ALTRE NOVITA’ SUL FISCO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Tratto da Italia Oggi “Si accelera sulla mensilizzazione degli acconti per le partite Iva. Al momento la novità dovrebbe riguardare solo i soggetti  Isa (*) ma è possibile che, proiezioni e conti alla mano, si possa tentare di ampliare la platea anche ai dipendenti che hanno altri redditi e ai pensionati. «Sarà un fatto storico» festeggia Alberto Gusmeroli presidente della commissione attività produttive e artefice della misura, «per la prima volta in 50 anni le imposte non si pagheranno più in anticipo ma ad anno concluso e reddito guadagnato. Si sta, infatti, lavorando per abolire l’acconto già da novembre 2023» annuncia il responsabile fisco della lega, «a beneficio di milioni di attività economiche: artigiani, commercianti e liberi professionisti con l’ipotesi anche di dipendenti e pensionati con altri redditi». Si tratta di introdurre la norma della Lega a prima firma Gusmeroli, proposta il 5 agosto 2020, «direttamente nel decreto collegato fiscale alla manovra, per tutte le attività con un tetto di fatturato, probabilmente almeno sino a 500 mila euro di volume d’affari» anticipa Gusmeroli. Significherebbe per oltre 3 milioni di attività e svariate migliaia di contribuenti non pagare più nulla al 30 novembre 2023, rateizzandolo dunque da gennaio a giugno del 2024. «Stop a prestiti in banca per pagare l’acconto di novembre e a sanzioni e interessi per chi non ci riesce. Allo stesso modo, nessuno sarà più a credito del fisco. Si tratta di un provvedimento che genera più liquidità per i cittadini e nessun problema per i conti pubblici», conclude Gusmeroli .” (*) Isa ovvero sono gli esercenti  attività d’impresa o di lavoro autonomo che svolgono prevalentemente  attività per le quali risulta approvato un Indice Sintetico Affidabilità. Attualmente gli acconti relativi all’anno in corso sono pagati in due rate: la prima rata è pari al 40% del dichiarato per l’anno precedente  va versata entro il 30 giugno, la seconda è pari al restante 60% sempre del dichiarato per l’anno precedente  va versata entro il 30 novembre. Al 30 giugno dell’anno successivo sarà pagato il saldo derivante dalla dichiarazione dei redditi. Naturalmente se un contribuente ritiene di dover pagare meno di quanto pagato per l’anno precedente può ridurre i pagamenti essendo soggetto a penalità ed interessi nel caso in cui avesse stimato per difetto l’importo da pagare. ATTENZIONE! I lavoratori ed i pensionati quando ricevono la loro mensilità si vedono già trattenuto in busta paga o nel cedolino della pensione, l’imposta relativa al mese di riscossione, il datore di lavoro o l’INPS provvederanno inoltre a fine anno  ad effettuare il conguaglio delle imposte dovute oltre a quanto già trattenuto nel corso dell’anno. La regola proposta da Gusmeroli vale solo per artigiani, commercianti e liberi professionisti ed è ipotizzata anche per i redditi diversi da quello da lavoro dipendente e/o pensione guadagnato da lavoratori dipendenti o da pensionati. In sostanza nel 2025 i lavoratori dipendenti ed i pensionati pagheranno le imposte per il 2025 mese per mese a partire da gennaio 2025, mentre gli autonomi (quelli che pagano l’Irpef e quindi quelli con fatturato superiore a 85.000€ e fino a 500.000€) pagherebbero nei 2026 da gennaio a giugno dello stesso anno. In sintesi i lavoratori dipendenti e i pensionati pagherebbero le imposte un anno prima degli autonomi. Contrariamente a quanto afferma Gusmeroli :” Si tratta di un provvedimento che genera più liquidità per i cittadini e nessun problema per i conti pubblici” il provvedimento oltre a discriminare i redditi da lavoro dipendente e dei pensionati, inciderebbe sulla liquidità dei nostri conti pubblici generando maggiori interessi passivi per lo Stato. Ritengo che l’osservanza dell’art. 53 della Costituzione sia un terreno di lotta democratica contro l’attuale governo, lotta del popolo “che paga le tasse” e terreno comune per le opposizioni parlamentari. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RIFORMA IRPEF DA 4 A 3 SCAGLIONI

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Nel programma del governo Meloni è presente la riforma fiscale che, nel Nadef presentato all’inizio del mese di ottobre, viene attuato in una sola tra le misure previste ovvero quella che prevede la riduzione degli scaglioni IRPEF da quattro a tre. Anticipiamo allora, senza considerare eventuali revisioni delle detrazioni e simili, che effetto avrà tale modifica su ogni contribuente e al gettito fiscale totale. Vediamo allora come si modifica il vecchio modello a 4 scaglioni introducendo un nuovo modello a 3 scaglioni: MODELLO A 4 SCAGLIONI DA A SCAGLIONE ALIQUOTA 0 15.000 15.000 23% 15.001 28.000 13.000 25% 28.001 50.000 22.000 35% 50.001 oltre ind 43% MODELLO A 3 SCAGLIONI Paticamente i primi due scaglioni vengono unificati in un unico scaglione, gli altri due rimangono occupati. L’aliquota per lo scaglione da 15.000 a 28.000 passa dal 25 al 23% scende cioè di due punti, ma attenzione la riduzione non riguarda solo chi ha redditi tra 15 e 18.000 € ma TUTTI I CONTRIBUENTI con reddito superiore a 15.000€. Chi ad esempio ha un reddito di 100.000€ ripartisce il suo imponibile utilizzando il nuovo modello e usufruendo dei nuovi scaglioni. Confrontiamo ad esempio tre contribuenti: uno con un reddito di 7.500€, uno con un reddito di 25.000€ e infine uno con un reddito di 100.000€. Presentiamo allora i tre casi: Reddito da 7.500 € Sistema IRPEF a 4 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota Imposta 0 15.000 15.000 7.500 7.500 23,00% 1.725 15.000 28.000 13.000 -7.500 0 25,00% 0 28.000 50.000 22.000 -20.500 0 35,00% 0 50.000 up -42.500 -42.500 0 43,00% 0         7.500 23,00% 1.725 Sistema IRPEF a 3 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota Imposta 0 28.000 28.000 7.500 7.500 23,00% 1.725 28.000 50.000 22.000 -20.500 0 35,00% 0 50.000 up -42.500 -42.500 0 43,00% 0         7.500 23,00% 1.725 Reddito da 25.000 € Sistema IRPEF a 4 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota imposta 0 15.000 15.000 15.000 15.000 23,00% 3.450 15.000 28.000 13.000 10.000 10.000 25,00% 2.500 28.000 50.000 22.000 -3.000 0 35,00% 0 50.000 up -25.000 -25.000 0 43,00% 0         25.000 23,80% 5.950 Sistema IRPEF a 3 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota imposta 0 28.000 28.000 25.000 25.000 23,00% 5.750 28.000 50.000 22.000 -3.000 0 35,00% 0 50.000 up -25.000 -25.000 0 43,00% 0         25.000 23,00% 5.750 Reddito da 100.000 € Sistema IRPEF a 4 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota imposta 0 15.000 15.000 15.000 15.000 23,00% 3.450 15.000 28.000 13.000 13.000 13.000 25,00% 3.250 28.000 50.000 22.000 22.000 22.000 35,00% 7.700 50.000 up 50.000 50.000 50.000 43,00% 21.500         100.000 35,90% 35.900 Sistema IRPEF a 3 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota imposta 0 28.000 28.000 28.000 28.000 23,00% 6.440 28.000 50.000 22.000 22.000 22.000 35,00% 7.700 50.000 up 50.000 50.000 50.000 43,00% 21.500         100.000 35,64% 35.640 Rileviamo quindi che i redditi fino a 15.000€ non risparmiano nulla; i redditi da 15.001 a 28.000€ risparmiano da 