PROVE TECNICHE DI REGIME

di Lorenzo Tosa | “Solo un paese che ha smarrito il più elementare alfabeto civile e costituzionale può assistere in silenzio a un vicepremier di minoranza di un esecutivo che apre la crisi di governo, convoca il Parlamento ed evoca lo scioglimento delle Camere, come se fosse contemporaneamente il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica in carica. Solo un paese che ha perso ogni dignità può accettare senza battere ciglio che un capopartito chieda di essere investito di “pieni poteri”, neanche fossimo nell’ottobre del ‘22. Solo un paese che ha perduto completamente il senso delle istituzioni può rimanere zitto mentre un ministro si rivolge a parlamentari della Repubblica eletti invitandoli ad “alzare il c***” e presentarsi in Aula il prossimo lunedì, come se fossero pedine alle sue dipendenze. Non siamo più di fronte alle sbruffonate di un cialtrone sulla spiaggia con un Mojito in mano. Queste sono prove tecniche di regime. E, se può fare tutto questo, se può spingersi tanto in là, non è solo per i 10 milioni di italiani che lo applaudono, ma per i 50 che stanno zitti. Ogni nostro silenzio, ogni nostro arretramento, è un segnale di resa delle democrazia e delle istituzioni. È una tacca in più nella discesa verso l’abisso e un piccolo assaggio di quello che sarà. I campanelli d’allarme nella storia suonano sempre fortissimi, solo che non ci sono mai abbastanza orecchie ad ascoltarli.” SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL CNEL PUO’ RAFFORZARE GLI ORGANISMI DI RAPPRESENTANZA DELLA SOCIETA’ CIVILE

di Tiziano Treu – Presidente del Cnel | In questi giorni al Senato è in discussione il ddl a prima firma Roberto Calderoli che si propone di abrogare il Cnel, facendo altresì tabula rasa, oltre che di un luogo di rappresentanza e composizione della società civile organizzata, anche di un complesso tessuto normativo che assicura il ruolo dei corpi intermedi nel nostro sistema sociale. Dopo l’esito del referendum costituzionale del 2016, ho accettato l’incarico di presidente del Cnel con l’obiettivo di lavorare ad un rilancio dell’Organo. I risultati del primo anno di lavoro ritengo siano apprezzabili: il Cnel è tornato ad essere un luogo capace di rappresentare le istanze delle forze sociali e produttive, sapendo svolgere il suo compito di organo di consulenza del governo e del parlamento. Dal punto di vista numerico, il Cnel ha prodotto 4 disegni di legge, 27 documenti tecnici, promosso 155 iniziative di confronto con oltre 100 organizzazioni e 8 mila cittadini. Questa la sintesi dell’attività svolta dal nuovo Cnel nel corso dell’ultimo anno. Ed è appena il caso di segnalare che il Cnel è l’unico Organo previsto dalla Costituzione che non elargisce indennità, né al suo Presidente né ai suoi componenti e che oltre due terzi delle spese complessive sostenute sono a beneficio degli stipendi dei dipendenti pubblici e della gestione dell’immobile. Queste spese rimarrebbero, in ogni caso, a carico del bilancio dello Stato. La proposta di abrogazione, oltre a non considerare i risultati prodotti, trascura completamente il contesto europeo, dove opera il Comitato economico e sociale europeo che coordina i lavori dei 21 Paesi membri dotati di un proprio analogo organismo (in totale nel mondo 80 Consigli economico e sociali). Queste strutture risultano in piena attività e sono anzi in via di potenziamento in modo che i Consigli economico e sociali svolgano sia funzione di rappresentanza della società civile organizzata, sia funzioni di promozione e sostegno alla democrazia diretta e alla partecipazione attiva dei cittadini. L’abrogazione del Cnel, fortemente stigmatizzata anche dal presidente del Comitato economico e sociale europeo, significherebbe privare l’Italia di un organismo che può attivamente compartecipare agli orientamenti che le forze sociali e produttive europee esprimono sulle politiche Ue (si veda, per esempio, la futura discussione sul cd «salario minimo europeo»). Infine, la proposta non pare consideri le conseguenze negative sull’intero sistema istituzionale derivanti da una eventuale abrogazione del Cnel. La normativa sul Cnel, infatti, è l’unica che definisce, per legge, i criteri di rappresentatività delle associazioni sindacali e datoriali e ad essa si riferiscono decine di disposizioni nazionali e regionali riguardanti la composizione di enti ed organismi che svolgono attività e erogano servizi di interesse collettivo nelle materie del lavoro, della previdenza e dell’economia. All’art. 17, la legge prevede la tenuta e l’aggiornamento dell’Archivio Nazionale dei Contratti presso il Cnel, al 30 giugno 2019 i rapporti di lavoro sono 885. La circostanza che il Cnel possieda l’expertise indispensabile alla tenuta ed analisi dell’archivio, nonché il fatto che qui siano rappresentate tutte le forze economico e sociali maggiormente rappresentative, è un elemento di garanzia non trascurabile per un asset importante per le nostre istituzioni. Sarebbe certamente utile se una decisione rilevante avvenisse attraverso una riflessione, un confronto e un approfondimento consapevole sul ruolo dei corpi intermedi, su come combinare democrazia rappresentativa e democrazia diretta e su come assicurare che il nostro Paese resti all’interno di una dimensione europea che ragiona, oggi più di prima, di come rafforzare i propri organismi di rappresentanza della società civile organizzata. Noi abbiamo alcune idee precise a riguardo, sarebbe interessante discuterne anche pubblicamente. Fonte: ItaliaOggi SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

VINCE IL GOVERNO DEGLI “UTILI IDIOTI”

