MINIMO SALARIALE PER LEGGE: UNA SCORCIATOIA!

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | Dopo anni di silenzio, l’emergenza salariale è diventato finalmente uno dei punti centrali dell’agenda economico-sociale del Paese ma, ci chiediamo se il nodo fondamentale di questa criticità è il valore del salario minimo (che riguarda un numero limitato di percettori) o la dinamica in larga parte stagnante di tutte le retribuzioni. Intanto mi sembra sbagliato affrontare questi nodi ricorrendo ad affermazioni (anche da parte di ex ministri del lavoro) NON VERE, espresse o per non conoscenza delle reali situazioni o (come pensiamo) per pura demagogia o propaganda preelettorale in vista delle “europee”. Abbiamo sentito in vari talk show televisivi  o letto in interviste sulla stampa dichiarazioni di autorevoli politici ed anche di  sindacalisti che i “salari italiani sono i PIU’ bassi in Europa e nell’area OCSE”. Ebbene, sia che si tratti dei 27 Paesi della U.E., sia che si tratti dei 20 Paesi dell’eurozona, sia che ci si riferisca con queste “boutades” a tutta L’Europa allargata anche ai Paesi non facenti parte della U.E. (come Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Serbia, Montenegro e via dicendo), le retribuzioni italiane non possono essere PIU’ basse in confronto a queste realtà, tenendo conto ad es. che i Paesi dell’Europa orientale ex-comunisti – a causa del loro passato –  hanno tutt’ora retribuzioni mensili di circa la metà di quelle italiane ed anche meno. La retribuzione media lorda in Russia, che non è nemmeno la piu’ bassa fra quelle analoghe di detti Paesi, si aggira (tradotta in euro) sui 450 € mensili mentre in Italia (vedi statistiche ISTAT ed Eurostat) è sui 2.500 € mensili inferiore alla retribuzione lorda media europea (U.E. a 27 Paesi) che è di 2.790 € mensili. Certamente la retribuzione italiana “paga dazio” rispetto all’U.E. il cui piu’ alto valore medio è trainato dalle retribuzioni tedesche, francesi, del Benelux e dei Paesi scandinavi mentre non è così per i profitti italiani che sono fra i piu’ alti in Europa rispetto ai PIL nazionali. A questo punto, pero’, serve un chiarimento “tecnico” che approfondisca i motivi anche contabili di questo sfavorevole rapporto per la massa lavoratrice italiana, di un Paese con il terzo PIL d’Europa, con la terza piu’ grande  attività produttiva e con la seconda posizione nell’export europeo. Ed il chiarimento che vogliamo fare  – in parte tecnico – vale anche per l’altra annotazione statistica, quella dell’OCSE,  che circola da tempo che affermando  che dei 38 Paesi aderenti l’Italia si trova all’ultimo posto nella classifica degli andamenti retributivi delle singole realtà nazionali (tutte in crescita dal 1992 al 2021, tranne l’Italia che registra una riduzione) quasi che nel nostro Paese non fossero mai stati rinnovati i CCNL. Bisogna  tener conto che le statistiche e le comparazioni fra le varie situazioni salariali nazionali avvengono tra retribuzioni lorde MEDIE che sono delle retribuzioni contabili in quanto rappresentano una media ponderata tra varie  e diversificate retribuzioni categoriali e, soprattutto,  tra le altrettanto diverse retribuzioni delle varie qualifiche di ogni categoria. Le criticità della variegata situazione salariale italiana e che hanno abbassato negli ultimi anni il VALORE MEDIO delle retribuzioni dipendono da vari fattori. a) Sono cresciute le piccole e microimprese nelle quali NON  si è sviluppata la contrattazione integrativa aziendale collegata quasi sempre all’indice di produttività (per tale motivo il “sistema Italia” registra un regresso anche in questo importante fattore di competitività) mentre sono fortemente diminuite le grandi e medie imprese nelle quali invece la negoziazione integrativa è prassi consolidata. b) Le retribuzioni si sono ulteriormente “ammassate” nei livelli piu’ bassi dell’inquadramento professionale e retributivo e sono calate nei livelli superiori a causa della diffusione di lavori non stabili ed intermittenti in quanto gli addetti interessati rinunciano a rivendicare un giusto inquadramento professionale (e retributivo)  per la speranza di essere confermati nell’impiego quando verrà a scadenza. c) A differenza di altri Paesi europei il sistema produttivo e lavorativo italiano NON ha guarito  un certo “appiattimento” nella classificazione retributiva frutto di vecchie pratiche “egualitarie” ereditate dal passato  (aumenti uguali per tutti e non in %, una scala parametrale insufficiente che non premia la professionalità ed il merito, etc). Non è un caso che in quest’ultimo biennio di ripresa produttiva le domande di lavoro “pregiato” da parte di molte imprese industriali rimangono inevase (si tratta di quadri, tecnici, operai specializzati e qualificati, molti dei quali – in particolare giovani – vanno all’estero dove la professionalità e la competenza sono  ben retribuite). d) Vi è anche una irregolare applicazione dell’inquadramento professionale e retributivo  previsto dai CCNL a sfavore delle donne e dei giovani 15-25 anni a causa per quest’ultimi dell’estensione dell’apprendistato (retribuito in misura minore) fino a 25 anni. La normativa contrattuale sull’inquadramento professionale fissa per ogni qualifica e corrispondente livello retributivo precise declaratorie ed esemplificazioni dei vari profili professionali. Spesso – malgrado ed in violazione a ciò – il personale femminile con la medesima prestazione e profilo professionale del collega maschile  viene arbitrariamente  inquadrato in un livello inferiore rispetto a quello assegnato per contratto al collega di sesso maschile. Una ennesima violenza contro la donna, in questo caso lavoratrice. e) A tutto ciò si aggiunga che – in molti settori – da anni non si rinnovano i CCNL di varie categorie, malgrado che il “patto di concertazione Ciampi” del 23/7/93 obbligasse le parti sociali e i Governi (in quanto garanti) a rinnovare i contratti nazionali alle rispettive scadenze. Molti Governi – in qualità di datori di lavoro nel Pubblico Impiego – sono stati i primi a non rinnovare i CCNL alle debite scadenze, offrendo  un pessimo esempio all’impresa privata. Tutte queste negative motivazioni, malgrado i rinnovi contrattuali nella maggioranza delle categorie, hanno compresso la massa salariale globale anche in presenza di una stabilità o di un aumento della massa lavoratrice e pertanto si  capisce come la retribuzione media risulti abbassata rispetto al passato o scarsamente lievitata, comunque distante dalle retribuzioni dei Paesi europei socialmente piu’ evoluti. Non vi è dunque solamente un problema di salario minimo che tra l’altro, riguardando solo gli ultimi livelli dell’inquadramento professionale/retributivo e gli addetti …

MINIMO SALARIALE: CONOSCERE  PER COMPRENDERE LA REALTA’

