SOCIALISMO REALIZZATO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE TERZA SOCIALISMO REALIZZATO Affrontando in questa sezione il pensiero comunista a proposito dell’Unione sovietica, debbo ripetere osservazioni già fatte nell’introduzione: è necessario sfoltire l’intricata selva di ditirambi di laudi e soffermarsi soltanto su quegli articoli che, accanto all’inevitabile esaltazione del modello sovietico, presentano almeno dagli sviluppi teorici degni di attenzione. Abbiamo strutturato l’esposizione delle loro teorie suddivise in quattro sezioni per facilitare il compito e per esigenze di chiarezza. 1 – Collettivizzazione agricola e socialismo Il carattere socialista della collettivizzazione nelle campagne sovietiche è indubitabile per gli scrittori comunisti. Essa, infatti, abolendo la proprietà privata della terra e introducendo la proprietà collettiva del suolo, avrebbe permesso di spiccare lo storico volo necessario al superamento del capitalismo e all’adeguamento della base economica del paese al modello ideale socialista cui il popolo russo aveva aspirato dalla rivoluzione del 1917. Per questi scrittori questa rivoluzione agraria portò indubbi benefici, anche e soprattutto materiali, al mondo contadino. Passiamo all’analisi diretta di queste tesi. Ci occuperemo innanzitutto di tre articoli scritti da un economista sovietico Yuri Pavlovsky, per la rivista dell’Associazione di amicizia Italia – Urss, “Cultura sovietica” (1). Pavlowski non si limita ad esaltare il carattere socialista della misura politica della collettivizzazione agraria, ma ci fornisce anche le motivazioni concrete che spinsero il governo bolscevico con un’urgenza drammatica a realizzarle. Egli dice infatti che fu la necessità di sviluppare le forze produttive il fattore che pose all’ordine del giorno il bisogno di industrializzare il paese, le cui carenze sul piano economico erano esiziali: sproporzione fra la popolazione rurale e quella cittadina, con la relativa congestione rurale e la conseguente scarsezza dei mercati, l’esiguità del reddito nazionale e medio per abitante, l’esigua importanza nel reddito nazionale della parte monetaria in confronto a quella naturale. Queste carenze, interagendo tra loro, creavano una specie di circolo vizioso in quanto per industrializzare il paese necessitava un aumento della produzione agricola a basso prezzo che servisse a questo scopo, ma per ottenere questo risultato era altrettanto indispensabile fornire all’agricoltura quei mezzi di produzione moderni che solo un paese industrializzato poteva darle. Questo circolo vizioso fu spezzato, ci dice l’autore, seguendo l’ortodossia marxista, in altre parole realizzando il socialismo che si concreterebbe quindi nello sviluppo massimo delle forze produttive: “Ci si trovava dunque in una specie di circolo vizioso: per poter industrializzare il paese, ci si doveva rivolgere anzitutto all’agricoltura, ottenendone a prezzi molto modesti un forte incremento della quota destinata al mercato, ma per aumentare questa quota, l’agricoltura doveva intensificare la produzione: cosa che non poteva fare se non alla condizione che l’industrializzazione stessa le assicurasse mercati e prezzi soddisfacenti. Il circolo vizioso fu tagliato seguendo rigorosamente i principi della dottrina marxista dell’evoluzione della produzione sotto la spinta della tecnica moderna, nel senso del concentramento delle aziende in unità sempre più grandi e dell’eliminazione delle piccole unità produttrici non rispondenti ai criteri di efficienza imposti dal progresso dei mezzi di produzione”. (2) Che questa uscita dal circolo vizioso in cui si trovava il paese avesse significato uno sfruttamento (evidentemente il russo non usa questa espressione) dell’agricoltura a favore dell’industria è parzialmente riconosciuto dall’economista. Egli riconosce infatti che nella fase iniziale l’agricoltura dovette fornire al governo i mezzi per avviare l’industrializzazione. In pratica ciò ha significato la fornitura di derrate agricole a basso prezzo al governo per alimentare l’esportazione, la sola che potesse far affluire nel paese quei capitali dei quali il governo aveva urgente bisogno e ne era in quel momento privo: “Il grande lavoro costruttivo dei piani quinquennali, iniziato nel 1927 – 28, doveva appoggiarsi, specie nelle sue fasi iniziali, essenzialmente sull’agricoltura. Questa doveva fornire al governo i principali mezzi sotto forma di prodotti agricoli per l’opera di industrializzazione. Nessun’altra fonte, adeguata ai bisogni, di capitale per l’investimento nell’industria in corso di creazione, salvo quelle rappresentate dall’agricoltura e dall’esportazione, era a disposizione del governo sovietico nel paese stesso o nei mercati di capitali esteri”. (3) L’autore conclude affermando che dopo questi primi dolorosi inizi la situazione generale risultò notevolmente migliorata e la collettivizzazione delle terre che “permise l’inquadramento dell’agricoltura nel sistema industriale socialista”, ha portato ad una situazione nettamente migliore per lo stesso contadino che, liberato dalla necessaria compressione dei primi anni, gode di un benessere e di un tenore di vita senz’altro più elevato di quello precedente, grazie soprattutto all’introduzione dei trattori e alla meccanizzazione dell’agricoltura stessa, resa possibile proprio dai suoi stenti iniziali. (4) Il benessere e i risultati positivi non sono limitati al contadino e alle campagne, ma si sono estesi a tutto il paese, grazie sempre all’aumento della produttività agricola che la collettivizzazione ha comportato: “La produttività del lavoro dei contadini nell’azienda collettiva è aumentata enormemente in confronto con l’azienda contadina individuale condotta secondo i metodi tradizionali. Questo aumento di produzione era naturalmente dovuto non solo alla meccanizzazione, col conseguente miglioramento delle lavorazioni, ma anche a varie altre ragioni: migliore concimazione, introduzione di avvicendamenti più razionali delle culture, sostituiti in molti casi al vecchio sistema, virtualmente forzato, sulle terre ai contadini comuni, dei tre turni, con un terzo della terra arabile a maggese o da altre ancora più primitive …. Grazie a questi miglioramenti, dovuti alla collettivizzazione delle aziende contadine, l’agricoltura sovietica ha potuto mettere sul mercato, comprese le vendite obbligatorie allo stato, una quantità superiore di circa 160 – 170 milioni di quintali a quella messa sul mercato da quella russa in media annua prima della guerra del 1914 – 18.” (5) Voglio ora fissare i due concetti base che traspaiono da questi articoli e ne costituiscono l’ossatura: a) l’industrializzazione e la collettivizzazione agricola furono realizzate con l’unica finalità di sviluppare le forze produttive, b) lo sviluppo delle forze produttive con il relativo miglioramento delle condizioni di vita del popolo stanno a dimostrare la definitiva realizzazione del socialismo in Urss. Questi …

ORIGINE E FORTUNA DELLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE SECONDA IL CAPITALISMO DI STATO ORIGINI E FORTUNA DELLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’ Federico Engels e il ‘capitalismo di stato’ La teorizzazione che lo stato possa gestire l’insieme dei mezzi di produzione, pur mantenendo intatto il sistema economico di tipo capitalistico, non è nuova nel campo del pensiero marxista. Già Federico Engels, nell’Anti-During’ (31) prospettata tale possibilità. Engels, descrivendo il processo di centralizzazione capitalistica, conclude prospettando appunto la possibilità che un giorno il capitale nel suo complesso sia concentrato nelle mani dello Stato e che questo possa avvenire “senza sopprimere il carattere di capitale delle forze produttive, mantenendo il modo di produzione capitalistico“ (32). Questo passo sarà, a parere di Engels, la preparazione integrale del successivo: l’espropriazione dei capitalisti (33). In questo caso lo stato diventerebbe ‘il rappresentante collettivo dei capitalisti’ e gestirebbe l’intera produzione nell’interesse dei capitalisti stessi (34). Ora, se si deve sottolineare la presenza di queste concezioni già nel pensiero marxista classico, non si deve però ritenere la teoria elaborata dai bordighisti come diretta filiazione di questo particolare pensiero engelsiano. Le differenze ci sono certamente. Engels