TRAMONTO DEI PARTITI

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Parliamo di cogestione Non è solo il movimento delle sardine ad evidenziare la crisi afasica dei partiti, incapaci, tranne la Lega, di parlare con i cittadini in uno schietto confronto, soffocato invece dalla trasformazione dei partiti da “intellettuali collettivi” a comitati elettorali; anche su altri fronti si nota la vivacità di altri organismi democratici che sembrano voler ricominciare a fare politica. Mi riferisco alla recente proposta del segretario CGIL Landini per un impegno di governo-sindacati-confindustria ad affrontare un futuro per il nostro paese che sembra avviato allo sbriciolamento. Ma, su un altro fronte, già l’allora ministro Calenda aveva parlato di “ingresso dei lavoratori nel CdA” di Embraco, ma la questione “cogestione” salta agli onori della cronaca della fusione Fca-Psa (Fiat Crysler-Peugeot) in quanto nell’accordo pubblicizzato in questi giorni si legge della partecipazione di due consiglieri di amministrazioni rappresentanti i lavoratori, uno per ogni società partecipante alla fusione. Il problema della cogestione viene incredibilmente proposto dal capitale nel silenzio assoluto dei partiti che dimostrano, una volta di più, di essere avvolti in una nube di incomunicabilità con i propri elettori, con i cittadini. Va invece rilevato che il tema della cogestione è presente nella nuova piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Indubbiamente per il nostro paese, a differenza di quanto accade in Germania con la Mitbestimmung, il problema rappresenta una novità anche se il dibattito tra i sindacati non è nuovo ma è intrappolato nelle diverse posizioni degli stessi, per l’annosa avversione della CGIL. Veramente nuova è invece la effettiva concretizzazione dell’ingresso dei lavoratori nella governance, ma in tale contesto la cosa sorprendente è che questa poderosa novità prenda avvio da parte padronale. I sindacati hanno accolto con interesse il passo del nuovo gigante dell’auto: per Bentivogli Fim-Cisl si tratta di “una svolta nelle relazioni industriali italiane (…) speriamo che questa novità rappresenti uno scossone per tutto il sistema industriale italiano”; per Re David e De Palma della CGIL si tratta di “un fatto innovativo (…) per rendere veramente democratica l’innovazione è necessario che siano le lavoratrici ed i lavoratori ad eleggere i propri rappresentanti”. Parlano di “un segnale di rinnovamento” anche gli industriali piemontesi ed il presidente di Confindustria Piemonte Ravanelli commenta che “è un arricchimento del modo di vedere le cose”. Nell’immediato futuro vedremo se questa novità costituirà una vera partecipazione incisiva o un tentativo di trasformismo corporativo; molto dipenderà da chi nominerà i due consiglieri e dal peso che due consiglieri su undici possono guadagnarsi, anche se la maggioranza degli altri nove sembra essere formata da consiglieri indipendenti, immagino dalla proprietà (interessante sapere come e da chi eletti). Abbandonata la tesi per cui il mondo del lavoro non debba essere coinvolto nella governance gestionale, occorre prendere coscienza che i compiti che i due delegati debbono affrontare sono estremamente pesanti; penso in particolare a due temi che non sono inerenti ai problemi di rapporti economico contrattuali ma di futuro delle aziende: • Il tema delle delocalizzazioni, tema che in Germania ha dato frutti positivi grazie all’intervento dei rappresentanti dei lavoratori nell’organo di vigilanza, tema che farebbe diminuire la discrezionalità del capitale nella vita delle imprese, in particolare di quelle che hanno ricevuto sussidi; • Il tema dell’innovazione tecnologica e della rivoluzione 4.0, che non va, a mio parere, affrontato con atteggiamento luddistico, ma con la convinta azione a che i frutti di ogni incremento di produttività vadano attribuiti anche al mondo del lavoro, puntando alla partecipazione azionaria o societaria dei lavoratori che disegni un futuro assetto di socializzazione dei mezzi di produzione. Da parte mia vedo con estremo favore l’inizio di una nuova fase che richiede da parte: a) dei partiti di sinistra una immediata presa di coscienza ed iniziativa politica, b) da parte dei sindacati il superamento di inutili divisioni per puntare invece ad un approccio unitario a livello europeo della novità emergente, c) da parte imprenditoriale la convinzione dello straordinario e positivo contributo che il nuovo assetto di governance può portare, d) da parte del capitale una nuova filosofia non più relegata alla sola valorizzazione delle azioni ma allargata ad una concezione comunitaria, cosa di cui dubito notando che la sede fiscale della nuova società è stata portata nel paradiso fiscale olandese.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA BANCA PER GLI INVESTIMENTI? NON PUO’ FUNZIONARE. PAROLA DI RINO FORMICA

