi endogena, una crisi cioè insita nel sistema neoliberista dell’attuale fase storica del capitalismo. La causa va fatta risalire all’eccesso di creazione di debito privato, nella fattispecie finalizzato all’acquisto di una casa anche da parte di chi non se la poteva permettere. Questo approccio risulta tuttavia approssimativo in quanto le crisi generalmente non hanno una causa unica e determinante; come scrive Gramsci commentando la crisi del ’29 (pagina 1756 nell’edizione Gerratana):” “Si potrebbe allora dire, e questo sarebbe il più esatto, che la crisi non è altro che l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l’intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto. Insomma lo sviluppo del capitalismo è stato una continua crisi, se così si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno preso il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale. Sono allora sopravvenuti avvenimenti ai quali si dà il nome specifico di crisi, che sono più gravi, meno gravi appunto secondo che elementi maggiori o minori di equilibrio si verificano” La coronavirus-crisi appare essere una crisi esogena, causata cioè da un elemento esterno al meccanismo economico. Ma forse più correttamente il coronavirus è un elemento che prende il sopravvento su altri elementi che prima erano in stato di equilibrio, determinando quel disequilibrio che sfocia in una cosiddetta crisi. Quali sono i disequilibri che possiamo identificare essere generati nell’attuale fase e che impatteranno sul futuro della crisi? Il virus, con la costrizione in casa della cittadinanza che appare essere, come l’esempio cinese insegna, l’unica strada per combatterlo, innesca uno shock combinato sia alla domanda che all’offerta in quantità inedite. Si ferma la produzione e questa di conseguenza causa un impoverimento dei lavoratori con conseguente crollo della domanda, peraltro in alcuni specifici campi, è il crollo della domanda a causare il blocco dell’offerta; si pensi ad esempio al settore turistico. Ma questo crollo, in un mondo globalizzato, causa una diffusione a 360 gradi della domanda da un primo paese a tutti i paesi del globo. Si pensi già nel mese di gennaio al blocco di molte industrie in un occidente ancora non infettato, causato dalla mancata fornitura di componenti essenziali prodotte in Cina. Questi effetti si sono assommati alla crisi generale di tutto il mondo occidentale che conosceva già situazioni di calo della produzione se non addirittura situazioni di recessione. E’ ovvio che le imprese il cui fatturato cala precipitosamente, si troveranno in crisi finanziaria, con difficoltà cioè di liquidità e di conseguenza di difficoltà nei confronti delle banche. Certo molto dipende dalla durata dell’emergenza, ma è ovvio che questa più si prolunga più saranno le imprese che entrano in crisi, incrementando il numero di sofferenze al sistema bancario. Se la cosa si protrae ecco che la crisi del settore bancario vedrà rendersi necessario l’intervento dello Stato, come successo nel 2008. Intervento che riguarda sovvenzioni alle imprese e alle famiglie dei lavoratori che perdono il posto di lavoro e nel caso del coronavirus rifinanziamento del sistema sanitario con annessi acquisti di attrezzature e materiali sanitari. Il tutto in periodi di calo di redditi dichiarati associati a rinvio di pagamento delle imposte. Le regole europee, in questa situazione, ma soprattutto in vista della devastante recessione che ci aspetta a causa di questa emergenza, paiono del tutto superate; il rendersi conto di ciò costituisce la sopravvivenza o meno della comunità; purtroppo la presidente della BCE non si è dimostrata all’altezza della situazione e dovrebbe essere rimossa, recentemente con la decisione di stanziare 750 miliardi per affrontare la crisi ed uscire dal patto di stabilità, l’Europa pare essere sensibile al tema. Il punto sembra tuttavia essere un altro; dovremmo chiederci se quell’equilibrio instabile, che sempre più spesso crolla di fronte a cause esogene o endogene, possa essere in qualche modo governto dall’uomo, dalla razionalità oppure, lasciandoci adagiare nell’ideologia liberista, dobbiamo ritenere che ogni intervento della società politica, ogni provvedimento preso al di fuori delle logiche di mercato, non solo sarebbe inutile ma addirittura dannoso. C’è cioè da chiedersi se in campo economico l’uomo possa essere gestore del suo destino operando razionalmente e pianificando i suoi comportamenti o debba subire i capricci di equilibri instabili sui quali non sia ammesso alcun intervento. Ma, inoltre, mi rendo conto della superficialità di questo confronto, infatti non è vero che noi ci dobbiamo confrontare con un mercato dove operano tanti fenomeni “naturali”  che talora si autoimmunizzano e in altre occasioni si sbilanciano causando le crisi; credo infatti che la cosiddetta “naturalità” del mercato altro non sia che un pallido sipario a regole precise volute e dettate dai detentori del potere economico. La regola di non intervenire non determina la naturalità degli eventi economici, bensì costituisce un intervento della società politica teso a vietare che la stessa interferisca con la società civile. Ma anche quì occorre approfondire; le regole del capitale, a causa delle crisi e grazie al keynesismo, non sono più dirette a tenere lo stato fuori dall’economia, sono invece dirette al fine di usare lo stato come stampella del claudicante capitalismo intervenendo con politiche monetarie e fiscali a rimediare a quegli squilibri generati dalle crisi. E generalmente lo stato interviene per socializzare le perdite, lasciando che i profitti rimangano privati. Ora, quella che va rivista è la filosofia del capitale, partendo dalla analisi delle sue contraddizioni: si produce per produrre profitto e non si produce per cercare di soddisfare i bisogni; i bisogni sono inculcati nelle menti dei subordinati con la potenza di persuasori palesi e occulti; i bisogni inculcati non servono ai subalterni, ma servono ai produttori di profitto per realizzare lo stesso; si vorrebbe che i subalterni spendessero sempre più soldi nell’acquisto dei prodotti produttori di profitto ma dall’altro lato si vorrebbe abbassare i salari pagati ai subalterni; …