DA LIVORNO A RIMINI, VERSO IL SOCIALISMO 4.0

La Storia del socialismo in Italia ha attraversato tre periodi storici ben definiti. La prima, che va dal 1892 al 1921 è la fase dell’insediamento sociale e politico del nuovo partito, al suo interno possono individuarsi due fasi ben distinte. La prima dalle origini al Congresso di Reggio Emilia del 1912 in cui vinse la corrente massimalista, è il momento in cui il partito si organizza, nascono l’Avanti!, le Camere del Lavoro e si struttura la CGdL di Buozzi, viene approvato il Programma Minimo. Nel 1912 inizia la deriva massimalista del Partito. Il momento di svolta fu il Congresso di Reggio Emilia che espulse Bonomi e Bissolati, sottrasse la direzione dell’Avanti! a Treves per consegnarla, due anni dopo a Mussolini, ed elesse Lazzari segretario. Da quel Congresso in poi è una deriva continua verso la sconfitta. Mussolini da neutralista diventa interventista ed inizia il suo personale percorso verso la dittatura, i massimalisti prima ed i comunisti poi non comprendono che non si è prossimi alla rivoluzione ma ad una reazione violenta. Il secondo periodo storico è quello dell’esilio, la vittoria del fascismo espelle o incarcera gli oppositori. E’ un periodo in cui i dirigenti che più si espongono alla dittatura vengono assassinati, da Di Vagno (il primo martire per la libertà) a Matteotti, dai fratelli Rosselli a Buozzi, il Partito Socialista viene decapitato. E a Parigi in casa di Buozzi muore Turati. Ciononostante si forma nella clandestinità un nuovo gruppo dirigente, che nasce dapprima attorno al PSU di Matteotti e Nenni ed in seguito attorno a Giustizia e Libertà ed al Partito d’azione. Nenni, Lombardi, Pertini, Saragat e tanti altri si formano durante il ventennio nella lotta al fascismo e sono pronti dopo la guerra a dirigere il Partito. Il terzo periodo è quello che va dal 1945 al 1993, è un lungo periodo, in cui il Partito attraversa quattro fasi diverse: il frontismo e l’alleanza con il PCI, la costruzione del partito autonomo e il centro sinistra, la crisi degli anni settanta e la segreteria di Craxi. Dopo la crisi del frontismo c’è un periodo di grande trasformazione del PSI, che sbocca nel centro sinistra, e nelle Riforme di struttura. Il momento di svolta è il congresso di Torino del 1955. Il Congresso si svolge a pochi giorni dalla sconfitta della CGIL nelle elezioni delle commissioni interne alla Fiat. Pietro Nenni, con il consenso di Morandi e le riserve di Basso e Lussu, avvia il dibattito sull’apertura a sinistra verso la DC, per un governo che promuova una politica riformatrice, ma senza interrompere la collaborazione fra PSI e PCI. Espressione di questa linea l’Appello al Paese lanciato a conclusione del Congresso. Il congresso elegge segretario nazionale Pietro Nenni e vice segretario Rodolfo Morandi. Inizia un lungo percorso che porterà il partito al Governo con la DC ad inizio anni sessanta. L’esaurirsi della spinta riformatrice degli anni sessanta porta il PSI ad una profonda crisi politica che trova uno sbocco nel 1976 con la segreteria di Craxi. Il momento culmine di questo cambio di politica avviene con il 41° Congresso che si tiene a Torino a fine marzo 1978, il cui slogan fu: Uscire dalla crisi – Costruire il futuro. E’ il lancio di una nuova politica autonoma del PSI, sostenuta da un grande lavoro culturale svolto da Mondoperaio e porta il PSI ad essere contemporaneamente il partito del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio. Il 1993 segna la fine di questo periodo “aureo”. I 25 anni successivi sono un lungo e faticoso attraversamento del deserto, in cui i socialisti non riescono a ritrovare un comun sentire in grado di riunificarli attorno ad una bandiera. Il PSI non è stato in grado di svolgere quel lavoro che doveva essere il centro della sua azione: costruire un Partito Autonomo ed Unito. Senza progetto e senza strategia unificante è giunto infine all’irrilevanza politica. E’ tempo di tornare al lavorare per costruire un Movimento che abbia al suo centro il Progetto Politico, Culturale e Sociale adeguato al XXI secolo. Livorno 2018 è stato il primo passo, il segnale che è emerso è stato chiaro: i socialisti hanno voglia di rimettersi assieme per costruire un Partito Unitario ed Autonomo che deve costruire la strada verso il Socialismo 4.0, Rimini sarà il secondo passo. Sempre Avanti verso Rimini 2018 Dario Allamano   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

OLTRE LA RETORICA DEI VINCITORI C’E’ LA PALESE INCAPACITA’ POLITICA

COMUNICATO STAMPA Una legge elettorale truffaldina e un manipolo di figuranti politici stanno dimostrando all’Italia e al mondo il grado di irresponsabilità e incapacità di affrontare le responsbilità ottenute con il consenso elettorale. Emergono con chiarezza non la difesa degli interessi collettivi, ma solo le miserabili astuzie a difesa del proprio orticello elettorale. Mai in tutta la vicenda dell’Italia repubblicana, nemmeno nel corso delle difficilissime sfide politiche dell’immediato dopo guerra, si è assistito a questo deprimente spettacolo di veti e di capricci che paralizzano il Paese. Forze politiche senza alcun ancoraggio culturale, deboli nel loro incerto, come le recenti consultazioni amministrative hanno dimostrato, insediamento territoriale rischiano di trascinare per i loro interessi il Paese verso rischi che saranno pesantemente pagati dai cittadini. L’appello del Presidente della Repubblica è un forte richiamo alla responsabilità, un avvertimento che la ricreazione di questi apprendisti stregoni deve finire. La politica in Italia ha una pessima reputazione e l’astensionismo crescente è il segnale della disaffezione e del grado di insoddisfazione che dovrebbe preoccupare chiunque, anche chi immagina che la inquetudine degli elettori possa avvantaggiarlo, non sarà così, prima o poi i fatti si incaricheranno di dimostrare a quale avveturieri gli elettori si sono affidati. Livorno, 7 maggio 2018 Aldo Potenza – Coordinatore Socialismo XXI Secolo Mail: aldo.potenza@tin.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CONFERENZA PROGRAMMATICA RIMINI 2019. APPUNTI PER UNA DISCUSSIONE