di Gianluca Zapponini | Forminche.net Intervista all’ex ministro socialista negli anni ’80. Nessuna banca per gli investimenti può funzionare se non c’è una rete di istituti locali pronta a sostenerla. E il Sud non ce l’ha. La Cassa per il Mezzogiorno era un’altra cosa, si occupava di opere prima di tutto. La Popolare di Bari? Bisognava aprire gli occhi dieci anni fa… Attenzione alle suggestioni, soprattutto a quelle un po’ vintage. Nei giorni del salvataggio della Popolare di Bari, è tornata in auge la Banca per gli investimenti, la creatura grillina che ha trovato spazio nel decreto di domenica notte con cui l’esecutivo ha, per il momento, tolto dai guai l’istituto pugliese. L’idea è tutto sommato semplice: legare al salvataggio da 900 milioni della banca, la costituzione di uno strumento che dia impulso a un’economia sempre più decadente. In molti hanno visto nel progetto il ritorno in auge della ben più famosa Cassa del Mezzogiorno, l’ente nato nel 1950 per volontà dell’allora governo De Gasperi e su imput di Donato Menichella, chiamato a risollevare le sorti del Meridione all’indomani della guerra. Smantellata a partire dal 1984, la Cassa non esiste più. Ma c’è chi ne vede una resurrezione. Formiche.net ha sentito un protagonista di quegli anni, Rino Formica, barese, socialista, più volte ministro negli anni ’80 nei governi Forlani, Spadolini, Andreotti e Craxi. Formica, il governo è pronto a lanciare una Banca per gli investimenti concentrata sul Meridione. La convince? Non molto. E questo perché una banca per gli investimenti non può funzionare granché se non ha sul territorio un sistema bancario locale che la appoggi, la supporti. E questo sistema bancario non sembra esserci, al Sud. Semplicemente non funzionerebbe, o lo farebbe a metà. Le faccio due esempi… Prego. Mediobanca, che era la banca per gli investimenti al Nord, aveva come sostegno i gradi istituti bancari pubblici, che erano anche soci della stessa Mediobanca. L’Isveimer, l’istituto per lo sviluppo nell’Italia meridionale, aveva come supporto il Banco di Napoli. Per questo dico che nessuna banca per gli investimenti può funzionare senza una rete sul territorio che la sostenga. Dunque il progetto del governo non può funzionare? Se mai dovesse funzionare, lo farà in modo incompiuto, dunque poco utile alla causa. Perché non avrà forme di appoggio sul territorio. Al Sud quello che è carente sono proprio le banche locali. Sarebbe stato forse più importante lavorare alla nascita di vere banche del Sud e per il Sud. Una banca per gli investimenti è solo una derivazione di un qualcosa di più grande, che non esiste. C’è chi parla in questi giorni di ritorno della Cassa per il Mezzogiorno… La Cassa per il Mezzogiorno era un’altra cosa, era la concentrazione dentro un istituto pubblico di una serie di interventi per la realizzazione delle opere. E questo bypassando sia gli organi statali, sia gli organi locali. Qui oramai si dice di tutto, senza conoscere il significato storico delle parole. Oggi ha senso parlare di un ente preposto al Sud? In 40 anni di Cassa per il Mezzogiorno il Pil del Meridione è rimasto molto indietro rispetto al Nord… Non è che la banca è una struttura che fa crescita, semmai dà sostegno. La crescita delle imprese la fanno le infrastrutture, la Pa, l’organizzazione del territorio e i cittadini. Le banche o chi per esse non possono risolvere il problema da sole. La verità pura e semplice al Sud è un’altra… Sarebbe? Che è fallita la programmazione economica da parte delle regioni, le quali sono diventate la brutta copia dello Stato centrale. Mentre invece dovrebbero essere le strutture per eccellenza della programmazione e dell’accompagnamento dello sviluppo. Se io oggi fossi ministro, per esempio, toglierei tutti i poteri di gestione alle regioni e le trasformerei in organi di programmazione economica e basta. Questo è quello che potrebbe impedire un ulteriore declino del Mezzogiorno. Formica dica la verità. Lei la Popolare di Bari l’avrebbe salvata? E lo avrebbe fatto come lo ha fatto il governo? La verità? Avrei impedito dieci anni fa che si degenerasse fino a questo punto. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’UNIONE BANCARIA ANTISPREAD

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Una questione di stile “Alla fine del summit europeo del giugno 2012, mentre la cancelliera Merkel si preparava ad uscire, Monti chiese la parola. Con un tono pacato e in modo elegante espose quella che forse sarebbe stata la dichiarazione più spinosa della sua vita. La cancelliera si rimise a sedere, aveva capito che se Mario Monti prendeva quella linea, dietro doveva esserci qualcosa di significativa importanza”.(Yanis Varoufakis I deboli sono destinati a soffrire? Pag. 364) Il commento di quel summit sulla stampa tedesca fu duro con la Cancelliera, accusandola di avere subito per la prima volta una sconfitta in Europa. Ma, sostiene Monti, “lo scopo non era battere la Germania, ma completare l’uscita dell’Italia dalla crisi finanziaria e far sì che l’intera eurozona si dotasse di una rete di sicurezza. Questo non sarebbe stato possibile senza forzare in parte il dogma dell’ortodossia monetaria tedesca. Costruimmo su questo una serie di alleanze, da Hollande a Obama, e cercammo fino all’ultimo una soluzione condivisa. Ci furono momenti di contrasto duro con la Merkel ma strettamente funzionali all’obiettivo, senza clamore esterno. A me interessava vincere la battaglia nell’interesse dell’Italia e dell’Europa, non avere il plauso degli italiani perché ero battagliero. Ma per vincerla abbiamo seguito un metodo molto tedesco: silenzioso lavoro, preparazione di documenti solidi su cui negoziare. Del resto – proprio come la Merkel e, ben prima di noi, Luigi Einaudi – prediligo il “conoscere per deliberare”, non l’ansia della velocità che porta al deliberare, poi semmai conoscere. Per me, che ho evitato ogni spettacolarizzazione, narrattiva e story-telling segnano l’eutanasia della politica che rispetto, quella che mette l’interesse generale al di sopra di quello personale. I “pugni sul tavolo” avrebbero infranto non i dogmi tedeschi, ma le mani dell’Italia. Invece sono stati quei dogmi a cominciare ad infrangersi di fronte alla forza delle nostre argomentazioni, condivise da altri paesi”. Una questione di stile e di strategia politica quella perseguita dal premier Monti che, esaltando il lavoro silenzioso, la preparazione di documenti solidi, la costruzione di alleanze, il mettere l’interesse generale al di sopra di quello personale e la ricerca di soluzioni condivise, fa risaltare la grossolanità provinciale dei comportamenti di alcuni membri dell’attuale governo ai tavoli europei. Di che si trattava Si trattava della proposta per cui le banche che necessitassero di iniezioni di capitale potessero farsi prestare i soldi direttamente dal fondo per il salvataggio europeo, il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) bypassando completamente i governi senza gravare sul debito nazionale dei paesi membri. Monti aveva infranto un protocollo tabù, e l’aveva infranto con un’iniziativa  radicale che mirava ad una vera e propria Unione bancaria come quella operante negli USA. La costruzione di una unione bancaria avrebbe tenute separate le questioni di crisi bancaria da crisi dei debiti sovrani, evitando una spirale che aggravasse entrambe le posizioni. I contenuti riguardavano inoltre, un patto sulla crescita, un primo abbozzo di golden rule sugli investimenti pubblici e, soprattutto, le misure a breve termine antispread per stabilizzare i mercati. Misure come lo scudo antispread e la valutazione qualitativa della spesa pubblica (leggi golden rule) serviranno a tutti, ma all’Italia molto di più perché pur essendo un Paese adempiente, pur avendo avviato riforme importanti (pensioni e mercato del lavoro) il nostro paese è vittima di uno stereotipo negativo che ci penalizza sui mercati con tassi troppo elevati per finanziare il nostro debito pubblico. Le reazioni negative Contro questo progetto, una lettera firmata da 160 economisti tedeschi che, prendendo spunto da  un appello pubblico lanciato da Hans-Werner Sinn, numero uno dell’Institute for Economic Research (Ifo), perorano affinché Angela Merkel e gli altri leader europei rinunciassero al progetto di unione bancaria. Secondo Sinn, attuando l’unione bancaria, la Germania dovrebbe accollarsi tutto il costo della crisi degli altri Paesi. “Ci siamo impegnati a rimborsare i debiti delle banche del sud-Europa”, ha dichiarato l’economista, secondo cui “lo stato tedesco è stato trascinato nella crisi del Sud” e “gli investitori di tutto il mondo, che hanno speculato, possono cavarsela all’ultimo momento”. E ancora: “E’ stata organizzata una caccia spietata per poter arrivare al nostro denaro, si è accusata la Germania di avere ambizioni imperiali e profetizzato l’odio dei popoli nei nostri confronti”. Le banche devono poter fallire. Questa è la tesi sostenuta con forza da Sinn e dagli altri firmatari della missiva, e questo perché “se gli investitori decidono di prendere dei prestiti per fare affari allora devono essere i soli a pagare in caso di default. Altrimenti si finisce per regalare sussidi a Wall Street, alla City e a una manciata di investitori e banche nei guai”. Ma i sussidi, guarda caso, li aveva presi la Germania quando non pagò i danni di guerra, e poi ancora al momento della riunificazione ed infine nel caso del default greco. In un celebre passo Keynes osserva che i creditori cronici debbono cercare di rinunciare a quella posizione, e ciò non per umanità o spirito crocerossino, ma per la ragione che ad un creditore cronico corrisponde un debitore cronico che prima o poi non sarà in grado di onorare i suoi debiti, fallendo lui ma creando enormi difficoltà anche a chi gli avesse prestato i soldi. Questo è il lampante caso di ciò che è successo in Grecia. Le banche tedesche finanziarono quelle greche per favorire l’acquisto di prodotti tedeschi; quando sopraggiunse la crisi l’onere ricadde sui paesi membri dell’unione che dovettero finanziare le banche greche affinchè queste ultime potessero onorare i loro debiti con le banche tedesche. Certo una unione bancaria avrebbe evitato questa solidarietà forzata e a senso unico conseguente al protocollo ordoliberista. Il dopo summit del 2012 Col voto favorevole di Raioy e di Hollande anche la Merkel si adeguò alla proposta Monti con la precondizione che la ricapitalizzazione diretta delle banche avvenisse solo dopo che i paesi membri avessero concordato l’istituzione di una unione bancaria all’interno dell’unione monetaria. Dopo il summit tutta la stampa riconobbe lo sforzo positivo con cui l’Europa era riuscita ad istituire il primo fondamentale ammortizzatore …