1 a 260€, i redditi superiori a 28.000€ risparmiano 260€. Concludendo che la riforma fa non fa risparmiare nulla ai redditi bassi, fa risparmiare un importo fino a 260€ ai redditi fino a 28.000€ e fa risparmiare 260€ a tutti i contribuenti con reddito superiore a 28.000€. A favore quindi dei redditi medio-alti. E quanto costa all’erario questa operazione? La tabellina qui di seguito fa un semplice calcolo; moltiplica il numero dei contribuenti per il risparmio che ciascun contribuente registra, calcolando così di conseguenza la perdita di gettito. Da a numero versanti minor get MINOR GE 0 7.500 9.436.027 2.453.971 0 0 7.500 15.000 8.584.180 6.692.218 0 0 15.000 20.000 6.104.263 5.820.012 0 0 20.000 35.000 11.304.070 11.182.232 100 1.118.223.200 35.000 55.000 2.909.996 2.900.254 260 754.066.040 55.000 100.000 1.259.277 1.256.664 260 326.732.640 100.000 200.000 345.778 345.229 260 89.759.540 200.000 300.000 46.696 46.631 260 12.124.060 300.000 up 31.772 31.745 260 8.253.700     40.022.059 30.728.956   2.309.159.180 Per regalare un po’ di euro ai ceti medio-alti il gettito dello stato perde 2.3 miliardi di €, non è un granchè, ma in considerazione della coperta corta, farebbe comodo evitare questa perdita di gettito. Allora perché fare l’operazione “a parità di gettito” cioè senza rimetterci un euro? Basterebbe aumentare di qualche punto percentuale l’imposizione per i redditi superiori ai 50.000€, operazione certamente non rivoluzionaria, o forse, meglio, portando la flat tax dal 15 al 23% adeguando cioè la tassa piatta alla più bassa aliquota pagata da dipendenti e pensionali. Peraltro, a proposito di gettito perso a favore del proprio elettorato, voglio calcolare il costo dell’ampliamento della flat tax da 65.000 a 85.000€ recentissimo bonus elettorale del centrodestra. Prendiamo come media tra 65.000 e 85.000€ di fatturato l’importo di 70.000€. Applichiamo a questo importo di fatturato  il 72% come percentuale di utile applicabile al fatturato, e determiniamo l’imponibile in 50.000€. Su questo importo con l’applicazione dell’IRPEF  l’importo da pagare sarebbe stato di 14.400€ pari al 28.8%; applicando la flat tax al 15% l’importo da pagare scende a 7.500 con una perdita di gettito di ben 6.900€ per contribuente. Il numero di contribuenti interessati a questa modifica è di 100.000. La perdita di gettito è stata allora di 6.900*100.000= 690.000.000€ cui va aggiunta la perdita di gettito relativa alle addizionali regionali e comunali e la perdita di iva cui questi contribuenti non sono più soggetti. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

UNO STUDIO SULL’INFLAZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | GIà ho avuto modo di scrivere sull’inflazione su questo sito, comparando l’operato di Sanchez in Spagna, che ha ridotto l’inflazione al 2.1%, con i non-risultati del nostro governo che non riesce ad essere altrettanto efficiente. In quell’articolo elencavo una serie di provvedimenti messi in atto dalla Spagna mentre nel presente articolo voglio segnalare un articolo di Giacomo Cucignatto e Nadia Garbellini, apparso sul volumetto “L’INFLAZIONE” edizione Punto Rosso, che va alla ricerca delle cause che hanno innescato la crescita dei prezzi. Gli autori analizzano il sistema produttivo italiano simulando l’effetto che un aumento del 500% nel prezzo del gas può generare sull’insieme dei costi di produzione. Elaborata l’operazione si confronterà l’effetto dell’incremento dei costi con l’effettivo aumento dei prezzi sul mercato. Occorrono alcune precisazioni: ● Per ogni impresa occorre distinguere i costi di produzione in due branchie: costi direttamente sostenuti dall’impresa e costi sostenuti acquistando da altre imprese beni o servizi necessari al processo produttivo; ● In un successivo passo si procede a scindere i costi diretti in costi energetici e  costi non energetici. Di seguito la stessa scissione va fatta per i costi indiretti determinando quindi quanta energia è contenuta in ciò che acquistiamo esternamente; ● E’ ovvio che le varie imprese hanno contenuti energetici (diretti più indiretti) molto diversi come per esempio appare dalla seguente tabella pubblicata nell’articolo: Mix energetico Diretto Indiretto Totale Raffinazione petrolio 57,8 17,3 39,8 Estrazione minerali non energetici 12,6 10,5 11,5 Fornitura energia elettrica gas vapore 12,2 9,2 10,5 Estrazione minerali prodotti energetici 9,0 4,7 6,8 Attività metallurgiche 5,5 5,4 5,4 Attività servizi supporto estrazione 3,8 5,6 4,8 Prodotti chimici 3,4 8,6 3,5 Magazzinaggio e supporto trasporti 3,2 3,8 6,3 Istruzione 2,8 4,3 3,5 Sanità assistenza sociale 2,6 3,3 3,0 Amministrazione pubblica difesa 1,8 3,2 2,5 Servizi alloggio e ristorazione 1,7 2,9 2,3 Servizi postali e corriere 1,3 4,9 3,2 Attività artistiche 1,0 2,4 1,7                   ● I costi energetici sono rappresentati da fonti di energia diversa da paese e paese come appare dal seguente prospetto: Fonte energetica Europa Germania Francia Italia Rinnovabili 12 5 8 11 Petrolio 36 35 31 36 Carbone 11 15 2 4 Gas naturale 25 26 17 41 Energia idroelettrica 5 1 6 7 Nucleare 11 5 36 0             Da rilevare che solo il gas, per il quale noi abbiamo la più alta incidenza, è aumentato di prezzo anche prima, ma significativamente dopo l’invasione dell’Ucraina, per esempio la Francia con il grosso contributo del nucleare ha sofferto decisamente meno di noi. ● Poiché lo studio tende a calcolare l’aumento del 500% (confrontando le quotazioni del TTF (Title Transfer Facility) tra il 2018 e il 2022) dei costi di produzione causati dall’utilizzo di gas, occorre determinare settore per settore l’incidenza del consumo del gas sul totale consumi energetici. ● Tutte queste elaborazioni sono possibili utilizzando le tavole delle transazioni inter-industriali disaggregate per branche merceologiche e riportate secondo i codici Ateco. Queste tavole hanno anche una dimensione geografica potendo distinguere gli effetti al nord centro sud Italia e potendo determinare di produzione nostrana o importata. ● Aumentando quindi il costo del prezzo del gas del 500%, applicato al consumo di gas ponderato con il peso che ogni branca produttiva ha nell’ambito della produzione nazionale si ottiene di quanta inflazione è generata dai costi di questa componente esogena. ● L’inflazione può poi essere calcolata come effetto sul PIL, oppure calcolato prendendo in considerazione i soli consumi finali delle famiglie. ● Tali indici vanno comparati con il tasso di inflazione calcolato per l’intera collettività nazionale NIC, oppure per le famiglie di operai e impiegati FOI. Dati calcolati dall’ISTAT per il periodo 2018/2022. ● Considerando che i salari, ovvero il costo del lavoro non ha subito aumenti a causa di questa inflazione anche perché l’adeguamento dei minimi salariali quando effettuato terrebbe conto solo dell’inflazione diversa da quella causata dai costi di energia importata, possiamo considerare la differenza tra aumento dei costi e aumento dei prezzi come inflazione dovuta all’aumento dei profitti. Vediamo la tabella Indice inflazione Da costi Da prezzi Differenza Paniere del PIL 3,54 10,70 7,16 Paniere consumi finali delle famiglie 3,51 10,20 6,69 Conclusioni