DA ROMITI A MARCHIONNE, TRANSIZIONE DIFFICILE

di Silvano Veronese Una analisi “equilibrata” (quella dell’articolo di Davide Maria De Luca su il post La FIAT prima e dopo Marchionne nella quale – come è giusto che sia – non mancano i rilievi non positivi che a mio giudizio non vanno messi in conto a Sergio Marchionne (o almeno tutti) per sminuirne il valore e l’alta capacità imprenditoriale. Lasciamo perdere i Fresco, i Cantarella e i Morchio del tutto inadeguati a gestire una miracolosa “guarigione” e rilancio della FIAT ma non ci siamo mai chiesti di chi fu la responsabilità di portare il gruppo torinese alle condizioni disastrose in cui si trovava al momento della nomina di Marchionne A.D. ? E i motivi ? Ci dimentichiamo che fino ai primi anni ’70 la FIAT vendeva soprattutto in Italia ed era scarsamente presente – se non quasi assente – in Europa ?? Ci dimentichiamo che, a parte qualche “genialata” dell’ing. Ghidella, la Fiat non investiva in un numero assortito di nuovi modelli, in particolare innovativi e nella fascia “alta” (dove i margini sono maggiori)? Ghidella, uno dei pochi top manager di FIAT che si intendeva di auto e dei suoi mercati, fin dai primi anni ’70 diagnosticava che il mercato mondiale dell’auto si sarebbe ristrutturato attorno a cinque grandi player e quindi per la FIAT si poneva fin da allora il problema dell’integrazione con altri gruppi stranieri (Egli stesso aveva portato avanti discorsi impegnativi con Ford), ma venne bloccato dall’Avvocato che non voleva condividere con altri la proprietà e si scontrò con Romiti che riteneva oramai l’auto un settore “complicato” per il Gruppo che doveva percio’ diversificarsi. Pensare che il problema per FIAT fosse un problema di produttività e di costo del lavoro (che in parte esisteva in vari settori) e di imporre un governo piu’ autoritario e più rigido della forza lavoro fu una mistificazione – alla quale si prestarono in molti – per nascondere i veri limiti finanziari, organizzativi, di mercato e di qualità dell’offerta di FIAT che non solo perciò vendeva poco, ma si indebitava paurosamente. Marchionne questa situazione trovò e la cambiò radicalmente ed in poco tempo, anche perchè diversamente sarebbe stato il fallimento. Certamente l’azione si è indirizzata sul versante del risanamento finanziario (e l’articolo diligentemente ricorda le varie coraggiose operazioni, anche ed in particolare americane). Se non avesse fatto cosi’ le banche creditrici, a cominciare da quelle italiane, avrebbero venduto a “spezzatino” la FIAT, al capezzale della quale vari grandi gruppi automobilistici – come corvi – erano pronti a dividersela. E questa azione ha perciò messo in ombra la ricerca e la progettazione di modelli a tecnologie innovative, nelle quali oggi FCA lavora ma un pò tardi (ma il ritardo come ho ricordato ha origini lontane, ai tempi di altre responsabilità aziendali -un nuovo modello ed una nuova tecnologia ha bisogno di anni ed anni di studi e di investimenti-). Dove invece la FIAT e FCA ha innovato e non poco e può essere un esempio positivo è sulla organizzazione del lavoro. Melfi, in particolare, ma oggi anche Pomigliano e Cassino sono stabilimenti all’avanguardia e il modello è stato “esportato” anche a Detroit! Chi non ha visitato gli stabilimenti del settore auto in giro per il mondo e quelli italiani può affermare che qui in Italia c’è l’inferno. Certo sindacalmente si può prendere e si deve richiedere di migliorare la condizione di lavoro in continuità ma quanto è stato fatto nella OdL sotto la gestione di Marchionne non ha paragone (in meglio) con il passato e con l’estero. Si è pagato certo – come forza lavoro – in termini di CIG (che comunque è sempre meglio della perdita del posto di lavoro) o di prepensionamenti, ma le autovetture sono costruite per essere vendute e non per riempire i piazzali di Mirafiori o di Pomigliano. Oggi FCA/FIAT può giocarsi la partita (e non sarà facile) che prevedeva l’ing. Ghidella e cioè, integrandosi ulteriormente, di essere uno dei 5/6 grandi player mondiali dell’auto e con ciò assegnare anche all’Italia un pezzo di questa posizione. La grande preoccupazione sta che non sappiamo, se il nuovo gruppo dirigente sarà in grado di ripetere e continuare le eccezionali performaces di Sergio Marchionne. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

UN PARTITO: UN PARTITO PER IL MIO REGNO!