parlava infatti della possibilità di uno ‘stato gestore’ della produzione nell’interesse dei capitalisti, avendo soprattutto presente la nazionalizzazione delle ferrovie attuata da Bismarck in Germania: doveva quindi dimostrare che non    necessariamente ogni nazionalizzazione costituisce un’uscita dal quadro del capitalismo verso il socialismo (35) e arrivava in questo senso anche ad ipotizzare che la gestione in toto di tutta la produzione industriale poteva lasciare intatto il quadro economico capitalista. La differenza sta quindi nel fatto che in Russia le cose non erano andate in quel modo: la nazionalizzazione delle industrie lì aveva realmente espropriato i vecchi capitalisti e la produzione non fu quindi organizzata e gestita nel loro interesse. Gli avvenimenti russi portarono effettivamente a qualcosa di nuovo nel processo storico: la vecchia classe capitalista scomparve senza appello. Engels aveva previsto uno stato gestore al servizio della classe capitalistica, i sostenitori della teoria del capitalismo di Stato dovrebbero sforzarsi di identificare con chiarezza la nuova classe capitalistica, dato che la vecchia è scomparsa, in nome della quale lo stato organizza e gestisce la produzione. Abbiamo d’altronde visto nelle pagine precedenti come questo compito – identificare la nuova classe capitalistica – si presenti arduo e difficoltoso. Possiamo quindi affermare che, se da una parte nel pensiero marxista e particolarmente in Engels è data effettivamente la possibilità teorica e pratica dell’esistenza di un regime a capitalismo di Stato, dall’altra il pensiero bordighista riferito all’URSS non soddisfa tutte le condizioni poste da Engels come necessarie per definire un tale sistema economico, prima di tutte la necessità di individuare una precisa classe dei capitalisti. b)  Fortuna della teoria. Nonostante la problematicità e le contraddizioni in cui incappa questa teoria, contraddizioni che mi sono sforzato di illustrare nel capitoletto dedicato alle critiche, sembrerebbe che la storia successiva, politica ed economica, del sistema sovietico le abbia dato ragione, o almeno che le abbia fornito qualche elemento di validità. Effettivamente con le riforme kruscioviane e ancor più con quelle proposte da Kossigin e approntate da Breznev nel 1965 vengono ristabiliti in URSS alcuni principi di mercato: gli indici di controllo dei vari aspetti della produzione imposti dal piano si riducono da 30 a 8, ai managers (direttori delle aziende) sono riconosciuti notevolissimi poteri, quali quello di fissare il numero dei dipendenti dell’azienda, prima fissati dal piano, i ritmi di lavoro, la distribuzione interna dei salari, eccetera. E non sono in pochi a credere che da quelle riforme la teoria del ‘capitalismo di Stato’ tragga non pochi elementi di verifica. Sostiene infatti Giorgio Galli nella prefazione ad un libro di Bordiga (36): “L’ulteriore evoluzione negli anni delle riforme kruscioviane e sino a quelle prospettate nell’ultimo comitato centrale del PCUS (settembre 1965) sembra andare precisamente nella direzione indicata dall’interpretazione bordighiana, nel senso che gli elementi comuni e similari tra l’economia capitalistica tradizionale e quella sovietica si sono andati facendo sempre più evidenti. L’economia dei paesi occidentali economicamente più avanzati è venuta oggi assumendo le caratteristiche proprie di un capitalismo sempre più coordinato e razionalizzato, nel quale il ruolo dei pubblici poteri è andato aumentando, senza che siano venute meno, nell’essenziale, le caratteristiche di fondo dell’economia di mercato. Per contro la pianificazione rigida e centralizzata basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione – peculiarità dell’economia sovietica negli anni in cui Trotzky scriveva – va oggi cedendo il passo, nell’URSS a forme nelle quali l’orientamento fissato dal Gosplan in materia di investimenti e di ripartizione del reddito tende a coesistere con una nascente autonomia degli organismi produttivi aziendali attorno ai quali si viene sempre più strutturando un vero e proprio mercato. Così le categorie, fondamentalmente capitaliste, nel senso che Marx dava a questo termine, del prezzo, del profitto, della comunicazione, riproduzione e circolazione del capitale, tendono a riapparire, anche terminologicamente nell’Unione Sovietica, a quasi mezzo secolo di distanza dalla Rivoluzione d’ottobre …. Per quanto suggestive siano dunque le teorie che si richiamano ad una nuova forma di produzione (collettivismo burocratico) che sia diversa dal capitalismo senza per questo essere socialista – spezzando così la successione logica dei cicli produttivi quali il marxismo li ha definiti – sembra che le vicende che si succedono da un ventennio a questa parte forniscano maggiori argomenti a coloro che non vedono invece nell’URSS un’eccezione alla regola dello sviluppo capitalistico.” (37) Dal 1968 quella teoria ebbe una circolazione molto più diffusa grazie alla posizione ad essa favorevole che assunse, proprio a partire da quell’anno, il Partito Comunista Cinese. Infatti, su Remin Ribao del 30 agosto 1968 si poteva leggere: “La  cricca dei rinnegati revisionisti sovietici ha non solamente restaurato  completamente il capitalismo nel suo paese, ma anche accanitamente perseguito una politica imperialista all’estero.” (38) L’attenzione che in quell’anno si prestava alle posizioni dei compagni …

CRITICHE ALLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE SECONDA IL CAPITALISMO DI STATO CRITICHE ALLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’ Osservazioni Comincio subito col dire che non concordo con la teoria sviluppata dei bordighisti, tendente a definire il sistema sociale dell’URSS ‘capitalismo di Stato’, poiché credo si debba più propriamente ritenere l’Unione Sovietica uno stato basato sul nuovo tipo di sfruttamento diverso da quelli passati e la cui natura è definita dalla teoria del ‘collettivismo burocratico’. Cercherò quindi in questo capitolo riservato alle critiche di mostrare i motivi che, a mio parere, rendono impreciso il giudizio bordighiano sulla natura sociale dell’URSS. Come abbiamo già fatto rilevare nell’esposizione al pensiero della Sinistra comunista (è questa la denominazione assunta dalla corrente politica bordighiana), elemento fondamentale, nel senso letterale che ‘fonda’, l’economia capitalista è l’esistenza del mercato. E’ infatti attraverso il mercato che il capitalismo ha imposto la propria egemonia all’intera società e non si può distruggere il capitalismo senza distruggere l’elemento mercantile che determina, come abbiamo visto, tutte le caratteristiche negative dei sistemi capitalistici: l’estorsione del plusvalore, l’accumulo dei profitti, la riduzione della forza lavoro a merce, pagata quindi con un salario che rappresenta il valore-lavoro necessario mantenerla attiva e a rigenerarla e la distruzione di ingenti forze produttive, sia umanane che naturali. Vediamo quindi con ordine tutte queste problematiche avanzate dal pensiero bordighista, cominciando dal fatto mercato. IL MERCATO Cominciamo col chiederci: esiste veramente un mercato nel sistema economico sovietico? Marx diceva che si ha ‘merce’ e scambio mercantile solamente nel caso in cui più organismi produttivi, più aziende o imprese, intervengono indipendentemente gli uni dagli altri a fornire il prodotto: “i prodotti del lavoro non diverrebbero merci se non fossero prodotti di lavori privati indipendenti, esercitati cioè indipendentemente gli uni dagli altri”. Che la concorrenza mercantile sia uno dei punti cardine fondamentali del capitalismo è un pensiero costante di Marx che in un’altra occasione esclude che il capitale possa esistere se non nella forma di innumerevoli capitali: “Per definizione la concorrenza è la natura interna del capitale. La sua caratteristica essenziale è di apparire come l’azione reciproca di tutti i capitali. Il capitale non esiste e non può esistere che in quanto diviso in innumerevoli capitali: per questo esso è condizionato dall’azione e dalla reazione degli uni sugli altri.” (24) Se la merce si caratterizza, per Mark, come il prodotto di più lavori privati, esercitati indipendentemente gli uni dagli altri e se il capitale poi esiste solo in quanto diviso in innumerevoli capitali, in Russia, dove lo stato è padrone di tutti i mezzi di produzione, non possono esistere prodotti di lavori privati esercitati indipendentemente o innumerevoli capitali. Secondo il marxismo quindi non si dovrebbero riscontrare nell’economia sovietica i concetti di merce e di capitale. È questo infatti ciò che noi crediamo: il mercato, il carattere mercantile del prodotto e il capitale non esistono più nell’Unione Sovietica. Vediamo nei suoi aspetti particolari, cioè analizzando i vari tipi di scambio esistenti in Urss e studiando la loro natura, cosa significhi e come si strutturi questa morte del mercato e del capitale. 