I dati rilevati sono calcolati su tabelle globali non differenziano quindi tra piccole, medie e grandi imprese, potendo quindi dedurre che l’incidenza sulle grandi imprese sia inferiore a quella sulle piccole. Poiché la composizione delle imprese può essere computata come segue: Dimensione imprese         numero dipendenti da 0 a 9 da 10 a 49 da 50 a 249 oltre 250   95,0% 4,0% 0,5% 0,1% Il superamento del nanismo aziendale potrebbe essere uno delle cause dell’inflazione da combattere. Resta comunque da concludere che (riporto dall’articolo citato):” La risposta alla domanda posta all’inizio di questo capitolo sembra chiara: l’aumento dei costi di produzione non sembra sufficiente a spiegare l’andamento dell’inflazione negli ultimi mesi. E’ dunque legittimo concludere che si  sia trattato piuttosto di inflazione da profitti dal momento in cui si è iniziato a parlare di aumenti del prezzo del gas e di inflazione le persone hanno iniziato ad attendersi rincari generalizzati.” SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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L’ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Non sono un costituzionalista, ma sento una forte pulsione a rivedere, dopo 75 anni, come i principi della Costituzione si sono evoluti (o devoluti) nella vita pratica dal momento della nascita ai tempi odierni.                Riporto l’articolo 1 nel suo immutato testo originario:                L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.                La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Di questo articolo due sono gli elementi che attraggono le mie riflessioni: “fondata sul lavoro” e “la sovranità appartiene al popolo”. La formula “fondata sul lavoro” fu il risultato di una discussione innescata dalla proposta dei gruppi comunista e socialista che recitava “L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori” che secondo molti costituenti presentava un inadeguato significato classista. Interpretazione classista inteso poi in maniera molto limitante del concetto di lavoratore. L’on. Fanfani infatti precisò che quel termine significava “niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico (…)”. Questa preoccupazione che il lavoratore fosse solo quello manuale appare anche nella relazione di Ruini, quando la proposta social comunista fu sostituita dalla versione finale “fondata sul lavoro”. Ebbene Ruini precisò “Lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana”. Più fondata, a mio parere, è quanto precisato dal proponente Fanfani, e cioè che “Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui”. Il contenuto economico della formulazione “fondata sul lavoro” esclude cioè che la vita economica della Repubblica possa basarsi sulla rendita, sulla speculazione o sullo sfruttamento riconoscendo cioè “al mondo del lavoro” il protagonismo economico del Paese; principio che viene riaffermato, questa volta rivolto ai cittadini italiani, dopo aver sancito il diritto al lavoro, quando nel secondo comma dell’art. 5 recita:                “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”. L’evoluzione (o devoluzione) del capitalismo da produttivo a finanziario ha nella prassi modificato il motore economico del Paese che rimane pur sempre il secondo paese produttivo dell’Unione Europea, ma dove la rendita, la speculazione hanno assunto dimensioni crescenti pur non essendo produttive ma soltanto ricollocatrici della ricchezza, contribuendo ad esasperare le disuguaglianze. Di fronte a questa trasformazione del capitalismo il sistema italiano, invece di seguire il dettato costituzionale, ha reagito sul piano fiscale favorendo rendita e speculazione invece di tutelare i redditi da lavoro. Sicuramente interessi sulle obbligazioni, locazioni di fabbricati sono rendite che non sono generate dal lavoro e, tuttavia, godono di una flat tax inferiore all’imposizione di chi ha un lavoro dipendente. Anzi il lavoro dipendente ed i pensionati (e gli autonomi con fatturato, per ora, superiore a 85.000€) sono gli unici assoggettati, come da art. 53 della Costituzione, ad imposizione progressiva, e contribuiscono per la gran parte al gettito fiscale nazionale. La contraddizione del sistema si rivela, come recentemente è successo, che per tassare gli extraprofitti derivanti dalla speculazione sul gas o sull’incremento del tasso di interesse, due governi (quello Draghi e quello Meloni) sono costretti ad inventarsi una super imposta, ma l’imperizia legislativa e la debolezza dell’esecutivo stanno portando alla nullificazione dei provvedimenti. Il risultato ricercato sarebbe stato naturalmente raggiunto con una imposta progressiva costituzionalmente ineccepibile. Ecco le conseguenze di una imposizione flat. Passiamo ora all’argomento “sovranità” Il testo costituzionale prevede il verbo “appartiene” che è la scelta, operata dai costituenti, tra gli altri termini proposti quali “emana”, “risiede”, “è del”, “spetta”, termine che è poi precisato come esercitabile nelle forme e nei limiti della Costituzione. La Costituzione prevede che l’esercizio della sovranità avviene in maniera diretta ed indiretta; ovvero indiretta attraverso i suoi rappresentanti (la Camera ed il Senato) e diretta tramite due strumenti le elezioni e il referendum. Per quanto riguarda lo strumento diretto della elezione dei deputati e senatori, le leggi elettorali, non rispecchiano più, come ci insegna il compagno Besostri, la libera scelta dell’elettore. In questo senso, la cessione di sovranità dal popolo al suo rappresentante conosce limiti sostanziali nel meccanismo di conferimento del potere di rappresentanza. A questa cessione segue poi un’altra cessione da parte delle camere a favore del governo che sempre più aggiunge al suo potere esecutivo quello legislativo tramite una consolidata prassi di legislazione per decreto. Il Parlamento è sempre più demansionato a ratificare i decreti governativi, rinunciando di fatto al suo potere legislativo. Un procedimento anomalo, denunciato dal presidente Napolitano in occasione del suo secondo mandato, che vanifica la sovranità del popolo, che reagisce astenendosi in modo sempre pesante dalle elezioni. Ma il popolo elegge anche il Parlamento europeo, un organismo che è comunque sovrastato nella gestione da una commissione europea composta dai governi dei paesi membri. Anche in tal caso la sovranità è stata ceduta a entità diverse dal popolo, vanificando il principio originario dettato dalla Costituzione. C’è stato però un periodo in cui la “partecipazione” aveva creato organismi che, nei vari campi, investivano i cittadini di una responsabilità nella gestione del pubblico creando una rete di vero esercizio della sovranità da parte del popolo. Forse è guardando a queste forme che potremo ridare al dettato costituzionale una concretezza ed una autenticità che tale dettato ha, in questi anni, perso. Pensiamo poi alla “sovranità limitata”, che registriamo per il nostro Paese, nell’ambito internazionale dove dobbiamo constatare una evidente e duratura subordinazione ad una egemonia statunitense nel dominante atlantismo, subordinazione che condividiamo con tutti gli altri paesi dell’Unione Europea e che suggerisco di approfondire nel libro “Sovranità limitata” di Luciano Canfora edizioni Laterza. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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L’INFLAZIONE IN ITALIA E IN SPAGNA