di Franco Astengo La crisi della democrazia dei partiti appare ormai evidente e di particolare gravità, almeno nel caso italiano, perché il suo processo degenerativo avviatosi fin dagli anni’90 del XX secolo sta trasformandosi, dopo diversi tentativi, in una sorta di “stretta” nella quale si sviluppano fenomeni fortemente negativi fino a far pronosticare la fine del Parlamento, o almeno la sua inutilità. Nel corso degli anni questa crisi è stata analizzata in maniera del tutto insufficiente e in alcuni casi fuorviante, dando luogo a clamorosi equivoci dai quali sono sortite anche scelte politiche clamorosamente sbagliate come quelle legate ai tentativi di riforma costituzionale attorno ai quali via via il sistema si è bloccato fino al loro respingimento, per due volte, da parte del corpo elettorale. Di questo stato di cose si è occupato un politologo del calibro di Peter Mair (con Kaltz autore della fondamentale teoria del “cartel party” nel 1992) con il volume “Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti”, pubblicato da Rubettino, Soveria Mannelli 2016. Un testo di grande importanza la cui analisi è stata affrontata da Eugenio Salvati, in un intervento pubblicato dai “Quaderni di Scienza Politica” n.1, Aprile 2018. Vale la pena allora analizzare alcune argomentazioni portate avanti nel testo di Salvati, cercando di trarne indicazioni di natura politica anche allo scopo di sottolineare alcuni fenomeni fortemente sottovalutati nel corso del tempo e che stanno alla base del difficile stato di cose in atto. Il ragionamento avanzato da Mair si basa, prima di tutto, sul tentativo di rispondere a una domanda che, in verità, in molti ci siamo costantemente posti nel corso di questi anni: “La democrazia può funzionare senza partiti ?” E ancora “O meglio, quale genere di partiti operano nella complicata realtà della democrazia contemporanea, sempre più vittima della disaffezione dei cittadini?”. La premessa è che i partiti che governano le nostre democrazie sembrano sempre più partiti senza “un popolo”, organizzazioni ormai incapaci di adempiere a quella funzione di collegamento tra politica istituzionale e partecipazione interesse/popolare. Entra in scena, sotto questo aspetto, la formula elaborata nel 1960 da Elmer E. Schattschneider sulla “semi – sovranità”: concetto che ci conduce  al tema riguardanti le forme che può assumere il rapporto tra governati e governanti. Un rapporto che dovrebbe realizzarsi attraverso la cosiddetta funzione “di rispondenza” da parte dei governanti rispetto alle domande, alle preferenze e agli input provenienti dalla società e che la politica dovrebbe essere poi in grado di tradurre in output. E’ questo un punto di grande delicatezza proprio nella fase che sta attraversando il sistema politico italiano, dove l’intreccio tra “democrazia del pubblico” e utilizzo delle nuove tecnologie sta determinando una miscela micidiale d’incontrollabilità dell’autonomia del politico, fino a determinare un’assoluta separatezza tra le scelte di governo mediate tutte dall’opportunismo tattico del riferimento elettorale, le reali esigenze della “società complessa” mediate dal “corporativismo da Facebook”, fondato completamente sulle “percezioni” e non sui fatti reali e la corsa “folle” all’accaparramento delle posizioni di potere (corsa “folle” che alla fine favorisce i soliti “gran commis” protagonisti del miglior trasformismo di natura italica”). Nella sostanza il quadro appare segnato dallo scollamento tra procedure/Garanzie costituzionali e partecipazione / ruolo dei cittadini: fenomeni che hanno segnato la crisi strutturale dei partiti stretti ormai tra quella che è stata definita “Illusione Populista” e la razionalità tecnocratica. Fenomeni che alimentano fortemente proprio lo scollamento appena denunciato. Come già accennato in precedenza a questo punto la rappresentanza degli interessi diffusi cede il posto a quella degli interessi particolari, ossia con la necessità che hanno i politici di rispondere semplicemente alle domande a breve termine delle elettrici e degli elettori (dal reddito di cittadinanza, al possesso di armi). Su questo elemento s’innesta quel contrasto all’interno del quale potrebbero farsi largo forme di democrazia (si è addirittura usato l’ossimoro “democrazia autoritaria”) ancora più ibride, modelli in cui alla preminenza della conoscenza e della tecnica si possono associare aspetti di tipo plebiscitario ,contrabbandati da “democrazia diretta” verso la quale da qualche parte si sta recuperando l’idea della “democrazia consiliare” al riguardo della quale chi scrive queste note ha cercato vanamente di impegnarsi nel corso degli anni. Aspetti plebiscitari utili a paventare una patina di consenso e di parziale mobilitazione diffusa, utile a coprire un governo decisamente più sbilanciato verso la dimensione tecnocratico – burocratico. Sotto quest’ aspetto va sottolineato come l’accordo Lega – M5S al riguardo del “contratto di governo” sia stato approvato, attraverso la piattaforma Rousseau 44.796 persone su 10.732.066 che avevano votato il movimento il 4 marzo 2018, pari allo 0,41%. Secondo Mair (riportato da Salvati) al centro dell’analisi deve collocarsi lo svuotamento sostanziale dello spazio politico tra partiti e cittadini, ossia quello spazio dove avviene l’interazione tra politica e società. Quel luogo, insomma, in cui, teoricamente, i partiti dovrebbero raccogliere domande e sostegno e offrire rappresentanza, risposte e assumere responsabilità. Come verifichiamo ogni giorno quello spazio d’interazione è ormai coperto soltanto dagli annunci e l’arena politica sembra essere trasferitasi completamente nella virtualità dei social. Sulle ragioni del determinarsi di questo stato di cose ci si sofferma su tre questioni: partecipazione elettorale, instabilità elettorale, indicatore della fedeltà partitica. Mi soffermo soltanto sul primo punto, al riguardo del quale in passato mi era capitato più volte di riflettere rammaricandomi del quanto la sottovalutazione del fenomeno avesse determinato le difficoltà crescenti che l’intero sistema politico italiano stava via via incontrando. In Italia si è scesi rapidamente da una partecipazione al voto costantemente superiore all’80% degli aventi diritto (oltre il 90% dal 1948 al 1983) a percentuali parecchio inferiori che nel caso di elezioni amministrative e referendarie non raggiungono il 50%. Il fenomeno è stato colpevolmente scambiato, anche da parte di cattedre particolarmente autorevoli, come di un semplice riallineamento al “trend” delle democrazie cosiddette “mature” trascurando almeno due fenomeni di fondo: 1)      Il primo riguarda la profondità delle ragioni del non voto: molti, infatti, ritengono che l’offerta politica risulti del tutto insufficiente nello stabilire l’effettiva possibilità che la scelta di un’opzione piuttosto che di un’altra produca effettivo cambiamento. L’offerta politica viene, …

PROBLEMI ATTUALI DEL SINDACATO. CHE FARE?