1 – Scambi tra industria e industria. L’affermazione che gli scambi tra le varie industrie (ricordiamo che sono proprietà statali), poiché avvengono tramite l’intermediario monetario assumano la caratteristica di scambio di merci, anziché di valori d’uso , è imprecisa. Lo scambio monetario infatti implica il concetto di compravendita e, laddove esiste un unico proprietario, lo stato, è arduo ritrovare il funzionamento del meccanismo di compravendita. Quel tipo di scambio assomiglia piuttosto ad uno spostamento di un oggetto da un luogo ad un altro in una casa : non si è verificato alcun processo di vendita o di acquisto, ma si è solo realizzato uno spostamento funzionale agli interessi del proprietario della casa stessa. La moneta si ridurrebbe quindi alla funzione di strumento di conto che serva in qualche modo a regolare la produzione, ad equilibrare i vari settori della produzione stessa. È cioè uno strumento che permette di controllare il funzionamento delle varie aziende, di controllare il loro attivo o passivo e che permette di prendere decisioni, di orientare la produzione in un senso o in un altro a seconda della convenienza economica. Si può dire quindi: strumento di conto e di controllo, ma non più, come nel capitalismo, una categoria mercantile di scambio implicante necessariamente il concetto di compravendita. Il prodotto perde il suo carattere mercantile, ossia il valore di scambio, e mantiene unicamente il valore d’uso, a-mercantile. 2 – Scambio tra kolkhoz e stato. Bordiga afferma l’esistenza di questo mercato colcosiano nel brano del libro da noi citato in precedenza. Ma l’affermazione: “se lo stato li vuole (i prodotti del kolchoz) li deve comprare” mi sembra estremamente tirata per i capelli: se il Kolkoz non vuole infatti li deve vendere lo stesso allo stato e ai prezzi fissati: in questo modo scompare l’economia mercantile. Se non vi è libera concorrenza che tipo di economia mercantile ne può derivare? Il dire che anche nelle economie capitalistiche lo stato interviene nel fissare i prezzi – massimi e minimi – e ad orientare gli scambi, magari pianificando leggermente, non dà ragione del parallelo istituito tra le due realtà. Il grado di soffocamento del mercato nelle due forme economiche è ben diverso. Diversità di grado che non può non incidere e non determinare una struttura diversa per le due economie. Un’economia pianificata (meglio, centralizzata e controllata dallo stato) con un sistema di mercato è ben diversa da un’economia di mercato con un simulacro di piano e di controllo statale. 3 – Scambio consumatori – stato. Da questo punto di vista sembrerebbe che la possibilità dell’esistenza di uno scambio mercantile basato, ripeto, sulla compravendita sia reale: esiste infatti un venditore, lo stato, e un acquirente, il consumatore. Anche qui, però, si tratta solo di un’analogia di superficie in quanto …

I BORDIGHISTI E LA TEORIA DEL CAPITALISMO DI STATO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE SECONDA IL CAPITALISMO DI STATO I BORDIGHISTI E LA TEORIA DEL CAPITALISMO DI STATO La teoria del capitalismo di Stato prese vita nel periodo seguente il 1930 nel campo internazionale grazie alle teorie elaborate dal gruppo trotskista dissidente di sinistra, il cui esponente di rilievo fu lo slavo Ante Ciliga e nel campo italiano grazie alle considerazioni svolte da Amedeo Bordiga e dalla frazione a lui collegata della ‘Sinistra comunista’ negli stessi anni. È inutile precisare che per i sostenitori di questa teoria o la Rivoluzione di Ottobre non produsse affatto nessun cambiamento in senso socialista nella realtà russa o, se lo produsse, questo avvio socialista è ormai da considerarsi terminato. Veniamo quindi ai bordighisti e in particolare all’articolo di Prometeo, rivista del Partito Comunista Internazionalista, “La Russia sovietica dalla rivoluzione ad oggi” (1), il più importante e il più completo tra tutti gli articoli dedicati dalla rivista al modello sovietico. L’articolo parte dall’analisi del periodo della NEP e dell’economia mercantile che da essa ebbe origine. Essendo per i bordighisti l’esistenza del mercato elemento significativo della natura capitalista di un’economia, segue necessariamente che la politica della NEP, introducendo principi mercantili, indirizzò la Russia verso la trasformazione completa in stato capitalista. D’altronde, per l’articolista, questo indirizzo di politica economica fu un portato delle circostanze internazionali: la mancata rivoluzione in Occidente pose l’economia sovietica non di fronte alle immense risorse capitalistiche industriali europee, ma la abbandonò al ristretto campo delle sue povere risorse. Fu proprio la necessità di consentire la continuazione del potere politico proletario e al tempo stesso la necessità di assicurare la vita materiale delle masse ed uno sviluppo dell’industria non inferiore a quello che si sarebbe realizzato nel paese anche senza rivoluzione proletaria, a produrre una svolta nella politica economica sovietica. Per sedare il malcontento contadino e impedire eventuali rivolte contro il governo sovietico (delle quali segno premonitore era stata quella di Tambov) (2), nel 1921 fu abolita l’odiata (dai contadini) requisizione forzata dei prodotti agricoli e si concesse loro il libero commercio degli stessi, una volta detratta l’imposta in natura che dovevano allo stato. Ma per fare in modo che i contadini collocassero effettivamente la loro produzione sul mercato questo mercato doveva esistere: cioè si doveva fare in modo che: “I contadini trovassero sul mercato contro moneta i prodotti manifatturati dall’industria del superstite artigianato, di cui abbisognavano.” (3) Per cui anche le aziende industriali e i pochi Sovkhoz furono organizzati sulla base dei meccanismi mercantili capitalistici: dovendo agire sul mercato furono infatti costretti a “rendere attiva la differenza tra la cifra monetaria delle entrate e quella dell’uscita, così come fanno le aziende dell’economia privata capitalistica”, afferma l’autore. Si venne in questo modo a determinare una situazione ibrida, in cui accanto ad alcuni elementi socialisti (la statizzazione delle banche, il monopolio del commercio estero, la statizzazione delle grandi industrie da parte del proletariato al potere) sussisteva un’economia mercantile. L’autore riconosce che Lenin e Trotzky erano perfettamente coscienti della pericolosità della situazione creatasi e consapevoli che solo una rivoluzione comunista del proletariato dei paesi industriali poteva permettere loro di passare alla “estirpazione radicale di ogni base capitalistica”: “Lenin, Trotzky ed il partito bolscevico non dissimularono, ma anzi dichiararono sempre apertamente che questo quadro economico anfibio tra elementi capitalistici e socialisti della produzione e della distribuzione consentiva economicamente l’accumulazione capitalistica e, socialmente, il formarsi di nuovi ceti con interessi anti proletari, ma si prefiggevano di fronteggiare l’influenza politica di questi col saldo potere del partito e dello Stato operaio allo scopo di guadagnare, evitando la caduta del popolo russo nella carestia economica che avrebbe significato la vittoria della controrivoluzione esterna, gli anni necessari ad attendere la vittoria del proletariato mondiale, per passare all’estirpazione radicale di ogni base sociale capitalistica.” (4) In definitiva il mancato avvento della rivoluzione mondiale fu, per i bordighisti, la causa ultima della sconfitta del socialismo in Urss e della conseguente vittoria del mercato capitalistico sulla socializzazione dei mezzi di produzione oltre che di scambio. La dannosa teoria del ‘socialismo in un solo paese’, a parere dell’autore, fornì il classico cacio sui maccheroni, sancendo la sconfitta anche ideologica della prima rivoluzione