DEMOCRAZIA O CONFUCIANESIMO 4.0?

A partire dalla rilettura di Ralf Dahrendorf (“Quadrare il cerchio”, Laterza, 1995), una riflessione critica sulla post-democrazia confuciana teorizzata da Parag Khanna nel volume “La rinascita delle città-Stato”, di recente pubblicazione per Fazi: una proposta di governance tecnocratico-burocratica a misura degli interessi dominanti.   di Pierfranco Pellizzetti «La tirannia del costume è generalmente un ostacolo al progresso dell’umanità. […] Questo è il caso, per esempio, di tutto l’Oriente. In Oriente il costume domina arbitro supremo in tutte le cose»[1]. John Stuart Mill «Prima che l’umanità soffochi (o si delizi) nella prigione (o nel paradiso) di un impero globale di marca occidentale o di una società di mercato globale gravitante attorno all’Oriente asiatico, potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie) della crescente violenza che ha accompagnato il disfacimento dell’ordine della Guerra Fredda»[2]. Giovanni Arrighi Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Laterza, Roma/Bari 1995 Parag Khanna, La rinascita delle città-Stato, Fazi, Roma 2017 Nostalgia di un mondo alla fine Nel pieno della grande transizione di fine Novecento, il sociologo anglo-tedesco Ralf Dahrendorf diede alle stampe uno smilzo libretto impregnato della consapevolezza melanconicamente profetica di assistere al tramonto del mondo in cui si era riconosciuto per tutta la sua esistenza militante. Il Primo Mondo, quale Occidente illuminato e civile, interpretato e propugnato con le categorie del liberale critico di stampo popperiano e newdealista: «a volte si ha l’impressione che la grande stagione stia per concludersi, o che sia quanto meno in pericolo»[3]. La società aperta che perseguiva «un equilibrio civile tra creazione della ricchezza, coesione sociale e libertà politica»[4]. In altre parole, la combinazione, realizzata nei suoi momenti migliori (e dimenticando le contraddizioni permanenti di esclusione, diseguaglianze e richiami bellici insite nel modello praticato), di uno sviluppo materiale che dischiudeva opportunità anche a coloro che non avevano ancora raggiunto la prosperità, la sostituzione del privilegio con il diritto generalizzato diffondendo cittadinanza e quella singolare combinazione del rispetto dello stato di diritto con i rischi della partecipazione popolare e l’alternanza di governi che chiamiamo “democrazia”. L’occhio attento dell’osservatore impegnato scorgeva con chiarezza i pericoli di arresto della difficile quadratura civile che – appunto – ormai iniziavano a manifestarsi in misura crescente alla fine del secolo scorso, grazie a quel nuovo corso inarrestabile chiamato “globalizzazione” (oggi aggiungiamo l’aggettivo “finanziaria”); in cui l’economia andava imponendo la propria egemonia marginalizzando la politica, cancellando le condizioni stesse del conflitto sociale che riequilibra il comando capitalistico e smantellando l’antemurale contro la prevaricazione rappresentato dai diritti sociali. Mentre la rinascente propaganda mediatica, al servizio dell’uso ideologico della paura, soppiantava la centralità della security (garanzia del proprio posto nella società) con la safety (la promessa di incolumità personale, nel mondo trasformato in un immenso Bronx terrorizzante). Il ritorno al comando della plutocrazia senza freni e contrappesi, che l’esperto di politica e faccende militari Edward Luttwak ha bollato sbrigativamente come “turbocapitalismo” («lo chiamano libero mercato, ma io lo definisco invece capitalismo sovralimentato, o più semplicemente turbocapitalismo»[5]). Dunque, il combinato disposto di deregulation e prevalenza degli interessi aziendali che andava creando la nuova forma di disuguaglianza che Dahrendorf riteneva più corretto definire “sperequazione”. Mentre andava in frantumi il cerchio che si è cercato a lungo di quadrare, qualcuno intravvedeva una soluzione auspicabile nei laboratori a Oriente, che perseguivano l’equilibrio grazie «alla ricerca di una rapida crescita economica che si sposi con una robusta coesione sociale, senza preoccuparsi troppo di promuovere insieme stato di diritto e democrazia politica»[6]. Progetto lontanissimo – anzi, alternativo – a quello occidentale (Giappone compreso), al tempo impersonato da quelle che venivano denominate “le tigri d’Asia”; o “i quattro dragoni”: Singapore, Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud. Arrivano i consulenti asiatici Infatti i teorici asiatici del nuovo modo di produrre stavano acquisendo la convinzione di non dover ripercorrere i passaggi evolutivi attraversati nei processi di industrializzazione/modernizzazione prima europei, poi americani, attingendo ai valori della propria ancestrale tradizione. Una tradizione a guida cinese che – secondo Arrighi – aveva prodotto dal sedicesimo al diciottesimo secolo una “rivoluzione industriosa”, insita nello sviluppo promosso da istituzioni e tecnologie ad alto contenuto di lavoro (in risposta alla scarsa disponibilità di risorse naturali); pur su basi di mercato ma senza l’attitudine a imboccare la via ad alta intensità di capitale e consumi energetici perseguita già dalla rivoluzione industriale inglese. Un assetto rigidamente organizzato, che diffondeva l’etica del lavoro in un contesto rigorosamente verticistico e gerarchico. Fedele all’ideale confuciano dell’armonia sociale «e non disposto a tradirlo per abbracciare una visione basata su una competizione di mercato senza freni e su una politica generalizzata di laissez-faire»[7]. Sulla scia di Stuart Mill, ora anche il nostro Dahrendorf scorgeva nel modello redivivo nel Far East la pericolosa contaminazione dei tradizionali valori asiatici calati dall’alto con l’autoritarismo politico; osservando come tale modello esotico piacesse già allora a moltissimi uomini d’affari e ai politici conservatori. Non a caso proprio nel fatidico 1995, in contemporanea con il saggio dahrendorfiano, veniva dato alle stampe il manuale del McKinsey boy Kenichi Ohmae, conclamato guru della consulenza del business, che gli contrappone uno squillante peana della stagione economica a venire: il migliore dei mondi possibili. Scriveva questo Pangloss con gli occhi a mandorla: «per molti dei valori fondamentali su cui si reggeva un ordine mondiale basato su una serie di Stati-nazione distinti e indipendenti – per esempio la democrazia liberale praticata dai Paesi occidentali e addirittura il concetto stesso di sovranità politica – si è effettivamente manifestata la necessità di una rigorosa ridefinizione o, in qualche caso, di una vera e propria sostituzione»[8]. Olè, in un colpo venivano fatti fuori la statualità, spazio prioritario (per non dire esclusivo) delle politiche di solidarietà, e la liberal-democrazia. Visto che l’ordine nascente ridisegnerebbe il panorama geopolitico sulla base della competitività. Un mondo tratteggiato a strisce (“come il pellame della zebra”) grazie al ruolo svolto da aziende multinazionali foot loose; in cui la politica accetta un ruolo servile, del tutto subalterno all’economia: «nell’odierno mondo senza frontiere, l’insegnamento che i governi debbono fare proprio è inequivocabile: se si rimane ancorati troppo a lungo al concetto di economia …