di Sandro Antoniazzi  Fim-Cisl, Brescia Quello di oggi è un incontro di riflessione, parliamo di idee. Parliamo di sindacato, ma non facciamo un discorso strettamente sindacale. Il motivo è presto detto ed è evidente: la maggior parte dei problemi che ha il sindacato oggi nascono fuori dal sindacato e quindi dobbiamo capire cosa succede nel mondo circostante. Una premessa. Quello che fate va certamente bene, ma a questo dovete dedicare il 90% del vostro tempo. Il 10% va dedicato al futuro, al domani. Prendiamo l’esempio della FIAT che produce e vende 40-50 modelli di auto, ma intanto ne sta preparando almeno altri 5 o 10 per gli anni prossimi e già pensa all’auto elettrica e senza guidatore. Ogni organizzazione funziona così. Questo è quello che dobbiamo fare anche noi. I problemi nascono dal fatto che la società in cui viviamo è sempre più complessa. Ieri era più semplice. Più coesa, più unita e il sindacato e il lavoro contavano di più. Il posto del lavoro era centrale. Adesso non è più così.  L’aumento della complessità sociale comporta due conseguenze di cui noi oggi soffriamo: 1) nelle società complesse ci si specializza; ognuno è portato e spinto a dedicarsi alla propria funzione specifica (differenziazione funzionale). Ognuno è autonomo e diverso rispetto agli altri. Questa autonomia per la CISL è stata anche una scelta. Alle origini abbiamo scelto per un sindacato libero e democratico, invece del sindacato confessionale, cattolico. Sì, ma in questo modo abbiamo tagliato i legami con la chiesa. Poi giustamente abbiamo rivendicato l’autonomia dai partiti (avevamo una trentina di  deputati) con l’incompatibilità. In questo modo abbiamo tagliato i ponti col partito, ma direi anche con la politica.  Scelte giuste, per realizzare un sindacato autonomo, però scelte che portano alla separatezza e qualche volta a rinchiudersi in casa propria, ad isolarsi. E’ evidente che ora che siamo autonomi dobbiamo riprendere i rapporti, certo in modo nuovo. (Conclusione di questo primo punto: autonomia sì, separatezza e isolamento no). 2) La complessità comporta un altro problema serio. Le istituzioni sono fatte di due cose: di valori  e di attività (servizi, contratti,  tecniche). La complessità porta progressivamente a una scissione fra le due cose, favorendo la  attività specifica a sfavore dei valori. Le organizzazioni continuano a funzionare perché sono utili, servono, ma non riescono più a produrre “senso” (senso della propria vita, del proprio impegno sociale, del mondo), perché questa risposta di senso unitario, una realtà complessa se esiste, è molto difficile. In una recente indagine tra i lavoratori, condotta da studiosi affidabili, risulta che ciò che i lavoratori chiedono di più al sindacato è la “competenza”; come vedete siamo nel campo dell’attività/tecnica. Per quanto riguarda i valori mi sembra che molti lavoratori si orientino di più verso le nuove forze definite “populiste”; sono forze che propongono poche cose fondamentali, ma queste sono vissute come valori (si tratta di passioni che non hanno bisogno di grandi elaborazioni; è un po’, per analogia il modo con cui si crede alla propria squadra)- In poche parole la tecnica, la competenza al sindacato, i valori al partito nuovo. Ci credono molto, proprio perché c’è bisogno di qualcosa in cui credere. Noi siamo utili, ma ciò in cui si crede é altrove. A complicare le cose si aggiungono due fatti oggi rilevantissimi, anch’essi propri di questa complessità: i mezzi di comunicazione che arrivando direttamente alle persone e in tempo reale scavalcano tutte le organizzazioni (è la cosiddetta disintermediazioni; c’è meno bisogno delle società intermedie) e l’individualismo. In parte l’individualismo è una risposta necessaria in questa situazione e in parte è una conquista di libertà, ma certamente incrina i rapporti sociali e rende tutto più difficile perché porta ad un uso personale di tutto. Apriamo una parentesi sui valori originari della CISL, In sostanza la scelta della CISL era una scelta per la democrazia e per un sistema economico libero, ma con una forte presenza pubblica. Allora queste scelte, con i corollari sindacali: no alla legge sindacale, contrattazione aziendale, comitati di produttività,ecc,  erano sostanziali e distinguevano la CISL. Ci davano identità.Ma oggi la democrazia non è un carattere distintivo: siamo tutti democratici. E anche l’idea dell’economia mista, regolata, con la globalizzazione è andata del tutto persa. Dunque i valori CISL sono evaporati; ci rimangono i valori generali del sindacato, che però  vanno rinnovati. Conclusione di questo secondo punto: non possiamo vivere solo di tecnica, di competenza, dobbiamo avere dei valori che sono da ridefinire, da ricostituire, anche perché i valori originari della Cisl non sono più sufficienti per esprimere “senso”  oggi. Per comprendere la situazione è bene anche risalire un po’ alla nostra storia, almeno a quella più recente. Fermiamoci agli ultimi decenni. Quello che qui ci interessa è la fine della classe operaia e di tutto il mondo che ci ruotava attorno: stati, partiti, ideologie, programmi che per 150 anni hanno avuto la supremazia nel movimento operaio. Anche da noi i partiti “operai” hanno avuto un grande rilievo e non dimentichiamo che la CGIL, che si richiama a questo mondo, rimane tuttora il sindacato maggioritario. Questa preminenza ci ha creato tanti problemi in passato, ma anche ora, che è in crisi,  ci lascia in eredità due problemi non di poco conto: La scomparsa del partito comunista e socialista e di ciò che significavano per le masse, ha lasciato un vuoto notevole – una vera voragine  – che non è stato riempita da nessun sostituto minimamente significativo, In compenso molte persone che provengono da quell’esperienza non credono più al comunismo, ma nella loro mente rimangono tante idee, immagini, concetti, orizzonti che risalgono a quella concezione. Sono come i resti di un terremoto, che bisogna asportare per poter ricostruire. Siamo ancora almeno in parte in questa fase. Certo non tutto il passato è da buttare, ma quello che va salvato deve comunque rientrare in una concezione nuova. Se guardiamo anche a un mondo più vicino a noi, quello cattolico sociale, le cose non sono andate molto diversamente. Da quando è scomparsa la DC, la Chiesa si è praticamente …