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | «Confrontarci e solo dopo decidere, come insegnava Luigi Einaudi» Il dibattito sulla proposta di d.d.l. per un salario minimo fissato per legge si è fortemente polarizzato in termini di schieramento e non di confronto sui dati e sulle situazioni salariali reali, alquanto variegate dato il “far west”  che caratterizza il nostro mercato del lavoro e il  diffuso e diversificato sistema di contrattazione nazionale ed integrativa. Spesso si leggono ragionamenti superficiali anche perché non si conosce compiutamente da parte di molti interventori (e forse anche da parte di alcuni firmatari del d.d.l.) la conoscenza di una realtà complicata anche perché da molti commenti si capisce che non sono  molto conosciuti i vari trattamenti retributivi dei molti settori produttivi e di servizio in rapporto con le ore di prestazione in ragione d’anno e mensili. Ad esempio, per gli oltre 16 milioni di lavoratori del settore privato (esclusi gli addetti ai servizi domestici e di parte del mondo agricolo) le giornate medie retribuite sono 235, ma nei servizi di ristorazione ed alloggio le giornate retribuite sono 143 (dati Osservatorio INPS). Da ciò deriva la profonda diversità da settore a settore della retribuzione lorda annua ma anche del numero e dei valori salariali delle giornate retribuite da cui si puo’ ricavare attraverso il divisore previsto dai singoli CCNL  – come stima – il valore della retribuzione lorda oraria. Difficile, se non impossibile (salvo sapere che esiste il fenomeno), valutare quante giornate retribuite “in nero” integrano in certi settori le giornate retribuite regolarmente. Sono 10 anni, il primo che ne parlò – da Presidente del Consiglio –  fu Renzi, e da allora senza esiti si susseguirono una decina di proposte compresa quella dell’ex ministra del lavoro “grillina” on. Catalfo. Se queste proposte di d.d.l. sulla materia non ebbero una conclusione è dipeso dal fatto che la materia è caratterizzata da una complessità tecnica oltre che politica e persino costituzionale come citeremo piu’ avanti. Abbiamo già spiegato nel recente passato che la “questione salariale” non è solo questione di minimi retributivi insufficienti ed inferiori ai 9 (nove) euro all’ora proposti dall’attuale opposizione parlamentare (peraltro interessanti una entità molto limitata di lavoratori), ma lo è invece  una situazione inferiore alle pari realtà dei maggiori Paesi europei, lo è l’insufficiente legame del salario alla crescita della produttività (comunque anch’essa inferiore a quella realizzata dai suddetti maggiori Paesi U.E.), lo è il mancato rinnovo da anni di molti (troppi!) CCNL di varie categorie, lo è la fraudolenta irregolare applicazione dei trattamenti dei CCNL in varie aziende, lo è la situazione dei contratti “pirata” con condizioni “in pejus” di quelle previste dai CCNL seri, lo è la diffusa precarietà di cui soffrono molti lavoratori che operano in maniera non continuativa, con orari “part time” obbligatori, con rapporti a “termine” non confermati, come false partite iva, lo è la situazione in alcuni settori (ad es. lavori domestici e in certi ambiti del lavoro agricolo) di “non contrattualizzazione” del rapporto di lavoro i cui termini sono decisi unilateralmente dal datore di lavoro (spesso non aziende propriamente dette). Sono tutte questioni che per la maggior parte NON possono essere risolte dalla “scorciatoia” della fissazione per legge di un minimo salariale ma da provvedimenti di ben altro respiro e soprattutto dalla contrattazione sindacale. Veniamo comunque alla proposta di d.d.l. Schlein, Conte, Fratoianni, Calenda ed altri per valutare contraddizioni, reticenze e distinguo (anche tra gli stessi proponenti), con una premessa non secondaria che ci dice che i CCNL NON indicano alla voce salariale un valore orario ma mensile e che quindi la traduzione di quest’ultimo in retribuzione oraria tiene conto di vari indicatori di cui parleremo piu’ avanti e che la proposta si riferisce ad un salario LORDO che ben  sappiamo gravato da consistenti trattenuti fiscali e previdenziali il cui problema non è affrontato dal d.d.l. in parola ma puo’ essere affrontato da una seria riforma fiscale. All’art 1, la proposta del d.d.l. dice che “i datori di lavoro imprenditori sono tenuti a corrispondere ai lavoratori di cui all’art 2094 del codice civile una retribuzione COMPLESSIVA sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato” mentre all’art.2 la proposta spiega che “per retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato si intende il trattamento COMPLESSIVO comprensivo del minimo tabellare, delle mensilità aggiuntive, degli eventuali scatti di anzianità, delle indennità fisse e continuative dovute in relazione alla prestazione ordinaria, il tutto per un importo  non inferiore a quello previsto dal CCNL di categoria stipulato dalle Organizzazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale ed aggiunge al comma seguente che questo trattamento economico orario complessivo  stabilito dal CCNL ( che invece non lo stabilisce perché fissa quello mensile) NON puo’ comunque essere inferiore a 9 (nove) euro/ora. Contrariamente a quanto afferma erroneamente  l’ex Presidente dell’INPS Tridico, la proposta di legge Schlein, Conte ed altri  NON PARLA MAI di “minimo tabellare”, ma di “minimo complessivo” composto da quelle voci fisse testè ricordate e che la retribuzione deve essere ragguagliata alla qualità del lavoro prestato (si riconosce con detta affermazione che detta misura deve essere diversificata in relazione alla qualità lavorativa e produttiva  di ogni singola categoria, che – però – solo la contrattazione sindacale puo’ valutare anche in relazione alla produttività e  non l’imposizione da parte del legislatore). Aggiunge anche che, fermo restando il minimo imposto per legge la retribuzione è ragguagliata alla quantità della prestazione, perciò si riconosce che un orario ridotto mensile o annuale per vari motivi, e cioè che  una prestazione intermittente e non continuativa, determinano  una retribuzione limitata o più bassa, rispetto a quella ordinaria prevista da un  orario normale, in ragione di settimana, mese, anno. Come si fa a dire, allora, che ci sono milioni di lavoratori “precari” con retribuzioni insufficienti (per i motivi di cui sopra) che potranno avere vantaggi da questa proposta di legge che riguarda solo i minimi salariali orari e non le ore (ridotte) mensili o annuali di prestazione? Tra l’altro fissare per legge un minimo salariale è …