proletaria. Quindi, se all’inizio vi fu la consapevolezza del pericolo rappresentato dall’introduzione del mercato (‘quadro economico anfibio’), alla fine cause di ordine internazionale (la mancata rivoluzione mondiale) e cause di ordine interno (la teorizzazione del ‘socialismo in un solo paese’) diedero il colpo finale, provocando non la vittoria del settore socialista sul settore capitalista, ma l’esatto contrario. In Urss si delineò quella particolare forma di economia politica che i bordighisti definirono ‘capitalismo di Stato’. L’autore passa quindi in rassegna e in modo molto dettagliato le ragioni e le motivazioni di queste affermazioni. La permanenza del mercato è l’elemento fondamentale per poter definire capitalistico lo stato sovietico: “Se il capitalismo non è il solo tipo delle economie mercantili, perché aggiunge al semplice mercantilismo i caratteri specifici della concentrazione dei mezzi produttivi e del lavoro associato, non è però possibile sradicare il capitalismo senza sradicare il mercantilismo della distribuzione.” (5) Per l’autore infatti sarebbe errato attribuire enorme importanza alla pianificazione economica ed alla statizzazione dei mezzi di produzione senza attribuire un’importanza altrettanto profonda all’esistenza dei meccanismi mercantili nel settore della distribuzione. In Marx, sostiene Prometeo, la dottrina del plusvalore e dell’accumulazione “riposa sull’analisi e sulla critica della distribuzione mercantile: “Un banale luogo comune sul marxismo è che questo abbia esaurito tutta la critica della produzione capitalistica delibando appena quella della distribuzione. All’opposto tutta la dottrina del plusvalore e dell’ accumulazione mercantile e tutta la costruzione del capitale parte dal fatto monetario e mercantile. Dice Marx: ‘nella società capitalistica il denaro diviene capitale, il capitale produce il plusvalore, ed il plusvalore va ad aumentare il capitale’. E aggiunge: ‘il rapporto ufficiale tra il capitalista e il salariato ha …

CONCLUSIONI, CRITICHE E VALUTAZIONI COMPLESSIVE DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA CONCLUSIONI, VALUTAZIONI COMPLESSIVE DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO E CRITICHE CONCLUSIONI Avviamoci a chiudere questo capitolo facendo rilevare che le riflessioni fin qui svolte ci hanno portato ad individuare una catena di influssi, di processi osmotici tra campi di pensiero diversi. Questa catena può essere indicata in questo modo: gli anarchici nell’Ottocento svilupparono delle critiche al pensiero marxista – Rizzi riprese, anche se inconsapevolmente, queste tesi, le sistematizzò e approfondì producendo una compatta teoria sul modello sovietico, definito ‘collettivismo burocratico’ agli inizi degli anni ‘40. Agli inizi degli anni ‘40 Saragat, in modo del tutto evidente, riprese quella teoria nella quale successivamente tutti i teorici socialdemocratici si identificarono, al fine di giudicare non solo il modello sovietico, ma tutto il bagaglio teorico del comunismo internazionale. Ai nostri giorni Craxi riconosce ai pensatori libertari e a Rizzi in particolare i meriti dell’enunciazione e della strutturazione di questa importante teoria che discrimina nettamente il campo della sinistra internazionale in due settori diversi: comunismo autoritario da una parte e il socialismo libertario dall’altra. VALUTAZIONI COMPLESSIVE DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO 1 – Osservazioni È un innegabile merito dei teorici del collettivismo burocratico quello di aver condotto il discorso sull’Unione sovietica fuori dalle secche in cui il marxismo troppo dogmaticizzato l’avrebbe condotto. La secca in cui ci sarebbe incagliati era rappresentata dal dilemma: è l’URSS un paese socialista o un paese capitalista? Che la rivoluzione bolscevica avesse abbattuto nell’ottobre 1917 non solo il feudalesimo ma anche il giovane capitalismo russo era ormai cosa evidente, almeno a partire dagli anni ‘30, cioè dopo la nazionalizzazione delle fabbriche e la collettivizzazione agraria, ma che il risultato di tutto ciò, per dei socialisti indipendenti da Mosca, fosse socialismo, era cosa da escludersi decisamente: troppe le diseguaglianze sociali ed economiche, nulla la libertà di espressione, feroce lo sfruttamento dei lavoratori che non detenevano nel paese alcun potere reale. E che non fosse possibile nemmeno definire l’URSS un paese capitalistico era altrettanto chiaro ai loro occhi: l’assenza del mercato, la pianificazione dell’economia, la proprietà statale e non più individuale dei mezzi di produzione, eccetera erano elementi che escludevano l’esistenza del capitalismo in URSS. L’aver postulato l’esistenza di un modello sociale di sfruttamento diverso da quello capitalistico e di una nuova classe sfruttatrice diversa da quella borgese costituisce un innegabile merito del pensiero socialista che disincagliò il giudizio sull’URSS dalle secche troppo anguste in cui si era cacciato. Quando fatti nuovi insorgono nella storia (e la formazione dello Stato burocratico sovietico costituisce forse il fatto più importante, per la teoria e la pratica del movimento socialista, di questo ultimo cinquantennio) è indispensabile individuarne la natura e i principi, per evitare che altri cecoslovacchi e che altri Masarik abbiano a perdere la libertà o la vita schiacciati da forze che si fregiano del nome di socialista. Non si fa, a mio parere, un passo avanti negando il carattere di novità del modello bolscevico, volendo scorgervi la continuazione del sistema di sfruttamento capitalistico. Certo in tal modo non si spezza la speranza nell’attesa messianica dell’avvento del socialismo una volta abbattuto il capitalismo, né si devono operare delle revisioni alla teoria comunista rispetto ai problemi che l’esperienza russa ha dimostrato essere origine di sfruttamento e di repressione della classe lavoratrice: la statizzazione dei mezzi di produzione, la pianificazione e la centralizzazione dell’economia, la distruzione dei meccanismi di mercato. Tuttavia, alle vuote certezze, o peggio alla disciplina dottrinaria dei partiti, si deve preferire la ricerca spassionata, insofferente ai mossi dalle varie scuderie. 2 – La classe burocratica L’aver individuato la possibilità che una nuova classe potesse sorgere a partire dal gruppo dirigente di un partito che si definisce comunista e che questa classe potesse raggruppare, saldare attorno a sé molti strati sociali di intellettuali, tecnici, funzionari costituisce un altro merito di questa teoria e un passo avanti per tutto il movimento socialista: questo porta infatti ad interrogarsi sulla concezione leninista del partito. Ci si deve in altre parole chiedere: è vero che il partito sia effettivamente lo strumento che le masse hanno a disposizione per operare la loro emancipazione o non è piuttosto un microcosmo nel quale si riproducono quelle differenziazioni, tra dirigenti e massa degli scritti, che potranno in futuro, nel caso il partito si impadronisca del potere, originare la nuova classe dominante e sfruttatrice dei funzionari statali? Questa teoria mette infatti sotto accusa il monolitismo e la ferrea disciplina quali principi costitutivi di un partito di classe, in quanto proprio attraverso questi principi si realizza il meccanismo di sfruttamento, di oppressione e di compressione operato della dirigenza del partito stesso per conservare il proprio dominio, in un primo momento ai vertici del partito, in un secondo a quelli della società e dello stato. Certo queste problematiche non rappresentano delle novità nel campo del movimento operaio: già la Luxemburg e lo stesso Trotzky, non ancora bolscevico, avevano criticato il modello leninista del partito, come generatore di rapporti di potere al suo interno che via via si sarebbero sempre più spostati dalla massa degli iscritti al comitato centrale, dal comitato centrale all’ufficio politico e infine da questo all’onnipotente capo del partito. L’importanza della teoria del ‘collettivismo burocratico’ a questo proposito risiede nel fatto di essere riuscita ad individuare in questa élite del partito il germe vitale della nuova classe burocratica: è riuscita in poche parole a sottoporre all’attenzione del movimento socialista questo problema in modo molto drammatico e immediato. Se la Russia ha dimostrato che un tipo di concezione ideologica e pratica del partito ha generato una società classista e sfruttatrice e che la dirigenza di quel partito si è trasformata in una nuova classe dominante, è più che mai importante per tutto il movimento proletario soffermarsi sulla questione del partito e riflettere a lungo, poiché i pericoli sono molto reali e dolorosi. Ma non …