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Rielaborazione di un articolo di Carsten Ju apparso sul Guardian Il governo italiano non ha ancora vinto la lotta contro l’inflazione, il Paese non è ancora fuori pericolo, come dimostra l’ennesimo rialzo dei tassi di interesse (ora al 4,50 per cento) adottato nei giorni scorsi dalla BCE e l’abbassamento delle previsioni di crescita secondo le stime della UE. In Spagna, invece, l’inflazione è già arrivata all’obiettivo del 2 per cento. A cosa è dovuta questa differenza tra Roma e Madrid? La risposta si chiama politica economica: il governo iberico ha intrapreso un’azione più rapida e concertata rispetto all’esecutivo italiano. La Spagna ha limitato i prezzi dell’energia, ha abbassato il costo del trasporto pubblico, ha tassato gli extraprofitti delle imprese e ha posto un limite all’aumento degli affitti. Ciò ha impedito all’inflazione di produrre metastasi in tutta l’economia domestica. In pratica, è stata usata la politica fiscale per ridurre i prezzi. Un esempio è offerto dall’introduzione del tetto ai prezzi dei beni energetici che dovrebbe restare in Spagna fino al 2024. In Italia sappiamo tutti cosa è successo con le accise e del successo che ha avuto il provvedimento che obbliga i distributori ad esporre il prezzo medio regionale. La politica fiscale sembra essere l’arma corretta visto che quello a cui stiamo assistendo, anche in Italia, è una sorta di gioco dei pacchi, anzi del pacco. Non nel senso del pacco regalo, ma di quello che ad esempio in gergo romanesco è definito ‘una sola’. In sostanza, l’inflazione è principalmente dovuta al tentativo di trasferire costi più elevati ad altri. Il problema è che spesso ciò sta avvenendo anche in assenza di un aumento dei costi. Con il risultato che alcune imprese stanno vedendo schizzare in alto i loro profitti. La BCE è l’unica ad intervenire ma i suoi limiti stanno nel fatto che essa può operare e sa operare solo tramite il tasso di interesse. Dovrebbe pertanto evitare ulteriori rialzi dei tassi e considerare semmai la possibilità di ridurli a breve. L’Europa, guardando all’esperienza iberica che, dopotutto, dimostra come l’inflazione possa scendere senza che l’economia vada in tilt potrebbe coordinare una serie di azioni concordi per i suoi membri, visto che i governi locali presentano difficoltà. E le misure dovrebbero partire dalla volontà di combattere la divisione tra chi sfrutta l’inflazione e chi ne subisce i costi. Se infatti i costi dell’inflazione fossero equamente ripartiti, anche le imprese e i proprietari di immobili sarebbero chiamati ad assorbirebbe parte dei costi, e si eviterebbe quantomeno di far ricadere sui lavoratori buona parte dell’aumento dei prezzi al consumo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CONSIDERAZIONI SUL SUPERBONUS

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Un documento di ricerca della Fondazione Nazionale dei Commercialisti Il governo sta usando strumentalmente gli effetti economici del superbonus per giustificarsi per una finanziaria che sarà cauta e non risponderà, se non per qualche piccolo risultato, alle grandi promesse fatte in campagna elettorale; ormai è la second legge di bilancio e, con le prospettive economiche dei prossimi anni, è difficile immaginare che le prossime legislature possano rispettare le promesse elettorali fatte. Giorgetti a proposito del superbonus ha parlato di “mal di pancia”, forse però il male maggiore di cui soffre è l’amnesia per il ruolo ricoperto come ministro nei governi che hanno gestito il provvedimento messo sotto accusa. Ma vediamo alcune conclusioni tratte dai commercialisti nella loro ricerca: Sulla base di tali dati, il modello CNDCEC-FNC stima una spesa indotta dal Superbonus 110% per gli anni 2021 e 2022, cioè investimenti aggiuntivi nel settore costruzioni e, per il sistema delle interconnessioni settoriali, in tutti gli altri settori dell’economia, pari a 96 miliardi di euro. A tale spesa indotta corrisponde un costo lordo per lo Stato, rappresentato dalle detrazioni fiscali maturate in aggiunta a quelle ordinarie, pari a poco più di 97 miliardi di euro. Di conseguenza, anche se in un orizzonte temporale più ampio corrispondente a circa un quinquennio, si stima un incremento di Pil di quasi 91 miliardi di euro e di gettito fiscale di circa 37 miliardi di euro. Pertanto, a regime, il costo netto per lo Stato del Superbonus 110% è stimato pari a 60 miliardi di euro e, quindi, nettamente inferiore all’incremento del Pil. Quindi lo Stato sostiene un costo lordo di circa 97 miliardi che fanno aumentare il PIL di 91 miliardi e un gettito fiscale di circa 37 miliardi riducendo il costo netto per lo Stato a 60 miliardi. Il documento conclude che   “il costo netto per lo Stato del Superbonus 110% è stimato pari a 60 miliardi di euro e, quindi, nettamente inferiore all’incremento del Pil.” A mio avviso dire che il costo netto è inferiore all’incremento del PIL è una conclusione deviante, nel senso che fa apparire un effetto positivo che non esiste, effetto positivo poi esaltato dal documento, quando aggiunge che: “se si considera adeguatamente l’effetto di retroazione fiscale, l’impatto del Superbonus 110% sulle finanze pubbliche è addirittura positivo, nel senso che l’incremento di Pil generato comunque a debito, cioè facendo deficit, sarebbe superiore all’impatto sul debito, migliorando, in termini percentuali, il rapporto debito/pil”. Ora in questa affermazione c’è una ipocrisia profonda che ignora che il miglioramento nel rapporto debito/pil non dipende dalla positività del provvedimento ma dalla situazione di partenza del rapporto stesso: ovvero il saggio migliora o peggiora non per la virtuosità del provvedimento ma dallo stato del rapporto debito/pil. Si pensi a tre situazioni: a) il saggio debito /pil sta al 145%, ovvero 2755 di debito e 1900 di pil, b) rapporto debito/pil 100%, ovvero1900 di debito e 1900 di pil, c) rapporto debito/pil 50%, ovvero 950 di debito e 1900 di pil. Si faccia un provvedimento che comporta un aumento del debito di 100 e un aumento del pil di 100; avremo allor, nel primo caso un debito di 2855 e un pil di 2000 pari quindi ad un rapporto del142%; nel secondo caso un debito di 2000 ed un pil di 2000con un invariato rapporto pari al 100%; nel terzo caso avremo infine un debito di 1050 ed un pil di 2000 con un rapporto debito/pil pari a 52%. Il saggio debito pil è migliorato chi aveva la situazione più pesante, non è mutato per chi aveva un rapporto pari al 100% ed è peggiorato per chi aveva il rapporto più virtuoso. La riduzione del tasso debito/pil nel nostro caso non dipende dalla virtuosità del provvedimento ma dal fatto che il nostro paese ha un alto rapporto debito/pil. Le conclusioni del documento sono poi contestabili se si considera, come altri studi hanno fatto, un elemento concreto anche se di più problematica determinazione; si tratta cioè di scindere l’effetto del provvedimento determinando una