Proposte: 1) Europa 2) Costituzione e assetti istituzionali 3) Economia e occupazione 4) Fisco e redistribuzione della ricchezza 5) Legislazione del lavoro 6) Questione meridionale   Europa Premessa: Si propone la promozione dell’Unione Europea in una federazione di Stati dotata di una moneta unica l’Euro. I paesi non appartenenti alla moneta unica, dovrebbero far parte del mercato unico, perdendo tutti i diritti di decisione che riguarderebbero unicamente i Paesi aderenti alla moneta unica. Ovviamente ciò comporta la rivisitazione dei Trattati e degli assetti istituzionali per renderli coerenti al disegno dell’Europa federale. Riguardo ai trattati europei e più in generale ai trattati transnazionali, come è noto la Costituzione vigente non consente referendum confermativi. Si potrebbe introdurre l’obbligo di indire referendum consultivi. Opporsi alla trasformazione del fiscal compact in trattato. Rilanciare un quadro politico di “legittimazione” dell’Europa che è priva di una Costituzione; Il Parlamento di Strasburgo ha conquistato nuove competenze, ma rimane un organismo molto diverso dai Parlamenti nazionali, attribuire funzioni simili ai Parlamenti nazionali? Il Consiglio europeo che ha poteri decisionali e conferisce alla Commissione le competenze delle norme che stabilisce. Nell’ipotesi di un Parlamento con funzioni legislative, si ritiene che possa essere trasformato in seconda Camera sul modello del Senato USA. La Commissione ha molti poteri, ma rimane un organo lontano dalla legittimazione popolare, quale destino in una Europa federale? Riforma della BCE superando il modello attuale che le attribuisce il compito di controllo dell’inflazione, per riconoscerle il ruolo di banca di ultima istanza. Separare le banche commerciali dalle banche d’affari. Prevedere la sospensione della quotazione di titoli con un valore di borsa eccedente un tot volte il ratio price/earning. Eurobond e fondi di riscatto del debito come proposto da Martin Schulz in occasione del suo libro a sostegno della candidatura a presidente del Parlamento Europeo, mutualizzare le quote del debito pubblico eccedenti l’80% dei debiti pubblici nazionali con emissione di titoli europei. Coordinamento delle politiche fiscali e mettere fine al dumping fiscale tra i Paesi europei. Istituzione di una Agenzia di Rating europea. Applicare la golden rule di Delors, ovvero tenere gli investimenti fuori dal calcolo del deficit. Costituzione ed assetti istituzionali Premessa: Con il NO espresso al referendum confermativo non si è voluto escludere la necessità di un aggiornamento della nostra Costituzione, ma si è voluto sconfiggere un disegno che modificava in senso oligarchico la nostra Costituzione, che in verità ha subito diverse manomissioni senza un disegno organico che ne ispirasse le modifiche. Si propone che l’idea FEDERALISTA non vada accantonata, ma rivalutata in un quadro complessivo delle funzioni delle Istituzioni rappresentative. Si propone un intervento che consenta un iter legislativo più snello a decreti e leggi e una legge elettorale proporzionale con uno sbarramento del 3% insieme alla sfiducia costruttiva. Appare necessario valutare l’opportunità di superare i vecchi confini delle regioni affrontando la questione delle macroregioni, magari attraverso referendum che coinvolgano i cittadini interessati. Sia nel caso di un diverso assetto delle Regioni, sia che nulla venga cambiato è indispensabile, nel primo caso rivalutare il ruolo amministrativo delle Province, nel secondo occorre ridefinirne il ruolo. E’ indispensabile rivalutare il ruolo dei Consigli comunali e regionali ridotti a ratificare o poco più le decisioni delle rispettive Giunte. Particolare impegno è necessario affinché sia approvata una legge per l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione imponendo che sia garantita la partecipazione democratica degli iscritti alla attività del partito, la rigorosa incompatibilità dei responsabili di partito a ricoprire cariche istituzionali e la definizione di uno statuto delle minoranze. Inoltre la esclusione, per chi non rispetta le disposizioni della legge, da ogni forma di finanziamento pubblico all’attività del partito e dei suoi rappresentanti. L’art. 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio deve essere riferito alle sole spese correnti. Per quanto riguarda gli investimenti, invece, si possono seguire due strade: ogni anno si risparmia qualcosa per poterlo investire nel momento in cui i fondi accantonati sono sufficienti a fare l’investimento; ci si indebita e si fanno da subito gli investimenti necessari; ci si indebita e si fanno da subito gli investimenti necessari; con i frutti generati dagli investimenti fatti si ripagano interessi e quote capitali degli investimenti fatti. Non è chi non veda da subito tre elementi: l’investimento a debito è fatto molti anni prima di quello fatto accantonando i necessari fondi; l’investimento fatto deve essere supportato nei progetti e nell’attuazione da una redditività sociale (aumento del PIL) verificabile e testabile in modo continuo, tale da giustificare l’investimento stesso e la sua sopportabilità finanziaria; esiste una solidarietà generazionale nei tempi dei sacrifici connessi all’accantonamento dei fondi ed al godimento dei frutti dell’investimento fatto; nel primo caso la generazione A farebbe i sacrifici e la generazione B ne godrebbe i frutti; nel secondo caso sacrifici e godimento dei frutti gravano e beneficiano i cittadini senza discriminazioni generazionali. Questo obiettivo, condiviso dalla maggioranza degli economisti, serve ad uscire da una miope politica di austerity, responsabilizzare le gestioni dei singoli paesi, avviare una metodologia di accountability responsabilizzante, introdurre in europa una filosofia programmatoria oggi deludente. Deve essere inoltre preambolo ad una funzione dell’Europa quale organo programmatore degli interventi finalizzati alla convergenza dei fondamentali economici dei vari paesi membri. Economia e occupazione Ricordo che nel documento conclusivo dell’incontro livornese si è fatta esplicito riferimento alle conseguenze del tutto prevedibili della economia 4.0. In particolare si è sottolineato che accanto alle nuove opportunità che si schiudono in questa nuova fase dello sviluppo dell’economia vi sono alcune questioni che aprono scenari inquietanti: la grande concentrazione di capitali necessari e la fine del paradigma che ha attraversato gli ultimi due secoli per cui al crescere degli investimenti cresceva l’occupazione. Oggi tutto fa pensare che non sarà più così e l’innovazione che seguirà espellerà gran parte della forza lavoro dal ciclo produttivo investendo anche le strutture di servizio. Tutto ciò comporta una attenta ricerca su come assicurare una stabile occupazione e un reddito adeguato ai cittadini. NB. Su questo argomento, come anche in altre parti del documento, ci aiuta un contributo dell’economista Renato Gatti: Le tematiche che la rivoluzione 4.0 …