SE IL 2019 DOVEVA ESSERE UN ANNO BELLISSIMO FIGURIAMOCI IL 2020

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   La situazione La crisi del 2007 non ha ancora cessato di mordere e, quel che è peggio, non abbiamo nessuna strategia per rivoltare la situazione; siamo il paese che da quella data ha già fatto registrare tre recessioni tecniche; il nostro PIL, unico in Europa, non ha ancora ricuperato i livelli registrati prima della crisi; la produttività è ferma da lustri in un momento storico che è caratterizzato dalla rivoluzione tecnologica 4.0; la conversione all’elettrico della produzione automobilistica ci vede in colpevole ritardo; la crisi dell’Ilva sta diventando drammatica e rischia di renderci schiavi dell’acciaio estero; la faccenda Alitalia sta volgendo alla sua definitiva scomparsa; le delocalizzazioni che avevano visto un rallentamento stanno riprendendo e noi continuiamo a inseguire un modello export-led che, per essere competitivo, vede l’azienda Italia puntare, con le poche meritevoli eccezioni, sul basso costo della mano d’opera, col duplice danno di deprimere i consumi interni e di non attivare l’incentivo all’innovazione tecnologica, effetto che gli economisti definiscono effetto Ricardo. Sul fronte internazionale il cielo è nuvoloso e minaccia turbolenze; i dazi, questo fattore di origine nazionalistica tornano a scatenare azioni e contro-azioni tra Stati Uniti e Cina, coinvolgendo nelle ripicche una debole ed inetta Europa; la crescita della Cina sta rallentando sensibilmente coinvolgendo tutti i paesi a vocazione mercantilista; la Germania, nostro più importante paese di sbocco per le nostre esportazioni, è entrata in una crisi seria, aggravata dalla situazioni della sua banca leader; il Quantitative easing, con tutte le critiche e riserve con cui l’abbiamo commentata, che pur dava un qualche sostegno all’economia europea, ha cessato di operare; le impredicibili conseguenze della Brexit sono elementi che rendono fosco il cielo dell’anno che sta per iniziare. Negli USA ritornanono i mutui subprime che hanno raggiunto i 45 miliardi di dollari, e naturalmente sono stati cartolarizzati. Le famiglie statunitensi sono soffocate da una montagna di debiti per pagare lo studio, la sanità, l’auto. Il 74% del credito è stato concesso al 90% meno abbiente. Ancora una volta l’economia statunitense si fonda sul debito, e ciò spesso prelude allo scoppio di bolle speculative con risultati devastanti. Dopo il 2007 nulla è cambiato nelle politiche atte a porre una diga a queste ricorrenti crisi, il povero Obama e il suo Frank-Dodd act, sono un ricordo travolto da Trump. Stiamo, impotenti, temendo che una nuova crisi più potente delle precedenti, più mondializzata, ci aspetti in tempi non lontani ma ineluttabili, portando tutto il globo in una stagnazione secolare. Ciò smentisce la posizione fatalistica di chi sostiene che la “ciclicità” sia un elemento insito nel capitalismo, per cui recessioni che seguono a crescita e sviluppo sono nella natura del capitalismo, come è sempre successo. Che il mercato, da solo, sia comunque in grado di risolvere queste situazioni di crisi, è una credenza che ormai non convince più nessuno; subentra un’altra convinzione, ovvero che i nostri figli staranno peggio di noi, e ciò si avvicina ad una dichiarazione di fallimento.    La strategia della Lega Di fronte a questa situazione la Lega rilancia la potenza degli animal spirits reclamando la non ingerenza dello stato negli affari economici ed utilizzando il messaggio berlusconiano del “meno tasse per tutti”. Questo della negatività delle tasse è ormai divenuto un mito, ovvero una verità indiscussa e indiscutibile accettata e propalata da tutti, anche dagli avversari politici, che anche quando contrastano le tesi della destra, partono dall’assunto che le tasse devono diminuire. E’ il tipico fenomeno del pensiero egemonico delle classi dirigenti che diviene “senso comune” diffuso non solo tra i subalterni ma anche tra gli avversari di classe: direzione e dominio. Questo senso comune è entrato anche nel linguaggio pubblicitario, avrete notato che spesso invece di annunciare che un certo prodotto gode di uno sconto, il messaggio è invece quello per cui “non vi facciamo pagare l’iva”, messaggio che oltre che falso conferma il mito egemone. Lo scenario proposto dalla destra riesuma i dazi, la sanatoria fiscale generalizzata, la contrattazione sindacale regionalizzata, la riconquista della sovranità monetaria, la difesa della piccola impresa, lo smantellamento della burocrazia ma soprattutto la flat-tax. Quantificando gli interventi previsti si arriverebbe ad un deficit pari a 50 miliardi di euro, da sanare con un condono fiscale. Sanatoria che, se funzionasse, funzionerebbe solo il primo anno, ma che tuttavia non mutrebbe il deficit strutturale e sarebbe chiaramente l’inizio dell’uscita dall’Europa. Se cerchiamo di delineare la visione della destra in fatto di economia, possiamo individuarlo nella ricerca della competitività puntando sulla piccola media impresa, che non ha nè la dimensione adatta a perseguire l’innovazione tecnologica, nè la cultura imprenditoriale per sopravvivere in un mondo globalizzato. L’unico elemento concorrenziale sarebbe nel basso costo della mano d’opera di cui ridurre il costo con continue svalutazioni della moneta sulla quale si è ricuperata la sovranità. La piccola e media impresa da molti indicata come la spina dorsale dell’azienda Italia, costituisce a mio modo di vedere un problema e non la soluzione di esso. La strategia della Lega, guidata più dalla ricerca di un consenso facile che da una visione ragionata del futuro del nostro paese, punta su ataviche paure del diverso ma soprattutto sull’individualismo bottegaio di quella piccola imprenditoria che basa la sua economia su bassi salari, evasione contributiva, flat-tax, fatturato in nero e svalutazioni competitive. La Lega con questa politica vede i consensi elettorali salire e mira a conquistare i “pieni poteri” alle prossime elezioni politiche. Ma non si rende conto che lo sviluppo tecnologico, sovrano nella rivoluzione 4.0, relega il modello economico perseguito dalla Lega alla marginalità, destinando il paese o al divenire una colonia di qualcuno degli stati-continente ormai strutturati, o alla progressiva autarchia.  La auspicabile strategia del mondo del lavoro. Il mondo del lavoro produttivo, ogettivamente in collisione con la finanziarizzazione dell’economia globale e con un capitalismo finanziario egemonico, si sta rendendo conto che i tempi sono maturi per costruire un vero Patto per il lavoro tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria. Riprendere «il Patto per la fabbrica», firmato …