discriminazione tra l’incremento degli investimenti che si sarebbero effettuati senza bonus da quelli che sono invece frutto effettivo del bonus: l’effetto positivo dell’incremento del pil andrebbe allora calcolato solo sugli investimenti che sono frutto effettivo del bonus; le conclusioni sarebbero allora di diverso tenore. Il documento riporta inoltre gli effetti positivi sull’occupazione; si legge  “ I dati Istat sul mercato del lavoro mostrano, nel triennio 2020-2022, sempre in termini cumulati, un incremento di occupazione di 353 mila unità nel settore delle costruzioni rispetto al calo generale di un milione e 289 mila occupati”. E’ di una incredibile banalità riscontrare che quando lo Stato regala alle famiglie 97 miliardi di euro perché esse ristrutturino casa avendo un rimborso pari al 110% della spesa effettiva, ciò rilanci l’edilizia e quindi l’occupazione. Ci troviamo di fronte ad un fraintendimento del keynesismo, alla famosa affermazione della positività del pagare operai perché scavino e quindi ripristino una buca; Keynes con questa provocazione, affermava che, in presenza di non piena occupazione dei fattori della produzione, un incentivo statale metteva in moto la domanda aggregata e quindi scattava un moltiplicatore che, nel tempo, faceva mettere in moto più attività produttiva, più domanda, più investimenti, più occupazione fino all’auspicabile raggiungimento del pieno utilizzo dei fattori della produzione. Il documento conclude con le seguenti considerazioni: Considerando che gli effetti induttivi degli investimenti in edilizia della spesa agevolata dal Superbonus 110% hanno una valenza intersettoriale, oltre che intertemporale, tale per cui, oltre all’effetto diretto nel settore costruzioni, si genera anche un effetto indiretto negli altri settori dell’economia in base alle relazioni input-output, i dati Istat appena richiamati mostrano l’elevata capacità delle spese agevolate in edilizia di produrre effetti positivi sul Pil, sull’occupazione e sul bilancio pubblico. Pertanto, sebbene non si possa dire che le agevolazioni in edilizia si ripaghino totalmente, si può certamente asserire che tali agevolazioni hanno una elevata capacità di attivazione economica e fiscale con importanti ricadute in termini ambientali e occupazionali …

L’INTERVISTA DI MARIO DRAGHI

di Renato Costanza Gatti – Socialismo XXI Lazio | «Le strategie che nel passato hanno assicurato la prosperità e la sicurezza dell’Europa, affidandosi all’America per la sicurezza, alla Cina per l’export e alla Russia per l’energia, sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili» L’intervista di Mario Draghi ha decisamente un valore politico dagli ampi orizzonti, cosa della quale non siamo abituati, che si contrappone ad un clima politico europeo, e nazionale, dominato da uno sterile pragmatismo di breve respiro. In un mondo che si sta polarizzando in aggregazioni di dimensioni continentali e in cui gli attriti commerciali ma soprattutto militari rischiano di ritrovare una attualità che si sperava cancellata, pare evidente che le strategie del passato dimostrano la loro insufficienza e richiedono l’elaborazione di nuove strategie, cosa di cui i politici europei attuali non paiono all’altezza. Mi ha colpito il seguente passaggio che fa riferimento agli investimenti necessari per affrontare le nuove tematiche di portata strategica: «l’Europa non dispone di una strategia federale per finanziarli, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia di bilancio e aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente». Sembra di leggere, nelle parole di Draghi, la posizione di Mariana Mazzucato sostenitrice dell’”entreprenurial state” che cessa di essere estraneo alla guida della strategia dei paesi, tutore del libero mercato e della concorrenza, garante delle regole e interventista solo nel momento in cui si determinano i fallimenti del mercato. Questa visione lascia il posto ad uno stato che si fa protagonista nell’investire in progetti generalmente di lunga prospettiva bisognosa di capitali pazienti e di una propensione al rischio assente nell’imprenditoria privata. Peraltro gli sviluppi tecnologici, perno della modernizzazione del modo produttivo, richiedono investimenti in ricerca di base e applicata che le imprese non possono (e quelle che potrebbero preferiscono delegare allo stato per appropriarsene poi al momento dell’impiego commerciale) sostenere. Ebbene con quelle parole che ho sopra ricordate, Draghi riconosce l’impossibilità per i singoli stati di programmare simili investimenti, e l’assenza della UE di una strategia che imbocchi una strada che affronti questi temi. “Quindi c’è il «ser rischio» che l’Europa non raggiunga i suoi «obiettivi climatici, non riesca a garantire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini e perda la sua base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli”. C’è il serio rischio che, sia per la mancanza di quelle terre rare fondamentali per le nuove tecnologie (ricordo l’accerchiamento evocato da Aldo Potenza in un suo recente post), sia per la dimensione dei finanziamenti della ricerca, sia per il ritardo nei computer quantistici, nell’intelligenza artificiale, l’unione europea “perda la sua base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli”. Pare chiaro il messaggio: o l’Europa cambia marcia (e con il NGUE ha iniziato e sarebbe folle tornare al miopismo passato) o rischia di scomparire assorbita dal gorgo di un mondo polarizzato. Draghi, nel corso della sua intervista, indica tre fattori primari e li associa a tre aggettivi meticolosamente scelti: ► l’insufficienza di un sistema di sicurezza affidata agli USA; ► l’incertezza dei rapporti commerciali con la Cina; ► l’inaccettabilità dell’uso del gas russo. Il primo punto comporta la necessità di pensare ad un esercito unico europeo con una politica estera unitaria e non delegata a 27 paesi; è un obiettivo finale che da sempre era il logico sbocco del progetto europeo; il più difficile da raggiungere per i più o meno evidenti sovranismi dei singoli stati, ma che la situazione odierna rende di pressante urgenza. Chiaramente questo passaggio comporterà una revisione del nostro stare all’interno della NATO (e penso in particolare alle pressioni che ci potranno essere imposte per la situazione di Taiwan); ma, in particolare, una nuova soggettività comporterà maggior assunzioni di responsabilità, quali ricercatori di sbocchi di pace, nella questione ucraina. (Penso sempre all’art. 11 della nostra Costituzione che nel perentorio ripudio della guerra, indica come unica strada la ricerca di azioni pacificatorie). Il secondo punto pone un problema di sostanziale portata; perché dovremmo giudicare i nostri rapporti commerciali con la Cina con un metro diverso da quello dell’interesse? In sintesi perché dovremmo rivedere i nostri rapporti commerciali con la Cina sol perché quel paese ha una posizione politica diversa dalla nostra; perché è la maggior concorrente degli USA (ma ha con quel paese un enorme flusso commerciale). Da quando è nata quella repubblica, salvo marginali conflitti locali, non ha mai fatto una guerra, ha fatto uscire dalla fame un miliardo di persone, ed