RICORDO IL LAVORO

Intervento di Alessandro Lombardo* Questa volta il volgere del secolo ha coinciso con la percezione diffusa di una grande trasformazione in corso, che investe il modo di produrre, di essere e di interagire di milioni di uomini. Ciò è vero su scala planetaria, ma è vero anche su scala nazionale e cittadina. Anzi, per la nostra città, il cambiamento assume i tratti di una metamorfosi radicale che modifica completamente i connotati della sua identità e mette fine a una storia di almeno un secolo e mezzo: un secolo e mezzo di storia della città industriale, poi fordista, delle grandi fabbriche di stato, delle grandi concentrazioni operaie che si sommavano e si intrecciavano alle più antiche presenze fluttuanti delle masse portuali. Un secolo e mezzo di città del lavoro moderno, della moderna democrazia e del moderno conflitto sociale. Andare verso il futuro, inventarsi un futuro possibile, non significa fare terra bruciata del passato, cancellarlo e dimenticarlo, come vorrebbe qualche zelante cultore della “fine della storia”. Ripercorrere la storia del lavoro nell’ultimo secolo e mezzo a Genova, anche a tacere delle radici più remote, significa ripensare a una straordinaria esperienza di democrazia e partecipazione, di solidarietà e organizzazione, di trasformazione dal basso dei rapporti sociali e delle coscienze. In questo la storia del mondo e del lavoro portuale e la storia del mondo e del lavoro industriale si legano profondamente, pur rimanendo diverse. In entrambi i casi il lavoro compare come fonte di identità, come veicolo di formazione, come base di un’etica di produttori che si riverbera sull’intera città, dà un’impronta alla sua cultura, al suo “clima”, al suo stile. Basta pensare alla coincidenza, richiamata in questo opuscolo, fra le lotte del primo Novecento per il diritto di esistere degli organismi operai di difesa e di controllo del mercato del lavoro, dentro il porto e fuori di esso, e l’inizio di una svolta della politica nazionale che, per la prima volta nella storia italiana non considera più le classi lavoratrici solo come una minaccia e un problema di ordine pubblico, ma come un soggetto la cui crescita può essere di arricchimento per tutto il paese. La classe operaia portuale e la classe operaia industriale hanno conosciuto momenti di crescita diversi, un senso diverso del lavoro, ma un comune orgoglio di mestiere che nasceva in un caso dalla capacità di autogestione e di coordinamento delle operazioni, dal misto di forza e di destrezza da sempre necessario nelle attività portuali, dalla tradizione cooperativa, nell’altro dalla consapevolezza di trovarsi al centro di un processo creativo capace di edificare giganti come le navi e le turbine, le locomotive e le enormi strutture di lamiera, usando macchine e tecnologia con la perizia di una professionalità accumulata in lunghi anni di esperienza. Penso soprattutto alle maestranze di un colosso come l’Ansaldo. Dentro l’Archivio storico di questa azienda c’è un formidabile patrimonio di storia del lavoro non inteso solo nelle sue dimensioni oggettive e di erogazione di energia, ma in quelle culturali, simboliche e politiche: una storia senza la quale sarebbe impossibile comprendere la storia della città e del secolo appena compiuto. Gran parte di questo mondo è oggi finito e la città è alla ricerca di una sua nuova identità: che sarà necessariamente più mobile, meno pesante, meno monolitica. Ciò non significa affatto abbandonare gli aspetti fondanti di questa tradizione e dimenticarli. Semmai ripensarli. Ripensare il fattore lavoro come fattore d’identità, anche se si tratta di un lavoro in gran parte cambiato, decentrato, mutevole assai più che nel passato, meno corporeo, meno manuale, meno materiale, più virtuale, più mentale, più relazionale. Ripensare il fattore lavoro come fattore di democrazia: cioè come esercizio della capacità di partecipazione, maturazione collettiva, controllo e responsabilità personale, contro i nuovi dogmi della fruizione passiva e della registrazione istantanea dei desideri eterodiretti. Ripensare il fattore lavoro come fattore di liberazione, dignità e autonomia. Ciò significa anche rompere l’accerchiamento del nuovo idolo totalitario, il liberismo assoluto del consumo e del mercato autoregolato che una volta ancora nella nostra storia, malgrado contraddizioni e fallimenti catastrofici, e malgrado importanti confutazioni teoriche, cerca di imporsi come unico criterio di definizione delle relazioni interumane cancellando zone franche di autonomia nella prassi, nel pensiero e persino nella memoria. Perciò l’idea i ripartire dalla storia dei carbunè, di ripensare le loro lotte, iniziative, esperienze, apparentemente così lontane dal nostro mondo, per ritrovare il filo d’Arianna di un tessuto collettivo di solidarietà, dentro e non contro le trasformazioni che stanno investendo in maniera traumatica la realtà del lavoro, per reagire alle ricadute barbariche dell’intreccio tra globalizzazione e nuovi nazionalismi, mi sembra un’idea importante, un progetto da praticare e un percorso da seguire. La storia non gode in questo momento di un prestigio particolarmente elevato: una specie di presenzializzazione e di appiattimento inavvertito sull’oggi sembra dominare la scena anche in seguito alle prodigiose conquiste dei mezzi di comunicazione di massa grazie ai quali tutto il passato sembra poter essere immediatamente evocato sotto i nostri occhi e quindi perdere la sua misteriosa dimensione di alterità. Contemporaneamente, all’interno della tecnologia digitale, telefonica e informatica e dell’ubiquità che essa sembra assicurare, anche la dimensione dell’altrove si perde: sicché attardarsi sulla ricostruzione e il racconto del mondo che è stato sembra un esercizio futile, una sorta di delirio e di allucinazione e in definitiva una perdita di tempo. Mostrare che il passato, nella sua doppia qualità di essere lontano e diverso ma anche vicino e analogo, può aiutarci nella ricerca, è un compito difficile ma affascinante. La storia può essere addirittura la chiave di volta culturale per aiutarci a governare il cambiamento, uno dei cambiamenti più radicali dell’esperienza umana, certo uno dei più dei più forti per la nostra città, senza produrre o subire irreparabili catastrofi. *Alessandro Lombardo è Direttore della Fondazione Ansaldo, archivio economico delle imprese liguri Tratto da “Ragnatela di Mare” Compagnia Portuale Pietro Chiesa – Genova a cura di Piefranco Pellizzetti ANSA: I ‘carbuné’ di Genova in liquidazione Un secolo di storia, sostennero nascita quotidiano ‘Il lavoro’         SocialismoItaliano1892E’ un …