CONTE E TRIA AVRANNO LA MEGLIO SU SALVINI E DI MATO. ZINGARETTI È LA LINEA DEL PIAVE. RINO FORMICA LEGGE LA POLITICA DI OGGI E QUELLA DI IERI DA MORO A CRAXI E BERLINGUER. CON IL SUO SPIRITO DISSACRANTE COLLOQUIO CON RINO FORMICA DI CARMINE FOTIA Da Salvatore Formica, detto Rino, – barese, dottore commercialista, 92 anni portati con implacabile intelligenza, una giovanile militanza trotskista che gli ha lasciato una propensione al pensiero “dissacrante”, una vita da socialista autonomista, compagno e amico di Bettino Craxi, protagonista dei governi degli anni ’80, e di memorabili liti («commercialista di Bari», lo definì con sprezzo il ministro democristiano Nino Andreatta che venne a sua volta definito «una comare come cancelliere dello scacchiere»), autore di battute sulfuree divenute celebri («la politica è sangue e merda» è un must) – non aspettatevi risposte schiacciate sul presente, o rinchiuse in ambiti ristretti anche se gli chiedete un commento su fatti di scottante attualità. Formica ama sempre partire da lontano, convinto che una politica che non sia consapevole del contesto geopolitico che la sovrasta diventi, per parafrasare la sua definizione di una pletorica assemblea socialista negli anni ’80, affare da «nani e ballerine». Così è dal contesto globale che parte quando gli chiedo lumi sul rubligate che coinvolge Matteo Salvini. «Nell’equilibrio fondato sul dominio bipolare Usa-Urss – afferma Formica, con quell’arrotamento di erre che è un marchio di fabbrica del suo complesso eloquio – il binomio guerra fredda/terrorismo caldo veniva utilizzato per mantenere l’ordine uscito da Yalta. Le grandi potenze oggi, Usa, Russia, Cina, in conflitto tra di loro, non hanno più interesse a quell’ordine e oggi il binomio è diventato terrorismo freddo/guerra calda». Cos’è il terrorismo freddo? «È un terrorismo fatto di servizi segreti e tecnologie al fine di compromettere governanti e classi dirigenti utilizzabili per ostacolare e destabilizzare l’unico soggetto in grado di contrastare i loro piani, cioè l’Europa. E non vedo proprio come ci si possa meravigliare del fatto che chi, come Putin, si è formato nel Kgb utilizzi i servizi non per sviluppare alleanze politiche con altre forze, ma per usarle ai suoi fini. In Italia parliamo di pezzi dell’ex-Pci, di pezzi di Lega, di pezzi di M5S, di settori economici. Soltanto un provinciale come Matteo Salvini poteva pensare di stabilire un’alleanza tra il piccolo sovranismo italiano e il supersovranismo, ovvero l’imperialismo russo. Altro che sovranisti! Sono semmai dei “provincialisti” cui mancano strumenti culturali e di analisi. Hanno rotto con la memoria storica della prima Repubblica per paura di contaminarsi, ma sono soltanto dei mediocri autodidatti che non hanno neppure avuto buoni libri di testo». E quindi Salvini è stato catturato in una vicenda troppo più grande di lui? «L’elemento scatenante, sia per Trump che per Putin, è il risultato delle elezioni europee. Hanno avvertito che nel Parlamento europeo è avvenuto qualcosa di nuovo, testimoniato dall’elezione della nuova presidente Ursula Von Der Leyen, che non è la semplice proiezione dell’asse franco-tedesco, perché ha coinvolto anche aree populiste che hanno compreso che anche a loro serve un’Europa più politica, più coesa, più unita per far fronte alle grandi superpotenze. Né Trump né Putin possono mettersi contro questa nuova concretezza europea e chi si è offerto loro come strumento farà la fine dell’agnello sacrificale. È capitato agli ucraini filo-russi la cui testa è stata offerta da Putin che ha aperto al dialogo. Dinnanzi al fatto concreto che d’ora in poi la destabilizzazione sarà contrastata dall’Europa, Putin e Trump sono pronti a sacrificare le teste di Salvini e Di Maio». TRUMP E PUTIN AVVERTONO CHE L’EUROPA STA PER REAGIRE. E SONO PRONTI AL COMPROMESSO. E AD ABBANDONARE PICCOLI ALLEATI COME I LEGHISTI ITALIANI Da dove viene questa sorta di riduzione dell’Italia a marionetta manovrata da altri? «Dalla fine degli anni ’90 c’è un vuoto di costruzione politica che ha avuto effetti a tutti i livelli, ma soprattutto nella definizione della gerarchia degli interessi. Le generazioni politiche che sono maturate in questo trentennio e che oggi sono, potenzialmente o di fatto, classe dirigente sono portate a considerare il periodo della prima Repubblica come un periodo da rimuovere dimenticando che un paese senza una storia democratica di massa ha dovuto sostituire la partecipazione popolare per via autoritaria con quella democratica. Nel ’43-’45 c’è una frattura: da Stato monarchico (che era diventato Stato fascista) a Repubblica democratica. I tre partiti democratici di massa: Dc, Psi, Pci che assumono la guida del passaggio erano, ciascuno a suo modo antistatali: socialisti e comunisti perché erano per il rovesciamento dello Stato e dell’ordine sociale, i cattolici per la storica estraneità allo Stato unitario». Non avendo radicamento nello Stato liberale devono costruire una loro narrazione, si direbbe oggi? «Uscivamo da uno Stato centralista, fascista e autoritario, le masse popolari non avevano esperienza di evoluzione. E così nasce il mito unitario: l’unità antifascista, l’unità costituzionale, l’unità della sinistra, l’unità dei cattolici. Su questa base nasce una nuova classe dirigente impregnata di cultura “unitaria” con tutto il positivo e il negativo di questa impostazione, perché la democrazia liberale porta con sé una dialettica essenziale alla democrazia: il conflitto politico tra le alternative di governo. I miti unitari sono portati a eliminare la dialettica della democrazia, perché se sei unitario devi trovare gli elementi della ricomposizione non quelli della divisione insita nella dialettica democratica». È a questa cultura che Craxi lancia la sua sfida con il saggio su Proudhon vs Marx pubblicato sull’Espresso? Rino Formica, Bettino Craxi e Pietro Nenni durante una riunione del Comitato centrale del Psi negli anni ’70. La sfida al Pci, dice Formica, era «ardua e impossibile» «Quell’articolo fu scritto con Luciano Pellicani. C’era dietro l’ispirazione del pensiero di Eugenio Colorni, che nel 1945-46 pose il problema del superamento del comunismo e del massimalismo. L’autonomismo unitario portava ad essere contemporaneamente riformisti e massimalisti, schiavo com’era del motto pas dennemis à gauche e ciò frenò lo sviluppo del centrosinistra. L’Italia era un paese di frontiera il cui equilibrio democratico si fondava sul fatto che la Dc doveva mantenere l’unità politica dei catto-lici …

