FONTI DEL PENSIERO SOCIALDEMOCRATICO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO Fonti del pensiero socialdemocratico OSSERVAZIONI Una cosa è chiara: l’influenza decisiva del pensiero di Rizzi nel campo socialdemocratico durante gli anni ‘40. La concordanza è perfetta su tutta la linea. Ho volutamente dato inizio a questa prima parte del lavoro, dedicata alla teoria del ‘collettivismo burocratico’, con l’esposizione del pensiero di Rizzi sia per la sua importanza sia per il fatto che è più facile ora cogliere le profonde affinità con il pensiero socialdemocratico. Ritengo infatti essere sufficiente elencare i punti di affinità senza dover addentrarmi in una dimostrazione che ritengo a questo punto abbastanza evidente. 1 – Problema dei sindacati operai Se i socialdemocratici sostengono che, al fine della formazione dello Stato totalitario, la sottomissione dei sindacati e degli operai allo Stato Sovietico costituì un passo decisivo, Rizzi aveva d’altro canto affermato che questa sottomissione costituiva uno dei momenti cardinali della formazione dello Stato burocratico: “Il lavoratore russo è stato portato armi e bagagli con il suo sindacato nello stato …. Ridotto ad elemento incosciente di una massa di manovra unicamente diretta dalla burocrazia.” (139) 2 – Feudalesimo Così come per Rizzi anche per i socialdemocratici l’esperimento sovietico richiama la passata forma politica economica del feudalesimo. 3 – La burocrazia I socialdemocratici riprendono il concetto cardine della teoria di Rizzi: la classe burocratica diventa la classe dirigente proprio grazie alla proprietà collettiva esercitata sui mezzi di produzione tramite il controllo dei poteri dello Stato, padrone di ogni meccanismo economico. 4 – Stato né capitalista né socialista Questa convinzione è comune e sia Rizzi che i socialdemocratici si sforzano di chiarire il fatto che una simile affermazione può essere giudicata eversiva solo se riferita ad un marxismo troppo dogmatico e astratto, che non può cogliere gli eventi reali e le linee di tendenza dello sviluppo effettivo della società attuale. 5 – analogia del bolscevismo con i fenomeni nazifascisti Questo concetto viene continuamente ribadito da entrambi. 6 – Rivalutazione del mercato Dopo aver criticato la pianificazione economica come strumento del dominio della burocrazia, sia Rizzi che i socialdemocratici si sforzano di ricavare un possibile modello di socialismo non burocratico a partire dal principio dell’autogestione delle fabbriche, una volta salvaguardata l’esistenza del mercato, reso forse più democratico ma non abolito. L’accordo, come dicevo, si realizza su tutta la linea. Un altro autore che influì molto, limitatamente però ad aspetti particolari e settoriali, sul pensiero socialdemocratico fu l’emigrato menscevico russo David J. Dallin. Da lui trassero principalmente concetti ed argomentazioni relativi a due problemi particolari: il lavoro forzato e la collettivizzazione agricola. 1- Il lavoro forzato La fonte delle idee sviluppate dai socialdemocratici a questo proposito, in termini di cifre, dati, concetti ed analisi è rappresentato dal libro che Dallin scrisse in collaborazione con un altro immigrato menscevico russo, Boris Nikolaewskji, “Forced Labour in URSS” (140). Posso affermare tranquillamente che tutto quanto si è letto nel paragrafato riservato all’esposizione degli articoli dedicati al lavoro forzato ha un preciso riscontro nel libro citato cui, d’altronde, gli stessi autori socialdemocratici riconoscono chiaramente il merito. 2 – Collettivizzazione agricola Per quanto riguarda la ripresa il pensiero di Dallin a proposito della collettivizzazione agricola non sono necessarie delle prove elaborate. L’articolo di S. Q. (141) che tratta della funzione del trattore nella collettivizzazione agricola e degli scopi eminentemente politici, prima che economici, realizzati dal potere sovietico con la collettivizzazione stessa, è una ripresa testuale, a stralci, di brani del libro di Dallin “la vera Russia dei sovietici” (142). Anche un altro articolo dedicato all’analisi della collettivizzazione, quello scritto da I.S. (143) ha come il punto di riferimento la tesi svolta da Dallin. Chi esercitò l’influenza più profonda? Non si tratta evidentemente di un interrogativo inutile poiché la risposta a questa domanda ci offre delle interessanti riflessioni. Non v’è dubbio che l’influenza maggiore spetti a Rizzi, evidentemente. Il rapporto tra Rizzi e Dallin, le due fonti maggiori del pensiero socialdemocratico, è quello che passa tra un quadro e un suo dettaglio. Rizzi fornì il quadro teorico, completo ed articolato, sul modello sovietico. Dallin contribuì a fornire gli elementi di dettaglio, inseriti in questo quadro. Non si deve però credere semplicisticamente che il dettaglio abbia un’importanza secondaria. Niente