GOFFREDO BETTINI: “LA POLITICA SOTTOMESSA ALLA MAGISTRATURA. LA LINEA BONAFEDE? NON MI PIACE”

di Giovanni Minoli – Il Riformista | In questi giorni, oltre che di Europa, si parla molto delle questioni che riguardano Renzi e i suoi amici coinvolti nella fondazione Open. Si vedrà alla fine come sono andate le cose, per ora però la cosa più interessante mi sembrano essere le scuse dei giornalisti. Scuse relative alle cose dette o scritte sul tema Open. Scuse che sono un fatto insolito e significativo. Sono state fatte in varie forme, a diverso titolo, da giornalisti qualificati come Marco Imarisio del Corriere della Sera, Simone Spetia di Radio24, Gigi Riva de L’espresso. Il renziano Michele Ansaldi ha detto: “Onore per le scuse, infatti può capitare a tutti di sbagliare, ma riconoscerlo e chiedere scusa è giusto e fa onore a chi sa farlo”. Il tema principale, però, è sapere da dove vengono le notizie dell’inchiesta in corso prima che la stessa sia conclusa. Questo è il problema più grave. Il procuratore Gratteri ha ricordato con forza e con chiarezza che la segretezza e quindi la responsabilità anche penale degli atti di indagine è esclusivamente del pm che indaga e questo è il punto principale. Quelle che saranno le eventuali responsabilità di Renzi lo accerterà l’indagine alla sua fine, non con la fuga di notizie durante il suo svolgimento. Per ora, come dice con chiarezza il codice: sotto inchiesta dovrebbe essere la fuga di notizie e quindi i pm che ne hanno la responsabilità. Il grande Indro Montanelli aveva chiarissimo dove stavano le responsabilità maggiori in questi casi: “I giornalisti hanno la loro parte di colpa, perché senza dubbio tramutano tutto in spettacolo, tramutiamo, perché anch’io appartengo alla categoria. Noi facciamo sempre della dietrologia, noi facciamo sempre del sensazionalismo, noi abbiamo bisogno dello spettacolo. Questi sono dei grossi vizi del giornalismo italiano. Questo aver trasformato il giudice in una star è un incontro fra due disfunzioni e fra due colpe: quelle dei giornalisti e quelle della magistratura. Ma le colpe dei giornalisti sono meno gravi di quelle della magistratura”. Bettini, ha ragione Montanelli? Ha ragione, lui dice che i giornalisti hanno una responsabilità, i magistrati un’altra e, dico, la politica un’altra. La politica ha arretrato e ha quindi dismesso le sue funzioni ed è stata surrogata dall’azione dei magistrati e questo è improprio. Ma perché non si condanna mai chi dà la notizia dell’inchiesta in corso come direbbe espressamente il codice? Perché prevale il protagonismo della magistratura che ha acquisito un ruolo politico nel momento in cui lo Stato repubblicano ha avuto grandi difficoltà. È quindi rimasta questa questione per cui quello che viene dai magistrati è sempre giusto. C’è un silenzio complice della politica che è totalmente sottomessa al potere dei giudici? No, la politica è in gran parte sottomessa ai magistrati. Ci sono state però reazioni. Qualche anno fa era peggio. Ma è in qualche modo il segno della resa della politica rispetto al proprio ruolo? Non c’è dubbio. La politica si è impaurita. Noi abbiamo avuto i grandi partiti di massa, che erano strutture portanti della democrazia italiana. Ma finiti quei partiti cosa è entrato in campo di autorevole e rappresentativo? Il ministro della giustizia Bonafede, adesso, dice che la riforma della giustizia è quasi pronta. Segnerà addirittura definitivamente questo stato delle cose, del primato della magistratura sulla politica? No, intanto ancora la discussione è aperta. Per esempio, Orlando ha fatto una serie di obiezioni, secondo me giuste. Soprattutto sulla questione della prescrizione. Non esiste far cadere la prescrizione e non agire sulla brevità… Su cos’è l’accordo possibile? Sulla durata della prescrizione? Sì, questo potrebbe essere già un fatto molto positivo. La questione che a me preoccupa di più è la condizione in cui noi mettiamo l’imputato. L’imputato è sempre una figura fragile e quando soprattutto sta in galera alla fine è veramente solo. Quindi è lei contro l’ipotesi Bonafede? Sì, decisamente. Con la legislazione attuale l’obbligatorietà dell’azione legale è spesso lo strumento dello strapotere dei pubblici ministeri, va regolata, no? Nello stato attuale della giustizia ci vuole anche una sorta di selezione di priorità. Altrimenti si va a cercare un po’ così a caso, o secondo la volontà individuale, e questo determina una grande confusione, tanti processi, tante iniziative che poi finiscono con un buco nell’acqua. Può cadere il governo sulla riforma della giustizia? Non credo. Si troverà un punto d’accordo, però deve essere un punto d’accordo sulla garanzia delle persone. A proposito del fondo Salva-Stati firmato da Conte e contrastato da Di Maio, dopo la riunione e il discorso di Conte, crede che le cose stiano meglio o peggio? Stanno meglio. Ma è una firma rinegoziabile? Ma no, non è rinegoziabile. Il testo va bene, è stato un processo molto lungo al quale ha partecipato anche l’altro governo. Non è una questione tecnica del Mes, se si aggiunge un “pacchetto” sarà un passo in avanti di interazione europea, di unione bancaria. Non può saltare Conte su questo problema? No. Gualtieri farà una battaglia in sede europea proprio sul pacchetto, sulla questione dell’unione bancaria e spero che ottenga i risultati sperati. Quindi niente Gualtieri al posto di Conte? No. Perché se ne parla? Fantapolitica? Mah, Gualtieri è un fantastico ministro del Tesoro, lasciamolo là. Lei ha convinto un super-riluttante Zingaretti ad affrontare l’avventura di questo governo. Lei è sempre convinto di aver fatto bene? Sì. Noi siamo usciti da un isolamento, abbiamo iniziato a fare politica e poi è crollata la pregiudiziale ideologica sul mondo dei 5 stelle. Il processo poi vedremo come va, ma abbiamo fatto bene. Lei cosa ha visto nel rapporto con i 5 Stelle? Ho visto la possibilità di allargare un campo democratico contro una destra abbastanza atipica. Però adesso dopo la scelta dei 5 Stelle di andare da soli in Emilia, loro parlano di nuovo di un contratto di governo da rivedere. Nelle vostre intenzioni mi sembrava un’alleanza strategica… Quando uno dice: voglio governare tutta la legislatura, basta. Ma sono anni di legislatura, devono comportarsi bene [ride]. Ma quando Grillo e il Pd si sono …