ANTIPOLITICA

di Franco Astengo | Il salto è stato triplo carpiato in avanti con un altissimo indice di difficoltà e il Movimento 5 stelle lo ha compiuto in brevissimo tempo salendo sulle montagne russe della volatilità elettorale ormai giunta, in Italia, a livello quasi parossistici: in 5 anni abbiamo registrato spostamenti di milioni di elettrici ed elettori affascinati da una macro-logica di “scambio politico” e capaci di portare prima il PD(R) a 11 milioni di voti per poi ridurlo alla metà circa, il M5S a 10 milioni anch’essi ridimensionati seccamente molto alla svelta e ancora la Lega a 9 milioni di suffragi nelle elezioni europee del 2019, 9 milioni di voti che verificheremo quanto stabilmente acquisiti. In questo bailamme si sta tentando una operazione molto pericolosa per la stabilità di un sistema politico fragile con i soggetti che lo compongono in una fase di progressivo distacco da una qualche istanza di radicamento sociale. Un sistema esposto a qualsiasi avventura sulla linea della “democrazia illiberale” sostenuta da truculenti “narrazioni” nell’esporre le quali l’unica abilità è quella retorica di individuare il “capro espiatorio”. Così, in particolare da parte del PD, si pensa di rimediare a questo stato di cose attraverso una proposta di “ribaltone” o di “rottura” del cosiddetto asse gialloverde: protagonista di questa operazione dovrebbe essere il M5S o almeno una sua porzione, considerata “di sinistra”. E’ il caso allora di ricordare la scaturigine di questo Movimento, la sua nascita all’insegna del raccogliere quanto seminato sul terreno dell’antipolitica prima dal centro destra populista e poi da un PD nato per esaltare la governabilità e distruggere il concetto di rappresentanza (in precedenza, beninteso, alla sublimazione di questo concetto avvenuta con la segreteria Renzi). Dunque: come nasce il M5S nel momento in cui ad essi si sono accostati tutti i personaggi che oggi stanno al governo o in posti di elevata responsabilità istituzionale? Personaggi che stanno tranquillamente giocando a quella che un tempo di definiva “politica politicienne” esercitando un’autonomia del politico di segno decisamente elitario, laddove ci ritroviamo in una situazione dove si esercita un populismo senza popolo e una politica elitaria, da “cerchio magico” senza élite riconosciute e consolidate. Oggi nel pieno dell’esercizio da parte del M5S del “segno del comando” è possibile approfondire l’analisi e convenire su di una definizione di sostanziale omologazione al sistema attraverso l’esercizio all’interno di esso di una forma precisa di nichilismo. Nichilismo inteso proprio nella versione nietzschiana della “volontà di potenza”. Nietzsche si contrappone in questa sua visione a quella di Schopenhauer che, ne “Il mondo come volontà e rappresentazione”, appare ancora nostalgicamente orientato al recupero del fondamento perduto nell’opposizione tra mondo ideale e mondo sensibile. Per Nietzsche (ma anche nella pratica politica che è stata di Grillo, nella fondamentale fase di passaggio della costruzione del Movimento) si è ormai radicata una svalutazione dei valori tale da condurre a quell’“oblio dell’essere” che trova la propria espressione più radicale nel dominio della “tecnica di potenza”. “Tecnica di potenza” che si poteva pensare di poter esercitare assolutizzando l’uso del web come strumento di convincimento irrazionale di massa e quindi consegnando l’origine del potere a una sorta di ente misterioso quasi trascendente (questo era il disegno originario di Casaleggio sr.) In questo modo poteva bastare il dominio dell’ “io” sugli altri. Gli spazi interiori sono così sottratti alla potenza ordinativa del Leviatano e la strategia decisionistica esce dallo schema del paradigma della modernità, quello che aveva dato origine alla democrazia nel suo significato più originario: fosse questa democrazia “liberale” o “democrazia “socialista”. Negli atti politici concretamente fin qui compiuti il M5S ha teso, in un primo tempo, a dimostrare l’inesistenza della mediazione politica: salvo poi adattarsi per opportunità snaturando così l’idea che ci si dirigesse verso un superamento di questo elemento di costrizione nell’esercizio della loro forza assoluta. Una visione originaria che non si smarrisce, neppure quando il Movimento sembra smentire clamorosamente sé stesso: anzi proprio nelle smentite più radicali delle proprie note originarie emerge forte la visione dell’inesistenza della mediazione politica e del ricorso, in forma quasi primordiale, della “volontà di potenza”. Si sovrappongono, nella forma comune di esercizio del comando, l’assenza di riconoscimento della condizione comune e l’idea dell’impossibilità di apertura di una forma di libertà politica che limiti il potere del gruppo dominante. Si torna così alle origini, allo Stirner di “L’unico e la sua proprietà” (1844): “ogni concetto ideale astratto che si contrapponga alla concretezza irriducibile del singolo va destituito secondo una prospettiva individualistica”. L’individualismo come punto di fondo nel riconoscimento del M5S: fonte di un nichilismo fondato sul “bel gesto” dell’esercizio del dominio sulle masse chiamate ad assistere all’esercizio della “democrazia recitativa”. Grillo si era dimostrato portatore di una “antipolitica allo stato puro”: l’esercizio di questa già definita “antipolitica” in funzione di governo ha così aperto la strada alla situazione di oggi. Questo è il punto di filosofia politica: l’esercizio del “nichilismo politico” come base fondativa che il M5S ha introdotto nell’esercizio del governo ci ha portato in una funzione di totale svilimento del sistema. Uno svilimento complessivo al riguardo del quale tutti saremo chiamati a pagare un prezzo prima di tutto sul piano della possibilità di esercizio della politica considerata fattore essenziale dello sviluppo umano. Quanto tempo dovremo aspettare perché emerga un qualche segnale di consapevolezza e di messa in opera di una riflessione e di un’azione assolutamente controtendenza, non interna a questo quadro di vera e propria distruzione della democrazia repubblicana?     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LIBERALISMO E UGUAGLIANZA

di Franco Astengo | Alla domanda “che cosa dovrebbero fare i liberali per invertite il pendolo della storia?” il politologo polacco Jan Zielonka, che insegna a Oxford, risponde (intervista a Repubblica del 12 luglio): “Intanto recuperare democrazia e uguaglianza, due stelle polari abbandonate dall’Europa. Negli ultimi trent’anni quelli che si chiamavano liberali hanno dato priorità alla libertà sull’uguaglianza. I beni economici hanno ricevuto più attenzione e protezione di quelli politici. E i valori privati sono stati accarezzati più dei valori pubblici”. Occorre occuparsi di più di giustizia sociale”. Torna alla ribalta la grande questione storica del connubio tra democrazia e uguaglianza, dopo il tramonto dell’idea della “fine della storia” seguita al fallimento dell’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del ‘900. Sembra inarrestabile la spinta distruttiva di regimi definiti populisti e di forze loro affini ben presenti nel cuore dell’Europa. Non si tratta di banalità politiciste ma di una questione storicamente irrisolta sulla quale vale la pena riorganizzare l’agire politico, ricordando come sia necessario “cercare ancora” per andare oltre al liberalismo. Nel travaglio della modernità, nel quadro di una vera e propria dissoluzione dei tradizionali rapporti politici, nel processo di superamento dello “Stato – Nazione” e di rovesciamento nei rapporti tra le grandi potenze, nello sfrangiamento dei rapporti sociali che avviene nell’esaltazione della barbarie dell’individualismo, si pone di nuovo l’evidenza dell’attualità di una concezione egualitaria che Marx criticava nella tendenza rozza a tutto eguagliare, così come criticava il diritto “borghese” (appunto liberale) astrattamente livellatore che applica eguali misure a tutti gli uomini senza tener conto delle differenze. Da un lato un’eguaglianza astratta sul piano economico, dall’altro un livellamento burocratico sul terreno giuridico. Sicuramente è mutato l’orizzonte della lotta di classe come punto di superamento della dicotomia appena indicata. Ritorna in pieno il tema del socialismo, inteso come concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nelle prassi sociale. Il socialismo inteso come impegno quotidiano e non come proiezione soltanto ideale per un’utopia il cui sfondo ideale va mantenuto sulla linea dei principi fornendo però, adesso nel momento storicamente dato, l’identità di un’organizzazione politica. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