CONSIDERAZIONE SUL SALARIO MINIMO

di Mauro Scarpellini – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | Non ho avuto il tempo per leggere tutte le opinioni, ma ritengo di dare intanto anche la mia. Quando i sindacati erano guidati da Di Vittorio, Novella, Pastore e Viglianesi nel ventennio post bellico (anno più o meno) non riuscivano a conseguire tutte le conquiste e tutti i diritti. Intervenne la legislazione – su iniziativa socialista – per avere una legge in materia di diritti del lavoro e la si ebbe come Statuto dei diritti. Intervenne la legislazione per superare la mezzadria, poiché i rapporti sindacali di forza non consentivano un superamento negoziato. Si ebbe una fase di legislazione di sostegno (così la chiamavamo) ai diritti e alle conquiste per affermarli e/o consolidarli. Nella fase successiva di sviluppo nazionale i sindacati guidati da Lama, Pizzinato, Trentin, Storti, Macario, Carniti, Marini, D’Antoni, Vanni, Benvenuto non riuscivano a conseguire tutte le conquiste e tutti i diritti. Il negoziato coi governi per restituire ai lavoratori dipendenti il cosiddetto “fiscal drag” , cioè le imposte maggiori drenate solo per effetto della forte inflazione, prevedeva e conseguiva l’intervento di accordi e di inevitabile legge. La nuova qualificazione dei lavoratori dipendenti – dirigenti, quadri, impiegati, operai dell’art. 2095 del C.C. –  fu fatta col consenso sindacale per l’introduzione dei quadri e non per accordo negoziale con i datori di lavoro. Ho portato questi esempi, fra i tantissimi, per considerare che la sinergia tra negoziazione sindacale e intervento legislativo è un fatto storicamente e politicamente acquisito, non sarebbe una novità. In questa fase nella quale il lavoro è sottoposto ad un nuovo tipo di sfruttamento per certe attività e nella quale la capacità sindacale è ridotta non trovo anomalo che si possa pensare ad un intervento legislativo. La questione che vedo molto in ombra è quella della poca incidenza propositiva sindacale; mi sembra che la loro posizione sia piuttosto di adesione o di proposta obbligata ma non sono loro a guidarla. La questione che vedo, al contrario, molto in luce e non in ombra è il protagonismo propositivo dei partiti di opposizione vissuto in una rumorosa azione che non è vista – come nei decenni che prima ho citato – come sinergia di supporto, ma come argomento strategico, punta di diamante di una strategia complessiva che non vedo quale sia. La stessa Presidente del Consiglio potrebbe metterli nel sacco sul terreno della propaganda se riuscisse a trovare una proposta legislativa sul più ampio campo dei problemi del lavoro – come lei dice e non inventa il tema – dimostrando la pochezza delle opposizioni. Ho timore che il minimo salariale sia una battaglia nobile, ma angusta per i sindacati. Altrettanto per le opposizioni. Concludo. Occorre avere una visione della società e dei rapporti sociali all’interno di essa e non limitarsi a spicchi di pensiero. Le opposizioni dimostrano di non averla. Le destre improvvisano e comunque si muovono su linee non di progresso complessivo, ma – come da dichiarazioni programmatiche del governo – per non porre difficoltà alcuna alle imprese; evidentemente anche a quelle che non rispettano le condizioni minime di decenza nel rapporto di lavoro. Siamo costretti a proseguire la richiesta per avere una legge sul minimo salariale, sapendo che stiamo operando in questa fase bassa della storia politica. Dovremmo dirlo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

A ME I 9 €URO/ORA NON CONVINCONO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | La questione del salario minimo sta surriscaldando il clima politico del nostro paese costituendo un elemento importante per l’opposizione che, salvo Italia viva, sta ritrovando un fronte comune di competizione politica, ma importante anche per la maggioranza per la quale questo problema mette in discussione la sua posizione in una vasta platea di elettori. Ma a me, onestamente, l’impostazione data ad un problema, che indubbiamente esiste, non piace. Da appassionato di economia veder risolto con un atto di imperio, un atto di legge, un problema squisitamente economico, mi fa sentire come se, non riuscendo a vincere in una gara (non riuscendo a risolvere il problema), riesco a prevalere solo grazie ad un rigore, un penalty regalatomi dall’arbitro (dalla legge). Non mi piace la nozione di salario giusto o dignitoso, lo trovo un concetto più morale che economico e che comunque presenta problematiche di quantificazione non indifferenti. Ritengo fondamentale l’attuazione dell’art. 39 della costituzione che individua il soggetto delegato a trattare la questione salariale con la parte datoriale con l’eventuale intervento dello stato quale soggetto terzo garante del protocollo concordato. Ritengo con Marx che la questione salariale operi all’interno di un modo di produzione, mutando il quale muta anche la conseguente meccanica salariale, ben diversa sarà trattata questa materia in un modo di produzione socialista rispetto a come va trattata nel modo di produzione capitalista. Vivendo in un paese capitalista ritengo che a guidare la questione salariale siano due leggi: la golden rule per la quale i salari devono aumentare allo stesso tasso di crescita della produttività e la (conseguente) legge di Bowley che comporta la costanza delle quote distributive del lavoro e del capitale nel reddito. Queste due regole permettono lo sviluppo delle imprese congiuntamente allo sviluppo dei salari, incrementando la domanda aggregata senza tensioni inflattive e fa in modo che la produttività sia uno strumento di crescita cui sono interessati sia gli imprenditori che i lavoratori essendo essa portatrice di benefici effetti per i due attori oltre che per la comunità globale. Se in Italia i salari sono così bassi ciò dipende dal fatto che in questi trent’anni la produttività non è aumentata. I confronti con Francia e Germania sono espliciti: là i salari sono aumentati in seguito all’aumento della produttività, da noi sono fermi (anzi diminuiscono) così come ferma è la produttività, al punto che la fissazione di un salario minimo (pari alla sussistenza) più alto potrebbe avere riflessi inflazionistici. Sulle imprese che hanno salari inferiori ai 9 euro orari la proposta di legge prevede (paradossalmente) sussidi anche se temporanei. Altrimenti potremmo avere due diverse conseguenze: il fallimento o (con Sylos Labini) l’effetto frusta salariale che costringe quelle imprese a trovare quella produttività necessaria a bilanciare l’aumento del costo del lavoro. Qui, tuttavia, serve una chiara presa di posizione: la produttività è materia delegata all’imprenditore che se è schumpeteriano ricerca sempre nuove combinazioni tecnologiche e produttive atte a sgominare la concorrenza ma se invece è un operatore, incapace di affrontare la sfida della concorrenza, perde il nome di imprenditore e viene declassato al becero ruolo di padrone. Con questa precisazione lascio a voi, che mi leggete, giudicare sull’operato dei nostri cosiddetti imprenditori nella storia recente dell’economia nazionale. E con questa riflessione discende un giudizio negativo sui sussidi Calenda che regalano, a carico dei lavoratori e dei pensionati, ad una classe imprenditoriale inetta, decine di miliardi di € fidando sul fatto, indimostrato, che questi imprenditori non schumpeteriani siano in grado di investire con raziocinio in nuova tecnologia, siano in grado di aumentare la produttività, e siano onesti e intelligenti al punto di aumentare nella stessa misura della produttività, anche i salari.        Ora, al rispetto delle due golden rules sopra ricordate, sono interessati non solo gli imprenditori ma anche i lavoratori e di conseguenza i sindacati chiamati a contribuire nella gestione dello sviluppo del paese; la cosa si fa poi enorme se pensiamo all’irruento arrivo della rivoluzione tecnologica legata ai computer,  all’intelligenza artificiale e ai computer quantistici. E’ indubbio che produttività e occupazione hanno rapporti complessi e talora contradditori, solo una intelligente gestione di essi da parte del sindacato è indispensabile per evitare di trovarsi domani, di fronte al fatto compiuto di una egemonia dei possessori dei mezzi di produzione, del capitale. Se quindi la produttività cessa di essere dominio di una imprenditoria troppo spesso incapace di generarla e essa può divenire una conquista del mondo del lavoro capace di impadronirsi della bandiera “produttività” per esercitare il suo potere partecipativo, per gestirne lo sviluppo equilibrato, per porlo come elemento cardine per la determinazione del salario. Ritengo questa una prospettiva con un orizzonte ben più ampio e gramscianamente egemonico che si differenzia sostanzialmente dalla proposta di un salario minimo. Decoupling of wages from productivity Ma il capitalismo sta osservando la golden rule di Bowley? Nel libro di Mariana Mazzucato “Missione economia” a pagina 13 si legge “Tra il 1995 e il 2013, i salari mediani dei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sono cresciuti ad un tasso medio annuo dello 0,8 per cento contro l’1,5 per cento di crescita della produttività del lavoro.” L’incremento dei salari viaggia quindi ad una velocità pari alla metà dell’incremento della produttività del lavoro; scopriamo allora un nuovo sfruttamento del lavoro, di appropriazione del plusvalore da parte del capitale ai danni del mondo del lavoro. Volendo approfondire, sono andato al sito, indicato in nota dalla Mazzucato, che è alla base della frase sopra ricordata che riporta come titolo “Decoupling of wages from productivity”  OECD Economic volume 2018. Ebbene traggo da quel documento elementi che supportano quanto affermato dalla Mazzucato nel suo testo: “Several OECD countries have been grappling not only with slow productivity growthbut have also experienced a slowdown in real average wage growth relative to productivitygrowth, which has been reflected in a falling share of wages in GDP. At the same time,growth in low and median wages has been lagging behind average wage growth,contributing to rising wage inequality. Together, these …