L’ALLARME MES

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Il Mes è come l’allarme perimetrale che uno ha a casa sua. I ladri vedendo che c’è l’allarme, sono disincentivati dal commettere furti. Se l’allarme non c’è non esistono remore per i ladri che vogliono rubare. I ladri, naturalmente sono gli speculatori internazionali. Tuttavia se i ladri vedono che hai l’allarme, ma sanno che non funziona allora anche in tal caso non hanno remore a rubare. Se per esempio sapessero che il fondo non interviene perchè il Mes decide che non ci sono i presupposti per intervenire, ecco che l’allarme è come se non ci fosse. Ma quando può succedere che il MES neghi di intervenire? Ciò accadrebbe solo nel momento in cui un paese richiedesse il prestito, e, non rispettando i parametri di Maastricht, o del fiscal compact, si rifiutasse di aderire alle condizioni poste dal Mes, condizioni tra le quali potrebbe esserci la ristrutturazione. La ristrutturazione non è automatica ed è sottratta ad un giudizio politico (colpevole di moral hazards) ma soggetto ad un giudizio tecnico. Ma le regole tecniche non sono mai neutrali, sono diverse se le diagnosi e le raccomandazioni sono fatte da un liberista o da un keynesiano; se a decidere fosse Hoover le regole tecniche sarebbero di tipo austero (certo si richiederebbe la ristrutturazione), se a decidere fosse Roosvelt le regole sarebbero molto diverse. La ristrutturazione sarebbe un disastro non solo per i privati o i paesi stranieri che detengono titoli di credito dello stato, ma sarebbe un disastro per le banche che detengono titoli in maniera rilevante, perchè dovrebbero svalutare i titoli e rischiare il default, o dovrebbero rivolgersi al fondo loro destinato che grazie a Monti evita la trasmissione delle crisi dalle banche agli stati sovrani. Molto va quindi operato in sede tecnica sulle modalità tecniche, che ripeto non sono neutrali, per deliberare la necessità o meno di una ristrutturazione.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

MES E GSRM I DUE MECCANISMI EUROPEI

  di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Premessa Scrive Keynes: “Un paese che si trovi in posizione di creditore netto rispetto al resto del mondo, dovrebbe assumersi l’obbligo di disfarsi di questo credito, e non dovrebbe permettere che esso eserciti nel frattempo una pressione contrattiva sull’economia mondiale e, di rimando, sull’economia dello stesso paese creditore. Questi sono i grandi benefici che esso riceverebbe, insieme a tutti gli altri, da un sistema di clearing multilaterale. (…) Non si tratta di uno schema umanitario, filantropico e crocerossino, attraverso il quale i paesi ricchi vengono in soccorso ai poveri. Si tratta, piuttosto, di un meccanismo economico altamente necessario, che è utile al creditore tanto quanto al debitore”. Il mercantilismo tedesco Quando un paese fa riscontrare costantemente un avanzo commerciale, specularmente, dall’altra parte c’è uno o più paesi che si trovano in una situazione di cronico passivo commerciale. Ne consegue che prima o poi i paesi debitori non ce la fanno più a pagare i loro debiti e il paese creditore si trova davanti a insolvenze gigantesche. E a trovarsi in difficoltà saranno principalmente le banche che avessero dato prestiti agli importatori, come successe con i prestiti concessi dalle banche tedesche a favore della Grecia affinchè questo paese importasse beni dalla Germania. Il salvataggio dello stato greco passò attraverso un prestito, cui partecipò anche l’Italia, che servì alla Grecia a ripagare le banche tedesche. Il MES Ha il gran pregio di non coinvolgere più lo stato nelle crisi bancarie. Il senatore Monti nel summit del giugno 2012 evidenziò esplicitamente la questione: “Era assurdo, sosteneva Monti, aspettarsi che paesi sotto stress finanziario come l’Italia si facessero prestare denaro a nome di banche insolventi e pretendere che quelle stesse banche finanziassero lo stato per mezzo di prestiti contratti con la Banca centrale europea. Le cose dovevano cambiare. In particolare Monti chiedeva che le banche che avessero ulteriore bisogno di iniezioni di capitale potessero farsi prestare i soldi direttamente dal fondo per il salvataggio europeo, il MES” (Yanis Varoufakis I deboli sono destinati a soffrire pag. 365). Il meccanismo MES serve quindi a fornire un salvataggio alle banche insolventi senza che ciò abbia ripercussioni sui debiti sovrani degli stati. Il MES si presenta quindi come un meccanismo che viene in soccorso dopo che il guaio è combinato, e ciò è una cosa buona. Ma il Mes non interviene, anche perché non è suo compito, sulle cause che scatenano il guaio, non va cioè all’origine di alcune delle cause che generano insolvenza e default delle banche. E’ qui che lo scritto di Keynes che ho riportato in apertura ci indica una strada per affrontare alla fonte il problema. IL GSRM La moneta unica ha fornito alla Germania “l’esorbitante privilegio” di vietare ai paesi concorrenti di perseguire il bilanciamento della competitività attraverso la svalutazione della moneta locale. Se l’Italia ha mantenuto un simile bilanciamento negli anni pre-euro, lo ha fatto svalutando in qualche decennio la lira rispetto al marco di ben il 665%. Non difendo gli allineamenti dei cambi o peggio le svalutazioni competitive, soluzione che mi pare sia invece caldeggiata dalle proposte economiche della Lega, privilegio al contrario l’allineamento delle produttività. Sono nel contempo convinto che a quell’esorbitante privilegio siano contrapposte politiche comunitarie che razionalizzino questa galattica asimmetria. Ecco che penso allora ad un altro meccanismo: il General Surplus Recycling Mechanism (GSRM) tende a dare una soluzione razionale alle asimmetrie tra i paesi dell’unione affrontando appunto il problema dei surplus commerciali. Si tratterebbe di una soluzione simile a quella proposta da Keynes con il “BANCOR”, ma non voglio qui entrare in questioni ostiche e argomenti tecnici, voglio solo segnalare che affrontare questa prospettiva è razionalmente necessario. Invece di affrontare il tema centrale di un piano europeo finalizzato a far convergere i fondamentali dei paesi dell’unione, con una programmazione tipo quella proposta, e rimasta inattuata, da Juncker, per arrivare ad una vera federazione, le politiche europee, ancora oggi, stanno disegnando un percorso diverso; al costo di aggravare la crisi hanno creato una serie di abborracciati simulacri di istituzioni federali, sempre avendo cura che apparissero federali quando sono sostanzialmente tutt’altro. Per esempio, del superamento del limite del 6% nelle bilance commerciali non si parla mai, ma questo fatto ci dimostra più cose: a) che il problemadelle asimmetrie tra paesi era stato individuato, b) che il limite del 6% non è rispettato nel silenzio di chi dovrebbe farlo osservare, c) che il limite del 6% è la palese dimostrazione di non voler affrontare significativamente la realtà del problema  d) che l’egemonia dominante nelle politiche europee ci vede emarginati nella soluzione dei problemi. Personalmente ritengo che ampliare lo statuto della BCE per farla divenire banca di ultima istanza, con  la capacità enorme che ha di stanziamento fondi, inserendo al suo interno un meccanismo simile al MES, sarebbe la via auspicabile. Percorribile da un’altra Europa, ma ciò dipende da noi elettori europei.                               SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