IL TRENINO DELLO SPIRITO IMMORTAL

Un tempo si diceva “prendere due piccioni con una fava”..ahimé, tempi andati..oggi non c’è più penuria di piccioni ma di fave…la nuova legge elettorale infatti le ha rimpicciolite non poco, e dunque nella prossima tornata elettorale avremo la saga delle favette o dei pisellini…se si preferisce. Lo sbarramento al 3% e la corsa all’elettore “perduto” hanno spinto i coltivatori diretti delle liste elettorali ad una semina forsennata da cui non si sa proprio cosa possa nascere, sicuramente anche qualche specie transgenica, se non addirittura qualche cyborg. Specialmente la cosiddetta sinistra è in fase di convulsione acuta..e anche molto “popolare”. Cavalli imbizzarriti sono lì che smaniano di fare le loro mosse, manco avessero come capolista l’imperatore Caligola in persona (con cui sicuramente almeno un seggio senatorio lo conquisterebbero), pronti a tutto anche alla capriola cavallina con triplo salto mortale carpiato esordendo che quello non è un partito e tanto meno di sinistra, il che detto da uno che era in Rifondazione Comunista, con accanto un cattolico e un ex generale dei carabinieri, fa sembrare il tutto l’ippodromo dei cavallucci marini..che se non altro sono rimasti rossi. Però il popolo non si poteva certo accontentare di un ippocampo…ci voleva chi reclamasse direttamente il suo potere..e che siamo pazzi? Ebbene sì. Chi sono io per regalarti una bella lista del popolo col potere stellare? Babbo Natale? Anche lui ovviamente rigorosamente rosso? No…JE SO’ PAZZO! Quante ne volite? Programma: di Tutto e di più? Accattatevillo!!! Ultimi esemplari!!! Ultimi pezzi del Socialismo e del Comunismo rimasti..pezzi autentici che non ne faranno più!!! Approfittatene!!! A buon intenditor… Nell’altro versante “sinistro” cosa abbiamo invece..se la matematica non ci inganna e nemmeno l’insiemistica, abbiamo una lista che si chiama INSIEME dove però 2+2 non fa 4 ma fa 3. Eh..alla faccia della matematica “conformista”…Già, perché in quella lista avrebbero dovuto convergere tutti i partiti laici con una illustre e gloriosa tradizione e soprattutto,udite, udite! Cultura politica alle spalle! Ah…dimenticavamo..caro lettore..si scrive lista ma si legge trenino elettorale, se non lo avessi capito e avessi per caso confuso il cavalluccio a dondolo con la pista polistil…no..qui si tratta del carissimo tradizionalissimo e antichissimo trenino.. Ma torniamo al trenino insieme, cioè volevo dire che si chiama…INSIEME, perché in quello lì tutti non ci entriamo, anzi da quello, pare sia più facile uscire che entrare, infatti PSI e VERDI più CIVICI e RADICALI, non fa QUATTRO ma fa TRE…anzi TRE TRE GIU’ GIU’ GIU’ perché non pochi dopo la decisione della Bonino di sbattere decisamente la porta del trenino e andarsene, sono alquanto giù di corda e tuttora si interrogano su cosa possa avere folgorato la decana dei radicali che da sempre hanno professato cultura laica e socialista. Cosa la abbia spinta a cercare asilo nel convento di Tabacci? Avrà forse preso i voti? (No magari quelli se li sogna) Vorrà forse salvarsi l’anima? Sarà per caso convinta di essere l’emula di Madre Teresa di Calcutta a cui, con il tempo, sembra assomigliare sempre di più, misericordiosamente e miracolisticamente in aiuto di un PD in caduta verticale? Sono i misteri delle Ferrovie Elettorali…dove tutti i trenini arrivano puntualmente a destinazione solo dopo che il capobast..ops..volevo dire il capostazione ha concordato e stabilito collegi, collegiali e collegiande.. Nel frattempo s’ode a destra uno squillo di tromba..dato che tutto il centrodestra, trombettieri in testa, pare si sia compattato ancora però non si sa bene intorno a chi, se stretto alle bende della mummia del Berluska oppure avvighiato alla barba di Salvini che appunto vorrebbe essere premier in barba a Berlusconi. Perché lui ovviamente non ce lo vuole come premier, quindi il bauscia si sta dando tanto da fare per avere anche solo un voto in più di Forza Italia per la sua Lega, che non solo ha tolto Nord dal simbolo, così ora lo puoi girare in tutti i sensi orari e antiorari appare sempre e solo lui…Salvini premier, ma batte anche come un forsennato tutto lo stivale e tutto il web che ormai lo puoi veder spuntare sia da un immondezzaio campano che da tuo browser come app in offerta gratuita. A sinistra abbian già visto che risponde una squillo, dato che le varie liste in fondo hanno tutte come obiettivo quello di fare il loro prezzo con il PD…ovviamente sempre da liberi nell’offerta e da uguali nell’intento. D’ambo i lati calpesto rimbomba l’eco del Vaffanculo grillino, il quale in perfetta, straordinaria e magnifica solitudine si appresta a conquistare la maggioranza relativa ma non il relativo premio per il 40%, e che quando sarà il primo partito non si sa se dovrà accendere un cero alla Madonna di Pompei oppure pregare il sangue liquefatto di S. Gennaro (con tutto il rispetto per Santi e Madonne che probabilmente se la ridono più dei satanassi i quali, oggi come oggi, sono bombardati dalle piogge acide dei peccatori e non sanno più dove metterli) per potere governare con qualcuno disposto a farlo con loro, ovviamente essendo poi marchiato a vita come un appestato. Come finisce poi la poesia? Ah..ecco.. “siam fratelli; siam stretti ad un patto maledetto colui che lo infrange, che s’innalza sul fiacco che piange, che contrista uno spirto immortal”. Inutile dire chi è il fiacco che piange..o lo spirto immortal. Come non lo hai capito? Ma sei tu povero elettore..fiacco che per l’ennesima volta giocherai con il ciuf ciuf dei nominati.. o elettore, dall’immortal spirto democratico che pensi basti solo giocare col trenino per essere libero, antifascista e antitotalitario..non ti contristare troppo…tu gioca..gioca col trenino. Almeno finché paghi la bolletta della luce.. Carlo Felici   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