RICORDO MIO ZIO, PIETRO CHIESA

I carbunè di Genova   [avatar user=”Pierfranco Pellizzetti” size=”thumbnail” align=”left” link=”https://www.ilfattoquotidiano.it/blog/ppellizzetti/” target=”_blank” /] di Pierfranco Pellizzetti Colloquio con Pietro Salvarani Se Gino Murialdi è la mente organizzativa, Pietro Chiesa è il formidabile tribuno dei lavoratori di Sampierdarena e del porto di Genova. Così lo ricordò nel suo necrologio Claudio Treves: “Pietro Chiesa, deputato, membro del Consiglio superiore del Lavoro, vicepresidente del Consiglio portuario di Genova, restò ‘classe proletaria’ in tutte queste funzioni, e non solo nel tratto, nel costume, nelle amicizie. Perciò l’amammo. Cuore nell’ideale e mente nella realtà. Cuore nel socialismo, mente nell’officina; nel campo, nel Sindacato, magari nel carcere o nella taverna, dovunque è, soffre, combatte, spera la classe lavoratrice, dovunque è l’humus proletario. Fu così che Pietro Chiesa diventò il nostro grande oratore in tutte le feste del Partito, il nostro grande oratore in Parlamento, levandosi sopra i compagni del Gruppo, ogni volta che era da far sentire la realistica voce diretta della vissuta esperienza proletaria“. Personalità emblematica di quei militanti che, a cavallo tra i due secoli, guidano all’emancipazione le masse proletarie. Più che ricostruirne la biografia, ci interessa capirne la mentalità, la tipologia umana, i principi che ne alimentavano incessantemente la convinzione e l’impegno. Li guidava – non c’è dubbio – una sorta di “religiosità laica”. Una fede che traeva dal messaggio cristiano i valori di amore per il prossimo e solidarietà attiva, temporalizzati dall’intreccio con quelli – positivistici – di progresso e filantropia universale, con quelli – politici – di lotta sociale e riscatto umano. Figure della dedizione e del coraggio, con un tratto di grande generosità che faceva loro anteporre l’interesse generale, i bisogni dei miseri e degli oppressi, al proprio tornaconto personale. Figure del sacrificio disinteressato ma anche figure dalla traboccante umanità. Pietro Chiesa, già operaio verniciatore di carrozze tranviarie, venuto a Genova giovanissimo dalla natia Asti, deputato del Partito Socialista dal 1900, lotta tutta la vita per i diritti dei lavoratori ma trova anche il tempo per comporre piccole opere teatrali da mettere in scena nel teatro Modena in Sampierdarena. Lo ricordiamo con un pronipote, Pietro Salvarani, il cui nonno era cognato di Chiesa avendo sposato la sorella di sua moglie, Giuseppina Casella. Anche il nonno di Salvarani, Pietro Bancalari, è un nobile esempio di quel tipo d’uomo che trova il proprio ambiente naturale nel movimento socialista umanitario degli albori e cui fornisce i tratti di eroismo civile che lo hanno reso qualcosa di più di un’organizzazione politica: una scuola di civiltà, un formidabile strumento di integrazione sociale delle plebi informi, avviate dai campi all’officina negli anni della prima industrializzazione. Bancalari lo testimonia al prezzo della vita. Infatti, muore a Pontedecimo, nell’inverno del 1902, a seguito di una polmonite contratta per salvare dall’affogamento una bambina caduta nelle acque gelate del fiume Polcevera. *** “Di Pietro Chiesa ricordo quello che raccontava mia madre, Irma Angela Bancalari. Lo zio non aveva figli e, alla tragica morte del padre, l’accolse in casa adottandola. Per questo motivo conservò nei suoi confronti una vera e propria devozione che mi trasmise anche se non avevo potuto conoscerlo direttamente (sono nato nel 1916, un anno dopo il suo decesso). Mamma mi raccontava del suo costante impegno nell’aiutare i bisognosi, i lavoratori che trovavano la sua casa sempre aperta, a tutte le ore. Chi aveva dei guai arrivava di notte, Pietro Chiesa apriva la porta e ascoltava… In questo aveva cominciato ben presto. Giovanissimo verniciatore dell’UITE si impegnò subito nel sostegno dei diritti e delle rivendicazioni dei colleghi manovratori di tram: avere il parabrezza. A quei tempi – infatti – i conducenti erano sistemati in un abitacolo scoperto ed erano esposti a tutte le intemperie. Per queste attività sindacali fu anche costretto a un temporaneo espatrio in Francia. Sempre mia madre mi raccontava di un suo amico sacerdote che aveva l’abitudine, celebrando la messa, di inserire sempre una preghiera per Chiesa. Lo giustificava dicendo: ‘nonostante sia un socialista è di una bontà grandiosa’. Ovviamente questo giudizio era largamente diffuso tra i nostri operai. Io stesso ne ho tratto qualche vantaggio indiretto. Nel 1942, esonerato dal servizio militare per una menomazione a seguito di un grave incidente, venni assunto all’Ansaldo. Il mio compito non era dei più popolari in fabbrica, facevo il ‘contatempi‘. In effetti, l’incarico era obbiettivamente poco simpatico in quanto dovevo svolgere funzioni di controllo del lavoro di linea. Nonostante ciò, non ebbi mai dimostrazioni di ostilità da parte degli operai. Il perché mi venne presto spiegato da un vecchio tornitore: ‘non la boicottiamo per rispetto a Pietro Chiesa!”. Mai ho saputo come avessero scoperto questa mia parentela (io di certo non l’avevo sbandierata). Per lunghissimo tempo il ricordo di questo animo impareggiabile è stato conservato dalla nostra comunità. Ricordo che una trentina d’anni fa mi ero recato al cimitero di Sanpierdarena e ho trovato un giovane che armeggiava attorno alla tomba dello zio. Disponeva i fiori, puliva, accendeva i lumini. Incuriosito gli chiesi perché lo facesse e lui mi rispose: ‘è per via di mio nonno. In letto di morte mi ha raccomandato di non dimenticarmi mai di Pietro Chiesa’. Torno sempre su quella tomba ma ormai, da molto tempo, non trovo più tracce di visite riconoscenti, il segno vivo del ricordo. Probabilmente i diretti discendenti di chi aveva conosciuto e amato mio zio sono tutti scomparsi”. Tratto da “Ragnatela di Mare” Compagnia Portuale Pietro Chiesa – Genova SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA DIMENSIONE DELLA MEMORIA

