DEMOCRAZIA O CONFUCIANESIMO 4.0?
A partire dalla rilettura di Ralf Dahrendorf (“Quadrare il cerchio”, Laterza, 1995), una riflessione critica sulla post-democrazia confuciana teorizzata da Parag Khanna nel volume “La rinascita delle città-Stato”, di recente pubblicazione per Fazi: una proposta di governance tecnocratico-burocratica a misura degli interessi dominanti. di Pierfranco Pellizzetti «La tirannia del costume è generalmente un ostacolo al progresso dell’umanità. […] Questo è il caso, per esempio, di tutto l’Oriente. In Oriente il costume domina arbitro supremo in tutte le cose»[1]. John Stuart Mill «Prima che l’umanità soffochi (o si delizi) nella prigione (o nel paradiso) di un impero globale di marca occidentale o di una società di mercato globale gravitante attorno all’Oriente asiatico, potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie) della crescente violenza che ha accompagnato il disfacimento dell’ordine della Guerra Fredda»[2]. Giovanni Arrighi Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Laterza, Roma/Bari 1995 Parag Khanna, La rinascita delle città-Stato, Fazi, Roma 2017 Nostalgia di un mondo alla fine Nel pieno della grande transizione di fine Novecento, il sociologo anglo-tedesco Ralf Dahrendorf diede alle stampe uno smilzo libretto impregnato della consapevolezza melanconicamente profetica di assistere al tramonto del mondo in cui si era riconosciuto per tutta la sua esistenza militante. Il Primo Mondo, quale Occidente illuminato e civile, interpretato e propugnato con le categorie del liberale critico di stampo popperiano e newdealista: «a volte si ha l’impressione che la grande stagione stia per concludersi, o che sia quanto meno in pericolo»[3]. La società aperta che perseguiva «un equilibrio civile tra creazione della ricchezza, coesione sociale e libertà politica»[4]. In altre parole, la combinazione, realizzata nei suoi momenti migliori (e dimenticando le contraddizioni permanenti di esclusione, diseguaglianze e richiami bellici insite nel modello praticato), di uno sviluppo materiale che dischiudeva opportunità anche a coloro che non avevano ancora raggiunto la prosperità, la sostituzione del privilegio con il diritto generalizzato diffondendo cittadinanza e quella singolare combinazione del rispetto dello stato di diritto con i rischi della partecipazione popolare e l’alternanza di governi che chiamiamo “democrazia”. L’occhio attento dell’osservatore impegnato scorgeva con chiarezza i pericoli di arresto della difficile quadratura civile che – appunto – ormai iniziavano a manifestarsi in misura crescente alla fine del secolo scorso, grazie a quel nuovo corso inarrestabile chiamato “globalizzazione” (oggi aggiungiamo l’aggettivo “finanziaria”); in cui l’economia andava imponendo la propria egemonia marginalizzando la politica, cancellando le condizioni stesse del conflitto sociale che riequilibra il comando capitalistico e smantellando l’antemurale contro la prevaricazione rappresentato dai diritti sociali. Mentre la rinascente propaganda mediatica, al servizio dell’uso ideologico della paura, soppiantava la centralità della security (garanzia del proprio posto nella società) con la safety (la promessa di incolumità personale, nel mondo trasformato in un immenso Bronx terrorizzante). Il ritorno al comando della plutocrazia senza freni e contrappesi, che l’esperto di politica e faccende militari Edward Luttwak ha bollato sbrigativamente come “turbocapitalismo” («lo chiamano libero mercato, ma io lo definisco invece capitalismo sovralimentato, o più semplicemente turbocapitalismo»[5]). Dunque, il combinato disposto di deregulation e prevalenza degli interessi aziendali che andava creando la nuova forma di disuguaglianza che Dahrendorf riteneva più corretto definire “sperequazione”. Mentre andava in frantumi il cerchio che si è cercato a lungo di quadrare, qualcuno intravvedeva una soluzione auspicabile nei laboratori a Oriente, che perseguivano l’equilibrio grazie «alla ricerca di una rapida crescita economica che si sposi con una robusta coesione sociale, senza preoccuparsi troppo di promuovere insieme stato di diritto e democrazia politica»[6]. Progetto lontanissimo – anzi, alternativo – a quello occidentale (Giappone compreso), al tempo impersonato da quelle che venivano denominate “le tigri d’Asia”; o “i quattro dragoni”: Singapore, Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud. Arrivano i consulenti asiatici Infatti i teorici asiatici del nuovo modo di produrre stavano acquisendo la convinzione di non dover ripercorrere i passaggi evolutivi attraversati nei processi di industrializzazione/modernizzazione prima europei, poi americani, attingendo ai valori della propria ancestrale tradizione. Una tradizione a guida cinese che – secondo Arrighi – aveva prodotto dal sedicesimo al diciottesimo secolo una “rivoluzione industriosa”, insita nello sviluppo promosso da istituzioni e tecnologie ad alto contenuto di lavoro (in risposta alla scarsa disponibilità di risorse naturali); pur su basi di mercato ma senza l’attitudine a imboccare la via ad alta intensità di capitale e consumi energetici perseguita già dalla rivoluzione industriale inglese. Un assetto rigidamente organizzato, che diffondeva l’etica del lavoro in un contesto rigorosamente verticistico e gerarchico. Fedele all’ideale confuciano dell’armonia sociale «e non disposto a tradirlo per abbracciare una visione basata su una competizione di mercato senza freni e su una politica generalizzata di laissez-faire»[7]. Sulla scia di Stuart Mill, ora anche il nostro Dahrendorf scorgeva nel modello redivivo nel Far East la pericolosa contaminazione dei tradizionali valori asiatici calati dall’alto con l’autoritarismo politico; osservando come tale modello esotico piacesse già allora a moltissimi uomini d’affari e ai politici conservatori. Non a caso proprio nel fatidico 1995, in contemporanea con il saggio dahrendorfiano, veniva dato alle stampe il manuale del McKinsey boy Kenichi Ohmae, conclamato guru della consulenza del business, che gli contrappone uno squillante peana della stagione economica a venire: il migliore dei mondi possibili. Scriveva questo Pangloss con gli occhi a mandorla: «per molti dei valori fondamentali su cui si reggeva un ordine mondiale basato su una serie di Stati-nazione distinti e indipendenti – per esempio la democrazia liberale praticata dai Paesi occidentali e addirittura il concetto stesso di sovranità politica – si è effettivamente manifestata la necessità di una rigorosa ridefinizione o, in qualche caso, di una vera e propria sostituzione»[8]. Olè, in un colpo venivano fatti fuori la statualità, spazio prioritario (per non dire esclusivo) delle politiche di solidarietà, e la liberal-democrazia. Visto che l’ordine nascente ridisegnerebbe il panorama geopolitico sulla base della competitività. Un mondo tratteggiato a strisce (“come il pellame della zebra”) grazie al ruolo svolto da aziende multinazionali foot loose; in cui la politica accetta un ruolo servile, del tutto subalterno all’economia: «nell’odierno mondo senza frontiere, l’insegnamento che i governi debbono fare proprio è inequivocabile: se si rimane ancorati troppo a lungo al concetto di economia …