in questo momento diventa strategica per le materie prime fondamentali per l’innovazione. Certo dovremo evitare di costruire una dipendenza paralizzante nelle importazioni da quel paese, ma commerciando con quel paese potremmo evitare di crearci una dipendenza paralizzante da un’altra parte. La decisione del nostro governo di cancellare la prospettiva di una via della seta mi pare succube di un malinteso atlantismo. Il terzo punto riguarda l’inaccettabilità della nostra dipendenza dall’energia russa. Da un punto di vista storico, quando negli anni 70 subimmo i contraccolpi della nostra dipendenza dal petrolio, la prima repubblica seppe impostare un programma che prevedeva fino a 60 centrali nucleari che ci avrebbero resi autonomi in campo energetico. La fine referendaria dell’avventura dele centrali nucleari, non è stata capace di impostare una programmazione atta ad evitare la dipendenza estera del nostro fabbisogno energetico. L’economia tedesca ha goduto, come fattore determinante, del sistema energetico russo al punto di renderlo quasi esclusivo con la costruzione di non uno, ma ben due Nord Streams. Il colpo più grosso all’economia tedesca e a cascata alla nostra economia, è stata l’interruzione della fornitura di gas russo non solo per decisione politica, ma addirittura con la distruzione dei due gasdotti simbolo di un rapporto economico di rilevantissimo valore. Mi auguro che l’inaccettabilità non sia elaborata con un risentimento irragionevole e sordo, visto che il secondo cliente dei prodotti petroliferi russi riciclati da paesi non allineati sono gli USA. Una inaccettabilità quindi non di sostanza ma di ipocrita forma.  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di …

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE, RIFLESSIONI DI MASSIMO CACCIARI

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | In due recenti interventi televisivi, il primo a proposito del salario minimo ed il secondo a proposito dell’IA, il filosofo Massimo Cacciari ha affrontato un tema di rilevanza storica per il futuro dell’umanità. Nella prima intervista Cacciari riteneva che l’argomento del salario minimo sia un piccolo obiettivo di carattere difensivo che, al momento, ha il solo pregio di costituire un campo comune delle opposizioni (qualcosa di simile ho scritto nel mio pezzo, apparso su questo sito, nel quale affermavo di non essere convinto della questione dei 9 euro). Nella seconda intervista, il filosofo, poneva due questioni importanti: di fronte all’IA che rischia di poter cancellare in un futuro non lontano dai 4 agli 8 milioni di posti di lavoro:  a) non si pensi in alcun modo di porre freni o limiti allo sviluppo della scienza che è il cammino dell’uomo, la sua missione e la sua ragione di essere;  b) si pensi piuttosto alla funzione della politica, quella con quattro P maiuscole, che di fronte ad un prodotto della scienza che rende obsoleto e antieconomico il lavoro comandato, e che se da una parte rischia di dividere l’umanità in due razze: quella tecnologica e quella esclusa dalla tecnologia destinata ad essere ridotta ad una specie di nuova plebe, dall’altra potrebbe trasformare umanità eliminando la schiavitù di enormi masse di popolazione costretta a vendere il suo lavoro, gran parte della sua vita, per poter sopravvivere. La tematica proposta dal filosofo Cacciari ci pone veramente di fronte a scelte politiche di enorme portata, ad una di quelle scelte che segnano il futuro dell’umanità e per le quali varrebbe la pena di dedicare tutte le forze per un progresso autentico dell’umanità. Quello che mi perplime tuttavia in questo ragionamento è il fatto che questa tematica è già contenuta nel programma steso da Socialismo XXI a Rimini nel 2019, ragionamento che non è stato sviluppato né approfondito eppure esso era, ritengo, ben argomentato. Riporto una parte del capitolo “economia e lavoro” di quel programma: Economia 4.0 e Lavoro I processi di automazione e robotizzazione dell’economia ci pongono di fronte ad un capitalismo che si appropria  del knowledge oggi risiedente nelle nozioni che stanno dietro ai processi di robotizzazione, automazione, intelligenza artificiale. Una forza Socialista nel XXI secolo deve prevedere una socializzazione dei frutti di questi processi di automazione e robotizzazione, poiché è il pubblico tramite la nostra scuola, la nostra università, il nostro sistema di ricerca a permettere che si possa sviluppare in pieno una simile evoluzione nel nostro sistema di produzione.  Occorre prevedere modelli che incentivino questa socializzazione dei frutti della produzione tramite un moderno piano Meidner per il lavoro. Allo stesso tempo, dobbiamo costruire una forza politica capace di essere strumento non di mera rappresentanza, costruendo un nuovo patto tra coloro che producono ricchezza tramite nell’economia reale, contrapponendolo al patto tra rendita e finanza. Riflessione sulla robotica Dal mezzo di lavoro all’automazione L’introduzione in atto ormai da 40 anni dei mezzi di produzione automatizzati ha mutato profondamente il “modo di produzione” riducendo il tempo di lavoro necessario per la produzione dei beni e servizi, in cui il ruolo dei lavoratori è quello di supervisore e controllore dell’operato delle macchine stesse. In questa fase assistiamo ad una grande contraddizione: il prodotto del cervello sociale, ovvero il risultato dell’azione delle forze produttive organizzate, viene utilizzato per ridurre i tempi di lavoro necessario. Oggi il meccanismo è a grandi linee il seguente: la collettività, tramite fiscalità, finanzia il sapere generale, che a sua volta crea nuove tecnologie che vengono utilizzate per ridurre il tempo necessario per la produzione. Ma la riduzione del tempo necessario per la produzione significa meno posti di lavoro, più disoccupazione: in sintesi la collettività finanzia la riduzione dei posti di lavoro, cui pure ad essi ambirebbe. Qui si misura la capacità dei governanti di predisporre un sistema economico, produttivo e sociale consono alle nuove esigenze. Nel concreto oggi la mancata corrispondenza delle competenze dell’aspirante lavoratore ed i bisogni del datore di lavoro è una contraddizione che l’attuale politica è incapace di affrontare. E ciò nel tempo in cui la tecnologia 5G, alla base dell’invasione delle applicazioni IOT (internet of things), è acuita dalla lotta concorrenziale tra Stati Uniti e Cina per l’egemonia economica nel XXI secolo, con il restante mondo che arranca per stare alla pari e non essere colonizzato dalla scienza altrui. Una economia completamente robotizzata Può sembrare una curiosità da fantascienza, quella di immaginarsi una economia completamente robotizzata, in cui tutto è prodotto (anche meglio) nelle quantità (anche maggiori) oggi prodotte, senza l’intervento del lavoro (immediato) umano, nemmeno di quello digitalizzato e professionalizzato in quanto le macchine sono in grado di riprodurre macchine ancor più intelligenti. Di fronte ad un simile nuovo modo di produzione sorgono spontanee alcune domande: ► siamo ancora in presenza di un modo di produzione industriale? ► quale modello redistributivo può essere coerente con questo nuovo modo di produzione? Nel