MONETA FISCALE: LA GUERRA DELL’ESTABLISHMENT AGLI SPAVENTA PASSERI

di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Stefano Sylos Labini Di Moneta Fiscale, nelle sue possibili varianti e applicazioni, parlano ormai con intensità crescente tutte le principali forze politiche di opposizione, com’è noto da tempo ai lettori di Micromega (vedi la parte iniziale di questo articolo, apparso nel giugno scorso). Sul tema, il M5S ha tra l’altro presentato un emendamento all’ultima legge di bilancio. Naturalmente l’attuale maggioranza parlamentare a traino PD non l’ha approvato né era pensabile che lo facesse, e data la dimensione limitata della proposta, l’emendamento aveva più che altro una funzione di test. Significativo comunque è che sia stato dichiarato ammissibile dalla Ragioneria Generale dello Stato. In Italia si sono quindi definiti due blocchi politici: gli allineati alle politiche di austerità “prescritte” dalla UE – blocco imperniato sul PD – e le opposizioni, che in forme varie stanno prendendo in esame l’introduzione di uno strumento fiscale finalizzato, in primo luogo, al rilancio della domanda interna. Nel frattempo, si parla anche di fantomatiche riforme dell’Eurozona, da cui in realtà non c’è da aspettarsi nulla di positivo (tenuto conto, tra le altre cose, che in Germania a crescere di peso politico sono solo i liberali “austeristi” e la destra nazionalista). Di pari passo, aumenta anche l’attenzione dell’establishment, e diremmo anche il suo nervosismo, di fronte alla crescita di interesse verso la Moneta Fiscale. Articoli critici sono stati pubblicati ad esempio da Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera e da Roberto Perotti su Repubblica. In entrambi i casi non abbiamo avuto difficoltà a confutare le loro argomentazioni: vedi qui nel caso di De Bortoli e qui in quello di Perotti. Ma non ci è stato consentito di farlo sui medesimi organi d’informazione che hanno pubblicato le critiche: la volontà di sviluppare un corretto e produttivo confronto di opinioni ha tutta l’aria di mancare, ed è molto grave. Un ulteriore, ancora più recente esempio è il pezzo pubblicato sul Sole24Ore da Lorenzo Codogno, Charles Goodhart e Dimitrios Tsmomocos, che riprendono un commento della Banca d’Italia, già da noi confutato su Micromega. Secondo Codogno & C. “se uno Stato decidesse di eseguire i propri pagamenti in valuta diversa dalla moneta legale si prefigurerebbe una violazione dei Trattati europei”. Il che – citando la Banca d’Italia – avrebbe “negative ripercussioni di carattere reputazionale presso i potenziali sottoscrittori di titoli del debito pubblico”. Gli autori richiamano poi altri effetti: diminuzione degli introiti subita dalle imprese pagate in Moneta Fiscale (di minor valore, si sostiene, rispetto all’euro), obbligo per lo Stato di ripagare il debito pubblico in euro a fronte di introiti in Moneta Fiscale, rischio d’insolvenza per le banche se si ridenominasse il debito pubblico o il debito dei residenti nei loro confronti, ecc. In effetti la Banca d’Italia, nonché Codogno & C., hanno elaborato uno “straw man argument”: una fallacia logica che “controbatte” un’argomentazione rappresentandola in modo errato o distorto. Si spara allo “straw man”, allo spaventapasseri, come fosse il nemico reale… Banca d’Italia e Codogno & C. non citano documenti di riferimento. Gli autori del presente articolo si sentono però chiamati in causa, essendo da anni fortemente attivi nell’elaborare il concetto di Moneta Fiscale (peraltro insieme a un folto e crescente gruppo di accademici, economisti e professionisti del settore finanziario). Per carità, sarà stato un equivoco in buona fede. Leggendo i nostri documenti (e nel dubbio chiedendo) è però chiarissimo che il progetto Moneta Fiscale non prevede l’esecuzione di alcun pagamento da parte dello Stato, a fronte di impegni esistenti, in monete diverse dall’euro, né alcuna ridenominazione di posizioni bancarie, quote di debito pubblico, o altro. Al contrario, consente di evitare tutto ciò ottenendo nello stesso tempo un forte rilancio di domanda, PIL, occupazione e competitività delle aziende. La via di introduzione più rapida della Moneta Fiscale è l’emissione di Certificati di Crediti Fiscale (CCF), titoli che danno diritto – a partire da due anni dopo la loro emissione – a sconti di imposte, tasse, e pagamenti verso la Pubblica Amministrazione in genere. La proposta è emettere CCF assegnandoli senza corrispettivo ai lavoratori (per integrare i loro redditi) e alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti (ottenendo così una riduzione del costo effettivo e un immediato miglioramento di competitività). Quote di CCF possono inoltre essere utilizzate per effettuare azioni espansive di spesa sociale e investimenti pubblici. Nelle assegnazioni vanno privilegiate le fasce di popolazione disagiate, per equità e per rilanciare più rapidamente la domanda interna. Contrariamente a quanto afferma la Banca d’Italia (che qui prende una pura e semplice topica) i CCF non concorrono a formare né deficit né debito pubblico. I principi contabili internazionali, recepiti da Eurostat, sono chiarissimi: non c’è debito se non c’è impegno a effettuare pagamenti. Concedere diritti a sconti futuri non fa insorgere debiti: non sono debiti i buoni sconto emessi da un supermercato, non è debito pubblico il risparmio d’imposta che le aziende conseguiranno ammortizzando i loro cespiti, ecc. Soprattutto, sui CCF l’emittente non può essere forzato al default. Lo Stato potrebbe non avere gli euro per rimborsare BTP; mai essere costretto a disconoscere l’impegno di accettare CCF a riduzione di tasse e imposte. Incorporando un diritto futuro legalmente tutelato, i CCF hanno valore fin dal momento dell’emissione. Potranno essere ceduti contro euro negoziandoli sul mercato finanziario (come si fa con BOT e BTP), e anche essere accettati negli scambi commerciali: per un grande magazzino o per una catena di distribuzione di carburante, che hanno flussi costanti di versamenti per IVA, contributi, accise ecc., uno sconto fiscale rappresenta un valore ben tangibile. Condizione perché un CCF abbia un valore prossimo a quello dell’euro è che non ne giungano annualmente a maturazione quantitativi elevati rispetto agli incassi lordi della Pubblica Amministrazione. Diversamente i tempi di utilizzo si allungherebbero. Ma il progetto prevede che i quantitativi in oggetto raggiungano (in cinque anni) circa 100 miliardi annui a fronte di incassi pubblici lordi di 800: il rapporto di copertura è altissimo. Ci sono anche ampi spazi per azioni correttive non procicliche (ad esempio …