CRAXI – MARX – PROUDHON

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA CRAXI – MARX – PROUDHON La teoria marxista, come abbiamo visto, comincia a vacillare nel campo riformista. Questo processo che noi abbiamo riscontrato essere presente nel campo socialdemocratico nella seconda metà degli anni ‘40 attraversa la produzione teorica di quel tempo fino ai nostri giorni. La nuova teoria del ‘totalitarismo statalista’, sviluppata dai socialdemocratici negli anni ‘40, basata sulla ripresa di alcune idee anarchiche, ebbe, come mostreremo, fortuna e giunse intatta fino a quelle correnti del mondo socialista che più si accostano oggi alla storia del movimento riformista e socialdemocratico del passato. “Il Vangelo socialista” Lo scritto di Bettino Craxi “Il Vangelo socialista”, che il segretario del Psi scrisse nell’agosto 1978, che molti giudicarono legato alla contingenza della situazione politica italiana del periodo, caratterizzata dalla forte polemica tra PCI e PSI, e al quale negarono perciò una validità teorica profonda, se analizzato sotto questa luce, alla luce cioè dell’influenza profonda che l’anarchismo esercitò sul pensiero riformista, acquista un peso e una profondità teorica notevoli: non costituisce quindi una semplice boutade polemica, ma un approfondimento del pensiero socialista democratico, una ‘ricerca dei padri nobili’. Quello scritto porta alla sua naturale conclusione quel processo, l’abbandono del marxismo, che era rimasto ancora sospeso e incompiuto. Craxi parte dalla constatazione che sono sempre esistiti diversi tipi di socialismo e che la rivoluzione bolscevica contribuì a dirimere i due campi ben distinti: da una parte chi “aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l’azione dominante dello Stato. E dall’altra chi “auspicava il potenziamento e lo sviluppo del pluralismo sociale e delle libertà individuali.” (192) Questo determinò, a suo parere, la divisione del socialismo in due campi distinti a livello internazionale: “Riemerse così il vecchio dissidio tra statalisti antistatalisti, autoritari e libertari, collettivistici e non. La divisione si riflesse a grandi linee nell’esistenza di due distinte organizzazioni internazionali. I primi eredi della tradizione giacobina si raggruppano sotto la bandiera del marxismo-leninismo, mentre i secondi volevano rimanere nell’alveo della tradizione pluralistica della civiltà occidentale. (193) Quel vecchio dissidio è senz’altro quello da noi analizzato in precedenza a proposito dello scontro tra marxismo e anarchismo. Infatti, nel contrasto tra Proudhon e Marx, Craxi individua le radici di quella divisione che si chiarì definitivamente a seguito della rivoluzione bolscevica: “In Proudhon c’era percezione acuta di una divaricazione sostanziale fra la società socialista e la società comunista. Da un lato il comunismo che vuole la soppressione del mercato, la statizzazione integrale della società e la cancellazione di ogni traccia di individualismo. Dall’altro il socialismo che progetta di instaurare il controllo sociale dell’economia e lavora per il potenziamento della società rispetto allo stato e per il pieno sviluppo della personalità individuale.” (194) Da un lato cioè il comunismo marxista autoritario che trovò la sua realizzazione nello stato totalitario sovietico, dall’altra il pensiero socialista libertario cui Craxi evidentemente si richiama. Anche Craxi, inoltre, ammette che il pensiero libertario previde lo sviluppo in senso burocratico del comunismo autoritario: “Lo stesso Proudhon ci ha lasciato una descrizione profetica di che cosa avrebbe generato l’istituzionalizzazione del rigido modello statalista e collettivistico.” (195) ‘Statalismo’ e ‘collettivismo’ sono evidentemente sinonimi per ‘marxismo’. Craxi, infatti, non considera il totalitarismo degli stati socialisti realizzati come deviazioni o degenerazioni della dottrina comunista originaria, ma come una sua continuazione, dando quindi ancora più ragione a quegli anarchici che nell’Ottocento criticarono la teoria marxista per i risultati totalitari e antisocialisti cui avrebbero avrebbe dato origine. Dice Craxi: “Il carattere autoritario di ciò che viene chiamato il socialismo reale o maturo non è una deviazione rispetto alla dottrina, una degenerazione frutto di una data somma di errori, bensì la concretizzazione delle implicazioni logiche dell’impostazione rigidamente collettivista originariamente adottata.” (196) Craxi concorda inoltre con tutte quelle tesi che vedono nell’URSS la realizzazione del modello totalitario e collettivista burocratico, non solo, ma riconosce pure a Rizzi il merito di avere per primo sistematizzato quella teoria (197). Sintetizzando i concetti espressi in questo articolo da Craxi si ricava la seguente scaletta: 1) abbandono del marxismo 2) rivalutazione dei teorici libertari, Proudhon in testa, 3) riconoscimento a quegli scrittori del merito di avere anticipato la teoria del ‘collettivismo burocratico’ a partire dalla critica della dottrina comunista collettivista 4) accettazione della validità di quella teoria come base per giudicare le realizzazioni storiche del comunismo autoritario. Come si vede Craxi non solo si inserisce perfettamente in quello schema che era stato tratteggiato negli anni ‘40, ma porta anche al loro naturale compimento quegli elementi che allora erano stati ancora oggetto di profonde riflessioni: a) se negli anni ‘40 si ripresero tesi e pensieri dell’anarchismo senza rendere il doveroso riconoscimento, Craxi lo fa; b) in quegli anni alcuni punti base del marxismo furono farti vacillare, senza tuttavia abiurare, Craxi coraggiosamente lo fa. Note: 192 – Craxi Il Vangelo socialista in “L’espresso”, 24 agosto 1978. 193 – Ibidem 194 – Ibidem 195 – Ibidem 196 – Ibidem 197 – Craxi riconosce i meriti di Rizzi nella prefazione alla ristampa della “Bureaucratisation….”del 1977, per conto della casa editrice SugarCo. Dice Craxi in questa prefazione: “ Rizzi ha individuato con largo anticipo rispetto ai Burnham e ai Gilas, la natura effettiva del sistema comunista mettendo in rilievo gli specifici rapporti di classe che la caratterizzano.” In questo modo vengono riconosciuti i meriti ad un pensatore che ha profondamente influenzato il pensiero socialista democratico. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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INCIDENZA DEL PENSIERO ANARCHICO SU QUELLO SOCIALDEMOCRATICO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA INCIDENZA DEL PENSIERO ANARCHICO SU QUELLO SOCIALDEMOCRATICO Non si deve pensare che questa influenza anarchica sul pensiero socialdemocratico avesse avuto un’importanza secondaria, al contrario incise profondamente sulle scelte politiche dei riformisti negli anni da noi studiati e la sua influenza si è protratta fino ai nostri giorni. Vediamo analiticamente quali furono le conseguenze prodotte da questo ‘innesto di anarchismo’ nel corpo socialdemocratico. 