TUMORI E SVILUPPO INDUSTRIALE: E’ ORA DI DIRCI LA VERITA’ (E DI FARE QUALCOSA)

di Aldo Ferrara – Socialismo XXI In alcune aree del paese, l’incidenza dei tumori sta raggiungendo picchi inauditi, specie per il cancro polmonare. Da 7 casi ogni 100 mila abitanti del 1951 siamo passati a ben 105/100 mila. Livelli da DEFCON 4. Un tempo era il trio. Erano sotto accusa le emissioni industriali, riscaldamenti domestici e traffico, con un 33% di responsabilità per voce. Oggi è sotto accusa il traffico all’80%. E’ spaventoso l’aumento dei metalli pesanti liberati nell’aria dalle vetture dotate di nuovissimi catalizzatori (platino, rubidio, molibdeno, tungsteno, cadmio) con un aumento di casi di linfomi e leucemie stimato tra il 15 ed il 20% in poco più di vent’anni. Ma esistono picchi impressionanti in alcune città per via delle emissioni di Industria Pesante, spesso bellica o chimica, ove si osserva l’aumento dei mesoteliomi (+37% nelle donne e +10% negli uomini), tumori alla mammella (+27%),del SNC (80%), del fegato (40%). La crescita di coscienza e le investigazioni scientifiche ci stanno imponendo questioni prioritarie come la salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente. Ma il nostro modello sociale deve contemperare tutela dell’occupazione e sviluppo dei mercati ed il lavoratore, utente-consumatore, deve essere considerato parte attiva di questo processo. Sta di fatto che non siamo ancora riusciti a conciliare ambiente e sviluppo economico, specie quello industriale. La contraddizione tra questi due aspetti ha portato a una sorta di radicalizzazione, senza possibilità di compromesso. L’esempio più eclatante è (ex) ILVA di Taranto, una delle ultime industrie pesanti rimaste, in cui lo scontro ha raggiunto il livello di guardia. Già nel Volume Ambiente Atmosferico & Salute Respiratoria (Ferrara A. et al., 2001, vedi biblio) avevamo evidenziato, nel comprensorio di Brindisi, un drammatico incremento di malattie pleuro-polmonari fino al +25% a carico della pleura e delle malattie del sangue (+30% per le forme non Hodgkin). Per quanto attiene Taranto, nel 2016 uno studio epidemiologico della Regione Puglia ha evidenziato un aumento della mortalità, rispettivamente, del +4% e del +9%, per esposizioni a polveri sottili (PM10) e anidride solforosa (SO2), e un aumento di ricoveri per patologie respiratorie infantili residenti nei quartieri Tamburi (+24%) e Paolo VI (+26). Mentre tutti, all’alba del 2017, discettano sul caso ILVA di Taranto, nel 2001 molti di questi dati erano già noti. Perché non sono stati presi in considerazione? Riporto stralci di un articolo del giornalista Giovanni Vaccaro che, nel 2013 dalle pagine del Secolo XIX, scriveva, a proposito di La Spezia. L’interesse su questo articolo nasce dal fatto che mentre la pubblica opinione è spesso indirizzata verso siti industriali tipo Marghera o Taranto, pochissimi, se non nessuno, punta l’indice verso gli insediamenti dell’industria bellica. “Sul banco degli imputati gli insediamenti industriali e le zone densamente urbanizzate. Eurochip2 (European cancer health indicator project, del 2009, ha evidenziato anche che, tra i vari paesi europei, è cresciuta la disuguaglianza in campo oncologico. I paesi più ricchi, con Pil più elevato e un tasso di industrializzazione maggiore, hanno un’ incidenza di tumori più alta rispetto ai paesi più poveri. In Italia i “picchi” nell’incidenza dei tumori (e nella mortalità) si registrano in zone in cui operano (o operavano) acciaierie, come a Genova, Piombino e Taranto, impianti petrolchimici, come a Gela, Priolo, Augusta, Sarroch, Porto Torres e Portoscuso, aree a forte industrializzazione come Marghera.” (Vaccaro G., 2013). Dati in perfetta coincidenza con quelli di A.Ferrara (2001). In totale sono 54 le aree critiche destinate alla bonifica, un censimento che riguarda ben 311 comuni. Prosegue Vaccaro: ” In Liguria, a puntare il dito contro le ciminiere sono da anni gli abitanti della Spezia e Vado Ligure. E’ sotto accusa soprattutto l’attività della centrale termoelettrica di Tirreno Power (ex Enel) di Vado Quiliano. La Provincia di Savona, con circa il 17% degli abitanti, produce dal 40 al 50% dei più pericolosi inquinanti di tutta la Liguria: ossidi di azoto, anidride solforosa, polveri sottili, ultrasottili (PM 10, PM 0.5). E le centrali a carbone rilasciano in atmosfera radon e polveri arricchite in radionuclidi. A Vado Ligure il tumore maligno al polmone colpisce il 30,1% in più degli uomini rispetto al resto della Provincia e il 26,6% rispetto alla Regione. Ma un dato allarmante riguarda anche Savona, con il 23,6% ed il 20,7% in più. Oltre ai tumori dati preoccupanti riguardano anche le malattie ischemiche del cuore: a Vado le donne fanno registrare il 44% di casi in più rispetto alla media provinciale e il 71,9% in più rispetto a quella regionale; gli uomini rispettivamente il 27% ed il 45,8% in più; a Savona il 30% in più sulla media provinciale e il 54,9% in più su quella regionale per le donne, il 19,5% in più ed il 37% in più per gli uomini. Infine le malattie respiratorie croniche ostruttive:per la popolazione maschile, Vado fa registrare il 137% sulla Provincia ed il 150,3% sulla Regione. Occorre dunque mappare il territorio, non solo per misurare genericamente il grado di inquinamento, ma verificare soprattutto gli effetti veri e propri sulla salute umana. La correlazione tra i danni rilevati sui licheni, ormai riconosciuti come bioaccumulatori e l’incidenza dei tumori al polmone sono allarmanti. Il monitoraggio degli effetti dell’inquinamento sui licheni epifiti ha evidenziato nel 2000 stati di alterazione grave nell’area metropolitana di Genova, Savona e La Spezia. Il collegamento tra inquinamento e alterazioni nei licheni è ancora più indicativo a La Spezia. Tra il 1992 e il 2000 è stata registrata una ripresa della biodiversità lichenica dopo gli interventi di riconversione della centrale a carbone ed il riassetto di camini alti 240 metri. A La Spezia vi sono due record, anzi tre. Il primo è nella zona intorno al Porto Militare dove vi è la più alta percentuale di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Il secondo è zona intorno alla Discarica di Pitelli dove vi è la più alta percentuale di tumori infantili. Il terzo è generale, per tutta la provincia, e vede il record mondiale per malati per amianto di mesotelioma in rapporto alla popolazione”.   Come dire dalla Epidemiologia alla Politica, il viaggio non è così lungo e la destinazione è …