FINANZIAMENTO AI PARTITI, RINO FORMICA: «SIAMO FERMI AL DISCORSO DI CRAXI DEL 1992»

di Stefano Caviglia – Lettera 43 | L’inchiesta su Open riapre il dibattito su denaro e politica. Lo storico esponente del Psi non ha dubbi e punta il dito contro la solita ipocrisia italiana. Con la differenza che nella Prima Repubblica era «condivisa e istituzionalizzata» mentre ora «tutti fanno i giustizialisti quando si tratta degli altri». «Che cosa insegnano le ultime inchieste della magistratura sulle fondazioni legate ai partiti? Che anche una forma di ipocrisia può entrare in crisi». Parola di Rino Formica, 92 anni, già ministro e fra i massimi esponenti del Psi di Bettino Craxi. Anche se da Mani Pulite è passata un’era geologica «e le regole del finanziamento ai partiti sono profondamente cambiate, siamo sempre allo stesso punto».  DOMANDA: Qual è il punto da cui non ci saremmo mossi in tutti questi anni?RISPOSTA. Il punto è la pretesa di mettere le brache alla realtà, facendo finta che sia diversa da quel che è. Per dirla in modo diverso: siamo sempre alla finzione che un’attività politica possa essere svolta in modo spirituale, senza una necessità di organizzazione. Al contrario, la politica ha sempre bisogno di organizzazione, strutture, lavoro. E richiede inevitabilmente denaro, a meno di immaginare che sia tutto spontaneo o risolvibile a livello di volontariato. Veramente il denaro può arrivare dai privati, purché in modo diretto e alla luce del sole.Non è così. Il finanziamento a un partito apre la porte a ipotesi di reato, come il traffico di influenze e altre cose del genere. Ci si domanda sempre: perché quel privato finanzia un partito? Quale sarà il suo interesse occulto? Insomma, se uno spende soldi per il suo divertimento va bene, perché incrementa il Pil. Se invece vuole finanziare un’attività politica perché ha fiducia verso un partito o un singolo politico allora è oggetto di sospetto e riprovazione. Il famoso discorso di Craxi alla Camera del 1992, quando disse che tutti i partiti sapevano e si comportavano alla stessa maniera è sempre attuale. Solo che allora, a differenza di oggi, nessuno si alzò per smentirlo Non ci dobbiamo cautelare dal rischio che un privato finanzi un partito per ottenerne un vantaggio personale?Ma quello è un reato. Se in cambio di quel finanziamento ottiene un beneficio illecito va processato e condannato. Ma qui parliamo di un’altra cosa. Non conosco le carte dell’inchiesta sulla Fondazione renziana Open, ma da quanto leggo sui giornali mi pare sia contestato il finanziamento illecito. Davvero non vede un miglioramento del rapporto fra soldi e politica dai tempi di Mani Pulite?Al contrario, vedo un peggioramento sostanziale, che si è consumato con il passaggio da una ipocrisia condivisa e istituzionalizzata, com’era quella della Prima Repubblica a un finzione espressa a livello individuale: tutti continuano a comportarsi sempre allo stesso modo, però fanno i giustizialisti quando si tratta degli altri. Il famoso discorso di Craxi alla Camera del 1992, quando disse che tutti i partiti sapevano e si comportavano alla stessa maniera è sempre attuale. Solo che allora, a differenza di oggi, nessuno si alzò per smentirlo. Intende dire che i bilanci dei partiti di quel tempo erano tutti falsi? Non solo erano falsi, ma erano anche avallati dagli uffici di presidenza delle Camere che avevano il compito di controllare. Tutti sapevano che i partiti ricevevano contributi privati in aggiunta al contributo pubblico e tutti facevano finta di non vedere. Poi con la Seconda Repubblica quella tolleranza generale è venuta meno e questo spiega la proliferazione delle fondazioni politiche.  Nel senso che sono nate fondamentalmente per raccogliere soldi per i partiti?Ne sono convinto. A parte quelle con una struttura vera e propria, che svolgono con continuità attività culturali importanti e riconosciute. Ma si contano sulle dita di una mano. Come se ne esce?È difficile, perché l’attitudine a infrangere le regole per poi fare la morale agli altri è un tratto tipico del nostro Paese. E per cambiare la mentalità di un Paese ci vuole tanto tempo, mentre la politica pretende soluzioni immediate. Ma vale sempre la pena di combattere l’ipocrisia, riconoscendo che la politica ha i suoi costi, specie se è una politica riformista. Addirittura?Certo. Quando ero ragazzo i più anziani mi spiegarono che la differenza fra conservatori e riformisti era che i primi lasciavano marcire i problemi mentre i secondi lavoravano per affrontarli nel modo più tempestivo. È soprattutto questa attività che richiede risorse. E un Paese che non fa riforme, in tempi così complessi, è destinato a precipitare nel caos.  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