nuovo modo di produzione, i possessori dei mezzi di produzione non potranno ignorare a lungo che esiste una massa di ESCLUSI dall’innovazione, che, espulsi dal mondo del lavoro immediato ed in mancanza di un reddito purchessia, costituiranno una massa i cui bisogni di sopravvivenza dovranno in qualche modo essere soddisfatti, al fine di non ingenerare processi irrisolvibili se non mediante guerre. Ecco che allora nasce la necessità di redistribuire il prodotto del processo produttivo in modo adeguato a non mettere in crisi il modo di produzione stesso. Una soluzione socialista Ci troviamo, come abbiamo visto, di fronte ad una prospettiva preoccupante cui i socialisti sono chiamati a dare una risposta per evitare il pericolo di un neo-schiavismo; una volta ancora ci troviamo di fronte all’alternativa: socialismo o barbarie. Il percorso da intraprendere sin da ora, da subito è quello della socializzazione dei frutti della produttività. Ribadiamo che occorre partire da subito perché in caso contrario il processo di totale appropriazione del sapere sociale da parte del nuovo modello capitalistico ci porrà di fronte al fatto …

DECOUPLING

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Questa nuova parola indica un fatto che ha cominciato a presentarsi negli anni ’70 e che consiste nello scostamento tra due indici la cui coincidenza costituisce una “golden rule” nell’economia contemporanea. Mi riferisco a quella regola che vorrebbe che il tasso di incremento dei salari corrispondesse al tasso di incremento della produttività del lavoro. Osservando tale legge si può registrare un aumento del reddito del lavoro senza che si registrino temuti effetti sul profitto, ma, soprattutto, si registra un aumento nei consumi, generato dall’aumento della massa salariale, senza effetti inflattivi, di modo che l’aumento salariale sia non solo nominale bensì reale. Ma al di là dell’effetto salariale, l’incremento della produttività costituisce elemento fondamentale per la competitività del sistema economico in sede europea e mondiale. Si tratta quindi di una regola insita nella logica economica capitalista, senza componenti sociali o men che meno socialisti, il cui mancato rispetto si traduce in un danno per l’economia globale minando il meccanismo che sta alla base della crescita. Non aumentare i salari nella stessa misura dell’incremento della produttività del lavoro comporta una difficoltà nel trovare uno sbocco alla maggior produzione dei beni, effetto della incrementata produttività, che non sia una ricerca mercantile sui mercati esteri o, peggio, un mantenimento degli stessi volumi di produzione comportante una diminuzione dell’occupazione. Inoltre il decoupling comporta un effetto nella distribuzione del reddito a favore del capitale peggiorando gli indici di disuguaglianza che, come stiamo assistendo, fanno registrare un progressivo peggioramento dell’indice Gini. Quantitativamente il fenomeno nelle economie mature dell’OECD dopo gli anni ’70 fa registrare in media, al di là del ciclo, che solo il 50% dell’incrementata produttività si traduce in aumento dei salari e tale scostamento si è incrementato nelle ultime due decadi. Le teorie economico-sociali che cercano di interpretare questo fenomeno si possono concentrare in tre filoni: ● quello del mutamento tecnico che svaluta i lavori poco qualificati senza avere effetti compensativi sui lavori più specialistici. Tale tesi pare essere empiricamente inconsistente osservando che le variazioni nella diffusione degli strumenti ICT non sono correlati con i mutamenti nella distribuzione dei redditi; praticamente si tenderebbe a insinuare che la produttività del lavoro è generata dall’innovazione tecnologica figlia, più che del lavoro, del capitale. ● quello del mutamento di orientamento nella politica economica; questo filone fa registrare una sua consistenza in alcune dimensioni macroeconomiche, rappresentate da numerose variabili. Il clima politico maturatosi storicamente dopo il crollo del muro di Berlino e dopo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, ha riscontri nei rapporti di forza delle parti sociali. ● quello che considera il gap salari-produttività la variabile dipendente da una serie di variabili selezionate stimando i coefficienti dipendenti dallo Stato.   I risultati di queste analisi empiriche indicano che la debolezza ed il deperimento delle istituzioni pro-lavoro paiono aver giocato un ruolo più rilevante: tutte le variabili prese in considerazione indicano nell’aumento della disoccupazione e nel declino dei sindacati le cause del maggior impatto sul decoupling produttività-salari. Il processo dell’incremento della globalizzazione commerciale e finanziaria ha pure contribuito sul declino del salario medio, mentre non pare avere un significativo effetto l’aumentato livello di dividendi distribuiti né l’incrementata finaziarizzazione del mercato dei capitali. Nel nostro paese poi, il nanismo della struttura produttiva comporta che la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti è esclusa dalla contrattazione sindacale di secondo livello che, secondo il protocollo Ciampi, coniuga gli aumenti del salario agli aumenti della produttività. Nulla da stupirsi se il nostro paese, con una produttività che negli ultimi trent’anni si è migliorata ad un tasso ben al di sotto di quello fatto registrare nei paesi più a noi vicini (Francia e Germania) e dove l’amento della produttività si riflette al 50% sugli aumenti salariali dobbiamo registrare l’ormai famoso declino del livello dei salari reali. La recente esplosione dell’inflazione esogena, collegata ad una conseguente inflazione da profitti non ha di certo migliorato la situazione, tenendo conto che la contrattazione collettiva di primo livello, incide nella determinazione dei minimi sindacali in funzione dell’inflazione da cui però siano espunti gli effetti inflattivi generati dall’incremento dei costi dell’energia. E’ su questa contraddizione, ovvero su questo non rispetto di una golden rule capitalista che dovremmo basare la nostra lotta politica, cogliendo l’occasione di questo ossimoro comportamentale per combattere e sconfiggere la concezione egemone oggi predominante.   Le considerazioni fatte sul decoupling, hanno sì una rilevanza di tipo sindacale e retributivo, inquadrando il fenomeno come “il nuovo sfruttamento”, ma rimandano ad un concetto più generale che consiste certamente nel pluslavoro fornito dalla forza-lavoro in eccesso al lavoro necessario al compenso effettivo, ma, come ci ricorda Marx nella critica al programma di Gotha, lo sfruttamento consiste soprattutto nell’escludere la classe subalterna dalle decisioni di impiego del surplus prodotto dall’economia. E l’esclusione della classe subalterna dalla scelta dell’impiego del surplus, ci porta ad un livello più alto, ovvero alla scelta berlingueriana sul “cosa e come produrre” che rimanda all’incipit del Capitale all’alternatività tra “valori d’uso e valori di scambio”.  