DAL SISTEMA DELL’AUTO ALL’INDUSTRIA DELLA MOBILITA’

di Beppe Berta – UNIBOCCONI | Nessuno potrebbe impiegare oggi la celebre definizione che Peter F. Drucker coniò alla metà del secolo scorso per il settore dell’auto: “industry of industries” (industria delle industrie). Se non altro perché quello di Drucker era il mondo fondato sul primato della civiltà industriale, mentre il nostro si basa sul predominio dell’economia dei servizi, con la moltiplicazione di una gamma sempre crescente e potenzialmente infinita di attività di servizio tagliate a misura del consumatore finale. Anche il sistema dell’auto vive oggi secondo questa logica, come dimostra la ricerca incessante di vetture elettriche in grado di esonerare chi è a bordo, in tutto o in parte, dell’onere della guida. Non di meno, l’industria della mobilità (la frontiera verso cui sta rapidamente evolvendo l’universo dell’automobile) rappresenta oggi l’area di business verso cui convergono tecnologie, specializzazioni e competenze per produrre un’inedita combinazione, tale da fare dell’auto una sorta di crocevia tra forme economiche in precedenza eterogenee. L’industria della mobilità sembra correre verso il futuro incurante dei costi immensi e dei rischi altrettanto poderosi che ciò comporta.  Lo si può osservare analizzando, più che le incerte prospettive di Tesla e delle sue oscillazioni di Borsa, il peso che nella schiera dei produttori tradizionali vanno assumendo i nuovi modelli più orientati alle nuove tendenze. Colpisce così la pubblicità che Volkswagen va facendo alle sue vetture elettriche. Ma ancor di più colpisce, entrando nella torre più alta del Renaissance Center di Detroit, dov’è la sede di General Motors, vedere in posizione dominante tra i veicoli esposti la nuova Cruise, l’elettrica a guida autonoma che verrà posta in vendita entro l’anno. Nella grande showroom del RenCen alla neonata Cruise è stata data la maggiore visibilità affinché i visitatori comprendano bene il valore della svolta impressa da Gm alla sua produzione. È un segnale della direzione intrapresa, che ha comportato passaggi dolorosi per la maggiore casa dell’auto Usa, la quale non ha esitato ad allestire un cospicuo piano di chiusura di stabilimenti e di riduzione dei posti di lavoro in Nord America. Essa ora sta persino valutando l’opportunità di cedere il proprio quartier generale, il grattacielo più alto del Michigan, se questo può generare risparmi importanti, da mettere a servizio negli investimenti che il cambiamento tecnologico sollecita. Intanto, poco più in là Ford sta ristrutturando quella che un tempo fu una delle più imponenti stazioni ferroviarie d’America, la Michigan Central Station, nel quartiere di Corktown, per ricavarne gli spazi in cui saranno ospitate le attività di ricerca sull’Intelligenza Artificiale applicata ai problemi della mobilità. È il terreno su cui dovrebbe svilupparsi la cooperazione già avviata col gruppo Volkswagen. L’America dell’auto crede alla promessa della rivoluzione tecnologica che sta investendo il nostro modo di spostarci, soprattutto nelle città. Ne è nata una riconcorsa tra la California e il Midwest: anche la Gm Cruise ha un’origine californiana, come Tesla. Ma nel suo caso è stato ripudiato il principio dell’autosufficienza cui si è sempre attenuto Elon Musk. Al contrario, si vuole dimostrare che è dal connubio tra le piattaforme tecnologiche elaborate in California e il sistema consolidato delle competenze produttive in possesso di Detroit che può derivare la spinta al cambiamento. Le auto staranno pure diventando dei computer su quattro ruote, ma esse hanno ancora bisogno dei metodi e dei procedimenti ereditati dalla storia della mass production per operare al meglio. Più in generale si sta sviluppando una geografia dell’industria della mobilità che congiunge i produttori convinti che il cambio d’epoca sia in atto e ormai inevitabile. È una geografia che si snoda dall’America all’Europa (dove ha il proprio fulcro in Germania) e in Asia, dove la tensione verso il mutamento si declina in forme differenti in Giappone, in Corea del Sud e, naturalmente, la Cina. In particolare, il primato della Cina, principale mercato dell’auto al mondo, è destinato a riflettersi in una serie di nuovi standard che contribuiranno potentemente a fissare i canoni della mobilità di domani. Si tratta altresì di una geografia che rende visibili nuovi cleavages, nuove linee di demarcazione fra i produttori che stanno sposando in pieno il paradigma del mutamento e quelli che devono attestarsi su una linea flessibile di adattamento, non disponendo delle risorse che deve mobilitare chi si pone sulla frontiera tecnologica. Una transizione così vasta e delicata approderà sicuramente a una riconfigurazione dell’industria della mobilità che finirà per mettere in discussione e rimodellare assetti e perimetri aziendali. Gli esiti finali saranno probabilmente considerevoli, mentre già oggi si intuisce la complessità delle operazioni che dovranno essere poste in atto. Se ne è avuto un assaggio nelle settimane scorse col tentativo di fusione tra Fiat Chrysler e Renault, un tentativo che ha rivelato le difficoltà insite nel processo di riorganizzazione del sistema mondiale dell’auto. Per converso, esso ha fatto comprendere perché altri gruppi intendano procedere con estrema prudenza sulla strada delle aggregazioni, preferendo lo sviluppo di rapporti di collaborazione che, col tempo, potranno eventualmente diventare delle alleanze più strutturate. Entrambi i percorsi hanno gradi di complessità che non possono essere trascurati. Certo però che l’uscita allo scoperto di Fca e Renault ha posto a nudo i rischi e le problematicità che affronta chi si accinge alla riconfigurazione dei soggetti storici della produzione automobilistica.    Perché si è verificata la battuta d’arresto nella fusione di Fca e Renault, dopo che da molte parti se ne erano indicate le opportunità, rivendicate ancora adesso? Una ricostruzione affidabile delle ragioni che hanno determinato uno stop subitaneo ancora non c’è. Probabilmente, nell’approccio iniziale erano stati sottostimati alcuni sostanziali elementi di criticità. Il più importante consiste nel fatto che non si può progettare un matrimonio, indicandone minuziosamente le condizioni, mentre si sottace la condizione affinché esso funzioni sta nell’instaurare un menage à trois. Due gruppi caratterizzati da un deficit di strategia non possono pretendere di risolvere i loro guai facendo affidamento su un terzo (Nissan), più forte di loro e dotato di presidi di mercato e di dotazioni strategiche che i candidati al matrimonio non hanno. Questo il vizio di partenza che ha pregiudicato la …