AMERICANISMO E ROBOTISMO

Dal fordismo alla rivoluzione 4.0   di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Quando si affronta il tema di un nuovo modo di produzione, nello specifico la rivoluzione 4.0, non si può non riandare al testo gramsciano di “Americanismo e fordismo”, alle sue tematiche e soprattutto alla logica dialettica che pervade tutto quel testo che analizza appunto il mutamento di un modo di produzione. “Americanismo e fordismo” esamina i rapporti strutturali di un nuovo modo di produzione (il fordismo) e le conseguenti ripercussioni sovrastrutturali a livello di formazione e plastica riplasmazione dell’uomo (il taylorismo). “Si può dire genericamente che l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena che segnano il passaggio – appunto – dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica: questi problemi nascono dalle varie forme di resistenza che il processo di sviluppo trova al suo svolgimento, resistenze che vengono dalle difficoltà insite nella societas rerum  e nella societas hominum ”. E ancora l’americanismo è quell’epoca della storia del capitalismo segnata “dal passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica, dal capitalismo di libera concorrenza al capitalismo monopolistico. Un’epoca di rivoluzione passiva, contrassegnata dalla necessità di rinnovare (l’organizzazione del lavoro e della produzione, e conseguentemente la politica e la cultura) per conservare (l’assetto classista della società). Cuore dell’americanismo è il fordismo, cioè un modo di produzione che diventa egemonico, informando di sé la società e la sua ideologia.” L’«economia programmatica» diventa sinonimo di «razionalizzazione» della produzione, razionalizzazione che richiede, tra l’altro: 1) una nuova organizzazione del lavoro, il taylorismo; 2) un nuovo tipo di uomo; 3) una nuova funzione dello Stato nel sistema capitalistico.  Gramsci riconosce esplicitamente la razionalità intima del fordismo destinato a soppiantare il vecchio modo di produzione, anche se per la sua generalizzazione “sia necessario un processo lungo in cui avvenga un mutamento delle condizioni sociali e un mutamento dei costumi e delle abitudini individuali (…)” Ed il maggior mutamento che il fordismo richiede, “il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un nuovo tipo di lavoratore e di uomo.” E la definizione di questo nuovo tipo di lavoratore e di uomo che il fordismo persegue, si trova con cinismo brutale nelle parole di Taylor: “gorilla ammaestrato”. ”Sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali e automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale”. “Avverrà ineluttabilmente una selezione forzata, una parte della vecchia classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo del lavoro e forse dal mondo tout court.” Così come il fordismo elimina spietatamente quella parte della vecchia classe lavoratrice che immetteva nel suo lavoro una partecipazione attiva, la sua intelligenza, la sua fantasia, la sua iniziativa, per privileguare una nuova forza lavorativa di cui si utilizzano gli atteggiamenti macchinali ed automatici (e il pensiero va al Charly Chaplin di Tempi moderni), la rivoluzione 4.0 robotizzando tutte quelle mansioni macchinali ed automatiche elimina spietatamente dal mondo del lavoro tutte quei “gorilla ammaestrati” che aveva allevato nella fase fordista. In una prima fase quindi, il robotismo elimina tutta la mano d’opera macchinale  e ritrova, come ai tempi precedenti il fordismo, la mano d’opera che produce intelligenza, fantasia, iniziativa, tutto quel bagaglio cioè che serve per progettare, dotare di software, gestire i robots, anzi, andando ancora più in là il compito di questi lavoratori del cervello, sono chiamati a produrre robots che generino nuove generazioni di robots sempre più avanzati ed autoapprendenti, fino a rendere superflui quegli stessi lavoratori del cervello che hanno prodotto i primi robots. Il rapporto uomo macchina ha quindi il seguente cammino: dall’attrezzo che aiuta l’artigiano nella sua creazione manuale intellettuale, alla macchina che usa il lavoratore sottomettendolo ai suoi tempi e metodi; dall’uomo che inventa e progetta macchine ai robots che inventano e progettano nuove generazioni di robots eliminando l’uomo dalla produzione. Se quindi l’attenzione è dedicata alla struttura di un nuovo modo di produzione, la dialettica dovrebbe focalizzarsi sulle conseguenze sovrastrutturali che investono i conseguenti coerenti rapporti fra le forze sociali, la regolamentazione di questi nuovi rapporti in particolare per quel che riguarda gli aspetti redistributivi, la collocazione nella società dei nuovi cittadini senza lavoro, la proprietà dei nuovi mezzi di produzione e, di conseguenza, le decisioni sul cosa e quanto produrre, la funzione dello stato in questa bufera che investe la società nel ridisegnare i fondamenti della comunità. Scrive Gramsci che:  ”In realtà le maestranze italiane, né come individui singoli, né come sindacati, né attivamente né passivamente, non si sono mai opposte alle innovazioni tendenti a una diminuzione dei costi, alla razionalizzazione del lavoro, all’introduzione tecniche del complesso aziendale. (…) proprio gli operai sono stati i portatori delle nuove e più moderne esigenze industriali e a modo loro le affermarono strenuamente si può dire anche che qualche industriale capì questo movimento e cercò di accaparrarselo”. Il punto centrale per il mondo del lavoro quindi, non è di opporsi alle innovazioni tecnico-produttive, quasi un luddismo di ritorno, ma di diventare i portabandiera di queste innovazioni che, è bene ricordarlo, sono un prodotto sociale cui il capitale è estraneo. Tutto il bagaglio di innovazioni deriva dalla società organizzata come scuola, università, centri di ricerca, enti culturali, ricercatori di base e applicati; basta chiedersi dove è nato internet, il GPS, l’IOT, i big data, l’I.A., la fisica quantistica etc. e la risposta vede lo Stato innovatore come protagonista di queste scoperte; lo stato italiano investe poco in questo campo (anche se i ricercatori italiani hanno riconoscimenti internazionali quale il Breakthrough 2019 per la fisica fondamentale assegnato al fisico del Cern Sergio Ferrara) e poco investe l’imprenditoria privata. Di conseguenza la produttività ristagna, il PIL non cresce, non crescono i salari e ristagnano i consumi. Lasciare la gestione della rivoluzione 4.0 nelle mani dei possessori dei robots, …

VIOLENZA RIVOLUZIONARIA 4.0?

