“C’è bisogno di socialismo. Intervista a Roger Waters «Pink Floyd»
di Andy Green Intervistare Roger Waters può essere una corsa sfrenata. Se una domanda gli piace, è felice di pontificare a lungo, ma se lo annoi con domande trite e ritrite, svicola e (lui che è capace di risposte del tipo: “se non mangi la carne, non avrai il budino”) ti liquida in pochi, terribili secondi. L’occasione per un’altra chiacchierata con il co-fondatore dei Pink Floyd è l’imminente pubblicazione – il 20 novembre – di ‘Roger Waters The Wall’, documento in CD/BluRay del recente tour di ‘The Wall’, ma inevitabilmente la politica è entrata nella discussione. La telefonata con Waters è avvenuta pochi secondi dopo che Joe Biden ha annunciato il ritiro dalla corsa per le presidenziali; sapendo dell’interesse di Roger per la scena politica, siamo partiti da questo argomento. Roger, hai sentito la notizia di Joe Biden? Ha detto che non si candiderà per la presidenza. “Non capisco che cosa stai dicendo. Non ha senso.” Stavo solo dicendo che Joe Biden non concorrerà per le elezioni presidenziali. “E quindi?” Sono sorpreso. Pensavo che si sarebbe candidato. (tre secondi di pausa) “Grazie di avermi espresso il tuo pensiero.” Va bene, allora. Parliamo di ‘The Wall’. Perché, secondo te, dopo 35 anni ancora riesce ad entrare nel cuore di così tanta gente? “Dopo la morte del movimento di protesta, che era molto vivo tra i giovani nel corso degli anni Sessanta e Settanta, benché in qualche modo disperso nella rivoluzione della Silicon Valley, credo che adesso la gente sia pronta a confrontarsi su questioni filosofiche e politiche di ampio respiro e ‘The Wall’ ne è molto ricco. E molte di tali questioni hanno a che fare con la qualità della vita, con la vita e con la morte. Pertanto, credo che ‘The Wall’ ci consenta di focalizzare l’attenzione su una questione fondamentale, ovvero se vogliamo o non vogliamo vivere in società molto molto simili alla Germania Est prima della perestroika. Non ritorno agli anni Trenta perché dovrei entrare in problemi enormi, ma credo che la gente, pur percorrendo con i paraocchi le strade del capitalismo imperiale, cominci a capire che la legge viene erosa e che le forze armate stanno prendendo il sopravvento nel commercio e le corporazioni sui governi e che la gente non ha più voce in capitolo. In un certo senso, ‘The Wall’ pone la domanda: ‘Ti serve una voce? Se sì, devi assolutamente andare a cercarla perché nessuno te la porterà su un piatto d’argento’.” Com’è cambiato per te il significato dell’album da quando lo hai scritto? “Ho risposto un sacco di volte a questa domanda. All’inizio, aveva una narrazione molto più personale a proposito di un uomo tra i venti e i trent’anni che non riusciva a dare un senso a quanto gli accadeva e a spiegarsi perché si sentisse isolato rispetto agli altri ed incapace di aprirsi. Tale narrazione venne fuori dalla mia esperienza di giovanissimo musicista di successo che, sul palco di fronte al pubblico, avvertivo un’estrema lontananza e fu per quello che pensai alla trovata teatrale della costruzione fisica di un muro davanti al palco che esprimesse il mio senso di alienazione. Adesso ‘The Wall’ parla di me che, però, non avverto più quel senso di alienazione rispetto al pubblico. Il rapporto con il mio pubblico durante gli anni in cui ‘The Wall’ ha girato il mondo è stato molto intimo, vicino e gratificante per me, per cui ‘The Wall’ è diventato una riflessione comune delle condizioni politiche in cui viviamo.” Hai fatto circa 220 repliche dello spettacolo. Hai mai pensato che il tour potesse durare così tanto? “Non avevamo idea di quanti spettacoli avremmo fatto. Era anzitutto una grossa scommessa mettere insieme uno show di talI dimensionI, ma la gente ha risposto, ha funzionato il passaparola e di conseguenza abbiamo continuato per tre anni.” Sei tentato dal fare altre repliche di ‘The Wall’ in futuro o è finita per sempre? “Se Israele lavora per l’uguaglianza e per la vera, concreta, genuina democrazia, senza apartheid e senza l’infezione del razzismo nella società, andrò lì a rifare ‘The Wall’. È tutto conservato e ciò che dovesse mancare lo ricostruiremmo. Ho parlato con gli israeliani e con i palestinesi, ma soprattutto con gli israeliani, dal momento che hanno tutto il potere. Inoltre, se il muro illegale che circonda senza pietà i… sì, possiamo definirli tali… territori occupati, la Palestina… se quel muro dovesse cadere, andrò a fare ‘The Wall’. È una promessa che ho fatto un po’ di anni fa e che vale ancora.” Speri che quel giorno possa venire nel futuro prossimo? “È interessante che tu dica questo. L’altra sera ero a letto e cambiavo canale come si fa quando cerchi una partita di Champions League; all’improvviso mi fermai e pensai: ‘Bè, questo sembra interessante. Devo guardarlo.’ Era JLTV, che sta per Jewish Life Television. Quel che suscitò la mia attenzione e mi fece sorridere fu lo slogan dell’emittente: “JLTV, la rete prescelta”. O Dio, mi è venuto da ridere ad alta voce. Ma quanto è incredibilmente inappropriato?. C’era una bella e giovane donna di un’organizzazione di cui avevo sentito parlare chiamata Stand With Us, a sostegno di Israele. Di Israele, non degli israeliani. Di Israele, per sostenere il governo di Israele e il paese chiamato Israele. Aveva due ospiti: una giovane donna bionda e un tizio che sembrava essere francese. Cominciarono a parlare di BDS (il movimento Boycott, Divestments and Sanctions) ed erano tutti e tre d’accordo sulla pericolosità delle iniziative di BDS, prive di radici nel paese ed organizzate all’estero. Dicevano che il denaro viene raccolto all’estero e che i sostenitori del movimento BDS nelle università americane sono soltanto dei fantocci al soldo di ricchi palestinesi che ne muovono i fili. Hanno continuato mostrando grandi muri che sono stati costruiti nei campus del sud della California e altrove. Sono belle strutture, copie dei muri di separazione, ricoperte di slogan politici, con persone coinvolte che ne raccontano la storia. I tre moderatori cercavano disperatamente di confutare la protesta di BDS contro l’occupazione …
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