[avatar user=”Pierfranco Pellizzetti” size=”thumbnail” align=”left” link=”https://www.ilfattoquotidiano.it/blog/ppellizzetti/” target=”_blank” /] di Pierfrando Pellizzetti Ricordo mio nonno, Gino Murialdi. Colloquio con Paolo Murialdi* “Mio padre parlava spesso del nonno. Nei miei primi ricordi di bambino c’è il grande palazzo sotto la lanterna, a piazzale Giaccone, che papà mi portò a visitare spiegandomi che il nonno Gino era stato uno di quelli che più si erano impegnati per riuscire a costruirlo. La casa dei carbuné. Se la memoria non mi inganna, legata all’edificio c’era una questione di docce che colpì la mia fantasia infantile. Gli scaricatori del carbone finalmente, grazie alla conquista di una propria sede attrezzata di impianti igienici adeguati, avrebbero potuto terminare la giornata lavorativa lavando via dal corpo la densa fuliggine che li ricopriva. Quella fuliggine che li trasformava in “uomini neri“, quasi a imprimere loro il marchio visibile dell’emarginazione. La raggiunta disponibilità delle docce e la conseguente possibilità di pulirsi assumevano – dunque – il valore simbolico di una dignità riconquistata. Gino Murialdi tutto questo lo capiva benissimo. Capiva che era anche attraverso questi aspetti, apparentemente marginali, che si realizzava l’emancipazione del lavoro. Il nonno era un uomo pratico, abituato a privilegiare le questioni concrete e gli aspetti organizzativi. Forse troppo in anticipo rispetto ai tempi. Un riformista pragmatico in un’epoca in cui iniziano ad addensarsi le nubi di nuove tempeste ideologiche, di insorgenze estremistiche. Un anticonformista in rotta di collisione con ogni forma di conformismo, anche di sinistra. L’uomo Murialdi, il laburista fortemente influenzato come tanti altri socialisti genovesi (penso a Canepa e al vecchio avvocato Rossi) dalle esperienze francesi, è soprattutto un grande organizzatore. Un uomo d’azione perennemente impegnato in nuove iniziative. Se nel 1903 è tra i fondatori de “Il Lavoro”; quando muore giovanissimo di infarto (non ha che 48 anni) sta recandosi in una cartiera ad acquistare la materia prima per stampare un altro quotidiano progressista, il nittiano “Il Paese”. Era il 14 dicembre 1920. Nei racconti paterni – dunque – una sorta di manager di sinistra ante litteram, impegnato nel movimento solidaristico delle aristocrazie operaie del porto di Genova (bellissimo ed emblematico il nome della loro cooperativa di consumo, “L’Emancipazione”). Detto così, l’orizzonte operativo di Gino Murialdi sembrerebbe essere circoscritto al porto. Eppure, tempo fa Torino, mi parlavano del nonno sia Norberto Bobbio che Alessandro Galante Garrone e ne ricordavano l’impegno nelle lotte contadine. In effetti, nonostante fosse andato a Genova a studiare, era originario del basso Piemonte. Una doppia legatura, dunque: il mare e la collina. I suoi genitori – del resto – facevano entrambi i maestri elementari nella Val Bormida. Per questo, dopo essersi laureato a Genova, inizia a esercitare l’avvocatura nei luoghi nativi e anche mio padre vede la luce nella vecchia casa di famiglia a Cortemilia, tra Cuneo e Savona. Quando uscirà dal Partito Socialista per le polemiche con una dirigenza massimalista genovese del tutto sorda al gradualismo (cui antepone quella retorica estremista che al nonno risultava altrettanto ostica), ritornerà ai luoghi d’origine. Presentandosi da socialista indipendente, sarà eletto deputato per due volte e sempre in collegi del basso Piemonte: Acqui nel ’13 e Alessandria nel ’19. A proposito, Bobbio mi ricordava la risonanza dello scontro che, nelle elezioni del ’13, vedeva contrapposti nel collegio di Acqui mio nonno e un giolittiano famoso come Maggiorino Ferraris. La spuntò il nonno e anche questa volta la sua “modernità” ebbe modo di mettersi in evidenza. Nel romanzo “I Sansossi”, Augusto Monti racconta della campagna elettorale di Gino Murialdi che, fatto inaudito per l’epoca, utilizza un’automobile e gli elettori della zona vanno ai comizi per ammirare quella meraviglia della tecnica meccanica prima ancora che per ascoltare le parole del candidato. Per lunghi anni si parlò dell’automobile scoperta di Gino Murialdi che sfrecciava per la Val Bormida. Si diceva, forse un uomo troppo in anticipo rispetto ai propri tempi, che ai primi del secolo già pensava la questione logistica come grande opportunità genovese, che affrontava i problemi in un’ottica sostanzialmente “imprenditoriale”. Papà conservava la copertina di un numero de “L’Illustrazione Italiana” del 1903, dedicata alla visita di Vittorio Emanuele III al porto di Genova e che riproduce il nonno mentre gli tende un piatto con una pagnotta e un tovagliolo in segno di pacificazione. Una vicenda che i massimalisti non riuscirono mai a perdonargli. Enrico Leoni nel 1905 lo indicherà come esempio di “degenerazione socialista”, Arturo Labriola lo attaccherà pesantemente nel Congresso del 1906. A poco serve rispondere, a chi lo accusa di “aver portato l’omaggio dei lavoratori al re”, di avere – in effetti – “accolto l’omaggio del re ai lavoratori”. A ben poco serve. La scomunica per “degenerazione” accompagnerà il nonno anche dopo la morte. Quando, nel 1932, si edita il libro “Vent’anni di movimento operaio genovese” il nome di Luigi Murialdi viene cassato persino dalle pagine dedicate alla fondazione de “Il Lavoro” e al “contratto dei dodici mesi”. Una “congiura del silenzio” continuata anche nel secondo dopoguerra: i riformisti come Murialdi erano gente da non citare neppure. Ricordo – ad esempio – che vari anni fa feci visita alla figlia del vecchio Giuseppe Canepa, grande leader socialista genovese dei primi del secolo. La mia ospite, in quella occasione, mi mostrò un pacco di corrispondenza paterna di altissimo interesse storiografico. All’evidente interesse per “quelle carte” che andavo manifestando, mi raccontò che mai nessuno si era fatto avanti per consultarle. Mai le erano pervenute richieste in tal senso da studiosi e specialisti. Un evidente e non casuale esempio di “rimozione della memoria” a cui la sinistra condannò per lunghi anni la tradizione riformista del socialismo italiano. Mi chiede se, con un nonno fondatore di giornali e un padre giornalista, la mia scelta professionale è dipesa da una vocazione familiare? Non credo proprio. Del resto, mio padre fece il giornalista dopo aver tentato vanamente altri mestieri. Semmai nel nostro DNA c’è il socialismo riformista. E una certa propensione alle scissioni. Io stesso, per esempio, feci quella di Palazzo Barberini pensando di andare a sinistra…”.   *Paolo Murialdi, nato a Genova nel 1919, inizia la …