L’INEFFABILE CALENDA

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Intervistato in una di ieri mattine da La7, il senatore Calenda ha esposto con la consueta chiarezza i punti del suo partito sia sul salario minimo che sulla posizione sul ministro del turismo, sulla necessità di azzerare le liste d’attesa sanitarie e sui suoi rapporti con la presidente Meloni e con la segretaria Schlein, augurandosi, nel finale, di avere un confronto a tre (Meloni, Schlein e lui) per discutere finalmente, ragionando sulle cose, senza inutili scontri ideologici o sbandieramento di propagande. Si è definito social-liberale riformista e ha raggiunto l’apice dell’intervista con la sua proposta sul PNRR: se ci sono difficoltà (ha parlato di 155.000 bandi) e piuttosto di buttare fondi in progetti che non siano produttivi, Calenda propone che tutti i fondi del PNRR siano dati alle imprese produttive come crediti fiscali, in modo da dare una grande spinta la nostro sistema produttivo, renderlo competitivo facendo aumentare investimenti, produzione e produttività (scordandosi i salari, ma certamente è stato un lapsus). La proposta ha certamente un suo senso ed una sua logica, pecca tuttavia, come ho già avuto modo di rilevare, di una severa logica programmatoria lasciando alle imprese le scelte sul come investire i sussidi erogati. L’auspicio che aumenti, a seguito degli investimenti, sia la produzione che la produttività rimane un auspicio, se nessuno controlla il tipo di investimenti e soprattutto se tali investimenti si traducono in effetti in aumento di produttività ed auspicabilmente, secondo la golden rule, gli aumenti di produttività si traducano in aumento dei salari. Come ho già osservato il riformismo di Calenda è di stampo liberale, nel senso che ignora qualsiasi ruolo allo stato come elemento fondamentale di una politica programmatoria, anche se a mettere i fondi è lo stato stesso e ciò senza nessuna contropartita decisoria (cosa che sarebbe ovvio e inevitabile se il finanziatore fosse un privato). L’approccio liberale di Calenda tende ad assumere un aspetto assistenziale a favore delle imprese (rectius del capitale). I fondi del PNRR pervengono allo stato nella forma di prestiti e di erogazioni a fondo perduto. Mentre è logico che i prestiti, gravati da interessi, vadano rimborsati, si tende a credere che quelli a fondo perduto non vadano restituiti. E’ vero che i sussidi a fondo perduto non sono prestiti e quindi non vanno ad aumentare il debito dello stato percipiente, ma è altrettanto vero che tali sussidi, che l’Europa si è procurata emettendo eurobonds, vanno a costituire, nell’anno in cui l’Europa li dovrà estinguere, un debito per i paesi membri computato sulla base della partecipazione capitaria calcolata per ciascun paese. L’Italia dovrà restituire quei sussidi a fondo perduto anche se con una quota capitaria tale da poter risparmiare qualche miliardo di euro. Quei fondi del PNRR, prestiti e/o sussidi che siano, saranno ripagati dai contribuenti che guarda caso sono nella maggioranza lavoratori dipendenti e pensionati, che godono del privilegio di una imposizione progressiva e che non possono (neppure se volessero) evadere un euro né in dichiarazione dei redditi né al momento del pagamento. Il ministro Salvini propone una pace fiscale per quei contribuenti che non possono pagare le imposte dichiarate e  che son soggiogati dall’agenzia delle entrate. Quello che non capisco è il perché un contribuente che ha dichiarato (tutto?) il reddito guadagnato possa avere delle difficoltà a pagare le imposte dichiarate. L’unica difficoltà che mi sembra poter individuare è che invece di mettere da parte i soldi per pagare le imposte, quel contribuente si sia speso tutti i fondi e al momento della scadenza fiscale si trovi con le tasche vuote. Ma a parte le salvinate, tornando a Calenda, non è chi non veda che la stragrande quota degli investimenti fatti usando i fondi del PNRR, regalati quindi alle imprese, sono stati pagati dai lavoratori dipendenti e dai pensionati. Sarò monotono, ma insisto nel dire che quei sussidi che giustamente vanno a rafforzare il nostro sistema produttivo, siano erogati non come crediti di imposta ma come capitale sociale azionario delle imprese beneficiate. A ben vedere quello che propongo è una riedizione del piano Meidner, iniziato nel secolo scorso e poi entrato in crisi insieme alla Svezia tutta. Il piano prevedeva la partecipazione di fondi dei lavoratori, la partecipazione degli alle decisioni aziendali, alla scelta degli investimenti, del “cosa e come produrre” di berlingueriana memoria scelta effettuata privilegiando il valore d’uso al valore di scambio. Ma mi accorgo di fare un discorso troppo socialista (chissà se ne avranno parlato agli stati generali?). SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA RETRIBUZIONE MINIMA PER LEGGE E’ UNA SCORCIATOIA