LE PROSSIME ELEZIONI: RIFLESSIONI AD ALTA VOCE DI FELICE BESOSTRI

Le cose non accadono per caso se voler arrivare a dire che reale e razionale coincidano. Nella esperienza di ciascuno di noi ci si è resi conto che necessario e possibile sono una coppia spesso spaiata. I 750 comitati per il NO erano una realtà con obiettivi omogenei, ma non sempre con le stesse motivazioni, che valevano fino al giorno del referendum, per il cui esito posssiamo rivendicare un titolo di merito, assolutamente non esclusivo. Per poter continuare in quanto tali occoreva una cultura politica da movimento della società. Ancora oggi mi capita di sentire insofferenza quando si parla di leggi elettorali o di regole per la democrazia, con l’argomento che disoccupazione, crisi economica, mancanza di futuro per i giovani o il peso delle tasse sul lavoro dipendente, ma in generale di tutti quelli che vivono del proprio lavoro. E’ vero, ma o si fa una rivoluzione o bisogna eleggere dei parlamentari che abbiano a cuore la disoccupazione, la crisi economica e che vogliono dare speranze ai  giovani, ma se non c’è una legge elettorale che consenta di poter eleggere persone scelte da noi sulla base di programmi chiari, dettagliati e realistici (le persone capiscono quando si tratta di pure promesse elettorali, che come disse un cinico uomo politico  francese ” impegnano soltanto chi le ascolta”) non avremo mai le politiche che desideriamo. Abbiamo una sinistra debole e frammentata, ma la sua riunificazione non dipende da buone intenzioni anche se accompagnate da buona volontà, che spesso è mancata. Un pensatore politico, che si è speso per un superamento delle divisioni a sinistra, Edgar Morin (il suo libro: Ma Gauche del 2010 e stato tradotto anche  in italiano con il titolo: La mia sinistra, Rigenerare la speranza nel XXI secolo da Erikson Editore 2011) ha scritto come presentazione “. LA SINISTRA, ho sempre odiato questo termine unificatore, che occulta le differenze, le opposizioni e i conflitti. Perché la sinistra è una nozione complessa nel senso che questo termine in se comporta unità, concorrenza e antagonismi”. Il Brancaccio è stato un tentativo cui avevo dato iniziale adesione, ma sulla cui dinamica non potevo influire. Già era in corso parallelo un altro processo guidato da MDP per la forza dei numeri. E’ indicativo che tramontata l’ipotesi di una lista unica nessuno dei soggetti decisori, non un iscritto a un gruppo, abbia mai proposto una coalizione. Ora la coalizione non ha più dopo la modifica dell’art. 14 bis dpr 361 un capo e un programma comune. Se nella coalizione si son due liste che superano il 3% non cambia niente rispetto alla loro rappresentanza, ma potrebbe crearsi un dinamica aggregando un’altra lista sotto il 3% da far giungere la coalizione al 10%, che avrebbe dovuto essere l’obiettivo minimo di una lista unica. Se non c’è nemmeno questo spirito, ma anzi, ho ascoltato voci nei due campi che una coalizione farebbe perdere tutti e due perché nell’uninominale si dovrebbe avere un candidato comune, e pertanto scatterebbero veti reciproci. Poi ci sono gli interessi materiali contrapposti, che neppure un’iniziativa forte dei 750 comitati NO avrebbe potuto temperare da un lato la sinistra non rappresentata che voleva candidature nuove e dall’altro una sinistra iperrappresentata  a causa dell’illegittimo premio di maggioranza incostituzionale che aveva necessità di confermare il maggior numero possibile di uscenti. Non penso proprio di candidarmi, al limite se ci fosse una coaliuzione di sinistra in un collegio uninominale e perciò perdente, ma anche così ci sarebbero problemi. Le ultime iniziative per cercare di ottenere una pronuncia nel merito sul “Rosatellum” prima delle elezioni non sono state condivise tra i vertici partitari. Persino nel CDC sono affiorate differenziazioni, asolutamente scontate. In parte frutto di un pensiero, nel quale si distingue tra azione giuridica e azione politica. Se si crede nel nesso indisolubile tra libertà, democrazia e socialismo la scelta di credere nello Stato di diritto e nelle istituzioni che lo devono garantire è UNA SCELTA POLITICA, che non esclude la mobilitazione popolare con la creazione di comitati di sostegno a tutti i livelli per indirizzaree l’opinione pubblica contro una legge, che è fatta per far astenere i cittadini normali, cioè quelli che non sono militanti di partito e che al limite si recano alle urne per punire il governo in carica. Ora se non sei vicino ad una formazione che ha presentato liste e pertanto non ti importa chi candida, perché vanno bene tutti, e non puoi nemmeno sanzionare Gentiloni perché comunque vadano le elezioni l’Europa e Mattarella hanno deciso che Gentiloni resta in carica fino alle nuove elezioni anticipate. Per di più non puoi votare nemmeno il candidato uninominale preferitro senza prenderti il “pacco” (nel doppio senso della parola) della lista bloccata plurinominale. Aggiungi, che, in un collegio da 6 a 8  seggi, che sono la MAGGIORANZA alla Camera, e che grazie alle pluricandidature si può ridurre da 4 a 3 candidati eleggibili,  il tuo voto grazie ad un algoritmo emigri nemmeno dove tu possa immaginare, perché dovresti andare a votare. Le liste bloccate vanno bene a tutti anche a quelli che hanno votato contro. Senza le liste bloccate e le pluricandidature tutto sarebbe più complicato, immaginarsi poi se fossero le preferenze a scegliere sia dove sono libere, che organizzate. In queste situazione bisogna ridurre il danno, cioè chiamare i cittadini a votare contro chi li ha espropriati del loro diritto di votare secondo Costituzione. Su questo il M5S insisterà molto! Votare per conquistare il dritto di votare, battere cioè la coalizione del rosa-verdinellum. sconfiggere  loro e il governo in un colpo solo. Non ci sono politiche alternative se non si può votare liberamente con voto uguale e personale, senza questa precondizione mininima  anche il confronto politico è falsato. Felice Besostri SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL DIFETTO FATALE DEL NEOLIBERISMO: E’ UN MODELLO ECONOMICO SCADENTE