1 – Il distacco dall’ortodossia marxista Questa conseguenza si dà, come dire, da sola. Se gli argomenti centrali della teoria del totalitarismo burocratico riprendono i punti della critica libertaria al marxismo e se queste critiche vengono rivolte al primo stato che voleva essere basato sulla teoria marxista, ne segue un distacco molto sensibile operato dai socialdemocratici nei confronti dell’ortodossia marxista. E, anche se nella seconda metà degli anni ‘40 il bersaglio non è ancora Carlo Marx (anche se non tarderà a diventarlo, come mostreremo in seguito), già in molti punti i socialdemocratici, con l’accettazione di quella teoria, si sono distaccati dal suo pensiero. In particolar modo l’allontanamento dal marxismo è maggiormente evidente su questi punti: a – lo stato non viene più considerato sovrastruttura politica ma, esso stesso, struttura economica generatrice di rapporti di sfruttamento b – si rifiuta il dogma che il potere politico debba sempre derivare dal potere economico. Nel caso della Russia infatti, affermano i teorici del totalitarismo statale, il potere economico deriva dalla nuova classe dirigente burocratica, dal possesso delle leve del potere politico – lo stato, c- si rifiuta il determinismo marxista rispetto alla nascita ineluttabile del socialismo una volta distrutto il capitalismo, si postula quindi un nuovo sistema di dominio e di oppressione e una nuova classe dominante, la burocrazia d – affermando che la Russia totalitaria realizza un modello storicamente superato – quello feudale o schiavistico – si rifiuta la concezione progressiva che dello sviluppo storico aveva il marxismo. Il ritorno a forme di produzione storicamente passate era considerato dai marxisti impossibile in quanto la storia, permettendo solo a nuove e più avanzate forme di produzione il potere di soppiantare quelle esistenti, escludeva di per sé qualsiasi ritorno a forme economiche passate e – si rifiuta pure l’idea che la distruzione della proprietà privata dei mezzi di produzione e il suo trasferimento allo stato proletario corrisponda all’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo f – viene rifiutato pure, come meccanismo non socialista ma totalitario, il principio della pianificazione centralizzata dell’economia e nello stesso tempo viene valorizzato il mercato. Come si vede, accettando e sviluppando la teoria del totalitarismo burocratico, tributaria al pensiero anarchico sviluppatosi in opposizione al marxismo, i socialdemocratici, pur non esplicitandolo a chiare lettere, cominciavano coll’inficiare alcuni cardini della dottrina marxista proprio nel momento in cui li sostituivano con alcune concezioni ‘libertarie’. 2) Scissione socialista Che la critica del comunismo autoritario e l’influenza anarchica non si limitasse al solo giudizio sul modello sovietico risulta chiaro dall’azione politica dei socialdemocratici in Italia. Essi estesero infatti l’ambito dalla critica al totalitarismo dello Stato sovietico a tutto il movimento comunista internazionale e quindi anche al PCI. La battaglia che le forze e le correnti socialdemocratiche condussero all’interno del PSI, prima della scissione, contro la fusione col PCI e per l’autonomia del partito va quindi letta, a mio parere, anche sotto questa luce. Il tipo di giudizio espresso sul modello russo, il suo rifiuto ebbe un’importanza e delle conseguenze molto più profonde nella teoria e soprattutto nella pratica dei riformisti. La lotta contro le concezioni totalitarie che i socialdemocratici riscontravano anche nella sinistra italiana, fusionisti compresi, e il legame che essi istituirono tra queste e il totalitarismo sovietico, unitamente alla ripresa di concezioni libertarie (autogestione delle fabbriche, rifiuto della pianificazione della centralizzazione economica, rivalutazione del mercato) costituirono la base teorica della scissione dal PSIUP e la nascita quindi del PSLI nel 1947. Il rifiuto sotterraneo del marxismo, l’adozione di idee patrimonio storico dell’anarchismo, pesarono in modo decisivo nella formazione non solo della teoria ma anche dell’azione politica della socialdemocrazia. D’altro canto, gli anarchici seppero subito riconoscere nel nuovo partito posizioni o teorie da loro mutuate e non è un caso che sulla loro stampa dissero tutto il bene possibile a proposito dei socialdemocratici scissionisti. Giovanni Berneri su Volontà del novembre 1946 (185), definisce la corrente saragattiana, allora non ancora scissa dal partito, “animata da una sincera volontà di ridare al partito il suo contenuto socialista” (186). Viene inoltre riportato ed elogiato un pensiero di Saragat in cui la fusione viene definita “degradazione verso il totalitarismo” e “soffocamento dell’energia autonoma della classe lavoratrice” (187). Subito dopo la scissione di febbraio in un altro articolo sempre sulla stessa rivista (188), viene rilevata ed elogiata la base teorica comune a tutti gli elementi scissionisti, lo “spirito antitotalitario” (189) e la lotta per “la difesa della personalità umana contro gli irreggimentatori: “E’ di buon augurio che la scissione si sia determinata attorno al problema bruciante della fusione con i cosiddetti comunisti, di cui Nenni era ed è la lunga mano entro il PSI. Gli orientamenti dei dissidenti erano diversi, all’infuori dello spirito antitotalitario e della difesa della personalità umana contro gli irreggimentatori. I lavoratori socialisti avvertono l’incompatibilità del loro socialismo con quella specie di comunismo che obbedisce a Stalin e a Togliatti. (190) E, più avanti, dopo aver sottolineato che un certo dissenso permane tra le due forme politiche in relazione al fatto che i socialisti democratici non hanno ancora abbandonato il marxismo, l’articolista afferma: “Il nostro dissenso sarà dissenso tra amici che si rispettano e che sono sempre pronti a darsi la mano per un’azione comune ogni volta che se ne presenti la possibilità. (191) A buon diritto, credo, gli anarchici salutarono favorevolmente la scissione del 1947 e la comune base teorica del nuovo partito, l’anti totalitarismo. Quello era sempre stato un punto cardine di …

ANTICIPAZIONI ANARCHICHE DELLA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO E CONSEGUENZE TEORICHE E PRATICHE NEL CAMPO SOCIALDEMOCRATICO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA ANTICIPAZIONI ANARCHICHE DELLA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO E CONSEGUENZE TEORICHE E PRATICHE NEL CAMPO SOCIALDEMOCRATICO Analizziamo in questo paragrafo le riflessioni sulle possibili anticipazioni della dottrina del collettivismo burocratico che possono in vario modo aver contribuito alla sua formazione. I principali anticipatori di questa teoria sono, a mio parere, da una parte, e in modo involontario, Trotzky, dall’altra i grandi pensatori anarchici dell’Ottocento (Kropotkin, Cafiero, Malatesta, Merlino, Proudhon, Bakunin, eccetera), in polemica col marxismo statolatra, così definito da loro stessi. Le riflessioni svolte in queste pagine rivestono un’importanza non sottovalutabile, poiché ci forniscono interessanti argomenti riguardo la storia teorica del movimento socialdemocratico italiano fino ai nostri giorni, Craxi compreso. Trotzky può essere considerato più che un anticipatore di questa teoria un suo battistrada: le sue teorie sulla burocrazia – casta privilegiata – che assorbe una parte enorme del reddito nazionale, spianarono effettivamente la strada a quel pensatore, ex simpatizzante del trotskismo, che fu forse il primo ad annunciare i concetti di questa particolare teoria, Bruno Rizzi. Se Trotzky, convinto che lo stato fosse rimasto nella sua struttura profonda uno stato operaio proletario (in quanto basato sulla nazionalizzazione dei mezzi produzione e sulla pianificazione dell’economia), escludeva la possibilità dell’esistenza della classe sfruttatrice capitalistica ammettendo, però, l’esistenza di una casta privilegiata economicamente di burocrati privi del diritto di proprietà individuale, Rizzi rende autonomo il ruolo rivestito dalla burocrazia nella società sovietica, postulandola proprietaria dei mezzi di produzione, seppur nella forma collettiva statale e quindi la innalza al rango di classe dominante. Seguendo fedelmente lo schema metodologico del marxismo, che individua le classi sociali a partire dall’analisi dei rapporti di produzione, Rizzi può affermare che, una volta accettato il principio che la burocrazia è proprietaria dei mezzi di produzione, risulta di conseguenza fondato il suo statuto di classe e pure lo statuto classista, sfruttatore, dello Stato sovietico. Che Trotskij avesse fornito i primi tasselli di questa teoria che si svilupperà ciò nonostante come negazione piuttosto che come sviluppo della sua dottrina, è un fatto testimoniatoci dallo stesso Rizzi che nell’ultimo capitolo del suo libro del 1939 riporta dei brani degli scritti di Trotzky per dimostrare che, con una piccola estensione di significato, si arrivi facilmente alla teoria del ‘collettivismo burocratico’. Vediamone un esempio: “La burocrazia, sfruttando gli antagonismi sociali, è divenuta una casta incontrollata, estranea al socialismo (Trotzkij). È una classe dominante che ha la sua ragione d’essere nel sistema economico messo in vigore e nella proprietà di classe che ne è derivata.” (176) Il contributo teorico degli anarchici influenza il pensiero riformista e socialdemocratico, come cercheremo di provare. Che la paternità della teoria