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | Si è sviluppato un grande e vivace dibattito sul salario minimo orario per legge, proposto con forza ed efficacia dalla opposizione parlamentare e rigettato dal Governo con qualche difficoltà ed incertezza. Entrambe queste posizioni eludono, però, il vero problema che investe la situazione salariale italiana rappresentata da una situazione da “Far West” carica di violazioni contrattuali, di “decontrattualizzazioni” delle retribuzioni  e di illegalità, le quali – comunque investono tutto sommato  una piccola minoranza della massa del lavoro dipendente. Ciò è scaturito dalla diffusione di statistiche OCSE ed EUROSTAT, male interpretate e che hanno fatto dichiarare – con disprezzo della serietà e della verità – anche ad autorevoli esponenti del mondo politico e sindacale che la retribuzione salariale italiana è la piu’ bassa dei Paesi OCSE ed europei! Va tenuto conto innanzitutto che la comparazione tra le retribuzioni lorde  di piu’ Paesi, recentemente diffusa dalle summenzionate statistiche OCSE o Eurostat, è elaborata raffrontando retribuzioni MEDIE lorde, medie ponderate e non artmetiche e cioè ragguagliate al peso di ogni retribuzione delle varie qualifiche e mansioni che regolano l’inquadramento professionale e perciò retributivo dei lavoratori.   Se le retribuzioni delle qualifiche basse sono in numero molto superiore di quelle riferite alle qualifiche alte, ovviamente la retribuzione media sarà bassa e viceversa. Premesso queste osservazioni tecniche, che ci permettono di capire la dinamica non positiva (denunciata da dette  statistiche) delle retribuzioni italiane negli ultimi vent’anni, occorre tener conto quanto  è successo a livello retributivo  in questo ventennio in Italia: a – Sono molto cresciute le mansioni elementari o di bassa qualifica e determinati  lavori poveri (tipici in agricoltura, nei servizi alla persona, nelle attività ausiliare nei trasporti, nella distribuzione, nell’assistenza privata socio-sanitaria, etc) e nel contempo sono calate le mansioni e qualifiche alte, in particolare nell’industria, nel settore del credito ed in altre attività più qualificate a seguito dell’introduzione nel lavoro dell’informatica e della automazione; b – Sono cresciute nelle lavorazioni e nei settori “poveri” tre fenomeni estremamente negativi e cioè il “sottosalario” (erogazione delle retribuzione non corrispondente al minimo contrattuale), i contratti “pirata” sottoscritti da sedicenti organizzazioni datoriali e sindacali autonome, retribuzioni parzialmente pagate “in nero” il cui  valore ovviamente non può apparire nelle statistiche; c – Si è praticata una forma irregolare di “esternalizzazione” con sub-appalto di lavorazioni da parte di grandi aziende committenti a oscure piccole aziende del “sottobosco” di gestori di manodopera “non qualificata” (vigilantes, fattorini, magazzinieri, riders, addetti alle pulizie ed al Packaging, addetti all’assistenza socio-sanitaria, etc). Questa manodopera viene malamente retribuita in base ai contratti “pirata” sopra menzionati, non perscepisce 13^ mensilità, il TFR, spesso senza il pagamento dei contributi sociali; d – Il rinnovo triennale  dei contratti nazionali (CCNL) in alcuni settori non avviene da anni (anche da sette o dieci anni come nel trasporto ferroviario ed aereo); e – Sono enormemente calate le grandi aziende pubbliche (con la svendita dell’IRI) ed anche private (il 93% delle imprese iscritte alla Confindustria non hanno più di 10 dipendenti) e, quindi, nel “mare magnum” delle piccole e micro aziende  (anche per difficoltà organizzative) non è diffusa la contrattazione integrativa aziendale che – per l’appunto –  ha la funzione di integrare il salario negoziato e previsto  nei CCNL come era stato  indicato nel “patto sociale” con il governo Ciampi 23/7/1993. Salvo il  primo punto (si tratta di un fenomeno che investe la trasformazione del lavoro), si tratta di palesi violazioni di quanto stabilito dai CCNL, violazioni  che dovrebbero essere perseguite e cancellate in quanto irregolarità da parte della normale attività di vigilanza degli Uffici ed Ispettorati  del Ministero del Lavoro e dai Sindacati. Per fortuna che esiste la meritoria attività di coraggiosi sostituiti procuratori come il pm Paolo Storari di Milano ed altri che ha evidenziato questa situazione irregolare che è anche una forma di sleale concorrenza rispetto alla moltitudine di aziende serie e corrette sul piano del trattamento contrattuale dei propri dipendenti.  Conclusioni: per tutte queste ragioni la media delle retribuzioni lorde italiane non è aumentata, anzi appare diminuita, ma ciò non significa che le singole retribuzioni, in particolare nei settori portanti dell’economia e dell’occupazione, non siano lievitate o cresciute negli anni presi in esame. Le retribuzioni italiane sembrano distanti da quelle dei Paesi piu’ evoluti (Francia, Germania, Svizzera e “nordici), però bisogna tener conto che la retribuzione media MENSILE italiana deve essere aumentata dell’8,33% per il rateo mensile della gratifica natalizia (13^ mens.) più l’ 8% poco meno per il TFR che è sempre – pur differita – parte della  retribuzione. La gratifica natalizia ed il TFR esistono solamente in Italia. Con questi ricalcoli le differenze si accorciano sensibilmente o persino si annullano. Comunque, affermare come dice qualcuno, che le retribuzioni italiane “sono le piu’ basse d’Europa” (!!!) è una sciocchezza enorme, in quanto esse  sono appena al di sotto delle retribuzioni medie dell’area EURO, un’area ben più significativa ed importante dell’intera Europa sia intesa come la U.E. a 27 oppure quella geografica  estesa a Russia, Bielorussia, Moldavia, Serbia, Montenegro, Islanda. La definizione di una retribuzione minima per legge è una scorciatoia che non risolve le irregolarità e situazioni di “sottosalario” se non si risolvono i fenomeni sopra denunciati, la cui eliminazione garantirebbe per tutti i settori lavorativi attraverso la contrattazione sindacale regolare (che già oggi copre il 95% della massa lavoratrice)   una retribuzione oraria più superiore di  quanto indicato con la recente proposta di legge avanzata da  molte forze politiche. Se si vuole veramente fare pulizia della situazione da “Far West” denunciata sopra, Parlamento e Governo, attraverso una legge ordinaria in attuazione parziale della Costituzione, riconoscano la validazione “extra omnes” (cioè per tutti i lavoratori) dei CCNL negoziati e sottoscritti dai Sindacati riconosciuti rappresentativi su elementi di certezza (iscritti e voti RSU).  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande …

“SOTTO” IL DECRETO LAVORO NIENTE!