Il difetto fondamentale del neoliberalismo – o neoliberismo, come siamo abituati a chiamarlo in Italia – non è che è cinico, egoista, arido e privo di ideali. È proprio che tradisce l’economia, nella convinzione ideologica di possedere l’unica ricetta buona per lo sviluppo, da applicare uguale dappertutto. Con numerosi esempi il celebre economista Dani Rodrik dimostra sul Guardian che questa è una distorsione delle corrette idee economiche mainstream e che dove è stata applicata ha portato ad autentici disastri. Mentre un ricorso ai princìpi dell’economia di mercato graduale, temperato e adeguato alle esigenze dei singoli paesi è alla base dei grandi sviluppi economici dell’ultimo secolo. Il problema dei neoliberisti non è tanto che sono cattivi, insomma: è più che non capiscono l’economia. di Dani Rodrik Il neoliberismo e le sue ricette usuali – sempre più mercato, sempre meno Stato – di fatto sono una distorsione della scienza economica tradizionale. Come anche i suoi critici più severi ammettono, il neoliberismo è difficile da definire. In termini generali, denota una preferenza per i mercati rispetto allo Stato, per gli incentivi economici rispetto alle regole culturali e per l’imprenditoria privata rispetto all’azione collettiva. È stato usato per descrivere una vasta gamma di fenomeni – da Augusto Pinochet a Margaret Thatcher e Ronald Reagan, dai Democratici di Clinton e del New Labour nel Regno Unito all’apertura dell’economia in Cina alla riforma dello stato sociale in Svezia. Il termine è usato come una sorta di passepartout per indicare tutto ciò che sa di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione o austerità di bilancio pubblico. Oggi è regolarmente vituperato come epitome delle idee e pratiche che hanno prodotto insicurezza economica e disuguaglianza crescenti, hanno portato alla perdita dei nostri valori e ideali politici, e addirittura hanno fatto precipitare la reazione populista. Viviamo nell’epoca del neoliberismo, a quanto pare. Ma chi sono i seguaci e i divulgatori del neoliberismo – i neoliberali stessi? Stranamente, per trovare qualcuno che sposi esplicitamente il neoliberismo bisogna tornare parecchio indietro nel tempo. Nel 1982, Charles Peters, l’editore storico della rivista politica Washington Monthly, pubblicò un saggio intitolato A Neo-Liberal’s Manifesto. Trentacinque anni dopo è una lettura interessante, dal momento che il neoliberismo che descrive ha ben poco in comune con l’oggetto della odierna esecrazione. I politici che Peters nomina come esemplificatori del movimento non sono del tipo Thatcher o Reagan, ma piuttosto liberal – nel senso americano del termine – che, disillusi dai sindacati e dal grande governo, hanno abbandonato i loro pregiudizi contro i mercati e le forze armate. L’uso del termine “neoliberale” è esploso negli anni 90, strettamente associato a due fenomeni, nessuno dei quali era stato menzionato nell’articolo di Peters. Il primo è la deregolamentazione finanziaria, che sarebbe culminata nel crollo finanziario del 2008 e nell’ancora in atto crisi dell’euro. Il secondo è la globalizzazione economica, che ha subìto una forte accelerazione a causa della libertà di circolazione dei flussi di capitali e a un nuovo e più ambizioso tipo di trattati commerciali. La finanziarizzazione e la globalizzazione sono diventate le manifestazioni più evidenti del neoliberismo nel mondo di oggi. Il fatto che il neoliberismo sia un concetto scivoloso e mutevole, privo di una esplicita lobby di difensori, non significa però che sia irrilevante o irreale. Chi può negare che dagli anni 80 in poi il mondo abbia sperimentato uno spostamento decisivo verso i mercati? O che i leader politici di centrosinistra – i Democratici negli Stati Uniti, i socialisti e i socialdemocratici in Europa – abbiano sposato con entusiasmo alcuni dei dogmi fondamentali del thatcherismo e del reaganismo, come la deregolamentazione, la privatizzazione, la liberalizzazione finanziaria e l’impresa individuale? Gran parte della nostra discussione politica contemporanea è imbevuta di principi che si possono considerare fondati sul concetto di homo economicus, l’essere umano perfettamente razionale, presente in molte teorie economiche, che persegue sempre il proprio interesse personale. Ma l’indeterminatezza del termine neoliberismo significa anche che le critiche che gli sono rivolte spesso non centrano il bersaglio. Non c’è niente che non va nei mercati, nell’imprenditoria privata o negli incentivi – quando sono dispiegati nel modo giusto. Il loro uso creativo è alla base dei risultati economici più significativi del nostro tempo. Disprezzando il neoliberismo, rischiamo di buttare via anche alcune delle sue idee utili. Il vero problema è che l’economia mainstream sconfina troppo facilmente nell’ideologia, limitando le scelte che abbiamo di fronte e proponendo soluzioni fatte con lo stampino. Una corretta comprensione del pensiero economico che si cela dietro al neoliberismo ci permettere di identificarne – e di respingerne – l’ideologia, quando si traveste da scienza economica. Soprattutto, ci aiuta a sviluppare l’immaginazione nel creare nuove istituzioni, qualcosa di cui abbiamo disperatamente bisogno per ridisegnare il capitalismo per il XXI secolo. Il neoliberismo, tipicamente, è considerato fondato sui princìpi chiave della scienza economica tradizionale. Per identificare questi princìpi al di là dell’ideologia, proviamo a fare un esperimento mentale. Immaginiamo che un noto e stimato economista approdi in un paese che non ha mai visitato e di cui non sa nulla. Qui ne incontra i principali responsabili politici. “Il nostro paese è nei guai”, gli dicono. “L’economia è stagnante, gli investimenti sono bassi e non c’è in vista alcuna crescita.” Si rivolgono a lui, pieni di aspettative: “Per favore, ci dica cosa dovremmo fare per far crescere la nostra economia”. Tony Blair e Bill Clinton: politici di centro-sinistra che hanno adottato con entusiasmo alcuni dei dogmi fondamentali del thatcherismo e del reaganismo. Fotografia: Reuters L’economista fa appello alla sua ignoranza e spiega che sa troppo poco del paese per formulare raccomandazioni. Dovrebbe studiare la storia dell’economia, analizzare le statistiche e viaggiare in tutto il paese prima di poter dire qualcosa. Ma i suoi ospiti insistono. “Capiamo le sue reticenze e avremmo tanto desiderato che lei avesse avuto il tempo per farlo”, gli dicono. “Ma l’economia non è una scienza, e lei non è uno dei suoi più illustri cultori? Anche se non sa molto della nostra economia, sicuramente ci sono teorie e prescrizioni generali che può condividere con noi, per guidare …

LIBERI E UGUALI MA PUR SEMPRE REFRATTARI AL SOCIALISMO

di Carlo Patrignani Alla fine, per rifarsi all’Ars poetica di Orazio: parturient montes, nascetur ridiculus mus (i monti avranno le doglie, nascerà un ricolo topo) la montagna ha partorito la carovanina rossa dei Liberi e Uguali, che d’ora in avanti dovrà dimostrare, come narra, di rappresentare la titolarità dell’onda maestosa dei più di 19 milioni di No al referendum del 4 dicembre scorso. Un’impresa questa assai ardua: chi può dire, tra coloro che si sono schierati per il No, quanti di quei 19.419.507 pari al 59,1% sono propri elettori, specie in un contesto in cui l’astensione, per la disaffezione crescente verso la partitocrazia, marcia a livelli vicinissimi al 50, e, in alcuni casi, addirittura superiori alla metà degli aventi diritto? E tra i tantissimi No quanti sono – soprattutto tra i giovani accorsi numerosi ai seggi – coloro che non condivevano le contro-riforme istituzionali del governo in carica e quanti hanno utilizzato il voto referendario per indicare con il No il loro pollice verso sul premier di allora, Matteo Renzi? Intestarsi, anche parzialmente, la straordinaria vittoria referendaria, è scorretto: basta vedere le disastrose – tanto per il Pd di Renzi, non più premier, quanto per la sinistra a sinistra del Pd – elezioni regionali in Sicilia per rendersi conto che l’onda maestosa ritiratasi ha lasciato sulla spiaggia il 53,24% del non voto, più di un elettore su due e ha spinto il ritorno al governo del risorto centro-destra. Liberi e Uguali non è la riedizione, dieci anni dopo il tracollo del 4 aprile 2008, della Sinistra Arcobaleno ma quasi: entrambe le carovane rosse discendono dal vecchio Pci del centralismo democratico e entrambe, al di là di richiami formali, i conti con il socialismo e le diverse anime europee -laburismo e/o socialdemocrazia – non li hanno fatti e non intendono farli. Lo stesso dicasi del Pd di Renzi: pur se ha aderito al Pse, di socialismo nelle sue scelte – emblematica l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori  propedeutica al Jobs Act che avrebbe prodotto un milione di posti di lavoro tutti da dimostrare, e forse più virtuali che reali – se ne è vista poco, ce ne è assai poco: per entrambi – Pd e Liberi e Uguali – la parola laicità è totalmente sconosciuta. Eppure basterebbe volgere lo sguardo al di là delle Alpi dove un distinto signore di 68 anni, Jeremy Corbyn, sta realizzando giorno dopo giorno una seconda rivoluzione in Inghiliterra: il Labour Party  ripulito – a differenza del Pd renziano e delle carovane rosse alla sua sinistra – dai Blaires dinosaurs, quelli del libero mercato che aggiusta tutto, è dato dal sondaggio di Survation, l’istituto che indovinò i clamorosi risultati delle elezioni di giugno scorso, ben otto punti avanti ai Tories della Premier Theresa May: 45% ai laburisti e 37% ai conservatori. Si dirà: qual’è la differenza? Sta tutta nella credibilità e coerenza di Corbyn, laburista da sempre: qualità che alimentano la diffusa popolarità tra i giovani, i ceti popolari e la middle class, ma che mancano all’establishment a trazione catto-comunista e ex-comunista: Pd e carovane varie. Poi gli apprezzamenti dello storico Luciano Canfora tutti i punti di riferimento che abbiano un richiamo esplicito al socialismo vanno benissimo come appunto Corbyn o quelli di Pippo Civati libertà, uguaglianza e socialismo sono parole antiche ma sempre attuali, lasciano il tempo che trovano perchè vengono dall’establishment poco credibile, coerente e quindi poco popolare. Fonte: alganews.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ECONOMIA&LAVORO N.2/2017