VOTARE O VUOTARE LA DEMOCRAZIA? N.2

di Aldo Ferrara – Socialismo XXI Lazio I neo-populismi Dopo la recensione del Volume di Brennan, abbiamo appreso che la ripartizione in tre classi dell’elettorato o meglio di coloro che partecipano alla politica, direttamente o indirettamente, in Hobbit, Hooling e Vulcaniani può anche apparire logica. Nella società d’oggi sono i parametri economici che fanno la differenza e ci obbligano al tracciato e censimento delle classi sociali. Lo avevano identificato già nel XIX secolo i Padri del Socialismo, in un’epoca in cui la trasformazione industriale aveva impresso una sua funzione divisiva, esclusiva e non inclusiva. Da un lato la classe operaia e contadina, fulcro essenziale delle attività produttive e dall’altro la classe padronale che riscuoteva il plusvalore. In mezzo la borghesia, nata dalla rivoluzione francese, che stentava però ad avere un ruolo dominante e si trovava nel centro della tenaglia. Paesi come l’Italia costituivano, già subito dopo l’Unità, un esempio emblematico. Un Paese privo di materie prime che si accingeva alla rivoluzione industriale savoiarda del Nord, con Torino al centro della produzione, in quegli anni nasceva appunto la FIAT e il suo indotto, e si apprestava contemporaneamente a ripudiare la sua tradizione agricola e contadina che, con il mercantilismo, aveva reso ricco il Sud. L’esempio della Famiglia Florio, con i traffici nel Mediterraneo che avevano restituito alla Sicilia la primazia del mercato meridionale, è eponimico per comprendere come la questione Meridionale, subito intuita e posta da Giustino Fortunato, fosse un problema primario. Dirottare le risrose umane del paese verso l’industria, schiavi delle altre nazioni in possesso di materie prime, aveva comportato una scelta di subalternità economica e costretto le classi disagiate a aumentare il ritmo di lavoro e sofferenza per la produzione il cui plusvalore finiva subito nelle mani di pochi. E’ in questo contesto che nasce nel sud più povero quello della Basilicata, Campania e Molise, il fenomeno del brigantaggio che, al di là della concezione di un mio trisavolo, Giuseppe Massari, Presidente della Commissione d’Inchiesta sul Fenomeno, aveva in nuce il seme della rivoluzione socialista che non tardò ad arrivare con i Fasci Siciliani di Giuseppe Giuffrida e Napoleone Colajanni. Se è questo il contesto di rivolta sociale che poi diede volto politico al Partito dei Lavoratori e quindi poi Socialista, nato a Genova nel 1892, oggi in quale contesto sociale si deve inscrivere la rinascita socialista? Cessata la fase produttiva prima fordista e poi post-fordista, quella del terziario avanzato, la società di oggi, in piena globalizzazione che significa l’80% delle risorse in mano al 22% della popolazione, appare denudata dei suoi fondamenti di diritto. Appare cioè uno squilibrio sociale in Intoccabili e Bistrattabili, che perdura oltre il dovuto e che la crisi del 2008 ha evidenziato, scoprendo il velo di ipocrisia in cui ci si è rifugiati con il termine “ democrazia”. Il primo nodo fondamentale è la ricerca di un volto identitario. Negli ultimi 2 decenni, a far tempo dal 1992, l’anno del massacro della politica arresasi all’altro potere, quello giudiziario, la demonizzazione è l’opera più compiuta che si sia perpetrata. Demonizzazione del Servizio Pubblico: la ricerca forsennata e stolta delle privatizzazioni ha comportato l’impatto del capitale privato nella prestazione e offerta dei servizi pubblici, Salute, Scuola, Trasporti. Demonizzazione e Sussidiarietà hanno consentito che il capitale, soprattutto straniero, venisse in possesso di Beni Pubblici, materiali e immateriali, di autentico diritto di fruizione del cittadino. A partire dall’acqua, la cui gestione, affidata ai privati, in molte città italiane ha privato di perequazione e parità di offerta, nonchè incremento dei prezzi per profitto. Già nel 1962 la legge di Nazionalizzazione dell’energia elettrica aveva sancito che il bene comune dell’energia fosse di competenza statale, cioè di tutti e per tutti, eliminando sperequazioni e ingiustizie sul piano della fornitura e dei costi. Nel 1968 e poi nel 1978, Luigi Mariotti aveva reso “universale” il diritto alla salute, in obbedienza e rispetto all’art.32 della Costituzione. In questi anni invece assistiamo al trionfo delle politiche opposte: aumento dei costi dell’energia e dei carburanti per aumento delle filiere estrattive e distributive, aumento di costi per la salute, sicchè 14 milioni di italiani non possono più curarsi. Il secondo Nodo è quello federalista e autonomista. Allora la ricerca dell’identità deve partire dal riappropriarsi della lotta per il diritto al Bene Comune e per la totale separazione dal Privato e dalla sua gestione dei Servizi Pubblici di competenza comunitaria e collettiva. Per operare in questi termini, è necessario che si identifichi lo strumento d’azione che è la legislazione Autonoma delle Regioni o Enti Locali, con la devoluzione di compiti amministrativi e legislativi come sancito in Costituzione, Titolo V, artt.da 116 a 133. Le Regioni, fortemente volute dai Socialisti, nate nel 1970, hanno avuto processo di sviluppo ondivago. Il Potere Centrale ha adoperato la Conferenza Stato-Regioni come strumento di regolamentazione del dettato costituzionale, Titolo V, artt.116 e 117, su mera base giuridica, senza un indirizzo politico di vera devoluzione, anche nel caso delle Regioni a Statuto Speciale. Non regolamentare i Fondi di Solidarietà Nazionale, vedi art. 38 dello Statuto Siciliano, non indirizzare in modo congruo il federalismo fiscale, non arginare il pendolarismo sanitario, ha creato squilibri tra le Regioni con andamento e velocità diversi, regioni ricche e quelle povere, ciò che ha contribuito a non dettare il processo di crescita. Poiché la nostra Costituzione è stata strutturata in senso federalista, sull’onda delle antiche concezioni del Cattaneo che lo stesso Calamandrei cita nella sua celebre lezione universitaria del 1955, e poiché a tutt’oggi lo sviluppo federalista è rimasto incompiuto, anche paradossalmente con la complicità della stessa Lega, per non avere saputo differenziare autonomia legislativa dalla indipendenza politica, e poiché a tutt’oggi siamo rimasti ancorati ad una vecchia concezione dei confini nazionali, dell’unità del Paese, visto quanto sopra dobbiamo ammettere un totale fallimento in nome della nazione. E’ la concezione vieta e scontata della Nazione-Patria che ha portato alle seguenti disuguaglianze: Incompiutezza della crescita economica per mancanza di politiche d’incentivazione delle diverse peculiarità regionali. Concepire la Basilicata una Regione a trazione industriale, per estrazione di un misero 10% …