Le politiche del governo all’insegna delle privatizzazioni e della contrazione del welfare| Ci sono vari indici riguardanti la situazione della nostra economia in rapporto a quella dei principali Paesi della U.E. che segnano da mesi “bel tempo” e ciò riguarda – con i suoi alti e bassi – l’andamento della produzione e delle attività terziarie, l’andamento dell’export (per l’Italia, Paese di trasformazione e privo di materie prime,  valore fondamentale), l’andamento della Borsa e dello spread costantemente al di sotto dei 170 punti. Alcune misure, decise dai precedenti Governi per combattere la crisi economica derivante da Covid-19 (agevolazioni e sostegni all’impresa per la trasformazione digitale e i vari bonus edilizia), hanno prodotto questa ripresa, anche se ora si sente molto il bisogno di consolidarla non con provvedimenti “spot ” ma  con una programmazione di rilancio e consolidamento strutturale della nostra economia che NON  ci sembra essere all’odg degli impegni e della politica  dell’attuale Governo. Il Governo Meloni sembra interessato piu’ che altro a “ripagare” in maniera corporativa gli interessi dei ceti sociali che l’hanno votato, non senza qualche contraddizione viste le divisioni che – al pari della opposizione e della sinistra – sussistono anche all’interno della sua maggioranza pur mascherandole con  rinvii e omissioni. Restano, invece, irrisolte pesanti criticità. Intanto l’inflazione che vede l’Italia, immediatamente dopo la Germania (6,8 %), a registrare ancora il tasso piu’ alto (6,7 %) al di sotto della media dell’Eurozona (5,5 %) con Francia al 5,3%, Belgio e Spagna all’1,6% e la Grecia al 2,7% per citare i Paesi a noi vicini. Siamo d’accordo con la critica alle reiterate decisioni della BCE ed in particolare della sua Presidente Lagarde che pensa di aggredire il flagello inflazionistico con l’aumento dei tassi bancari, ma ci aspetteremmo dal nostro Governo scelte (e non solo critiche alla BCE) alternative tenendo conto – come hanno ammesso anche il governatore di Bankitalia e del Prof. Draghi che si tratta di una inflazione da eccesso di profitti e non di salari e consumi. E qui veniamo al punto di questa nostra nota. Siamo ancora alle prese con due grandi criticità sociali che “Socialismo XXI” ha messo in evidenza –  anche di recente –  fin dalla nostra Conferenza programmatica di Rimini del 2019: la questione salariale e le contraddizioni e le fragilità del nostro mercato del lavoro, rispetto alle quali sono state date da precedenti Governi risposte inadeguate e contradditorie. Su questa strada ha proseguito  anche l’attuale Esecutivo con la recente approvazione parlamentare del c.d. “decreto lavoro”. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, dobbiamo registrare certamente non per merito di questo Governo un risultato positivo in termini generali nel senso che abbiamo raggiunto la cifra degli occupati a maggio scorso di 27.471.000 unità (piu’ 383.000 rispetto a maggio 2022) mai raggiunto anche prima della crisi economica a conferma del dato di fine 2022 di circa + 500.000 unità rispetto all’anno precedente con un aumento dei contratti a tempo indeterminato ed una consistente riduzione dei contratti a tempo determinato. Le statistiche vanno però interpretate:  sarebbe importante conoscere quanto lavoro autonomo si registra nel dato generale dell’occupazione e se dentro questo lavoro autonomo vi è parecchio lavoro di false “partite iva” o contratti di collaborazione continuativa, forme apparentemente meno subalterne del lavoro dipendente classico ma, in molti casi, piu’ carico di sfruttamento anche perché – data la natura del rapporto – non regolato da un CCNL. Sul dato poi dell’incremento dell’occupazione a tempo indeterminato, data la contemporanea riduzione dei rapporto di lavoro a tempo determinato, piu’ che di nuova occupazione aggiuntiva si potrebbe intenderla per larga parte una trasformazione dei rapporti di lavoro  a scadenza in rapporti a tempo determinato, dettata anche  dal fatto che, nella aree produttive a piu’ alta densità di occupazione le imprese, come richiamato dagli appelli delle Confindustrie locali e delle sezioni territoriali  di Confcommercio e Turismo, non riescono a trovare nuove disponibilità di prestazioni lavorative. Certamente, come abbiamo piu’ volte spiegato, esiste un gap nella formazione e nell’addestramento professionale che non prepara adeguatamente personale da adibire in nuove modalità lavorative caratterizzate dalla introduzione delle nuove tecnologie informatiche, della meccatronica, della automazione e – per quanto riguarda le attività commerciali e turistiche –  da nuovi e moderni approcci con una clientela più esigente. L’arretratezza su questo campo è grande e diffusa ed ha responsabilità sia pubbliche che dell’imprenditoria interessata. L’altro motivo riguarda la remunerazione del lavoro, anche quando è qualificato, che rende poco attrattivo per le nuove generazioni l’impiego nella maggioranza delle occasioni loro offerte. E la statistica ci viene in soccorso. Non solo il livello di occupazione in Italia, anche dopo i recenti incrementi suaccennati, è sotto la media europea, ma il dato più sconfortante è rappresentato dall’aumento della disoccupazione GIOVANILE (15-24 anni) che registra un + 0,9 %  salendo al 21% dell’area (uno dei dati peggiori in assoluto in Europa) ed al quale si aggiunge un piu’ 0,7 % dell’occupazione femminile, il cui dato assoluto è anch’esso fra i piu’ bassi in Europa. Infatti, sempre le statistiche europee ci spiegano che nei tassi di attrattività dei giovani all’impiego, le Regioni italiane si trovano in coda: La Lombardia al 38° posto con un tasso del 47,76 %, il Veneto al 58° posto con un tasso del 44,69 %, il Lazio al 62° posto e subito dopo l’Emilia con il 44 % e via via le altre mentre le tre migliori in Europa registrano un tasso di oltre il 60% e sono la regione di Stoccolma, quella di Parigi e l’Alta Baviera di Monaco. Ci precedono altre 34 Regioni di vari Paesi d’Europa. I motivi della “fuga” di giovani all’estero: la facilità di trovare lavoro ben retribuito, la richiesta di competenze intellettuali, la presenza di grandi imprese che possono offrire opportunità di carriera, la possibilità di spostarsi facilmente e rapidamente, l’elevata cultura imprenditoriale che promuove innovazioni e produzioni attrattive nei mercati mondiali. Di tutto questo nel recente “decreto lavoro” non c’è nulla, si ignorano le condizioni negli altri Paesi anche a noi vicini e si pensa che lo sviluppo di attrattive opportunità occupazionali possa …

A PROPOSITO DI SALARIO MINIMO

Si parla spesso, in questi mesi, di salario minimo in quanto, osservando il mondo del lavoro, vengono segnalate condizioni salariali e contrattuali tali da far riemergere, con pressante vigore, il concetto di sfruttamento. Ritengo utile, anche per memoria storica, riandare a quanto scriveva Marx a proposito di “giusta ripartizione del frutto del lavoro” nella sua critica al programma di Gotha. Emergono due osservazioni che ritengo utili alla nostra riflessione: ● La “giustezza del salario” è conseguenza del modo di produzione; ● In una società socialista in cui la programmazione è il trionfo della razionalità nella collocazione delle risorse, razionalità che si contrappone al selvaggio criterio del profitto, il salario è elemento della programmazione. La giusta ripartizione del frutto del lavoro Nel commentare il punto 3 del programma di Gotha, Marx, esamina con maggior attenzione il concetto di “giusta ripartizione del frutto del lavoro”, e si chiede quanto segue: Che cosa è “giusta ripartizione”? Non affermano i borghesi che l’odierna ripartizione è “giusta”? E non è essa in realtà l’unica ripartizione “giusta” sulla base dell’odierno modo di produzione? Sono i rapporti economici regolati da concetti giuridici oppure non sgorgano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli economici? La giusta ripartizione è quindi conseguenza del modo di produzione, divenendo quindi quest’ultimo l’elemento primario cui porre attenzione. Per dirla con parole semplici, con il modo di produzione capitalisticola questione salariale sarà sempre condizionata dalla proprietà dei mezzi di produzione da parte del capitale, si potrà lottare, come è stato fatto nel “trentennio glorioso” del dopoguerra per la costruzione di uno stato sociale che allargasse i diritti dei subordinati, ma non si è mai messa in discussione la proprietà dei mezzi di produzione. Dopo gli anni 70, dopo il crollo del comunismo e la inconvertibilità del dollaro in oro, i diritti acquisiti con il welfare state sono stati, se non cancellati, bloccati o comunque si è instaurato un clima che riafferma un carattere egemonico al potere del capitale. Non saremmo qui a discutere di “salario minimo”, di contratti di lavoro pirateschi, di precarietà, di cancellazione della indicazione di una causa per assumere a tempo determinato, cancellazione prevista nel decreto 1° maggio del governo Meloni. Scrive Marx:  La ripartizione dei mezzi di consumo è in ogni caso soltanto conseguenza della ripartizione dei mezzi di produzione. Ma quest’ultima ripartizione è un carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per esempio, poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza-lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da sé l’odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall’attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da lui una parte della democrazia), l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione. Il salario come elemento della programmazione Sul secondo punto Marx ci avverte che la ripartizione del prodotto del lavoro va subordinata alla programmazione delle politiche generali che un paese socialista vuol attuare per raggiungere i suoi obiettivi: Se prendiamo la parola “frutto del lavoro” nel senso del prodotto del lavoro, il frutto del lavoro sociale è il prodotto sociale complessivo. Ma da questo si deve detrarre: Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati. Secondo: una parte supplementare per l’estensione della produzione. Terzo: un fondo di riserva o di assicurazioni contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc. Queste detrazioni dal “frutto integrale del lavoro” sono una necessità economica, e la loro entità deve essere determinata in parte con un calcolo di probabilità in base ai mezzi e alle forze presenti, ma non si possono in alcun modo calcolare in base alla giustizia. Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo. Prima di venire alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre: Primo: le spese d’amministrazione generale che non rientrano nella produzione. Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione di bisogni sociali, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc. Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc., in breve, ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri Se ne conclude che, una volta realizzata la socializzazione dei mezzi di produzione, la classe fino ad allora subalterna deve farsi carico delle decisioni politiche di investimento e ripartizione del prodotto del lavoro; le politiche salariali saranno quindi conseguenti alla programmazione generale che, giunti a quel punto, non sarà più gestita dal capitale escludendo la classe subalterna (ecco la vera natura dello sfruttamento) ma diverrà il campo in cui si dimostrerà il passaggio da classe subalterna a classe dirigente.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RIFLESSIONI SULLA PROPOSTA DEL SALARIO  MINIMO GARANTITO PER LEGGE