COMPETITIVITA’, INNOVAZIONE, INTERVENTO PUBBLICO IN ECONOMIA

di Franco Astengo Il nodo della presidenza della Cassa Depositi e Prestiti sta assumendo l’aspetto di una vera e propria “questione dirimente” all’interno dello schieramento di governo. In ballo pare esserci la volontà della maggioranza Lega – M5S di tentare (riassumo semplificando sulla base di letture giornalistiche) di utilizzare la CDP (5 miliardi di depositi postali) quasi come una “Nuova IRI” o meglio come una “IRI 4.0” per sviluppare una nuova stagione di intervento pubblico in economia, inaugurata con l’acquisizione del 4,9% di Telecom attuata per fermare la scalata di Vivendì e che proseguirebbe con l’acquisizione della maggioranza della super- dissestata Alitalia. Sarebbe il caso, a questo proposito, di ricostruire accuratamente la storia dell’IRI, almeno nel secondo dopoguerra: non mancheranno occasioni in questo senso. Per adesso, invece, sarà il caso di limitarci all’idea di intervento pubblico in economia così come questo potrebbe essere proposta nell’attualità. Attualità molto diversa da quando il tema fu proposto (e bloccato) all’epoca del primo centrosinistra e dell’avvio del “miracolo economico”. Il quadro generale di riferimento oggi è tracciato, da un lato dalla strategia dei dazi da parte degli USA e dalla continuità delle regole di “austerità” dettate dall’UE, a fronte di una complessità del mercato internazionale che presenta fortissimi squilibri strutturali anche da parte di quei paesi che si ritenevano emergenti e che avrebbero dovuto funzionare da nuovi riferimenti complessivi. Si tratta di fattori decisivi che ci richiamano a una necessità di un livello strategico tale attraverso il quale fronteggiare questa fase di fuoriuscita dallo schema della cosiddetta “globalizzazione” così come questo fenomeno si era evidenziato nell’ultimo decennio, a livello planetario. L’Europa impostata su di una logica strettamente monetarista è ancora in una situazione di deficit (che appare a prima vista incolmabile) sui rispettivi piani nazionali e subisce, forse più di altre parti del mondo, l’impatto di questo stato di cose e si trova di fronte alla contesa tra identità e globalismo (ben oltre il tema dei migranti, dominante soltanto per i media e sul piano propagandistico dell’ultradestra nazionalista). Intanto, mentre si verificano questi imponenti spostamenti di capitale, la condizione materiale dei lavoratori peggiora e la situazione economica complessiva dell’Unione Europea appare in una situazione di arretramento complessivo sicuramente non certificata dalle percentuali di crescita o di decrescita del PIL dei rispettivi Paesi L’Italia si trova in una situazione d’incapacità di difesa del proprio residuo patrimonio economico soprattutto perché si trova di fronte ad uno specifico intreccio perverso tra politica ed economia che finisce con il paralizzare scelte di fondo che sarebbero necessarie, soprattutto dal punto di vista dell’intervento del pubblico sia sul piano degli investimenti che della gestione in un quadro complessivo d’insufficienza grave anche dal punto di vista della realtà finanziaria(pensiamo alle difficoltà del sistema bancario, stretto anche dalla “questione morale”) e delle infrastrutture. Il tessuto produttivo nazionale attraversa, da anni, una crisi strutturale che condiziona l’economia del Paese e non si riesce a varare un’efficace programmazione economica, all’interno della quale emerga la capacità di selezionare poche ed efficaci misure, in grado di incrociare la domanda di beni e servizi e promuovere una produzione di medio e lungo periodo. Appaiono, inoltre, in forte difficoltà anche gli strumenti di rapporto tra uso del territorio e struttura produttiva, ideati nel corso degli ultimi vent’anni allo scopo di favorire crescita e sviluppo: il caso dei distretti industriali, appare il più evidente a questo proposito. Da più parti si sottolinea, giustamente, il deficit di innovazione e di ricerca. Ebbene, è proprio su questo punto che appare necessario rivedere il concetto di intervento pubblico in economia: un concetto che, forse, richiama tempi andati, di gestioni disastrose e di operazioni “madri di tutte le tangenti”. Oggi si tratta di riconsiderare l’idea dell’intervento pubblico in economia; non basta (anzi appare pericolosa) l’idea di usare la CDP come salvadanaio per acquisire quote di società già pubbliche poi privatizzate e adesso in totale dissesto. Si evidenzia così un’assoluta mancanza di strategia. Emerge, infatti, la consapevolezza di dover finanziare l’innovazione produttiva: è questo il nodo di fondo di un possibile rinnovamento della capacità di intervento pubblico in economia. Mentre il mercato internazionale si specializzava nei beni di investimento e intermedi, con alti tassi di crescita, l’Italia si specializzava nei beni di consumo, con bassi tassi di crescita. Nel 1990 (queste le responsabilità politiche vere del pentapartito) i paesi europei erano tutti in condizione di debolezza e tutti, tranne Portogallo, Grecia, e Italia, hanno modificato le proprie capacità tecnico – scientifiche diffuse, al fine di agganciare il mercato internazionale. Non a caso i Paesi europei hanno una dotazione tecnologica, costruita anche grazie al supporto e all’intervento diretto del settore pubblico ed è questo il vero elemento di squilibrio all’interno dell’UE mentre l’Italia è rimasta al palo nel campo dell’innovazione rinunciando anche allo sviluppo di segmenti alti del mercato del lavoro, nell’informatica, nell’elettronica, nella chimica, addirittura nell’agroalimentare. Queste sono state le responsabilità dirette e comuni di centro – destra, centro – sinistra, tecnici, larghe e piccole intese avvicendatesi al governo del Paese tra il 1992 e il 2018. Si è così’aperta l’involuzione del sistema, fino al distacco totale di interi settori sociali e all’acquisizione della maggioranza da parte di soggetti fondati, da una parte sul semplice schematismo dell’odio razziale (cresciuto fortemente a livello di massa) e dall’altro sull’improvvisazione e la pura sete di potere. Se si vuol pensare all’intervento pubblico in economia occorre affermare con grande chiarezza che l’approccio dato, in questo senso, alla questione di CDP è – perlomeno – sbagliato (ci sarebbe da dire anche colpevole, perché è colpevole pretendere di governare soltanto sulla base di slogan). L’intervento pubblico in economia necessita prioritariamente di programmazione e di capacità di gestione e, in questo momento, va rivolto prioritariamente, alla capacità di finanziamento e di regolazione verso i soggetti capaci di generare innovazione: l’Università, in primis, L’Enea, il CNR, le grandi utilities, le infrastrutture, al punto di far pensare a una proposta della costituzione di un’Agenzia per la ricerca e la programmazione pubblica. Si tratta di rilanciare un intervento pubblico in economia in grado …