VOTARE O VUOTARE LA DEMOCRAZIA?

di Aldo Ferrara – Socialismo XXI Lazio E’ passato sotto silenzio il volume Contro la democrazia di Jason Brennan, a cura della Luiss University Press con la prefazione di Sabino Cassese e un saggio introduttivo di Raffaele de Mucci. Esito prevedibile, la sua lettura avrebbe sconvolto i pallidi e precari equilibri politici italiani. Destabilizzante dunque sul panorama già sufficientemente destabilizzato dal 1992 in avanti. Non so se si siano mai conosciuti ma Brennan riprende un’articolazione di pensiero di Giovanni Sartori. Ero andato a casa sua, a Roma, in via di Montoro, stava già poco bene e si dilungò in una disputa, che a me parve paradossale, sui limiti della democrazia. Siamo sicuri, diceva, che sia la forma migliore di governo? O piuttosto non sarebbe a questo punto saggiare l’epistocrazia, il governo della meritocrazia o dei tecnici che però finora non ha dato risultati ove applicato? Mr. Brennan fa un ragionamento analogo. E condivisibile. Divide le classi dell’elettorato o della pubblica opinione in Hobbit, Hooligan e Vulcaniani. I primi non mostrano interesse per la politica, più o meno come succede a Milano. Città nella quale l’Amministrazione, ereditata da lunga pezza dagli Austriaci, marcia da sola, il Sindaco dà un indirizzo politico, taglia i nastri, dispone gli eventi di eccellenza, ma la macchina amministrativa va in guida autonoma. Ma poi ci sono gli Hooligan faziosi, rivoltosi senza il coraggio delle rivoluzione che tendono a far della politica argomento da stadio. Curva Sud contro Curva Nord. Mai una politica “per” ma una politica “contro”. L’esempio tipico è stato quello dei vaccini: schierarsi favore o contro senza cognizioni tecnico-scientifiche è stato errore madornale su cui si è infranta la pubblica opinione. Con gravi rischi per la popolazione che alla fine non ha capito più nulla. Poi ancora i Vulcaniani che associano conoscenza e una discreta  raffinatezza analitica con un’ampia apertura mentale, senza indulgere nei discorsi da bar dello sport. Scrive Brennan: “Invece di agire come «cercatori di verità», gli elettori si comportano come «fan politici», facendo il tifo per una o per l’opposta squadra al pari dei tifosi sportivi. «L’ignoranza e la polarizzazione degli elettori li lasciano in balìa di politici senza scrupoli, ideologi e gruppi di interesse». Un analfabetismo politico e istituzionale che si trascina fin dalla gioventù. Basta ascoltare i giovani alle prese con le loro prime visite ai seggi elettorali o anche solo nelle discussioni politiche che diventano, inevitabilmente, meri attacchi e contrattacchi partitici. Come gli adulti del resto. La scelta di chi deve rappresentare i cittadini in Parlamento e in tutti gli altri organi ed enti rappresentativi non può e non dovrebbe mai essere motivata dalle sole ideologie o, peggio, sul pregiudizio di chi ne professa di diverse. Le scelte dei rappresentanti eletti si riflettono poi, inevitabilmente, su tutta la cittadinanza e sarebbe quindi opportuno iniziare a selezionare i governanti sulla base di progetti concreti per la collettività. «Se ci rifiutiamo di tollerare una pratica medica o il lavoro dell’idraulico privi di conoscenza e competenza, dovremmo trattare con lo stesso metro il votare inconsapevolmente». Brennan sottolinea come il voto non sia semplicemente una scelta individuale ma «l’esercizio di un potere sugli altri» che dovrebbe essere sempre utilizzato in modo responsabile non fosse altro appunto perché le scelte politiche ricadono su tutti i cittadini indistintamente. Coloro che si astengono «sono mediamente hobbit», mentre gli elettori «sono, in media, hooligan». «Il problema è che molte teorie filosofiche sulla democrazia presumono che i cittadini si comportino come vulcaniani». Emerge dalla lettura di Contro la democrazia di Jason Brennan non tanto la volontà dell’autore di condurre la ristretta cerchia dei vulcaniani al governo del Paese, quanto piuttosto quella di stimolare azioni e progetti che rendano hobbit e hooligan meno tali e quanto più vulcaniani possibile. In fondo, come sosteneva Herbert Spencer e come ricorda lo stesso Brennan: «un uomo non è meno schiavo se, ogni certo numero di anni, gli si permette di scegliersi un nuovo padrone». In Italia abbiamo avuto un percorso singolare. Dai partiti di massa, filtro tra istituzioni e volontà popolare, siamo passati ai partiti Monocratici, Lista Dini, Lista Fini, Lista Pannella, Lista Bonino, alla identificazione del presunto Leader con una politica. Un tempo si diceva “ io voto DC, o PCI o PSI”. Poi si è detto voto Lista Pannella, nella quale un residuale di partito c’era ancora, si identificava Marco Pannella con una politica. Poi alla fine si è arrivati a dire voto Berlusconi, anticipatore del “leaderismo unico”, residuo di mentalità paradossalmente staliniana o cubana. Il concetto del Leader Maximo, ripreso dai vari Matteo, Renzi prima e Salvini dopo, sta a indicare un percorso di identificazione dell’elettore versus quello nel quale ritrova sé stesso, quel che vorrebbe essere e quello cui anela. Ossia il padrone, sentendosi l’elettore deficitario e incapace per conoscenza o cultura di esprimere una sua personale idea. Questa la ritrova nei giornali, che come si sa, sono già orientati a monte e riprende frasi e termini che sente nel giornale più diffuso, quello ascoltato alla TV. I termini comuni della politica, i volti più visti diventano vangelo politico, senza vaglio di discussione critica perché quello che dice la TV è la realtà. Dunque da Brennan ai nostri tempi il denominatore comune è la mancanza di cultura generale che offre la capacità di discernimento, che è madre della incultura politica che tende a rendere ciascuno di noi “tifoso” politico. Brutta cosa la tifoseria politica: è l’espressione classica dell’omologazione e del servilismo politico. A questo punto l’italiano medio che non è ancora un Vulcaniano si ritrova in una condizione di scelta: o resta servo degli schemi omologati dei comitati elettorali, già partiti ma ridotti a gruppo di interessi, spesso di poca trasparenza, o si riconduce ad una condizione di schiavo delle situazioni generali da cui può uscire rompendo le catene. L’omologazione è la condizione di servitù strisciante in cui questa sinistra ci ha ridotto. Con la cooptazione di una classe dirigente auto referenziata, ha impedito alle teste pensanti di dare una linea guida, pericolosa perché emarginante l’incultura …