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI La recente proposta dell’Unione Europea scaturita da un accordo tra Commissione, Consiglio Europeo (dei capi di governo) e Parlamento di Strasburgo, e  che dovrà essere ora  approvata –  ai fini della sua concreta  applicazione –  dai tre massimi organismi europei precitati e poi ratificata dai Parlamenti dei singoli Paesi della U.E., ha smosso un dibattito nel nostro Paese, che si sta sviluppando spesso con superficialità e poca conoscenza da parte di molti attori politici della reale situazione delle condizioni salariali e contrattuali in Europa. Intanto va  chiarita una falsità che corre nel dibattito in corso e cioè che l’Italia sarebbe l’unico Paese in cui  questo provvedimento legislativo non ci sarebbe. Esso non c’è, oltre all’Italia, in Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Regno unito (GB), Svizzera e Svezia. Sono Paesi, come si noterà, in cui (a parte Cipro) vi è una lunga ed affermata tradizione sociale e  sindacale che attraverso la  contrattazione nazionale ed integrativa aziendale e la co-decisione (nei Paesi nordici) ha dato copertura salariale a tutti i lavoratori dipendenti di qualsiasi categoria e mestiere. Nei contratti di lavoro di questi Paesi (Italia compresa) il salario minimo garantito puo’ essere inteso come la retribuzione lorda dell’ultima categoria o qualifica della scala classificatoria dei lavoratori dipendenti. In considerazione di ciò,  la proposta degli organismi della U.E. è stata avanzata come “non obbligatoria” per tutti i Paesi aderenti alla U.E. ed avrebbe lo scopo di tentare di eliminare o ridurre il gap esistente (un vero e proprio “dumping” sociale) tra i trattamenti nei Paesi orientali già a regime comunista e quelli euro-occidentali. Ad esempio mentre in Bulgaria il salario minimo garantito è di 333 euro mensili in Lussemburgo è di poco piu’ di 2.000 euro ed in Irlanda e Olanda  è di 1.750 euro ed in mezzo a questa statistica ci stanno gli altri con i Paesi orientali ex-comunisti attorno a 500/600 euro mensili. Ovviamente la normativa europea non fisserà il valore unico per tutti ma tale fissazione con valore legale sarà affidata ad ogni singolo Paese attraverso la contrattazione. Se la direttiva sarà così applicata non risolverà il problema del “dumping” contrattuale e di una concorrenza sleale tra Paesi UE in materia di costo del lavoro. Ciò per dire che la strada per giungere ad un modello sociale unitario in Europa è ancora lunga !! Veniamo all’Italia. Va corretta la falsa idea che il salario minimo per legge serve a tutelare settori lavorativi privi di tutela contrattuale e si citano spesso i “raider”, quei ragazzi che – con mezzo proprio – distribuiscono a domicilio le pizze o altri cibi preparati da ristoranti, oppure le badanti, i giardinieri  o le addette alle pulizie domestiche.  A parte il fatto che, recentemente, anche per i “raider” sono stati sottoscritti dei contratti con organizzazioni deboli sul piano contrattuale e poco rappresentative, il problema per tutte queste particolari  categorie consiste  nel regolarizzare il rapporto di lavoro anche se non è a tempo indeterminato o “Part-time”.  E, soprattutto di perseguire duramente le mancate regolarizzazioni !!! La fissazione per legge di un trattamento minimo non mette al riparo questi soggetti dalla non regolarizzazione del loro rapporto di lavoro e dalle violazioni contrattuali da parte del datore di lavoro, sia esso un pubblico esercizio o un privato. I contratti nazionali di lavoro, anche per questi particolari soggetti lavorativi esistono, devono solo essere applicati e rispettati sul piano salariale, dell’inquadramento professionale, e dei trattamenti normativi che non sono meno importanti del salario. Non è detto poi che queste lavoratrici e lavoratori contrattualmente deboli debbano essere inquadrati sempre nell’ultimo livello delle qualifiche e quindi con il salario minimo che,  fissato per legge, rischia di divenire il salario “universale” per moltissimi dipendenti. Dal legislatore, in particolare dai fautori di detto provvedimento e  spesso “a digiuno” di  questioni contrattuali, è lecito conoscere che cosa intendono per trattamento salariale minimo dato che per molte categorie produttive ma anche dei servizi vi è il trattamento salariale derivante dal contratto collettivo  nazionale  di categoria e vi è un trattamento salariale derivante da contratti aziendali o territoriali per piccole imprese.  I CCNL prevedono poi,  in termini aggiuntivi alle tabelle salariali, varie indennità salariali in % o in cifra fissa correlate a particolari situazioni e condizioni. Queste rimarebbero in funzione o non c’è il pericolo che la fissazione di un salario minimo per legge farebbe sparire queste indennità, assorbendole nel valore fissato per legge? Non è vero che tale provvedimento legislativo rafforzerebbe la contrattazione nazionale e quella aziendale, anzi causerebbe  un effetto opposto in particolare per quella aziendale. Non si capisce poi se questa misura è fissata come valore annuale, mensile od orario dato che, purtroppo, esistono una pluralità di rapporti di lavoro non a tempo pieno e a tempo indeterminato, per i quali la fissazione per legge di un minimo salariale non risolve il problema della  loro dannosa proliferazione che è il principale motivo del troppo basso valore del salario medio italiano rispetto a quelli dei principali Paesi europei. Veniamo perciò a questo aspetto che rappresenta una vera emergenza sociale. Le retribuzioni medie italiane sono agli ultimi posti in Europa ma non a causa del  fatto   che il valore delle retribuzioni minime non è fissato per legge,  ma a – mio giudizio – da queste problematiche : Prima questione. L’accordo di concertazione triangolare sottoscritto  nel luglio del 1993 tra Governo Ciampi, Confederazioni Imprenditoriali  e CGIL-CISL-UIL affidava ad una contrattazione nazionale triennale il compito di adeguare NON facoltativamente le retribuzioni e cioè ai CCNL da rinnovare alla loro naturale scadenza. Questo vincolo è stato sempre rispettato ? E se non è stato sempre e in tutte le categorie rispettato perché i Sindacati non hanno obbligato i vari Governi – come garanti di quel patto di concertazione triangolare – ad intervenire? Seconda questione. Le tabelle salariali che sono messe al confronto tra i Paesi Europei riguardano spesso i valori salariali medi ma al netto. Il gap dell’Italia nasce anche in virtu’ dell’alta tassazione fiscale  e contribuzione sociale sui redditi da …