In termini semplicistici il tema si può sintetizzare nell’alternativa: il sistema produttivo deve produrre beni che producono il massimo profitto (valori di scambio) o i beni che servono maggiormente per soddisfare i bisogni o, meglio, i beni che, in prospettiva sono i più indicati per sostenere lo sviluppo economico (valori d’uso). Mentre la prima scelta è sostenuta dalla logica capitalista che, per sua natura, dovrebbe beneficiare tutti nella ricerca del profitto, la seconda scelta, quella che antepone la produzione di valori d’uso, presuppone che a scegliere “cosa e come produrre” sia la razionalità, ovvero quell’entità superiore che la rivoluzione francese sostituì alle divinità religiose con la “dea ragione”, una divinità tutta umana che umanizza il soprannaturale inglobandola nella naturalità della ragione umana. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL FUTURO PRODUTTIVO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | La faccenda Intel offre molti punti di riflessione sul come si coniuga oggi lo sviluppo economico, il caso INTEL, come sta reagendo l’UE, come si muove il governo italiano, come reagiscono le forze politiche. 1 – Come funziona lo sviluppo economico: L’investimento in tecnologia è decisamente l’elemento economico che differenzia le economie che guardano al futuro, che hanno una visione a lungo termine da quelle che perdono progressivamente capacità di competizione. In questo filone di sviluppo economico assume sempre più importanza il ruolo dello Stato, come ci dimostra dalle sue pagine de “Lo Stato innovatore” Mariana Mazzucato. E’ indubbio che Cina, USA siano all’avanguardia nel ruolo che lo Stato si pone come soggetto innovatore che investe nella ricerca, area che l’impresa privata, intrisa di shortismo, volentieri delega allo Stato facendosi invece avanti, anche tramite i venture capital, appena i risultati della scoperta cominciano a far individuare aree di profitto. I miliardi investiti dallo Stato USA (in particolare con le istituzioni del pentagono) o dallo Stato cinese (tramite il partito comunista) sono una forte componente dei bilanci di quegli stati, incomparabili con quelli investiti dagli altri paesi e soprattutto dall’Italia. La filosofia della libera concorrenza, del libero mercato, dello Stato come incompatibile con le scelte economiche è da tempo una propaganda che vegeta nel senso comune frutto dell’egemonia culturale del post crollo del muro di Berlino. Altro che “non dare fastidio a chi produce”, la funzione dello Stato è richiesta di prendersi l’iniziativa di guardare avanti nel tempo, di individuare la strada che bisogna perseguire per attuare un progetto completo e globale, di essere il soggetto programmatore che sostituisce la razionalità alla decrepita mitologia del profitto; ridare primato ai valori d’uso rispetto ai valori di scambio. 2 – Il caso INTEL Riprendo da un post di Michele Perrone, alcune note sul caso Intel che “lo scorso giugno ha annunciato che aprirà la sua prima fabbrica in Polonia. È stato poi il turno della Germania, che non soltanto sarà la nazione dove sorgerà il primo impianto europeo di TSMC, ma anche quella dove Intel aprirà la sua prima fabbrica, utilizzando processi produttivi di ultimissima generazione. C’è poi la Francia, dove dovrebbe sorgere un nuovo centro di Ricerca e Sviluppo che renderebbe la nazione la sede europea di Intel per High Performance Computing e intelligenza artificiale. Ultima ma non ultima l’Irlanda, dove il chipmaker statunitense espanderà i suoi impianti per portare nel continente il suo processo Intel 4. In tutto ciò, che fine ha fatto l’Italia? (…). Le ultime notizie ufficiali sulla situazione fra Intel e Italia risalgono a giugno, quando il presidente del Veneto Luca Zaia affermava che il Veneto fosse pronto ma che fosse necessario “attendere la decisione di Intel, non su dove lo farà ma se lo farà davvero“. E dopo mesi di silenzio, si rischia la fumata nera per l’ambizioso progetto in casa italiana.(…) Lo snodo cruciale sembrerebbe la componente economica. La trattativa partì nel 2022, quando il governo Draghi mise sul piatto 4,15 miliardi di euro tramite il Decreto-Legge 17 dell’1 marzo 2022. Intel annunciò di conseguenza un “potenziale investimento fino a 4,5 miliardi” per una fabbrica di packaging di nuova generazione che coinvolgerebbe “circa 1500 posti di lavoro in Intel e altri 3500 posti di lavoro fra fornitori e partner“.  Con il passaggio al governo Meloni, la situazione andò in stallo: il governo italiano avrebbe dovuto garantire il 40% dell’investimento di Intel, ma in questi giorni è arrivato il Decreto-Legge 104 dell’agosto 2023, che abbassa i fondi della legge Draghi da 4,15 a circa 2/2,5 miliardi.(…) Non resta che attendere la pubblicazione del Piano nazionale della Microelettronica, che secondo il ministro Adolfo Urso “sarà alla base del Chips act italiano“, ma parliamo comunque di cifre insufficienti che potrebbero non soddisfare i requisiti di Intel. Nel suo investimento in Germania, Intel ha richiesto e ottenuto un aumento dei sussidi da 6,8 a 9,9 miliardi.” 3 – La posizione dell’UE Per aiuto di Stato si intende qualsiasi trasferimento di risorse pubbliche a favore di alcune imprese o produzioni che, attribuendo un vantaggio economico selettivo, falsa o minaccia di falsare la concorrenza. Tranne in alcuni casi, gli aiuti di Stato sono vietati dalla normativa europea e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che disciplina la materia agli articoli 107 e 108. Gli aiuti di Stato (concessi per via amministrativa o per legge) possono determinare distorsioni della concorrenza, favorendo determinate imprese o produzioni. Possono essere compatibili con il Trattato di Lisbona, solo se realizzano obiettivi di comune interesse chiaramente definiti. Gli aiuti sono ammessi quando ad esempio (articolo 107/2 del Trattato): ● consentono di realizzare obiettivi di comune interesse (servizi di interesse economico generale, coesione sociale e regionale, occupazione, ricerca e sviluppo, sviluppo sostenibile, promozione della diversità culturale, ecc.); Indubbia la strategicità dell’investimento nei chips, sia per l’Europa che diminuisce la sua dipendenza da Taiwan e dalla Cina ma aumenta quella verso gli USA, ma la possibilità pratica di erogare detti aiuti dipende evidentemente dalle disponibilità di bilancio dei vari paesi europei; la normativa europea non può non favorire de facto paesi come la Germania, che ha aumentato il suo aiuto a 10 miliardi di €, rendendo più problematica la situazione di paesi con bilanci stitici come quello italiano. Si noti che questi aiuti sono, almeno questo mi risulta, esentasse, essi rappresentano cioè componenti positivi del reddito che vengono tuttavia esclusi dal risultato economico imponibile ai fini fiscali. L’aiuto è quindi doppio: ti regalo soldi e ti esento da imposte il regalo erogato. Peraltro l’European Chips Act di Intel prevede espressamente di utilizzare tutti gli aiuti fiscali e non che ciascun stato può offrire. In un post di Hendrik Bourgeois, vicepresidente degli affari governativi europei di Intel, afferma infatti che “Oggi abbiamo visto cosa può succedere quando grandi idee e buoni politici si uniscono”, ed ha aggiunto che gli aiuti di Stato (o sussidi se preferite), sono un elemento centrale per concretizzare l’EU Chips Act e senza il quale Intel non potrebbe procedere con il suo progetto. …