ALITALIA, L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL GOVERNO

di Pierpaolo Pecchiari Il mio allontanamento da una sinistra che si crede radicale ma mi pare solo confusa non potrebbe avere cartina di tornasole migliore della vicenda Alitalia. Io mi ritengo un neo-colbertiano, e sono convinto che il ruolo dello Stato nell’economia sia ancora importante, vuoi perché in alcuni casi i privati si trovano davanti a progetti e questioni troppo grandi per le lor forze, risorse e interessi; vuoi perché in altri non hanno nessun interesse economico nell’erogare servizi che invece devono essere garantiti (penso al mantenimento di alcuni uffici postali in località remote, o al trasporto pubblico locale su gomma). Da qui a sostenere che lo Stato debba nazionalizzare tutte le imprese in difficoltà, indipendentemente dal fatto che si tratti di compagnie aeree, di acciaierie o di aziende alimentari, ce ne corre. La variabile da considerare in questi casi dovrebbe essere questa: se un’azienda fallisce, o se invece resta in piedi con i soldi pubblici, quali sono le conseguenze per la tenuta del sistema economico nazionale e per i cittadini-consumatori-contribuenti? Nel caso dell’ILVA – che invece questo governicchio chiuderebbe, se potesse, senza pensarci due volte – le conseguenze sarebbero devastanti, perché l’Italia perderebbe in un colpo solo tutto il suo siderurgico, poco meno di settantamila posti di lavoro tra diretti e indiretti, più l’indotto; l’economia di Taranto ne uscirebbe devastata, senza alcuna possibilità di ripresa (altro che Ruhr o agriturismi!); e l’intero sistema industriale italiano si ritroverebbe a dipendere, per gli approvvigionamenti di acciaio, dall’estero. Nel caso di Alitalia? Nel caso di Alitalia non succederebbe niente. Come è stato ampiamente dimostrato in passato, il personale di volo non avrebbe eccessivi problemi a ricollocarsi. Per gli indiretti, assunti in Alitalia in grazia di conoscenze in questo o quel giro romano, verrà buono il reddito di cittadinanza. Il sistema aeroportuale italiano reggerebbe, vuoi perché le compagnie principali farebbero a gara per acquisire gli slot a Fiumicino e Malpensa, vuoi perché le low cost servirebbero, come già fanno, gli aeroporti secondari, che hanno la fortuna di essere collocati in prossimità delle nostre città d’arte o delle più rinomate zone turistiche. Visto che il settore del trasporto aereo è fortemente concorrenziale, dubito che ci sarebbero conseguenze sul prezzo del servizio per i voli nazionali per i cittadini-consumatori (peraltro non è che Alitalia oggi sia proprio a buon mercato); quanto al lungo raggio, è ormai da decenni che andiamo a Heathrow, al Charles De Gaulle, a Schiphol o a Francoforte per prendere i voli verso le località più distanti, che Alitalia non serve più: non cambierebbe niente. In sostanza, il salvataggio e la nazionalizzazione di Alitalia sono del tutto inutili, se non a spillare soldi dal contribuente, o, peggio, a impiegare i denari dei conti e dei libretti postali dei pensionati (perché lì li prende Cassa Depositi e Prestiti) per dare ulteriore ossigeno a un paziente verso il quale avremmo dovuto applicare, da tempo, misure di vera e propria eutanasia attiva. Il salvataggio di Alitalia, al massimo, può essere funzionale agli interessi dei potentati e delle clientele leghiste nel varesotto e grilline a Roma, un tema su cui ci sarebbe molto da dire. Soprattutto in una situazione in cui le risorse sono scarse – e se gli scenari dovessero peggiorare lo saranno ancora di più – avremmo invece bisogno di investire nell’ammodernamento della macchina dello Stato, nei porti, nell’AV ferroviaria, nel trasporto merci su ferro e pendolari da e verso le grandi città, nel potenziamento delle reti di telecomunicazioni e nelle politiche energetiche. E’ in questi campi che lo Stato deve assumere un ruolo di guida e fornire i capitali necessari per innescare una leva finanziaria insieme ai privati. Non nel salvataggio di aziende decotte e sostanzialmente inutili nella strategia economico-industriale del Paese. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL DECRETO DIGNITA’ FARA’ PERDERE 8.000 RAPPORTI DI LAVORO? MAGARI..! PURTROPPO SARANNO MOLTI DI PIU’

di Claudio Negro – Fondazione Anna Kuliscioff Non è vero che andranno persi 8.000 posti di lavoro all’anno a causa del Decreto Dignità: saranno molti di più. Il perchè è semplice: la stima di 8.000 elaborata dall’INPS riguarda i contratti che non potranno superare i 24 mesi, sia come primo contratto che come somma di rinnovi. Ma l’83,3% dei contratti a termine non dura più di 12 mesi: parliamo di 1.850.000 rapporti di lavoro. Durano meno di tre mesi 463.000 contratti, che mediamente vengono rinnovati una volta nei 12 mesi. Tutti questi contratti per essere rinnovati dovranno venire giustificati con le “causali” che, come tutti i giuslavoristi seri e gli operatori del Mercato del Lavoro hanno fatto osservare, saranno fonte di contenziosi e liti giudiziarie. Per evitare le quali le aziende potrebbero preferire non rinnovare il contratto a termine con il lavoratore, e assumerne invece un altro con un nuovo contratto a termine, o magari ricorrere al nero. Non certo  passare il lavoratore a tempo indeterminato (anche perchè è meno conveniente, adesso che il Decreto Dignità ha aumentato l’indennità di licenziamento). Risultato: quanti di quei 1.850.000 contratti non verranno rinnovati? Certo moltissimo più di 8.000. Verranno almeno in parte rimpiazzati da nuovi contratti con nuovi lavoratori? E’ possibile. Determinando così un circuito in cui un certo numero di lavoratori continueranno a girare tra un’azienda e l’altra con contratti a termine che non saranno mai abbastanza lunghi da consentire che si creino le condizioni per un salto all’assunzione  definitiva. E’ misteriosa la ragione per la quale gli estensori del Decreto sono convinti che le imprese a fronte delle difficoltà a rinnovare i contratti a termine stabilizzeranno le assunzioni: le prospettive di crescita si fanno più insicure (e a ciò non è estranea la politica degli annunci del Governo,  che promette spese senza indicarne le coperture, aumentando la diffidenza degli investitori nei confronti dei nostri conti pubblici) e questo  non spinge certo le imprese ad impegnarsi in  assunzioni stabili,  tanto più se queste sono scoraggiate da un’evidente voglia del Governo di tornare ai vincoli dell’art.18. Solo chi pensa che la domanda di lavoro sia incomprimibile può pensare che una politica dirigista possa imporre alle aziende quantità e modalità dei rapporti di lavoro. Ma in questa vicenda, oltre alla faciloneria con cui il Governo ritiene di affrontare problemi complicati, colpisce l’irritazione e il fastidio di Di Maio nei confronti  della pubblicazione di dati: dalla ridicola ipotesi di un Fantomas in calzamaglia nera che nottetempo si insinua nelle stanze ministeriali per taroccare la relazione di accompagno al Decreto, alla ben più grave insofferenza per dati oggettivi, che chiunque peraltro potrebbe ricavare da sé, ma che evidentemente sono intollerabili per chi è convinto che la credenza popolare valga più dell’analisi della realtà, e che l’opinione di chiunque valga tanto quanto quella di una persona competente. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