NOTA SUL SALARIO MINIMO

di Silvano Veronese | Socialismo XXI Veneto Il governo lega-pentastellato  si appresta a far discutere e votare una legge che introduca nel nostro Paese un salario minimo garantito per via legislativa. Alla proposta del Governo si è aggiunta (o contrapposta?)  una proposta di legge di iniziativa del PD elaborata dall’ex-Ministro del lavoro  Cesare Damiano, che va valutata con attenzione data la serietà e la competenza dell’autore in materia e con un passato di lunga militanza sindacale. Sono d’accordo con Cesare Damiano quando afferma, nell’accompagnare la sua proposta, che per affrontare questo tema delicato (il salario minimo per legge) ”bisogna evitare errori grossolani” e la proposta governativa ne fa molti purtroppo, anche nelle motivazioni. Proprio per evitare questo pericolo, sono sempre stato – per principio ed in via di fatto – decisamente contrario a qualsiasi “intrusione” legislativa in materie proprie della autonomia contrattuale tra le parti sociali, tanto più in materia di salario che retribuisce la quantità e la “qualità” della prestazione (non è casuale che ci siano – a parità di qualifica – differenze retributive da categoria a categoria, da settore a settore). Sulla base di quali valori o parametri soggetti estranei alla conoscenza dei rapporti di produzione e delle relazioni tra le parti sociali (come sono i parlamentari) possono allora definire  il valore minimo del salario ? Come anche il già Ministro Damiano riconosce, valutando le diverse dinamiche delle retribuzioni nei vari paesi europei, le differenti performances dell’andamento retributivo tra Paesi e tra categorie di lavoratori dipendono da una varietà di fattori e condizioni, quali ad esempio l’andamento della produttività e dello sviluppo di un settore da un lato e dalle modalità di tutela del potere d’acquisto dei salari che, in Italia, dopo l’accordo sociale triangolare del 23 luglio 1993 tale compito non è più affidato alla scala mobile ma al diritto di contrattazione, che da allora divenne un impegno ineludibile alle varie scadenze. Secondariamente, non mi risulta che ci siano categorie di lavoratori prive di un C.C.N.L., come affermano esponenti della maggioranza governativa per giustificare l’intervento legislativo, semmai oggi c’è il pericolo opposto e cioè della proliferazione di contratti, spesso contratti “pirata” negoziati (si fa per dire) da organizzazioni datoriali e sindacali “farlocche” con soluzioni “in pejus” rispetto a quelle in atto nei contratti negoziati dalle organizzazioni storiche e maggiormente rappresentative. Non si deve  confondere “trattamenti di sottosalario” in aperta “violazione” di una tariffa salariale prevista da un C.C.N.L. con la inesistenza della stessa. Quando, con altri consiglieri coordinavo l’Archivio dei contratti insediato per legge presso il CNEL, i ccnl riconosciuti e validati dall’apposita commissione erano circa 280, spesso rifiutavamo di riconoscere quelli “farlocchi” presenti in alcuni ambiti del terziario privato, in agricoltura o in altri settori marginali anche perchè privi di rappresentanza reale tra le imprese e i lavoratori dei settori interessati. Oggi sono circa 800 i ccnl riconosciuti e presenti nell’archivio! Il problema allora – secondo me – si risolve con due soluzioni: dare riconoscimento “erga omnes” per legge ai ccnl negoziati e sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative (non “per convenzione” ma in base a dati reali e verificati). In questo modo disboschiamo la “giungla” dai contratti fasulli normando per legge (sulla base di quella esistente per il Pubblico impiego) la definizione della rappresentanza e rappresentatività delle organizzazioni datoriali e sindacali  abilitate a negoziare e a sottoscrivere i ccnl che avranno così in questo modo valore di legge. In questo modo,  si salva il principio della “sovranità” in materia contrattuale delle parti sociali effettivamente rappresentative e nel contempo l’efficacia legislativa dei ccnl da loro liberamente negoziati e sottoscritti. Il “salario minimo” sarà quindi quello riferito al parametro 100 (la qualifica più bassa) di ogni inquadramento professionale di categoria o settore (che ovviamente, di scadenza in scadenza, aumenterà in relazione alla contrattazione). Non solo, ma il salario contrattuale non è “statico” e non si riferisce solo ai minimi tabellari ma lievita in relazione agli scatti di anzianità di ogni singolo lavoratore (di solito biennalmente), ai passaggi di categoria automatici, a indennità fisse sostitutive del premio di produzione, di produttività, di redditività se non  contrattati in sede integrativa. Questioni che sono ignorate dalla proposta di legge governativa che, di fatto, spingerebbe le aziende meno virtuose o meno socialmente aperte ad evitare la contrattazione con il sindacato, abbassando perciò notevolmente il livello delle retribuzioni dato che il salario minimo ipotizzato si aggirerebbe ad un livello assai distante dai minimi contrattuali delle varie categorie. Una “legislazione di sostegno” ai contratti di lavoro (vecchio “pallino” socialista) conferirebbe a questi valore di legge; avrebbero così validità in tutto il mondo del lavoro anche in quelle aziende non associate alle Organizzazioni Imprenditoriali stipulanti i vari C.C.N.L. e per tutte le materie trattate dai contratti come gli orari di lavoro, i diritti, la parte normativa relativa ai trattamenti in caso di malattia, puerperio ed infortunio, inquadramento professionale, ambiente e tutela della salute, etc. Mi sembra che la proposta Damiano si muova anch’essa nella direzione che ho testè indicato, purtroppo quella della maggioranza governativa no! Quest’ultima ignora i pericoli e le non congruità che ho indicato e segnerebbe un pauroso attentato alla contrattazione, al ruolo negoziale insostituibile delle parti sociali, un arretramento delle condizioni economiche dei lavoratori. Dubito che l’iniziativa del PD possa far retrocedere i cattivi propositi della maggioranza se sindacati e lavoratori non faranno sentire vibratamente la loro giusta e motivata opposizione al provvedimento. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it