I LAVORATORI DEL PORTO DI GENOVA: LA DIMENSIONE POLITICA E SOCIALE

[avatar user=”Pierfranco Pellizzetti” size=”thumbnail” align=”left” link=”https://www.ilfattoquotidiano.it/blog/ppellizzetti/” target=”_blank” /] di Pierfranco Pellizzetti “I lavoratori del porto di Genova hanno da epoca antichissima avuto – scrive Luigi Einaudi nel 1901 – la tendenza a raggrupparsi in corporazioni, per la tutela dei loro interessi e per la determinazione dei salari e delle altre condizioni di lavoro. Dove gli imprenditori sono pochi e gli operai si contano a migliaia, e tutti sono suppergiù, egualmente forti ed atti a compiere il rude lavoro di facchinaggio che è loro imposto, è naturale che gli operai si riuniscano in società per non portarsi via il pane l’un l’altro, per regolare, una volta per sempre, l’ammontare del salario e la durata del lavoro. Ancora. Siccome il lavoro del porto non è continuo, ma muta di giorno in giorno per intensità e ampiezza, così è necessario che sul porto esista un’armata di lavoratori capace di far fronte ai lavori di luna massime nello scarico e nel carico: e siccome nei giorni di lavoro medio od inferiore alla media non tutti possono essere occupati, così è d’uopo che gli operai si accordino per alternarsi al lavoro in modo che nessuno corra il rischio di morire di fame, quando il lavoro è scarso”. Nell’equilibrio perennemente instabile tra “l’unità necessaria e l’individualismo tenace”, caratteristico dello spirito genovese, le categorie portuali si organizzano precocemente in corporazioni. Vi sono elementi che inducono a pensare che fossero presenti e attive già dal 1100, anche se i primi statuti di cui abbiamo traccia risalgono al 1400. Questo associazionismo di autogoverno e difesa attraversa i secoli in costante dialettica antagonistica con gli interessi delle controparti imprenditoriali; capitalisti che perseguono l’imposizione di relazioni individualizzate per meglio far valere a proprio favore lo squilibrio dei singoli rapporti di forza. Nel contrasto permanentemente latente tra punti di vista contrapposti, l’associazionismo assume i tratti della propria ambiguità: punto di resistenza contro la sopraffazione e – al tempo – presidio di vantaggi posizionali tendenti al corporativo. Fermo restando che lo stato materiale delle classi lavoratrici portuali resta oggettivamente a livelli di estrema penuria e di drammatica precarietà. Il nodo viene tranciato di netto dopo l’annessione della Liguria al Regno di Sardegna. Tra il 1839 e il 1844 le antiche corporazioni vengono sciolte consegnando agli imprenditori l’assoluto governo dei traffici nello scalo genovese. Questo scioglimento consentiva a chiunque di accedere al lavoro. Ciò rese possibile ai datori di lavoro di richiamare in porto masse di contadini poveri dell’entroterra. Azione volta a rompere, con assunzioni arbitrarie, ogni eventuale fronte unitario di resistenza alla determinazione padronale delle tariffe d’ingaggio dei facchini (che raggiunsero limiti di pura sussistenza). Un sistema definito come “libertà di lavoro”. Espressione accattivante che vorrebbe rappresentare il superamento delle vecchie strozzature nel mercato del lavoro proprie dell’antico regime corporativo. Anche in questo caso – però – formulazione carica di ambiguità e derivazioni ideologiche. Così come ambigua (e intrisa di “retro-significati”) è la deriva verso la libertà che marca l’intera modernità. Progetto di civilizzazione che troppo spesso trascura di precisare a vantaggio di chi e per che cosa. Storia vecchissima e ricorrente se consideriamo come – a detta degli storici – uno dei suoi primi e più sventolati stendardi (quella del “libero mercato”, innalzato in Occidente a partire dal XVII secolo) altro non sia che la vendita, sotto forma di valori universali, dei concretissimi interessi di circoli finanziario-affaristici (prevalentemente inglesi) a quote del lucroso business dell’epoca: la tratta oceanica degli schiavi. In quel tempo regolamentata oligopolisticamente dal sistema delle patenti regie. Ciò per dire che l’argomento-“flessibilità” e il suo contrario altro non sono che strumenti di scontri sociali finalizzati al predominio, il cui bottino realmente in gioco è la possibilità dello sfruttamento o il suo contrario. In altri tempi, l’economista Paolo Leon sosteneva che “la storia del movimento operaio si racchiude nel contrastare la flessibilizzazione del fattore lavoro” per promuovere l’emancipazione. In quest’ottica, il vero campo che difende la libertà e la promuove andrebbe individuato ribaltando le apparenze (e le grandi narrazioni di comodo). Tornando al “campo di battaglia” portuale a Genova, gli effetti del “regime di libertà del lavoro” sulla popolazione lavoratrice si rivelarono devastanti. Si parla letteralmente di “fame”. Un solo dato: nel 1881 le mercedi erano scese a un quarto di quelle del 1874. La situazione, sempre peggiore e caratterizzata da endemiche agitazioni, smascherava definitivamente l’inconsistenza della propaganda che per prima aveva perseguito la formazione politica delle classi subalterne: l’interclassismo a-conflittuale mazziniano. In quegli anni fioriscono le prime pubblicazioni destinate a formare coscienze proletarie capaci di ragionare nei termini della lotta di classe. Su una di queste, “l’89”, fa i primi esercizi teorici un giovane operaio piemontese trasferitosi a Sampierdarena e che avrà una parte importante nell’organizzazione del movimento dei lavoratori: Pietro Chiesa. Nel porto la popolazione è in rapida crescita. Circa 7mila persone sono ora avviate quotidianamente al lavoro sulle banchine. All’interno di questa massa, il peso più rilevante è quello dei portuali del carbone. Il traffico del carbone, a fine ‘800, rappresenta oltre la metà di quello complessivo delle merci. Le importazioni di questo minerale passano dalle 838.000 tonnellate del 1885 al 1.309.000 del 1890, ai 2.030.692 del 1900. Nel 1900 i carbonai sono 3.500, suddivisi in quattro categorie: facchini, caricatori o coffinanti, scaricatori, pesatori-ricevitori. Il carbone giunge a Genova dall’Inghilterra e dalla Germania e viene movimentato manualmente. L’affollarsi delle navi, che determina endemico intasamento, impone lo scarico attraverso le chiatte su cui il materiale trasborda stipato in ceste con manici (coffe); contenitori fragilissimi ma pesanti fino a 150 chili, che i facchini portano a spalla lungo gli scalandroni, tavole sospese larghe trenta centimetri. Ogni giorno si caricano 350/400 vagoni ferroviari e la giornata, nella buona stagione, arriva alle 14 ore. I salari, frutto di contrattazioni individuali, oscillano tra le 5 e le 2 lire; una paga proporzionalmente più alta di quella dell’operaio di fabbrica ma percepita in modo irregolare e vincolata all’accettazione del sistema del “vino e coltello” imposto dai confidenti. Gli imprenditori del settore sono detti “negozianti” (importatori e grossisti del carbone) e il loro …

IL MEDIANO GRANATA MORTO A MAUTHAUSEN

di Fabrizio Accatino Vittorio Staccione, torinese di Madonna di Campagna, vinse lo scudetto revocato del 1926-27. A fine carriera, operaio socialista, organizzò lo sciopero del ’44. Deportato dalle SS, morì l’anno dopo. A osservarlo con lo sguardo nichilista di oggi, pare incredibile che possa essere mai esistito un calcio partigiano. Eppure durante la Seconda Guerra Mondiale diversi giocatori del campionato italiano hanno trovato la morte nei campi di concentramento o arruolandosi nella Resistenza. Due di loro hanno vestito la maglia del Torino: Bruno Neri, ucciso sugli Appennini dal fuoco dei tedeschi e Vittorio Staccione, che perse la vita a Mauthausen. La straordinaria e tragica vicenda umana di quest’ultimo è stata ricostruita con amore e fatica dal nipote Federico Molinario, che negli anni ha consultato documenti, archivi, quotidiani d’epoca. «Mio zio era una persona buona, riservata, che dava poca confidenza» racconta oggi Molinario. «Fin da ragazzino aveva iniziato a frequentare i circoli socialisti torinesi e per quello è sempre stato inviso al fascismo. Spesso veniva aggredito dagli squadristi e se tentava di difendersi veniva arrestato con l’accusa di resistenza. Ma non era un esagitato o un violento, anzi, aveva modi talmente gentili da apparire dimesso». Vittorio era nato il 9 aprile 1904 da una famiglia torinesissima, in viale Madonna di Campagna 4, in una piccola casa che oggi non esiste più. Tifoso del Toro fin da bambino, come tutti i ragazzini inizia a giocare per strada, prendendo a calci un pallone di stracci insieme al fratello Eugenio. A 11 viene notato dallo svizzero Bachmann, capitano del Toro, che lo chiama nelle giovanili granata. Debutta in prima squadra il 3 febbraio 1924 contro il Verona. Per lui 3 presenze in tutto, poi parte per il servizio militare, venendo prestato alla Cremonese. Torna al Toro nella stagione 1925-26, collezionando sei presenze in campionato. Un infortunio gli impedisce di essere presente alla partita inaugurale del nuovo stadio Filadelfia ma si rifarà l’anno successivo, vincendo il primo scudetto granata (poi revocato) insieme a Baloncieri, Janni, Libonatti. Nell’estate del ’27 si trasferisce alla Fiorentina. A Firenze conosce Giulia, che sposa dopo pochi mesi ma che morirà di parto, insieme alla bambina che porta in grembo. «Da quel momento mio zio è cambiato» racconta Molinario. «Mia madre mi ha sempre detto che da allora si è chiuso in se stesso, diventando ancora più solitario e taciturno. Da quella tragedia non si è mai rimesso davvero». Chiude la carriera a Cosenza e al Savoia. Tornato a vivere a Torino, continua a frequentare i circoli della sinistra. Spesso viene arrestato, schedato, fotosegnalato dall’Ovra. A condannarlo è la sua partecipazione all’organizzazione dello sciopero del 1° marzo 1944. Il 12 marzo viene arrestato dalla polizia di Madonna di Campagna, che lo cede alle SS. «La polizia gli comunicò che sarebbe stato deportato in un campo di concentramento tedesco e lo mandò a casa da solo a prepararsi per il viaggio. Chiunque al suo posto sarebbe fuggito, ma non lui. Il giorno stesso si presentò alle Nuove con la valigia, consegnandosi ai nazisti. Questo dice tanto della natura di mio zio, e anche della sua piemontesità». Il 16 marzo Vittorio Staccione parte da Porta Nuova sul treno di deportazione numero 34. Sul 32 c’è il fratello maggiore Francesco, arrestato insieme a lui. Arriva a Mauthausen il 20 marzo. Viene classificato come Schutzhäftling, prigioniero politico. Lo aspettano un triangolo rosso e il numero di matricola 59160. Viene assegnato alla cosiddetta «scala della morte», una cava attraversata da 186 gradini, lungo i quali i detenuti devono trasportare grossi blocchi di granito. Nel campo incontra Ferdinando Valletti, mediano del Milan che aveva affrontato da avversario ai tempi del Toro. Per le loro capacità sportive i due vengono notati dalle SS, che li reclutano nella squadra del campo. Dopo un anno di prigionia, Vittorio viene trasferito a Gusen. Lì un pestaggio delle guardie gli procura una profonda ferita alla gamba. Privato delle cure necessarie, muore di setticemia e cancrena all’alba del 13 febbraio 1945. Suo fratello Francesco lo seguirà nove giorni dopo, il 25 marzo. Chi ama il calcio e i valori dello sport non può dimenticare la figura di Vittorio Staccione. Dal 2015, allo stadio Zini di Cremona, lo ricorda una targa. A scolpire l’immagine in bronzo (un pallone dietro a un filo spinato), l’artista Mario Coppetti, classe 1913: a undici anni aveva visto giocare Staccione nella Cremonese, a 102 ha voluto rendere omaggio a uno degli eroi della sua gioventù. Sul marmo bianco, un epitaffio riassume così l’uomo e il calciatore: «Simbolo dello sport come impegno sociale, civile e politico, lottò sui campi della vita per la libertà e la fratellanza degli uomini». Fonte: La Stampa – Torino SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ALDO ANIASI COMMEMORA FERRUCCIO PARRI