Sono online sul sito della Fondazione Giacomo Brodolini l’indice e i sommari del numero 2/2017 del quadrimestrale Economia&Lavoro, attualmente in distribuzione. I singoli articoli in formato elettronico e le copie cartacee del numero possono essere acquistati online. Il numero si apre con una sezione monografica, a cura di Leonello Tronti, intitolata “Dopo i mille giorni. Le prospettive del mercato del lavoro e delle relazioni industriali”. Ai lettori viene offerta una rielaborazione di alcune delle relazioni presentate al workshop, dal medesimo titolo, organizzato a Roma il 27 marzo 2017, in occasione della 32a ricorrenza della tragica morte di Ezio Tarantelli. La sezione si articola in due parti. La prima contiene tre saggi di carattere scientifico: Luisa Corazza si interroga sull’impatto che i cambiamenti connessi alla quarta rivoluzione industriale potrebbero avere sul diritto del lavoro; Giuseppe Croce analizza gli effetti occupazionali dell’introduzione del contratto a tutele crescenti e del parallelo esonero contributivo delle assunzioni a tempo indeterminato nel 2015 e 2016; infine, Michele Faioli si concentra sulle innovazioni della disciplina in materia di contrattazione collettiva decentrata e premi di produttività. La seconda parte propone quattro interventi di carattere sindacale, istituzionale e di politica del lavoro a firma di Franco Martini, Marco Bentivogli, Maurizio Del Conte e Cesare Damiano. Il numero prosegue con il dialogo sul New Public Management: i due interventi di Paolo Borioni analizzano i limiti e le contraddizioni di tale paradigma di governance, nonché il dibattito nordico su istituzioni pubbliche, New Public Management e riforma del welfare; l’intervento di Giulio Moini si focalizza invece sull’intreccio storico tra il New Public Management e il neoliberismo. A seguire il saggio di Paola Potestio, Caterina Conigliani e Vincenzina Vitale, che conduce una serie di confronti regionali in relazione alle forme contrattuali e ai modelli di flessibilità adottati nelle imprese manifatturiere italiane. Il contributo di Felice Roberto Pizzuti riprende i principali risultati del Rapporto sullo stato sociale 2017: all’analisi della natura della “grande recessione” iniziata nel 2007-2008 (e delle dinamiche a essa collegate), segue un esame delle politiche economico-sociali attuate in Europa e in Italia. Il saggio di Andrea Ciarini e Silvia Lucciarini esplora le interconnessioni tra welfare statuale e occupazionale, considerando le traiettorie di sviluppo di alcuni aspetti del welfare occupazionale, in termini di inclusività e rappresentanza, da una prospettiva storica e istituzionalista. Il monitoraggio e l’analisi delle best practices dei servizi per l’impiego universitari nel Lazio sono invece al centro del contributo di Piera Rella e Ludovica Rossotti. Segue il saggio di Jacopo Perazzoli, che fornisce nuovi spunti di riflessione per lo studio della svolta di Bad Godesberg, attuata dalla Socialdemocrazia tedesca (SPD) nel 1959. In chiusura, Antonio Famiglietti analizza l’evoluzione, nel ventennio 1960-1980, della posizione della FILCAMS-CGIL verso la grande distribuzione. Recensioni Pasquale Tridico, Inequality in Financial Capitalism (di Michele Raitano).   ECONOMIA&LAVORO n.  02/2017 Dopo i mille giorni. Le prospettive del mercato del lavoro e delle relazioni industriali Fonte: Fondazione Giacomo Brodolini SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CONTRO LA DISUGUAGLIANZA NON BASTA LA LEVA FISCALE

di Laura Pennacchi Economia. La prima grande questione è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva ma quella della produzione Il dilagare dei populismi e il diffondersi del disorientamento non si contrastano con la mimetizzazione che accentua la spoliticizzazione – la ripetizione ossessiva del mantra «meno tasse (per i ricchi)» o il ricorso ad un argomento tipico dell’antipolitica quale la polemica sui vitalizi -, ma con il rilancio della dimensione programmatica del «progetto». Ce n’è bisogno anche per problematiche che, dopo un lungo oblio, hanno riconquistato le luci della ribalta, come la diseguaglianza. Se non vogliamo, infatti, che su di esse si dia vita ad una sorta di nuova retorica inconcludente, dobbiamo andare più a fondo. LA PRIMA GRANDE questione aperta è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva – su cui invece si concentra, con la fondamentale eccezione di Atkinson, la letteratura prevalente in materia, compreso Piketty –, ma primariamente la sfera produttiva, l’allocazione, le strutture in cui si articolano i vari modelli di sviluppo, ponendo in evidenza la profonda connessione tra i trend della diseguaglianza e le dinamiche della finanziarizzazione e del deterioramento dell’economia reale esplose con la crisi del 2007/2008. Le recenti analisi di Lazonick mettono in luce da una parte come l’odierno incremento delle diseguaglianze sia dovuto all’incredibile capacità dello 0,1% al top della distribuzione del reddito di appropriarsi delle risorse generate e di tutti i guadagni di produttività – una capacità «estrattiva» predatoria, acutizzante il vecchio potere monopolistico della rendita, consentita non da autentici contributi propri ma dalla posizione che si occupa nel processo di produzione -, dall’altra come esso sia veicolato da specifici meccanismi connessi alle nuove tecnologie. Il dispositivo degli stock buybacks – con cui le imprese vendono e ricomprano freneticamente le loro azioni per farne salire il valore, così da remunerare al rialzo i propri manager – e gli incentivi non salariali ai manager, come la remunerazione attraverso l’erogazione di stock options – che alimentano lo shortermismo e deprimono la spinta ad investire in capacità produttiva reale e in innovazione – sono tutti interni al processo di finanziarizzazione neoliberistica in atto da molti anni, a sua volta strettamente legato all’avanzare del ciclo innovativo odierno. D’ALTRO CANTO, anche dal lato redistributivo l’analisi viene molto complicandosi, dando più concretezza al dibattito sulla scomparsa del ceto medio (the disappearing middle class): Richard Reeves, per esempio, insiste che il problema non è solo l’1% più ricco (che certo dei 7 mila miliardi dollari di ricchezza nazionale creata negli Usa dal 1979 al 2013 è riuscito ad accaparrarsene ben 1300), ma anche la upper middle class (il 19% che è riuscito ad accaparrarsene 2.700 miliardi, mentre al rimanente 80% sono andati solo 3.000 miliardi), facendo sì che la vera frattura sociale, perpetuata attraverso una drammatica confisca del sistema educativo dalle scuole elementari alle Università, corra lungo quel confine di reddito (pari a 112 mila dollari l’anno), al di sotto del quale stanno la middle class e la bottom class. SONO QUESTE, peraltro, le ragioni che inducono a ritenere inefficaci per contrastare i meccanismi innovativi profondi alla base dell’acuirsi odierno delle diseguaglianze, così come delle tensioni occupazionali e dell’elevata disoccupazione, semplici misure di trasferimento monetario – quale la riduzione delle tasse, ma anche il reddito di cittadinanza – e a considerare preferibili misure di taglio più strutturale, quale la proposta di Lazonick di vietare gli stock buybacks e di rivedere radicalmente la struttura degli incentivi ai manager (tra l’altro non consentendo la vendita a breve delle stock options). La stessa Bce da una parte riconosce esplicitamente che i programmi di quantitative easing (che iniettano massicciamente liquidità mediante l’acquisto di titoli dei debiti pubblici generante guadagni di capitale per i suoi possessori) hanno accresciuto la ricchezza dei già ricchi producendo effetti redistributivi perversi non voluti, dall’altra ancora alza il velo sull’inadeguatezza dei salari e ne denunzia la mancanza di corrispondenza con i fondamentali dell’economia. LA SECONDA GRANDE questione aperta, se vogliamo andare più in profondità nel trattare la problematica «eguaglianza/diseguaglianza», è quella della democrazia economica, prendendo atto che le dinamiche di finanziarizzazione sono strettamente intrecciate con lo shift dell’ottica imprenditoriale verso profitti di breve periodo e verso l’enfasi sulla teoria della shareholder value e lo schortermismo, trasformando il ruolo del manager da attore contemperante i vari interessi in gioco in agente di se stesso e del capitale finanziario. SIGNIFICATIVAMENTE tra i lavori prodotti dalla Commission on Economic Justice istituita dallo Ippr londinese nel 2016 (in esplicito rinvio/distacco dalla Commission on Social Justice creata dal Labour di Tony Blair nel 1994) ve ne sono alcuni che mettono in evidenza la correlazione tra il primato, nella corporate governance inglese, degli interessi degli azionisti – all’origine dell’innalzamento della quota dei profitti distribuiti e non reinvestiti – e il declino degli investimenti, argomentando come tale modello di corporate governance (basato sull’esclusività della rappresentanza degli azionisti e privo della partecipazione degli altri stakeholder, in particolare dei lavoratori) sia una delle ragioni delle debolezze e delle fragilità dell’economia britannica (specie per quanto riguarda la stagnazione della produttività). In questo ambito non si dovrebbe dimenticare che Roosevelt, iniziando la sua straordinaria opera riformatrice dalla denunzia delle molte cose che andavano male nell’economia americana (la distribuzione del reddito, la bilancia dei pagamenti, la struttura bancaria, ecc.), non mancò di sottolineare la «cattiva struttura societaria», rea di aver dato vita, con le parole di John Galbraith, a «una specie di alta marea del furto societario». Così come dovrebbero essere recuperate le ispirazioni «non proprietarie» del piano Meidner del 1975-76 (che aveva al proprio cuore la preoccupazione per la caduta dell’interesse dei capitalisti agli investimenti, quando ancora sarebbe stato possibile uscire dalla crisi innescata dal primo shock petrolifero in modo diverso dalla sola compressione dei salari). PER TUTTE QUESTE ragioni Atkinson collega all’idea di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito» agendo come employer …

