di Pierfranco Pellizzetti | «Potremmo vivere una vita più efficiente quando gli istinti saranno rimpiazzati dagli algoritmi, ma è ragionevole temere che alcune delle nostre qualità più umane possano essere peggiorate dal vivere una vita più algoritmica».[1] Alec Ross «L’infosfera conquistata sta conquistando il suo vincitore»[2]. Luciano Floridi Paul Mason, Il futuro Migliore, il Saggiatore, Milano 2019 George Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2018 Tra Asimov e Ridley Scott (passando per Kubrick e Calenda) «HAL 9000: Io so che tu e Frank avevate deciso di scollegarmi, e purtroppo non posso permettere che questo accada. David: E come ti è venuta questa idea, HAL?! HAL 9000: David… anche se nella capsula avete preso ogni precauzione perché io non vi udissi, ho letto i movimenti delle vostre labbra». È il celebre dialogo concitato tra il computer assassino e l’astronauta che intende disattivarlo, in 2000: Odissea nello spazio; il film di Stanley Kubrick del 1968. Dopo una stagione di buonismo robotico tranquillizzante alla Isaac Asimov, con le sue leggi romanzate (1. Un robot non può recar danno a un essere umano né permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2.Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge; 3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la sua salvaguardia non contrasti con la Prima o la Seconda Legge), la prefigurazione di possibili ribellioni da parte delle macchine pensanti. Una divaricazione nel sentire comune che forse trovò compiuta rappresentazione da parte del regista Ridley Scott nel 1982, con l’altrettanto celebre Blade Runner. Ora torna ad esprimere questa sensazione di minaccia incombente ad opera degli androidi un attento esploratore dello spirito del tempo – il giornalista britannico Paul Mason – nel suo ultimo saggio “Il futuro migliore”, di cui qui si parla: «durante gli ultimi trent’anni potremmo aver creato le condizioni per accettare un controllo delle macchine sugli esseri umani nei prossimi cento»[3]. Con il rischio, una volta che le macchine siano in grado di impartirsi istruzioni da sole, che l’umanità si sposti di lato in via permanente, rinunciando al controllo. Sottomettendosi alla propria disumanizzazione. Un bel salto rispetto alla vulgata corrente del “ci salverà l’intelligenza delle macchine”, che nell’economicismo imperante ha trovato raffigurazione propagandistica nel mito dell’automazione/robotizzazione della cosiddetta “impresa 4.0”; di cui in Italia si fece banditore l’ex ministro panglossiano nel fu governo Gentiloni Carlo Calenda (già portaborse di Luca Cordero di Montezemolo, già funzionario di Confindustria): il lavoro morto per estromettere il lavoro vivo e – così facendo – eliminare ogni fastidioso contrappeso al comando manageriale. Mentre, con l’impoverimento del ceto medio si scarica sull’area centrale della società il gravame dell’investimento anticiclico (vulgo, “keynesianesimo privatizzato”). E si tenta di esorcizzare le annunciate morie occupazionali tirando in ballo le previsioni settecentesche di David Ricardo e la sua consolatoria “distruzione creatrice ante litteram”: la disoccupazione tecnologica creerebbe le premesse della creazione di nuovi posti di lavoro più qualificati. Nella gravissima dimenticanza che i filatoi idraulici e le successive invenzioni del macchinismo industriale surrogavano forza muscolare, le odierne macchine pensanti sostituiscono energia neurale[4]. Tanto che attendibili proiezioni segnalano che il pericolo di cancellazione incombe sul 60% degli impieghi attuali[5]. Sicché – come dicono i francesi – comparaison n’est pas raison. Paragonare non è spiegare. Specie nell’attuale fase storica, in cui le ragioni dell’incontrastata accumulazione della ricchezza ai vertici della piramide sociale hanno soppiantato qualsiasi altra priorità; già a partire dalla liquidazione dell’ultimo mito: quello di una Internet “californiana” e libertaria, come grande spazio gratuito di scambio e socializzazione. Quanto ci hanno recentemente ricordato Francesca Bria ed Evgeny Morozov. «Da quando l’architettura di Internet, un tempo aperta, distribuita e gestita come un bene comune, sta evolvendo verso un’infrastruttura di dati centralizzata, basata su standard proprietari e soggetti a una gestione non controllabile, nonché a modelli di introito secondo i quali le grandi multinazionali statunitensi godono di rendite di posizione dovute a ingenti esternalità di rete»[6]. La prima tappa di una discesa verso il delirio, di cui il libro di Mason ci ricorda i passaggi successivi. Dunque, la crescita esponenziale della raccolta dei dati mediante gli strumenti digitali: il fenomeno dei Big Data, il cui ammontare cresce ormai del 50% annuo[7] a partire dalla fine della prima decade del secolo, trasformatosi nel più lucroso business per “i signori del silicio”; il modello di multinazionale tecnologica emerso nel bacino di Silicon Valley. Ossia la colossale capitalizzazione del patrimonio informativo estratto gratuitamente dagli utenti dei social o di altri servizi correnti come la posta elettronica, ridotti a cavie inconsapevoli, e – quindi – rivenduto vuoi come argomenti subliminali di propaganda (commerciale e/o politica), vuoi quale materia prima per le operazioni di sorveglianza. «Viviamo in un’epoca di profonda asimmetria epistemica» – osservava ancora Morozov – «l’iper-visibilità del singolo – registrata da ogni sorta di dispositivo intelligente – va di pari passo con la crescente iper-invisibilità degli altri attori»[8]. Dunque, una mercificazione attraverso la connessione, in cui l’oggetto stesso dello scambio è l’utente del servizio e le sue opzioni di vita: l’utente trasformato in merce. E questo è ancora niente. La rivoluzione delle entità coscienti Mason sintetizza l’ultima tappa, quella attuale, evocando Orwell e il suo profetismo: «il rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale, unito all’offensiva di Trump contro l’ordine globale basato sulle regole e all’emersione della Cina come potenza mondiale sotto Xi Jimping, rende la prospettiva di un feudalesimo digitale un pericolo più serio di quanto pensassi. Perché nasca, una condizione preliminare sarebbe che la robotica, l’intelligenza artificiale e le aziende di social media cedessero la proprietà intellettuale a nuovi stati oligarchici. In questo senso, non sarebbe realmente una forma di feudalesimo, ma una sorta di ‘secondo avvento’ dell’incubo burocratico collettivista che ispirò 1984 di Orwell»[9]. George Orwell (1903-1950), autore nel 1948 della celeberrima metafora contro il totalitarismo staliniano scritta da un militante antifascista, espressione biografica dell’Altra Inghilterra; quella cockney del radicalismo proletario, in cui Mason non avrebbe la minima difficoltà a riconoscersi. Una metafora sul controllo sociale attraverso l’occupazione tecnologica delle menti tornata …
Leggi tutto “IL DOMINIO DELLE MACCHINE PENSANTI”