Quello di oggi è un atto simbolico di grande significato etico e politico. Un atto compiuto alla vigilia della data simbolo della Liberazione Nazionale, che sottolinea il legame tra l’eroico passato della Lotta di Liberazione Nazionale e le giornate che viviamo dense di gravi problemi nei quali si dibatte la società italiana. Dobbiamo essere grati al Comitato Permanente della Resistenza, al Sindaco di Genova che lo presiede, alle organizzazioni partigiane per aver promosso l’omaggio che abbiamo reso poco fa a Staglieno alla memoria di Ferruccio Parri ove riposa accanto alla tomba di un altro grande italiano Giuseppe Mazzini. Genova, medaglia d’Oro al Valor Militare per l’eroica resistenza contro il nazifascismo, dimostra ancora una volta di essere fedele alla sua storia alla sua tradizione patriottica e popolare. E’ la Genova che noi ricordiamo, unica città in Europa che ha costretto il 22 aprile ’45 l’armata germanica comandata dal Gen. Meinhold ad arrendersi, ai capi della Resistenza, ai membri del C.L.N. La Genova operaia e popolare che nel 1960 si oppose alla arroganza di Tambroni e al suo disegno reazionario e antidemocratico costringendo il Governo alle dimissioni. Questa è la Genova delle grandi tradizioni eroiche e civili che noi ancora una volta vogliamo ringraziare. Parri avrebbe apprezzato l’atto di oggi più di ogni altro onore che gli è stato reso nei giorni della sua scomparsa e negli anni successivi. Una lapide, con la firma “i partigiani” è stato l’atto di riconoscenza dei ragazzi di un tempo al loro effettivo comandante. Parri è uno degli eroi meno conosciuti e uno dei meno popolari. E’ vero che la Repubblica gli ha reso onori dovuti, ma è altrettanto vero che quegli onori sono stati spesso formali, protocollari, proprio quelli dei quali egli diffidava. Un sondaggio sulla conoscenza della storia patria ha confermato l’ignoranza della storia della nostra Nazione dal Risorgimento alla Resistenza. Ebbene alla domanda: Lei ricorda chi è stato Ferruccio Parri? Solo il 34% ha risposto “un esponente della Resistenza” a fronte del 56% che non sa e del 10% che si divide tra patriota del Risorgimento e Ministro fascista. E ad un’altra domanda – quale personaggio che le ricorda la Resistenza – Parri ha ottenuto solo l’1%. Non c’è dubbio che l’ignoranza della storia della nostra nazione è dovuta a molteplici ragioni a partire dalla scelta di una scuola agnostica nella quale sino a qualche anno fa l’insegnamento della storia si fermava al 1918. Sicuramente questi risultati sono anche conseguenza del tentativo di cancellare quella spinta al rinnovamento di cui era portatrice la lotta di liberazione nazionale. E’ triste constatare quanto sia necessario ancora dopo due decenni dalla scomparsa, rivalutare la figura di un personaggio che la maggioranza degli italiani non ha saputo valutare in giusta misura. Nei giorni della sua scomparsa Giovanni Spadolini affermò: “il giudizio della storia sarà più largo di quello che fu la generosità dei suoi contemporanei”. Nelle stesse giornate Sandro Pertini il grande antifascista, eroe della Resistenza, Presidente della Repubblica da sempre suo compagno affermò: “era di esempio a tutti noi, era il nostro capo ideale”. Genova non ha certo mancato di apprezzare i giusti meriti e l’eccezionale contributo che Parri ha dato all’unità nazionale, all’indipendenza, alla liberazione e alla crescita civile e sociale della nostra Italia. Genova lo ha voluto suo cittadino onorario, lo ha accompagnato alla sua ultima dimora con affettuose e commosse manifestazioni di affetto, di cui si è allora fatto interprete il sindaco del tempo Fulvio Cerofolini. Voglio aggiungere il ricordo di un Convegno che si tenne a dieci anni dalla sua scomparsa al teatro “Carlo Felice” per iniziativa dell’Istituto Storico della Resistenza Ligure e del suo Presidente, il nostro caro compagno Raimondo Ricci. Sono quindi sentimenti di gratitudine che a nome dei compagni qui giunti rivolgo ai partigiani e ai cittadini genovesi. Ho voluto sottolineare questi apprezzamenti perché è rimasta nel mondo dei resistenti la sofferta, diffusa convinzione che troppo spesso Parri sia stato oggetto di interpretazioni lontane dal significato autentico del suo impegno di vita. Egli era stato innanzitutto “Maurizio” il capo dei partigiani, l’antifascista coerente, coraggioso ed intransigente. Era stato il capo di un Governo antifascista sorretto dal vento del nord, ben presto soccombente alle prime manifestazioni di una tendenza alla restaurazione che poi si sarebbe manifestata nel paese. E’ stata la pubblicistica prevalente a dare di Parri un’immagine deformata: lo si è pianto per le sue virtù civili, per la sua onestà morale ignorando, quando non addirittura negando, la sua capacità politica, la sua idoneità a governare il paese. Ben venga quindi anche questo incontro a rendere giustizia, a valutare i fatti con obiettività, a formulare giudizi attenti, analizzando con rigore la vita, l’attività, il pensiero ed il comportamento di Ferruccio Parri. Ne uscirà esaltato l’uomo, la sua figura eroica, ma anche il politico coerente, portatore di un disegno rinnovatore e riformatore. In un momento nel quale viene messa in discussione l’unità nazionale, nel quali si vitupera la bandiera tricolore e grottescamente si ricercano origini celtiche riscoprire il filo ideale che unisce il primo risorgimento con la resistenza è importante per un popolo che non conosce la sua storia e le sue radici e che perciò rischia di non essere in grado di proiettarsi verso il futuro. Quando si assiste allo scadimento di valori morali, qualcuno comincia a dubitare della democrazia e si crea una certa disaffezione verso le istituzioni. Per questo è molto importante rifarsi a coloro che con l’esempio hanno dato la dimostrazione di fedeltà ai principi di intransigenza morale. Oggi c’è chi nega i valori del Risorgimento chi irride la figura di Garibaldi e di Mazzini. Anche Parri fu deriso mortificato, calunniato, diffamato. Voleva condurre l’Italia a compiere una rivoluzione democratica e pacifica, voleva riforme di struttura di grande respiro. Un riformismo sociale, che però non è riuscito ad imporre perché si trovò di fronte il muro della conservazione. Le forze che egli ha combattuto lungo tutto l’arco della vita hanno sempre operato per offuscarne la figura, per sminuirla, per fare apparire Parri come un modesto, …