UNA GIORNATA DEDICATA A DISCUTERE DEL PRESENTE E DEL RUOLO DEI SOCIALISTI

[avatar user=”Aldo Potenza” size=”thumbnail” align=”left” /] di Aldo Potenza Il 13 luglio alcuni socialisti, su invito di Bobo Craxi, si sono incontrati a Roma per compiere un esame delle attuali vicende politiche e del ruolo che dovrebbe essere svolto dai socialisti. La riunione, a cui hanno partecipato circa 20 compagni, è servita a verificare, tra l’altro, l’esistenza delle condizioni per riunire la comunità socialista in Italia. Il dibattito che è seguito ha registrato la preoccupazione unanime per l’imbarbarimento delle relazioni politiche internazionali, per le gravi difficoltà  europee e per le vicende politiche italiane che mostrano, sempre di più, pericolose tendenze autoritarie che richiamano alla memoria esperienze che si speravano definitivamente sconfitte dalla storia. Inevitabilmente la discussione ha riguardato anche il PSI a cui alcuni compagni hanno voluto fare riferimento per promuovere adesioni finalizzate a modificarne la dirigenza e la politica rinunciataria finora seguita. Tra i partecipanti a Roma c’ero anch’io e dopo aver espresso le ragioni che a mio avviso hanno condotto la sinistra italiana al disastro attuale, ragioni che avevo già, più diffusamente, elencato nel corso delle conclusioni tratte alla manifestazione degli autoconvocati di Livorno, ho sostenuto che oggi non ci sono le condizioni minime perché si possa iniziare una seria discussione sul futuro del PSI. Le dimissioni di Nencini presentate ad un gruppo di amici invece che al Consiglio nazionale hanno, ancora una volta, dimostrato che lo Statuto per l’attuale gruppo dirigente del PSI è un optional. In tal modo un segretario che ha portato alla sconfitta il partito, che ha rinunciato alla politica delegandola di volta in volta al leader momentaneamente più forte del PD, si è trasformato in un commissario del PSI alla ricerca di un nuovo traghettatore esterno. L’unità dei socialisti deve comportare innanzitutto l’autonomia politica che non significa isolamento, ma la coerenza con i propri valori. Cosa che oggi il PSI pare aver dimenticato. Inoltre comporta un aggiornamento politico e programmatico all’altezza delle nuove sfide contemporanee. Il PSI, se vuole evitare il disastro definitivo, avvii con le dimissioni irrevocabili di tutto il gruppo dirigente, corresponsabile dell’attuale condizione assieme al segretario, una vera rifondazione del partito. Solo allora si potrà  discutere seriamente sul futuro del Partito. Per quanto ci riguarda, ho affermato, che noi andiamo avanti come deciso a Livorno e il prossimo appuntamento sarà  Rimini, dove inviteremo tutte le organizzazioni politiche della sinistra a discutere con noi sulle azioni programmatiche che abbiamo elaborato e daremo forma organizzativa al nostro movimento costituendo una associazione nazionale. Chi vorrà  aderire sarà  benvenuto. Il percorso successivo sarà  deciso dai compagni che aderiranno all’associazione. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

COSI’ LA SINISTRA APRI’ LA STRADA ALLA DESTRA

di Sofia Ventura Da Mani Pulite alla “casta”. L’antipolitica ha finito per avvantaggiare i reazionari «Se vince il No, vincono il sistema e la nomenklatura che vogliamo sconfiggere» Era il 13 aprile 1993, erano le parole di Mario Segni. Il 18 aprile quasi 29 milioni di cittadini dissero si all’abolizione di un passaggio della legge elettorale per il Senato che l’avrebbe trasformata in una legge maggioritaria. Un plebiscito per scuotere un sistema politico percepito come immobile e incancrenito; il maggioritario come arma, e speranza, per un rinnovamento della politica. Sostenendo la necessità del referendum, scriveva Leo Valiani sulla prima pagina del Corriere della Sera del 12 gennaio 1993: «Una politica senza ideali conduce invariabilmente alla corruttela. A sua volta, la corruttela finisce con lo sbocco nel vicolo cieco della paralisi. Non ne siamo lontani». Intanto nel 1992,  annus horribilis, l’anno dei tragici attentati a Falcone e Borsellino, si apriva Mani Pulite. La nemesi per un ceto politico corrotto, la via giudiziaria al rinnovamento del paese. Probabilmente, per alcuni degli stessi magistrati si trattava di compiere una missione salvifica. Comunque, vi era la consapevolezza di star partecipando a ben altro che una semplice serie di inchieste giudiziarie, pur rilevanti: nel 2011, Francesco Saverio Borrelli, che guidò il Pool Mani Pulite, amaramente ammise «Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». Il vento della rivoluzione fu alimentato dai media e soffiò potente sull’opinione pubblica. Mani pulite divenne la «serie» più seguita, drammatizzazione mediatica di quegli eventi prese forma oltre che attraverso la stampa, attraverso le immagini televisive: le dirette dal Palazzo di Giustizia di Milano, i volti di uomini sino a quel momento potentissimi che entravano improvvisamente nelle case degli italiani, attraverso le immagini dei TG, seduti al banco degli imputati, spesso impauriti e confusi. Chi ha l’età per farlo, ricorda Arnaldo Forlani, intimorito, con la bocca secca, con lo sguardo a tratti spaesato, di fronte ad un agguerrito Antonio di Pietro. Di Pietro e gli altri, Accanto ai potenti nella polvere, sottoposti a quelli che Giglioli, Cavicchioli e Fele, in un volume del 1997, definirono «riti di degradazione mediatica», spiccavano gli eroi del pool, i buoni, i magistrati. La loro enorme popolarità fu registrata dai primi sondaggi dell’epoca e il sentimento antipartitico fu con fermato dal risultato di uno dei referendum che si tennero nel ’93 insieme a quello elettorale, quello per l’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti: più di 31 milioni di sì. Pochi, come hanno osservato Colarizi e Gervasoni (La Tela di Penelope, Latern, 2012), si sforzarono di spiegare agli italiani che le difficoltà del Paese: suoi conti pubblici in dissesto trovavano le proprie ragioni anche nel fatto che a lungo il paese stesso aveva vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Molto più semplice era trovare un capro espiatorio nella corruzione dei partiti dimenticando che l’esplosione della spesa pubblica si era accompagnata a pratiche del consenso, distributive e clientelari, delle quali gli stessi cittadini avevano usufruito. E che la stessa corruzione era un fenomeno che poneva in relazione la politica con quella società civile che si voleva monda da ogni colpa. Da questo contesto nacque la Seconda Repubblica. Da un profondo sentimento antipolitico. Per Mauro Calice la mobilitazione referendaria ebbe il merito di canalizzare la profonda sfiducia verso i tradizionali circuiti rappresentativi (La Terza Repubblica, Laterza, 2006). Anche la riorganizzazione del sistema politico attorno ai due poli del centrodestra e del centrosinistra ha rappresentato un nuovo tipo di offerta politica in grado di mobilitare gli elettori dopo il crollo del precedente sistema. Ma nell’uno e nell’altro caso, un confuso sentimento di avversione ha continuato, pur canalizzato a perpetuarsi. Nel 1993 l’ondata per il maggioritario si accompagna all’ondata contro il finanziamento ai partiti. La differenza «antropologica», rimarcata sin dagli esordi da Berlusconi, dell’imprenditore homo faber rispetto alla precedente politica «di chiacchiere inutili, di stupide baruffe e di politicanti senza mestiere», nonostante il passare degli anni e lunghe esperienze di governo non scompare mai e si ripropone, ad esempio, ogni volta che il leader della coalizione denuncia i politicanti alleati che frenano l’homo faber. E si confonde e parzialmente si sovrappone all’altra dicotomia: «noi», i liberali, «loro», i comunisti. Dal canto suo, la sinistra, anche nella sua reincarnazione nel Partito democratico, e intesa anche in senso lato, come universo culturale, per lungo tempo non rinuncia alla speranza di una via giudiziarla che possa mettere fuori gioco il potente «nemico», corruttore del costume e dell’immaginario degli italiani (e non solo). Sopravvissuta senza troppi danni al ciclone di Tangentopoli, si (fregia della pretesa di una superiorità morale. Una pretesa che riprende, o perpetua, quello scartamento dalla politica all’etica del Pci berlingueriano, riproponendone i gravi limiti). «La sinistra di tutte le sfumature ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato dell’iniziativa politica – notava alcuni anni fa Claudia Mancina (Berlinguer in questione) – E proprio come Berlinguer (…) non coglieva la necessità di intervenire su nodi istituzionali come la definizione giuridica dei partiti, le forme del finanziamento pubblico, i regolamenti parlamentari, ecc.. così i Ds prima, e poi il Pd non hanno saputo sviluppare iniziative coerenti su questi temi, muovendosi sempre di rimessa, sempre in ritardo». Le elezioni del 2008 creano l’illusione di un sistema che si consolida su due grandi partiti. il Pdl e il Pd. Ma entrambi continuano a privilegiare il messaggio del nemico da abbattere, del «noi» e «loro», sottovalutando la necessità di intervenire sui meccanismi della cosa pubblica e sui nessi perversi tra politica, economia e amministrazione (o forse non trovando conveniente farlo), così come sui propri meccanismi di funzionamento, dalla formazione e reclutamento del proprio personale politico al raccordo tra centro e periferia. E la corruzione, il malcostume, l’uso partigiano delle istituzioni, a livello nazionale e soprattutto locale, insomma, una pessima politica, continuano ad essere lo stigma del «caso italiano», nonostante l’illusione purificatrice di Tangentopoli. La nuova politica non è migliore della vecchia, anzi, come qualcuno ha osservato, se prima si rubava per fare politica, sempre più nuovi arrivati, …