del ‘collettivismo burocratico’ spettasse di diritto agli anarchici è sottolineato da due autori negli anni ‘40, S. Parane e D. Levi, in un articolo “Stupidità del realismo politico” (177), apparso sulla rivista anarchica mensile Volontà del luglio 1947. Questi autori, dopo aver letto il libro di Burnham, che non dimentichiamo apparve in Italia proprio nel 1946, si accorgono che le pretese novità annunciate dall’ ex-trotzkista americano non costituiscono affatto delle scoperte originali, ma la riproposizione delle teorie che gli anarchici da molto tempo avevano elaborato a proposito del modello sovietico. Affermano infatti i due scrittori libertari: “Burnham ha scoperto ciò che noi anarchici andiamo dicendo da tanto a proposito della Russia e lo ha generalizzato. I militanti che vissero e studiarono la Rivoluzione russa s’accorsero per primi che il regime bolscevico costituiva una forma di società dalla quale era eliminata la borghesia, ma che non poteva in alcun modo identificarsi con la società socialista. La verità era che una casta nuova, che essi chiamavano intelligenza, aveva preso il potere e si serviva dei miti socialisti e delle forme socialiste per mantenere la moltitudine degli operai e dei contadini docilmente asserviti al regime. Già Yvon parlava nei suoi studi sulla rivoluzione sovietica della dittatura del ‘personale dirigente’, comprendendo non solo i direttori di officina, i tecnici della pianificazione, ma anche tutto il personale dello Stato russo, militari, agenti della GPU, burocrati, eccetera.” (178) Quindi gli anarchici rivendicano a sé le idee base di quella teoria (stato né capitalista né socialista, nuova classe dirigente burocratica, eccetera). La questione, tuttavia, è più complessa e allo stesso tempo più profonda, in quanto la teoria del ‘collettivismo burocratico’ deve certo qualcosa al pensiero anarchico successivo alla Rivoluzione d’ottobre, come fanno rilevare i due autori sopra citati, ma forse deve molto di più al pensiero dei fondatori, dei grandi pionieri dell’anarchismo come abbiamo già detto. È questa la tesi che ai nostri giorni sostiene Nico Berti, anarchico anch’egli, su Interrogations (179). Concordo pienamente con questa tesi che, se applicata al nostro campo di indagine, ci permette di spiegare e di capire alcuni importanti eventi teorici e pratici della vita politica della socialdemocrazia. Procediamo con ordine, vediamo prima in quali autori e in quali pensieri è possibile rintracciare gli elementi anticipatori cui abbiamo accennato. Innanzitutto, è importante definire il contesto nel quale quelle idee nacquero. Erano gli anni della feroce polemica tra il pensiero marxista, dagli anarchici definito statolatra e ‘comunismo autoritario’, e il pensiero libertario anarchico fortemente antiautoritario e antistatale. L’argomento del contendere era la configurazione della futura, auspicata società del lavoro liberato. Alle tesi marxiste che vedevano nello stato diretto dai dirigenti della classe operaia, nella sostituzione del mercato anarchico e concorrenziale con la pianificazione e centralizzazione dell’economia nelle mani dello Stato gli strumenti adatti alla realizzazione della società socialista, fase di transizione verso il comunismo, gli anarchici replicarono con gli argomenti che saranno oggetto della nostra attenzione. In sostanza si può dire che le critiche allora mosse dagli anarchici alla concezione marxista contenessero in nuce gli elementi fondamentali di tutte quelle teorie che, sotto nomi diversi, accusano l’URSS di essere uno stato burocratico totalitario. Sostennero infatti gli anarchici di allora …

GLI ANARCHICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA GLI ANARCHICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO Se agli anarchici dedichiamo in questa trattazione meno spazio che alle altre forze politiche non dipende dal fatto che le loro analisi a proposito siano più superficiali o meno importanti, né del fatto che a causa della loro limitata incidenza numerica nel tessuto politico italiano ci si sia creduto in diritto di metterli in un angolino. L’unica ragione consiste in un fatto del tutto oggettivo: la scarsità della loro stampa che si traduce inevitabilmente in scarsità di articoli. Questa scarsità non significa però superficialità. Anzi, come avremo modo di dimostrare in seguito, gli anarchici a buon diritto non solo affermarono, negli anni ‘40, che la teoria di Burnham (regime dei dirigenti – collettivismo burocratico) era già uscita dalla penna degli scrittori libertari negli anni immediatamente seguenti alla Rivoluzione d’ottobre, ma sostennero anche più tardi che i principali elementi di quella teoria erano stati anticipati dai teorici libertari dell’Ottocento in polemica col marxismo autoritario. Meritano quindi un’attenzione particolare. I punti cardine di questa teoria vi ritornano infatti con una chiarezza e una precisione prive di ambiguità. Per gli anarchici il modello russo si caratterizza per i seguenti elementi: 1) lo stato è il padrone assoluto e sfruttatore della società civile nella sua complessità 2) questo stato sfruttatore non è certo socialista: presenta piuttosto delle forti energie con i regimi nazisti e fascisti 3) la nuova classe sfruttatrice che ha sostituito i capitalisti individuali è rappresentata dalla burocrazia, padrona delle leve di comando dello Stato 4) il modello russo è piuttosto una riedizione del regime feudale. Come si può vedere i punti fondamentali della teoria del ‘collettivismo burocratico’ sono presenti in modo esplicito. Trattiamoli con ordine. Il problema dello stato e della sua natura Tutta la produzione teorica anarchica precedente era improntata sul concetto che fosse lo stato il principale responsabile dello sfruttamento e della divisione in classi della società. Non si poneva per loro il problema di appurare se nel caso della Russia sovietica si dovesse parlare di Stato socialista. L’esistenza della parola, del fatto ‘Stato’, escludeva in linea di principio qualsiasi possibile confusione con l’ideale e il modello socialista, che si fonda al contrario sulla distruzione dei meccanismi dello Stato e di ogni istanza dirigente, politica o economica, che potesse riproporre in qualche modo il principio gerarchico, responsabile primo delle differenziazioni sociali (163). Gli anarchici avevano considerato profondamente socialista la rivoluzione d’ottobre operata dai contadini e dagli operai che si erano impadroniti delle fabbriche e delle officine, distruggendo in questo modo il potere non solo dei nobili e dei capitalisti, ma anche dallo stato (164), mentre considerano antisocialista e liberticida la rivoluzione operata dal partito bolscevico che, con il rafforzamento dello Stato, ha dato origine ad una nuova società fondata sullo sfruttamento e sulla repressione. Questi temi ritornano nella stampa anarchica italiana del periodo: “La nazionalizzazione ha significato né più né meno la fine dei comitati operai di gestione e di controllo, sostituiti da un amministratore – gestore che agisce come capitalista, come rappresentante dello Stato capitalista. Nell’Urss nel 1917 ci si guardò bene dal passare la proprietà della terra in mano ai contadini.” (165) “Noi anarchici combattiamo il comunismo nella sua forma autoritaria statale che si gabba per dittatura del proletariato, per quello che di ingiusto e di violento esso compie sullo stesso proletariato allo scopo di stabilire e consolidare il potere della frazione che lo ha conquistato.” (166) “Occorre sì instaurare al più presto il comunismo sopprimendo ogni forma di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e dando a tutti la possibilità di prendere, dalla ricchezza sociale, la parte di cui hanno bisogno, limitando ugualmente questa parte per tutti quando la scarsezza del prodotto l’impone. Le eccezioni non possono essere che in favore dei più bisognosi. Ma ciò non si può fare a mezzo dello Stato, che esso si chiami comunista, socialista o proletario. Lo stato non fa che rimpiazzare i padroni con i funzionari che insieme prelevano dalla ricchezza sociale una parte più importante di quella dei padroni stessi.” (167) È lo stato stesso, quindi, ad essere incriminato: è da esso che si generano di continuo le classi sfruttatrici. Analogia con i regimi fascisti e nazisti Non solo lo stato russo, in quanto stato, è generatore di