PROGETTO PER L’ORGANIZZAZIONE DI UN MOVIMENTO PER IL SOCIALISMO NEL XXI SECOLO

[avatar user=”Socialismo XXI Secolo” size=”thumbnail” align=”left” link=”https://www.socialismoitaliano1892.it/” target=”_blank” /] di  Socialismo XXI secolo Da Livorno 2018 siamo usciti con un impegno, provare a dare una forma compiuta ad una delle cose più belle a cui abbiamo dato vita in questi anni, la voglia dei socialisti di tornare ad essere attori del cambiamento, ripartendo dalla propria Storia per costruire il futuro. Innanzitutto una PREMESSA L’evento di Livorno ha segnato un profondo cambio di prospettiva, fino al 23 marzo avevamo dei dubbi e tanti, il 24 non li ha del tutto dissolti, ma ha contribuito a fare maturare una convinzione: costruire una rete di circoli socialisti è possibile. Questo obiettivo deve però scontare alcune debolezze che dobbiamo avere ben presente. La presenza di giovani e donne è ancora limitata, questo fatto deve spronarci affinchè entro la data di Rimini2018 la questione sia, se non risolta, almeno avviata un percorso di ringiovanimento dell’organizzazione. L’altra debolezza è quella di una presenza diffusa a macchia di leopardo. Vi sono regioni in cui la struttura è solida, altre in cui si sta costituendo con rapidità ed altre in cui i ritardi sono tanti. Infine non dobbiamo nasconderci le difficoltà conseguenti alle scelte fatte per le elezioni del 4 marzo, in particolare con il compagni e le compagne della Lombardia che hanno scelto di aderire al progetto di LeU. E’ una questione importante che andrà affrontata e risolta nei prossimi mesi.   La forma della cosa La struttura dei partiti politici di sinistra in Italia è sempre stata determinata da una cultura che non ci è propria, quella centralistica tipica del PCI, è una cultura che oggi è giunta alla sua fase terminale, ma non per questo è meno rischiosa per la democrazia, il centralismo autoritario del M5S e della Lega sono l’ultima deriva di quel modello organizzativo, non è un caso che i due leader (Salvini e Grillo) hanno frequentato quel partito (il PCI). Il nostro obiettivo resta quello di essere una forza politica che rappresenti uno dei tanti aggettivi che accompagna Socialismo, e cioè DEMOCRATICO, pertanto la forma che deve assumere, fin dall’avvio, la nostra esperienza deve essere quella di un movimento aperto ed inclusivo, che si plasma nel contatto quotidiano con le realtà dei vari territori e con la situazione che la società ha assunto in questi 25 anni di trasformazioni, per comprendere la realtà, ma soprattutto per trasformarla da un insieme di individui verso una società aperta e solidale. La forma possibile Se le premesse sono condivisibili, la forma che può e deve assumere un Movimento per un Partito Socialista del e nel XXI secolo può essere quella di un’organizzazione che si basa su una rete di circoli aperti ed inclusivi, diffusi sul tutto il territorio nazionale, a partire dalle città capoluogo di provincia, coordinati a livello regionale o sovra regionale. La struttura “nazionale” deve avere il compito di definire i binari ideali e politici su cui si dovranno muovere i  treni regionali. La proposta di fare, prima del consolidamento di una struttura partitica, una Conferenza Programmatica (Rimini 2018) nasce per l’appunto da questa consapevolezza, dalla necessità di portare a sintesi le tante idee e tante proposte politiche che in questi anni i socialisti, ovunque collocati, hanno sviluppato nelle loro esperienze locali, con un lavoro di sintesi condiviso e condivisibile. Lo stesso termine usato per definire questa strategia politica ed organizzativa, i CENTO FIORI,  nasce per l’appunto dalla consapevolezza che ognuno di noi è portatore di un’idea di socialismo che si è formato nella lunga e solitaria traversata del deserto, e che in molti casi le conclusioni che abbiamo tratto dalle nostre esperienze ancora non coincidono. La stessa ipotesi avanzata più volte da Vincenzo Lorè di una Epinay dei socialisti italiani nasce per l’appunto da questa constatazione, che esistono tante esperienze, e che, come ad Epinay nel 1971, dovranno giungere ad un confronto politico come MOZIONI politiche, le quali si dovranno confrontare in un Congresso aperto che avrà una finalità: definire il Progetto Politico per il Partito dei Socialisti nel XXI secolo. In nessun caso dobbiamo pensare di definire dal vertice una linea politica ed una forma organizzativa. Siamo consapevoli che sono scelte che dovranno uscire da un confronto politico franco e aperto. La forma federale L’Italia è sempre stata il paese dei cento campanili, è una nostra bella prerogativa, e da questa visione, in alcuni casi un po’ anarcoide del nostro paese, dobbiamo partire, ma non è solo una questione storica, è anche e soprattutto una questione economica, sociale e politica. In questi ultimi 25 anni l’Italia è tornata indietro, verso una possibile e grave frattura, quella tra un nord  “avanzato” (e neppure tutto) ed un sud impoverito. Molti cavalcano questa frattura in modo strumentale. Le proposte politiche di Lega e M5S evidenziano queste diversità e addirittura le esaltano. L’idea della flat tax leghista strizza l’occhio ai “ricchi” padani, la proposta di “reddito di cittadinanza” offre una “soluzione” (impossibile) ad un problema atavico del sud, la carenza di una struttura economica e sociale stabile ed in grado di produrre lavoro. Noi dobbiamo partire da una consapevolezza, le differenze esistono, ma non debbono essere solo rappresentate. Occorre ripartire da una analisi concreta delle situazioni concrete, senza però considerarle stabilizzate e definitive. Se  il socialismo potrà avere un ruolo nel futuro questo nascerà dalla capacità di sviluppare reti di solidarietà e proposte politiche, economiche e culturali che siano in grado di ridurre progressivamente queste differenze. Non è compito di questa breve memoria sull’organizzazione del Movimento nato il 24 marzo fare proposte su questi temi, questo sarà un compito della Conferenza Programmatica, oggi dobbiamo solo formulare una proposta organizzativa,  che tenga conto di questa necessità, di CONOSCERE LA REALTA’ PER TRASFORMARLA. L’unico modello che ci sembra adatto per rappresentare questa realtà è per l’appunto quello di una “rete federale”, di circoli locali che sappiano trarre, dai bisogni e dai meriti dei vari territori, delle soluzioni valide e buone per il futuro del nostro paese. In sintesi almeno un circolo per ogni capoluogo di provincia …