L’OTTIMISMO DELLA VOLONTA’

di Dario Allamano Sabato scorso per motivi personali non sono stato presente alla Garbatella, mi spiace molto perché era un appuntamento a cui non volevo mancare, sono  però contento perché a detta di tutti coloro che hanno partecipato al seminario è stato un incontro di alto livello politico e culturale. E’ la conferma che  il percorso avviato questa primavera, con l’evento di Livorno del 24 marzo, ha una sua validità intrinseca. L’aver scelto la ripartenza dal “basso”, senza attendere le direttive di se-dicenti leaders funziona, c’è un mondo diffuso di tanti compagni e compagne che nei vari territori rappresenta il meglio del socialismo italiano, gente che ha traversato un deserto senza mai abbandonare la rossa bandiera su cui splende il sol dell’avvenir. Il seminario della Garbatella era una prima verifica sulla solidità del movimento che si era auto-generato a Livorno, ed è stata una verifica assolutamente positiva. Alcuni hanno ceduto, per stanchezza o per inseguire brutti sogni, ma chi c’era era rappresentativo di tutti i territori italiani. E’ da questa base solida che occorre partire per costruire i pilastri della nuova casa socialista, senza nasconderci che ci sono delle questioni ancora irrisolte. L’obiettivo che ci eravamo dati a Livorno 2018 era esplicito, un circolo in ogni città nel più breve tempo possibile, purtroppo ad oggi siamo presenti a macchia di leopardo. In alcuni luoghi siamo forti (un esempio Roma ed i Circoli dei castelli romani), in altri luoghi in cui potevamo procedere con rapidità ci siamo fermati (penso alla Toscana ed al Veneto), c’erano dei buchi che si stanno colmando (la Lombardia) e regioni che, pur essendo un po’ in ritardo ormai viaggiano a mille (l’Emilia Romagna). Umbria-Marche, Sicilia e Piemonte erano territori in cui il radicamento era già solido prima di Livorno e stanno confermando la loro presenza nel movimento. Dall’elenco sopra descritto emerge con nettezza un fatto, siamo molto deboli nel sud (ad eccezione della Sicilia), ed è una questione che va affrontata con determinazione. Un movimento politico socialista per il XXI secolo non può essere zoppo, non può essere assente in regioni e territori fondamentali per il futuro dell’Italia. Non possiamo e non dobbiamo accontentarci di alcune sparute presenze individuali, magari di alto livello, molto impegnate nella riuscita del Progetto ma troppo isolate. L’impegno di Vincenzo Lorè e Giovanni Oranges è ammirevole, ma non debbono e non possono essere lasciati soli. Sabato scorso è un punto di arrivo ed un punto di ri-partenza. Dobbiamo però comprendere sino in fondo il secondo messaggio lanciato a Livorno: “non esiste un vertice di comando del Movimento per il Socialismo XXI secolo”, lo sviluppo della nostra iniziativa sarà forte se saranno robusti i livelli locali. La scelta dei coordinatori regionali, che organizzeranno il viaggio verso Rimini (ed anche dopo), non compete al Comitato dei Garanti (che deve solo garantire l’ordinato svolgimento delle attività fino a Rimini), è una scelta che compete all’autonoma decisione di ogni regione, è l’applicazione concreta del messaggio che abbiamo lanciato a Livorno: l’autonomia dei territori in una struttura nazionale di modello federale. Socialismo XXI non è un Partito centralistico in cui esistono alcuni se-dicenti leaders che “danno la linea”, ma tanti compagni e compagne che si organizzano per costruire qualcosa di veramente innovativo in risposta ad una fase in cui centralismi burocratici ed autocratici la fanno da padroni. Noi dobbiamo essere qualcosa di diverso, una VERA ALTERNATIVA POLITICA ED ORGANIZZATIVA ai modelli dominanti. Non dobbiamo poi fare l’errore che DeMartino fece (mai più al Governo senza PCI). Non possiamo inseguire altri (di destra o di sinistra) sulle loro posizioni politiche, l’esperienza del 1976 deve insegnarci che essere subalterni ad altri non porta nessun vantaggio, di fronte all’appiattimento su posizioni altrui l’elettorato sceglie il primo marchio, non la copia. Questo è il compito che ci siamo assunti con la decisione di fare a Rimini una Conferenza Programmatica entro fine anno. Sarà l’occasione in cui dovremo definire quali saranno i contenuti e le parole d’ordine di un nuovo ed autonomo Progetto Politico. L’idea delle compagne e dei compagni dell’Emilia di organizzare a metà settembre un evento politico a Budrio è un buon segnale, la loro disponibilità a farlo diventare un incontro dei socialisti del centro nord una atto molto utile per un ulteriore confronto prima di Rimini, ma soprattutto a metà settembre dovremo aver chiaro quali saranno i territori che avranno definito le loro strutture organizzative minime (almeno 3-5 compagni/e per regione disponibili a lavorare pancia a terra per Rimini). Il salto di qualità nel nostro procedere sarà però determinante se nello stesso giorno riusciremo ad organizzare in una città del sud un evento simile, mi rendo conto che è difficile, ma l’esperienza mi ha insegnato che nulla è impossibile. Nel 2008 come LabourBuozzi (anzi Labouratorio Piemonte perchè così ci chiamavamo allora) cercavamo un punto di confronto con altri socialisti del nord ovest, con un po’ di presunzione lanciammo, a settembre, un messaggio in bottiglia su cui c’era scritto: “i socialisti del nord ovest si incontrano a Galliate il 18 ottobre”. Quel giorno al Castello Sforzesco scoprimmo che i socialisti c’erano e non erano pochi, e lì in quella sala lanciammo l’idea del Gruppo di Volpedo, che nacque sostanzialmente due mesi dopo, in un giorno di sole in mezzo a due nevicate da tregenda, ed anche in quel giorno 60 socialisti e socialiste si incontrarono in Piazza Quarto Stato. In molti casi l’ottimismo della volontà prevale sul pessimismo della ragione. Sempre Avanti! verso Rimini SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