ELEZIONI EUROPEE 2019: ANALISI DEL VOTO A LIVELLO REGIONALE

di Franco Astengo | Crescita dell’astensionismo forse oltre la fisiologicità del fenomeno in occasione delle elezioni europee, nuova espressione di fortissima volatilità elettorale, esaurimento del “centro” e della “sinistra” con un chiaro spostamento a destra come segno dei tempi; forte dispersione di voti a causa di una soglia di sbarramento molto alta. Sono questi principali fattori che emergono dall’analisi del voto italiano al riguardo del Parlamento Europeo svoltesi il 29 maggio 2019 e che richiamano la necessità di un’analisi disomogenea comprendendo in questa i dati sia delle due tornate europee sia di quella politica del 2018. Ne è uscita un’Italia spaccata in due: con la Lega egemone fino a Campobasso e il M5S che cerca di reggere da Caserta in giù; in mezzo a questa geografia dai termini bipolari ribaltati rispetto alle politiche 2018 qualche minuscola “enclave” segna, in Emilia e in Toscana, la precaria presenza del Partito Democratico. Si evidenzia un passaggio diretto di voti tra Forza Italia e Fratelli d’Italia (con la seconda che si rafforza evidentemente). Quindi non appare automatico un passaggio diretto tra Forza Italia e la Lega. La Lega in diverse situazioni attinge dal serbatoio M5S che sicuramente ha approvvigionato l’astensione. Lega e M5S risultano protagonisti della volatilità elettorale in entrata e in uscita di proporzioni molto spesso superiori al 50%. Non sono esaminati in questa sede gli sconfortanti dati della lista della Sinistra che mi riprometto di studiare a parte. Tutto il resto sembra di contorno. Per capire meglio però la dislocazione del voto ho lavorato su i dati regione per regione presentando alcuni raffronti che possono aiutare un’analisi maggiormente compiuta. Piemonte In Piemonte si svolgevano anche le elezioni regionali che hanno registrato il successo della coalizione di centro destra. Dal punto di vista della partecipazione al voto hanno espresso un suffragio valido 2.188.183 piemontesi. Il dato risulta in flessione sia rispetto al 2014 (meno 60.674) sia rispetto alle Politiche 2018 (meno 259.705).  Di grande rilievo l’incremento della Lega passata da 171.119 voti nel 2014 a 553.336 nel 2018 fino ai 813.001 del 2019.  Vale la pena esaminare l’incremento avuto dalla Lega con la flessione accusata da Forza Italia, verificatasi soprattutto tra le politiche 2018 e le europee 2019. Questo il trend di Forza Italia: 2014: 354.401, 2018: 328.202, 2019 198.721. Tra il 2018 e il 2019 Forza Italia cala di 129.481 unità. La Lega sale di 259.667, Considerato l’incremento di Fratelli d’Italia (da 95.342 a 98.690 fino a 198.721) è evidente che l’incremento della Lega, in Piemonte, vada ricercato anche fuori dal perimetro del centro destra. Così è necessario esaminare la flessione del M5S avvenuta tra il 2018 e il 2019. Il M5S aveva ottenuto nel 2014 486.613 voti salendo nel 2018 a 648.710 suffragi e scendendo nel 2019 a 290.141 con una caduta tra il 2018 e il 2019 di 358.565 unità. In questi voti debbono essere ricercate una parte dell’incremento della Lega, la crescita dell’astensione e anche il piccolo incremento del PD che sicuramente aveva ceduto ai 5 stelle parte del proprio patrimonio accumulato nel 2014. PD: 2014, 916.571, 2018. 501.113, 2019. 524.078 (tra il 2014 e il 2019 una caduta di 392.493 voti). Valle d’Aosta Dal punto di vista della partecipazione al voto la Valle d’Aosta ha fatto registrare un forte decremento tra il 2018 e il 2019 e un dato sostanzialmente in linea tra 2014 e 2019. Totale voti validi: 2014, 46.426, 2018 66.370, 2019 49.844. Anche in questo caso il balzo in avanti della Lega appare di notevole portata: dai 3.17° voti del 2014 agli 11.588 del 2018 fino ai 18.525 voti del 2019. Il travaso a favore della Lega in questo caso, considerata la limitata flessione di Forza Italia (4755 nel 2014, 2.684 nel 2019) può essere ricercata nel voto sia di M5S, sia di PD. Il M5S aveva avuto nel 2014 9.096 voti per salire nel 2018 fino a 15.999 e scendere nel 2019 a 4.830 (più di 11.000 voti in meno). Ancor peggio il PD tra il 2014, 21.854 e il 2019 8.084 (con un intermedio nel 2018 di 14.429 voti). Si può dire che in Valle d’Aosta la Lega potrebbe aver pescato sia dal M5S sia dal PD. Liguria In Liguria flessione nei voti validi sia rispetto al 2014, erano stati 776.812 e al 2018, 860.592. Nel 2019 i voti validi in Liguria sono stati 742.915. Il successo della Lega molto vistoso se il riferimento è al 2014 appare meno eclatante se i voti si comparano tra il 2018 e il 2019. Si passa, infatti, da 43.211 a 171.352 per approdare a 251.696. Molto netta la flessione di Forza Italia: 2014 107.908 voti, saliti nel 2018 a 108.907 e calati bruscamente nel 2019 a 57.887 (circa 50.000 voti in meno). La flessione di Forza Italia, particolarità ligure,è accompagnata da una robusta crescita di Fratelli d’Italia: 22.905 nel 2014, 32.517 nel 2018, 42.118 nel 2019. Dopo il crollo registrato tra il 2014 e il 2018 il PD (perse Regione e i comuni capoluogo) con una discesa da 323.728 voti a 169.755, il PD ha sicuramente fatto registrare un  incremento tra il 2018 e il 2019 salendo a 185.260 voti. Caduta verticale per il M5S (una parte di questi voti sono sicuramente confluiti nella crescita del non voto): 2014 201.617, 2018 259.264, 2019 122.536. Tra il 2018 e il 2019 ceduti circa 137.000 voti. Lombardia Dal punto di vista della partecipazione al voto il totale dei suffragi validi appare in linea tra il 2014 e il 2019 con una flessione rilevante tra il 2018 e il 2019. 2014: 4.890.123; 2018 5.582.469; 2019 4.857.151 (quindi oltre 500.000 voti validi ceduti tra il 2018 e il 2019). In Lombardia la Lega compie un vero e proprio balzo in avanti affermando una sicura egemonia: si pensi che il secondo partito, il PD, risulta quasi doppiato. La Lega, infatti, nel 2019 totalizza 2.107.080 voti (2014: 714.835, 2018 1.180.909) mentre il PD si ferma a 1.120.933 voti (2014:1.971.915; 2018 1.180.909: dunque una flessione costante). Cede Forza Italia,dimezzando o quasi rispetto …