sfruttamento di classe, ma si caratterizza anche per delle specifiche particolarità che lo accomunano agli Stati fascisti. Il modello di tutti questi regimi è il totalitarismo assoluto e onnipotente dello Stato. Diego de Santillan su Volontà dell’agosto del 1948 mette in guardia contro il cosiddetto socialismo di Stato sovietico che non sarebbe altro che totalitarismo, segno della potenza statale del tutto simile ai regimi fascisti e nazisti. All’onnipotenza dello Stato Santillan contrappone l’ideale libertario della pluralità e della molteplicità dei gruppi autonomi e di forme economiche e sociali, che valorizzano l’individuo nella stessa misura in cui lo stato totalitario lo annulla: “Il cosiddetto socialismo di Stato ha offerto nei tempi nostri delle manifestazioni così mostruose del suo contenuto intrinseco come totalitarismo, con due linguaggi diversi nell’Unione Sovietica e nella Germania di Hitler, ma con gli stessi moventi del nazionalismo, dell’accentramento, della soppressione dei diritti individuali e coi medesimi metodi dello Stato poliziesco assoluto, della consegna di ogni iniziativa alla burocrazia e di fede nella forza dei grandi eserciti. L’umanità non può cercare la salvezza per tale via che peggiora tutti i mali che pretende di curare, soprattutto perché conduce alla guerra, al clima di guerra, alla produzione di guerra …. Questa pluralità che riconosce la molteplicità dei gruppi autonomi delle forme economiche e sociali si trova all’ estremo opposto della concezione totalitaria accentratrice, incarnata dapprima nella dittatura del partito bolscevico in Russia, poi come vangelo del nazismo e del fascismo …. Dove lo stato è tutto, la società, l’individuo non …

CONTINUITA’ E SVILUPPI DEL PENSIERO SOCIALDEMOCRATICO SULL’UNIONE SOVIETICA

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO Continuità e sviluppi del pensiero socialdemocratico sull’Unione Sovietica La teoria del totalitarismo statale burocratico che, secondo la nostra esposizione, sorregge quasi tutti i giudizi e le argomentazioni degli articolisti socialdemocratici a proposito dell’Urss, rappresenta una teoria tutto sommato nuova in quel campo di pensiero. Questa teoria, come si è detto, fa la sua comparsa negli anni ‘40 specie negli articoli di Giuseppe Saragat sul giornale del Psi all’estero, il Nuovo Avanti. Questa teoria fu poi approfondita e riferita a tutti gli aspetti della vita politica, sociale ed economica dello Stato sovietico con dovizia di articoli e con analisi sistematiche negli anni ‘45 – ’48. Si può così affermare che alla fine degli anni ‘40 il modello di definizione del sistema sovietico accettato dai socialdemocratici fosse quello del totalitarismo statale burocratico. È indubbio che questa teoria rappresentasse un elemento di novità nel settore socialdemocratico; fino ad allora, infatti, la teorizzazione della nascita di un nuovo tipo di società sfruttatrice a livello mondiale, diversa da quella capitalistica, e di una nuova classe dominante, diversa da quella borgese, non aveva ancora sfiorato quella parte del pensiero socialista riformista che costituirà la base ideologica teorica del futuro partito socialdemocratico. Non ci si era cioè ancora sganciati da quello schema della dogmatica marxista che voleva affermato il socialismo non appena la società capitalista fosse stata abbattuta e che non ammetteva altra società sfruttatrice moderna se non quella capitalista ed altra classe dominante se non quella borghese. Basti pensare alla produzione teorica degli anni ‘20 quando, dalla constatazione dell’impossibilità della costruzione del socialismo in un paese arretrato come la Russia zarista, se ne deduceva l’inevitabilità dello sviluppo capitalistico del paese. Inevitabile secondo la teoria marxista che sosteneva appunto la nascita del socialismo nel mondo solo dopo che il capitalismo avesse raggiunto l’apice del proprio sviluppo, dopo che avesse portato la società a uno sviluppo tale delle forze produttive che il perdurare del modo di appropriazione individuale del plusvalore avrebbe condotto ad una distruzione sistematica delle forze produttive stesse. Era l’automatismo economico di tale concezione del mondo che escludeva il passaggio da una società semifeudale, qual era quella russa, a una di tipo socialista, saltando la fase inevitabile e necessaria del capitalismo. E’ questa la tesi di fondo di Rodolfo Mondolfo esposta nel suo libro del 1922 “Significato insegnamento della rivoluzione russa” (153), che sostiene da una parte la necessità storica della rivoluzione bolscevica al fine di spezzare le catene dello sfruttamento feudale e di distruggere quella borghesia strettamente imparentata e fusa con la classe nobiliare feudale , incapace di un’azione politica ed economica autonoma, dall’altra l’inevitabilità dello sviluppo della Russia in senso capitalista. Per Mondolfo i bolscevichi credettero di essere gli artefici dello sviluppo storico, quando in realtà non furono che gli strumenti della sua evoluzione. I contadini, sostiene ancora Mondolfo, da loro scatenati alla conquista delle terre non avrebbero accettato la socializzazione delle terre stesse, ma imposto al contrario al governo bolscevico il fatto compiuto della proprietà individuale nelle campagne. Fatto che si realizza puntualmente nel 1921 quando il governo sovietico, per salvare il paese dalla catastrofe economica, fu costretto a fare delle fondamentali concessioni ai contadini: possesso privato delle terre, dei prodotti agricoli e libero mercato degli stessi. Fu costretto cioè ad adottare delle misure capitalistiche in piena contraddizione con gli ideali socialisti e comunisti che fondavano la sua dottrina. Afferma infatti Mondolfo: “E quando alle condizioni politiche non corrispondono, entro lo stesso popolo e lo stesso paese, le condizioni economiche, quando anzi le forze di produzione tendono a svilupparsi in direzione contraria e a sistemarsi in forme antitetiche alle forme politiche che ad esse vogliano sovrapporsi ed imporsi, la lotta fra economia e politica si decide sempre in favore della prima …. Dove mancano la possibilità e le condizioni per una produzione e distribuzione sociale per i bisogni sociali, si resta immancabilmente nel dominio della merce. Inutili gli scongiuri, le maledizioni e le violenze per scacciare il demone che riappare sempre da ogni parte: non resta che riconoscerne l’impero ed assoggettarvisi …. Dominando economicamente la vita della Russia nuova, questa classe, i contadini, doveva ben finire (anche sotto la maschera delle opposte apparenze di un dominio politico del proletariato urbano) per imprimere alla direzione dello Stato la direzione imposta dai suoi incoercibile interessi di classe. Nel senso che si conferma l’essenza della Rivoluzione russa che, sotto l’ingannevole apparenza di una rivoluzione comunista sboccante nella dittatura del proletariato industriale, è stata invece, nella più profonda e salda realtà, una ormai irrevocabile rivoluzione agraria borgese costituente la nuova classe dei contadini proprietari a base e nucleo di sviluppo della nuova società.” (154) Concludendo: dove è impossibile realizzare un’economia fondata sulla “produzione e distribuzione sociale per i bisogni sociali”, situazione che si realizza solamente dopo che la società ha raggiunto il suo più alto sviluppo, si rimane inevitabilmente, secondo Mondolfo, nonostante tutti gli sforzi volontaristici in senso contrario, nel regno della merce, cioè dell’economia capitalistica di sfruttamento. Questa tesi non era proprio del solo Mondolfo, ma accettata dalla generalità del pensiero riformista se lo stesso Claudio Treves, altro maître a pensée del riformismo, nell’introdurre il citato libro di Mondolfo, affermava: “Il mondo assistette stupefatto all’instaurazione del capitalismo per opera degli stessi uomini e delle stesse forze che si erano illusi e avevano illuso che del comunismo in Russia non c’è che il nome del partito politico prevalente ed una volontà rinnovata di arrivare al comunismo attraverso l’unica via naturale, il capitalismo.” (155) L’accordo con la tesi di Mondolfo è quindi totale. Elaborata in anni contemporanei al periodo nepiano, il periodo della storia russa nel quale le concessioni ai principi capitalistici furono molto marcate ed evidenti (156), questa teoria poteva conservare la sua validità. Verso la …