FEDERICO CAFFE’: LA LEZIONE INTERROTTA DELL’ECONOMIA CHE DIFENDEVA IL LAVORO

A sinistra Paolo Sylos Labini con Federico Caffè La misteriosa scomparsa di Federico Caffè avvenuta più di trenta anni fa ha reso questo schivo economista una celebrità. Un uomo che per tutta la vita aveva tanto accuratamente evitato il clamore della scena pubblica quanto amato la riservatezza dell’insegnamento è diventato famoso per l’ultimo episodio della sua vita. Oggi avrebbe avuto più di cento anni e a chi gli faceva gli auguri, con l’autoironia che gli era propria, rammentava di essere “un figlio della Befana”. Il carisma che ha esercitato su una ampia generazione di allievi ha fatto sì che ognuno di loro abbia sentito la necessità di rievocare il comune maestro, come se questo fosse il modo migliore per esprimergli tardiva gratitudine. Perché Caffè ha lasciato un vuoto che chi lo ha conosciuto non è riuscito a riempire se non con il ricordo. La sua eredità non si esaurisce in una univoca scuola di pensiero. Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico, come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi ci siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde. Caffè aveva le sue idee, e le difendeva con accanimento, ma era capace di ascoltare e di accettare opinioni diverse. Che cosa è rimasto del suo pensiero? Tre idee ci sembrano oggi ancora più importanti di uno quarto di secolo fa: il pieno impiego, l’assistenza sociale e la politica economica. 1) Caffè riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese. Certo, era consapevole quale fosse la differenza tra la Gran Bretagna del suo amato Keynes e la nostra penisola: da noi, gli effetti peggiori della disoccupazione, specie quella giovanile, erano e sono parzialmente assorbiti dalla famiglia. Ma Caffè aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato dei lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente le competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell’operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro. 2) Come indica il titolo del suo ultimo libro, In difesa del Welfare State, Caffè sosteneva accanitamente la protezione sociale, anche in un periodo come gli anni Ottanta in cui il debito pubblico italiano stava esplodendo. Società opulente dovevano farsi carico dei più deboli aumentando la tassazione sui più ricchi. Per tutta la sua vita, e ancor di più negli ultimi anni, Caffè sentì moltissimo il problema dell’assistenza agli anziani, troppo spesso privi di quei servizi essenziali che invece esistevano in altre parti del mondo; prima ancora di criticare il Welfare State, sosteneva, sarebbe stato necessario realizzarlo. Queste opinioni erano anche associate ai suoi timori personali: temeva di diventare di peso e questa fu una delle cause della sua depressione. Allo Stato rimproverava di “prelevare” male e di “spendere” peggio, e in ciò occorreva rintracciare la crisi dell’assistenza sociale. La soluzione ai problemi del bilancio pubblico non andava ricercata affidando al mercato problemi che non erano di sua competenza, quanto piuttosto riformando radicalmente il funzionamento dell’amministrazione statale. 3) Infine, per Caffè la politica economica poteva e doveva avere un ruolo chiave per la coesione sociale. “Politica economica” non era solo la materia che insegnava, ma anche la pressante richiesta al governo di agire per assorbire i conflitti sociali, aumentare la produzione, soddisfare i bisogni umani. Non digeriva i diktat degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Commissione europea. La politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie si indirizzassero verso attività speculative piuttosto che produttive. Era compito del governo trovare soluzioni concrete lì dove i mercati non riuscivano a raggiungere gli obiettivi sociali. Imprese a partecipazione statale, servizi collettivi, lavori pubblici e politica monetaria erano solamente gli strumenti a disposizione del governo per realizzarli. Era fiducioso nel fatto che un loro uso illuminato avrebbe consentito al governo di raggiungere più occupazione e più benessere. Passano gli anni, i problemi cambiano eppure rimangono simili. Rileggere oggi i suoi scritti ci fa capire quanti appuntamenti siano stati mancati dalla politica italiana per risolvere i problemi strutturali del Paese. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, ha toccato nuovi record storici e i pubblici poteri delegano ancora al mercato la risoluzione del problema. Il debito pubblico continua a dominare il dibattito di politica economica ma ancora oggi il governo non è capace di identificare i benefici generati dalla buona spesa e dai buoni investimenti pubblici. La politica economica del governo subisce passivamente i vincoli esterni. No, Federico Caffè non avrebbe ragione di essere soddisfatto dell’Italia di oggi. E chissà se avrebbe ancora la voglia di indicare quotidianamente la via di un riformismo possibile. Fonte: syloslabini.info SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