di Andrea Ermano – Direttore de L’Avvenire dei Lavoratori* | *Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 Le ragioni di un fermo No che la socialdemocrazia europea ha pronunciato un secolo fa, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, e che oggi restano più che mai valide. «Il problema non sono le minacce all’Occidente, bensì l’Occidente stesso. Il sistema capitalistico in crisi sta mostrando il suo vero volto negativo – come può esserlo solo un sistema basato in linea di principio sulla disuguaglianza, lo sfruttamento e la distruzione ecologica», ci ha scritto la scorsa settimana Norma Mattarei, sociologa che vive e lavora a Monaco di Baviera dove dirige la “Akademie der Nationen” ed è un’esponente storica della Caritas diocesana. Nella sua lettera mi ha colpito la citazione tratta da Marx a commento del nuovo libro di Maurizio Molinari (Assedio all’Occidente, 2019). La “dialettica” di liberismo, protezionismo, nazionalismo e imperialismo di cui la “struttura” economica capitalistica ha dato prova regolare a ogni tornante della sua storia non solo nell’Occidente stesso, ma sull’intero pianeta, è cosa ben nota. Norma Mattarei denuncia soprattutto un fatto: che questa replica “post-moderna” ad alto tasso di distruttività conferma in pieno la regola. Salvo che stavolta il sistema occidentale non pare più in grado di produrre alternative «perché ha raggiunto tutti i suoi limiti sociali, economici ed ecologici», osserva la nostra interlocutrice da Monaco. La quale a questo punto del ragionamento mette in campo una celeberrima citazione, tratta dal Capitale di Karl Marx: «La violenza (…) è la levatrice di ogni società vecchia che sia gravida di una nuova» (MEW 23, 779). Nella logica interpretativa prevalente (che però non è l’unica possibile) si può senz’altro dedurre da Marx la conclusione che Norma Mattarei espone così: «Ogni trasformazione della società, come quella alla quale stiamo assistendo al momento, implica processi di erosione, disgregazione e distruzione. E l’Occidente ne è il centro». Sono personalmente convinto che questo monito, per altro non isolato nel contesto attuale, vada preso molto sul serio. Ma, anzitutto, lasciatemi dire che la cosa è un po’ paradossale, perché la tradizione politico-organizzativa dell’Avvenire dei Lavoratori, giunta al suo 125.mo anno di attività, ha avuto sia stretti rapporti “germinali” (negli anni Settanta dell’Ottocento) con il primo movimento operaio capeggiato da Carlo Marx, sia poi nel 1914-1918 con il movimento antimilitarista di “guerra alla guerra” capeggiato dalla nostra Angelica Balabanoff insieme al duo Trotzki-Lenin fino alla Rivoluzione d’Ottobre. Dallo sciopero dei minatori nel Tunnel del San Gottardo, soffocato nel sangue dall’ingegner Favre (1875), fino alla presa del Palazzo d’Inverno (1917) un filo rosso si snoda non solo sul piano della vicenda storica, ma anche su quello delle esperienze e dei rapporti personali. Marx e Lenin se non altro per cause anagrafiche non si sono mai incontrati, ma sono collegati da persone, persone in carne ed ossa che li hanno conosciuti da vicino e che insieme hanno partecipato alla nostra piccola, grande storia di socialisti e di emigrati italiani. Quindi, saremmo noi, semmai, a dover citare il Capitale di Marx, e non a dovercelo far rammemorare da una autorevole esponente del volontariato cattolico impegnata in una grande città europea. Senonché, proprio noi socialdemocratici, a partire quanto meno da due memorabili discorsi tenuti da Filippo Turati nel 1921 a Livorno contro la violenza rivoluzionaria (cioè contro la “linea leninista” della scissione), professiamo una posizione radicalmente critica verso la tesi marxiana sulla levatrice di una società nuova. In sostanza Turati, richiamandosi alla propria amicizia personale con Friedrich Engels, diceva che siamo tutti d’accordo sulle finalità esposte nel Manifesto del 1848 circa lo scopo ultimo del nostro agire politico. Tutti vogliamo costruire una “libera associazione” umana nella quale ciascuna/o contribuisce nella misura dei propri meriti e dalla quale ciascuna/o riceve nella misura dei propri bisogni. Quel che ci divide è appunto il “metodo” della violenza, nel senso che questa ci ricaccia indietro e ci condanna alla sconfitta, sosteneva Turati nel 1921. E così fu. Venendo all’oggi. Che il nostro “sistema” si basi sulla disuguaglianza, lo sfruttamento e la distruzione ecologica è cosa più che assodata. Nell’ultimo trentennio lo stato del mondo è notevolmente peggiorato: l’ambiente viene distrutto sempre di più e il trasferimento di ricchezza dal basso in alto ha assunto proporzioni inaudite. Dunque, l’Occidente ha raggiunto tutti i suoi limiti sociali, economici ed ecologici? Difficile dubitarne. Sul piano ecologico la cosa è evidente. Su quello economico c’è stata la finanziarizzazione. E su quello sociale c’è stata la liquefazione. Per comprendere che cosa sia la liquefazione sociale non serve più nemmeno rinviare alle analisi di Zygmunt Bauman, perché a dirsene preoccupato è stato di recente lo stesso fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, il quale due anni fa ha solennemente annunciato di volersi impegnare sul piano globale a sostegno di una ricostruzione dei tessuti associativi. Sì, perché l’associazionismo reale tra persone in carne ed ossa (ben diversamente dalle spesso inconsistenti “amicizie” in rete) sta crollando verticalmente. «Per decenni, l’appartenenza a gruppi di ogni genere ha conosciuto un declino pari alla perdita di un quarto dei suoi membri. Il che significa che esistono molte persone che ora hanno bisogno di trovare un senso di scopo da qualche altra parte», constatava con rammarico il leader di Facebook nel giugno 2017. Ben venga allora Zuckerberg con i suoi due miliardi di “amici” in soccorso alla socialità off-line. Se crolla l’associazionismo, crolla la solidarietà, crolla l’eguale libertà e, dunque, cresce un vasto disagio globale, cioè quella grande, grandissima prateria nella quale oggi potrebbero effettivamente innescarsi fenomeni di violenza rivoluzionaria 4.0. Perché alle volte, come disse Mao, anche una piccola scintilla può dare fuoco a una grande prateria. Merita, dunque, una lode il risveglio di coscienza sociale da parte del leader del gigante “social” Facebook. È ben vero che Facebook gestisce un sacco di nostri dati, ma noi occidentali preferiamo, e di molto, dare i dati a Mark Zuckerberg piuttosto che a Vladimir Putin. Ma c’è un “ma”. Lo scandalo di Cambridge Analytica ha rivelato «che forse non esiste una effettiva possibilità di scelta, se ogni dato …