COMUNICAZIONE E LINGUAGGIO ALL’ORDINE DEL GIORNO

di Stefano Betti Mentre stiamo mettendo a punto la Piattaforma programmatica per la Conferenza di Rimini prevista in autunno, dove spiegheremo che società socialista abbiamo in mente di costruire in questo XXI secolo digitalizzato e robotizzato, ma pieno d’ingiustizie e di profonde ineguaglianze, s’impone all’ordine del giorno un punto nevralgico. Quale linguaggio. Quale comunicazione usare. Già, perché la semina che abbiamo intenzione di effettuare, nella sconfinata prateria del paese, martoriata da anni di neo liberismo e, ora, di populismo di pancia al governo, deve necessariamente tenere conto di come comunicare. Soprattutto con i giovani, che sono la linfa vitale del futuro movimento socialista e ai quali dobbiamo rivolgerci in via prioritaria. Il Socialismo italiano in media ogni quarant’anni si pone questo problema. Il primo a prenderne atto fu Filippo Turati, al termine del XIX secolo. Non potevamo continuare a coesistere con il linguaggio meramente distruttivo degli anarchici, né dei repubblicani, il cui rifiuto della lotta di classe imponeva allora a entrambi una necessaria distinzione politica. Da lì, il linguaggio delle Case del Popolo, delle associazioni di mutuo soccorso. Il Socialismo va costruito fin da subito attraverso l’azione e l’esempio, in un paese ancora prevalentemente agricolo e a maggioranza analfabeta. Occorreva insegnare alle masse per farle uscire dalla morsa clericale e dall’ignoranza. I simboli e i messaggi sono di immediata identificazione e la saggistica è lontana anni luce dalla gente comune. Il dirompente Massimalismo, la guerra e le sue terribili conseguenze fino all’esilio a causa dell’avvento del Fascismo costrinse i Socialisti, Pietro Nenni in testa, a un cambio di linguaggio. Non si trattava più di costruire, ma di lottare, sovente come in Spagna con le armi in pugno. In competizione, ma alleati i Comunisti, nati dall’alveo socialista, ma sulla spinta dirigista della Rivoluzione d’ottobre e con la pretesa di essere i migliori. La Resistenza e l’avvento della Repubblica cristallizza il linguaggio. Come logica prosecuzione del precedente, in una società ormai avviata alla piena rivoluzione industriale. Le campagne si svuotano. Le fabbriche si riempiono. L’alfabetizzazione è patrimonio della maggioranza degli italiani. Si continua a lottare, ma con mezzi pacifici. I simboli si addolciscono e i contributi politici per tutti sono più corposi. La saggistica si avvicina alla gente comune. Alla fine degli anni ’70 i Socialisti, con Bettino Craxi, affrontano la questione della modernizzazione del paese e della necessità di comunicare in modo nuovo. La società è profondamene mutata e la classe media ne è il perno centrale. I computer sono agli albori. Ma già si avvertono le immense potenzialità che offrono nel campo del lavoro, con le conseguenti mutazioni sociologiche e occupazionali. Muta così il linguaggio, più essenziale, lasciando agli analisti e ai quadri politici la libertà di approfondire gli argomenti. Era venuto il momento di governare. La saggistica è quasi per tutti. Oggi, nel mondo della comunicazione nel palmo di una mano, della illusoria onnipotenza di avere tutto subito attraverso la Rete nascosta nel proprio cellulare, occorre confrontarsi con la realtà dei Social, dove dai dieci ai settant’anni, tutti impazzano coi loro avatar. Nell’illusione di esser chi non si è. Di fronte una società completamente terziarizzata, nei modelli di vita, nelle aspirazioni. La comunicazione o presunta tale si abbrevia drasticamente. La tentazione di leggere qualcos’altro in un nano secondo è troppo forte. C’è un deficit generale di concentrazione. E la pancia, in questi casi, prevale. Wikipedia è ormai la Pietra teologalis della modernità. La saggistica è lontana anni luce dalla gente comune. Ora, è sul metodo che dobbiamo usare per comunicare che deve andare la nostra attenzione. I migliori principi, supportati da logica, razionalità e buon senso, a nulla varranno se saranno spazzati via dalle orde del fango scatenate dai Social. La Giovane Fiumana, a cui appartiene il nostro futuro, è in primo luogo chiamata a approfondire questo tema, essenziale per il proseguo della nostra lotta e al quale dovremo dare tutti un contributo. E questa con i giovani, piuttosto che rincorrere i compagni soffocati dai 25 anni ondivaghi della diaspora, pieni di dubbi, ricordi e delusioni, sarà la vera partita decisiva. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it