I DUBBI DI FEDERICO CAFFE’ SULL’EUROPA

Circa trent’anni anni fa spariva Federico Caffè, uno dei più illustri economisti italiani, tra i primi a sviluppare il pensiero di Keynes in Italia.  Proponiamo un estratto di un ampio documento di Mario Tiberi che ricostruisce le perplessità di Caffè, pur convintissimo europeista, sulla costruzione dell’Europa monetaria. Nonostante Caffè non abbia mai visto l’Euro, i dubbi di allora sullo Sme appaiono incredibilmente, e tragicamente, attuali. […] Lo stesso Caffè, alcuni anni prima, aveva scritto un saggio, col quale rendeva omaggio a Marco Fanno, riprendendo il tema che quest’ultimo aveva affrontato in un contesto istituzionale molto diverso, ma che Caffè riteneva evidentemente essere tornato di grande attualità. Egli intendeva prendere in considerazione la varietà dei movimenti di capitale che possono avvenire tra un paese e l’altro, riconducendoli alle due categorie di normali e anormali, proposte da Fanno. Non si tratta di ripercorrere qui la casistica dei movimenti inseriti nelle due categorie, ma di ricordare la forte preoccupazione di Fanno, fatta propria da Caffè, sugli effetti perturbatori provocati da quella parte dei flussi anormali, avente un andamento particolarmente erratico: indicativo ora di criticità sottostanti, ora foriero di ripercussioni negative, non solo sulle variabili monetarie e finanziarie, ma anche su quelle reali, quali reddito e occupazione. Il quadro di riferimento è ancora l’economia mondiale, ma è esplicitamente presa in considerazione la situazione in cui, come nella Cee di allora, coesistano paesi a valuta forte, cioè la Germania, e quelli a valuta debole, cioè l’Italia. In circostanze del genere c’è un’esposizione continua al rischio di movimenti di capitale dal paese a valuta debole verso quello a valuta forte, con creazione di squilibri che i meccanismi di mercato non sono sempre in grado di raddrizzare, se, in loro aiuto, non può intervenire, per il vincolo derivante dall’accordo, la svalutazione della valuta debole. In mancanza del parallelismo degli obblighi, secondo un’espressione cara a Caffè, il paese in difficoltà si trova costretto a perdere riserve o a ricorrere a politiche restrittive, che incidono sui livelli di occupazione. Facendo sempre salvo il valore della prospettiva politica dell’integrazione europea, non si può negare che l’esperienza vissuta e il dibattito teorico continuarono a fornire buoni argomenti ai critici delle soluzioni di “ingegneria monetaria”, come le definisce Caffè, che costellavano quella prospettiva. L’affidamento ad un meccanismo cooperativo della manovra del tasso di cambio, strumento essenziale, in precedenza, nelle mani dei singoli stati per recuperare la loro stabilità macroeconomica, soprattutto nei conti con l’estero, rendeva necessarie numerose operazioni di riallineamento delle parità centrali, realizzate con laboriose trattative tra i paesi membri. È vero che lo Sme prevedeva il contributo al riequilibrio del paese forte, ad esempio con una rivalutazione, difficile da ottenere quando si è indotti a pensare che gli squilibri siano il risultato di comportamenti virtuosi, da un lato, e perversi, dall’altro. Quanto alle risorse destinate al sostegno multilaterale attraverso la creazione di un Fondo comune europeo, le procedure elaborate, discrezionali e non automatiche, risultavano inadeguate alle esigenze di intervenire con tempestività. La correzione delle conseguenze di turbamenti asimmetrici non poteva, d’altra parte, essere affidata alla mobilità dei lavoratori, pur operante, ma non in misura tale, per quantità e tempi, da contribuire in maniera significativa al riequilibrio della situazione. Avendo in mente situazioni del genere, prevedibilmente, più numerose da attendersi nelle relazioni tra paesi all’interno e all’esterno della Cee, Caffè prende decisamente posizione in favore di un interventismo nazionale e sovranazionale, che non mostri nessuna soggezione rispetto alla esaltazione delle capacità della “mano invisibile” di operare, efficacemente ed equamente, anche nell’allocazione delle risorse finanziarie e reali sul piano mondiale. Egli insiste nella sua battaglia culturale a favore dell’attivazione di strumenti di controllo dei movimenti di capitale per salvaguardare e accrescere i livelli di occupazione in tutti i paesi, in particolare in quelli, come l’Italia, impegnata nel confronto serrato con i paesi europei appartenenti all’area del marco. Egli richiama con insistenza, ad iniziare dal suo articolo appena ricordato, le norme contenute negli accordi internazionali, in sede Fmi e Cee, che indicavano casi non marginali in cui tali strumenti restrittivi potevano essere utilizzati per accompagnare il processo di integrazione tra i diversi sistemi economici; esprime, anzi, il rammarico, riferendosi specificamente alla Cee, perché:  “Alla lettera del trattato e alla lungimiranza di qualificati economisti si è tuttavia contrapposta la pressione di tecnocrati, i quali sono riusciti a far coincidere l’applicazione di un trattato non nel rispetto, ma nell’ “accelerazione” dei suoi tempi di attuazione”. L’esposizione più ampia e diretta dei “dubbi” di Caffè sullo Sme si ritrova nel documento già citato () che, seppure non pubblicato, e quindi forse non riletto, contiene una serie di spunti critici, caratteristici del suo modo di guardare ai fatti economici. Intanto c’è un richiamo storico al Risorgimento italiano, riguardante un momento di svolta fondamentale, come Caffè considera la scelta contrastata dell’Italia di “entrare” in Europa. C’è poi la forte preoccupazione per l’inevitabile egemonia della Germania, che seppure ancora divisa, rappresentava il paese ad economia nettamente più forte e solida tra i paesi della Cee. Caffè temeva soprattutto il tipo di cultura economica di cui i gruppi dirigenti di quel paese erano portatori, a prescindere, per alcuni aspetti, dai loro orientamenti politici. In particolare si faceva sentire in tali gruppi il trauma dell’iperinflazione vissuta dalla Germania negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Il retaggio fondamentale di tale esperienza si traduceva nella particolare sensibilità alla stabilità dei prezzi, ottenuta anche con un assetto istituzionale che prevedeva una forte autonomia della Banca Centrale rispetto al potere politico. Tale orientamento non era controbilanciato, all’interno degli organi comunitari, dalla presenza della Gran Bretagna, che non poteva esercitare, per sua scelta, un ruolo da protagonista nei processi decisionali comunitari. In tema di elaborazione degli obiettivi da raggiungere va ricordato quanto pesasse nelle decisioni di politica economica di tale paese il messaggio sancito nel secondo Rapporto Beveridge, redatto da questo studioso liberale sotto l’influenza determinante del pensiero di John Maynard Keynes: “il governo accetta come uno dei suoi obiettivi e doveri primari il mantenimento di un alto e stabile livello di occupazione dopo …