affatto, si tratta di un dettaglio rilevante in questo caso e aggiunge elementi molto significativi che altrimenti sarebbero mancati al quadro originario. L’elemento apportato da Dallin è costituito dalla dimostrazione che il regime sovietico, attraverso la collettivizzazione delle terre e l’industrializzazione del paese, opera una sistematica distruzione delle forze produttive. I socialdemocratici riprendono la tesi di Dallin che giudica la collettivizzazione e la meccanizzazione dell’agricoltura un grande sperpero di beni e di ricchezze economiche. La meccanizzazione e lo sviluppo di tutti quei rami dell’industria atti a fornire i trattori le campagne ebbe una motivazione tutta politica e niente affatto economica: dato che la produzione di derrate agricole non segnò un rilevante aumento rispetto a quella degli anni precedenti. Lo sperpero di energia si riduce quindi ad una sistematica distruzione di forze produttive, distrutte al fine di conservare il potere della classe dominante e di soggiogare la classe potenzialmente ribelle dei contadini. In sostanza l’apporto di Dallin al pensiero socialdemocratico è questo: questa classe burocratica al potere non solo gestisce e controlla in modo totalitario e collettivo le forze produttive, ma opera pure nel senso di una loro sistematica distruzione. Abbiamo detto che è un dettaglio di notevole importanza, vediamo perché. Molto schematicamente, per il pensiero marxista una forma sociale è storicamente progressiva, cioè ha una funzione sociale necessaria da svolgere, ha quindi una sua vitalità, se permette lo sviluppo delle forze produttive; quando invece opera una sistematica distruzione delle stesse, significa che il suo compito storico progressivo è terminato e diventa quindi un arnese del passato, storicamente reazionario. Attraverso quali …

NATURA DELLO STATO SOVIETICO, CLASSE DIRIGENTE E STRUMENTI DI DOMINIO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO e) Natura dello stato sovietico, classe dirigente e strumenti di dominio Nei paragrafi precedenti abbiamo già anticipato per accenni la conclusione cui gli autori socialdemocratici tendono in tutti i loro articoli: la dimostrazione che lo stato sovietico, attraverso l’affermazione sempre più pesante e profonda del suo dominio su tutte le istanze della società civile, ha prodotto un regime che un abisso enorme divide dal socialismo e alla cui direzione si trova una nuova classe sfruttatrice rappresentata dalla burocrazia. È quindi giunto il momento di analizzare nei particolari questi due ultimi problemi 1- natura dello Stato sovietico L’URSS non è socialista, gridano in coro i socialdemocratici. L’eliminazione della proprietà privata e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione non costituiscono affatto ‘segni’ di natura socialista, ma di una natura del tutto apposta, totalitaria e dispotica. Non è infatti la statizzazione, coercitiva e burocratica, operata dallo stato che pone le basi del socialismo ma la socializzazione dei mezzi di produzione stessi. In altre parole, solo l’autogestione delle fabbriche da parte degli operai attua quei principi di democrazia e di libertà che un dispotico e tirannico potere statale calpesta e distrugge. Cominciamo l’analisi degli articoli iniziando da quelli riferiti alla distribuzione, ritenuta fondamentale, fra i concetti antitetici di statizzazione e socializzazione. Pietro Battara sottolinea decisamente il fatto che la statizzazione burocratica è una forma di sfruttamento, antidemocratica e totalitaria: “Per noi socialisti la socializzazione è uno strumento per l’instaurazione della democrazia economica mentre la statizzazione burocratica è una forma di sfruttamento e asservimento uguale e talvolta anche peggiore di quella capitalistica. Se al capitalista privato si sostituisce lo stato, la classe lavoratrice resta ancora e soltanto oggetto nel ciclo produttivo e la possibilità di autodeterminazione del suo essere sociale rimane ancora una volta preclusa: è chiaro che la classe lavoratrice non ha fatto un passo in avanti nella conquista delle sue rivendicazioni ed anzi ha fatto un passo indietro.” (116) Anche J. Schreider mette in rilievo il fatto che la distinzione tra socializzazione e statizzazione va fatta risalire ai primi teorici della socialdemocrazia tedesca. La critica del modello russo non implica di conseguenza solo il rifiuto delle particolari misure prese dal governo bolscevico, ma una posizione inconciliabile teorica, prima ancora che pratica, tra socialismo da una parte e totalitarismo statale e burocratico dall’altra: “Nel socialismo europeo ha sempre prevalso l’opinione che statizzazione burocratica e socializzazione socialista siano cose ben diverse …. Cosicché al congresso del 1892 della socialdemocrazia tedesca fu approvato l’ordine del giorno in cui leggiamo le seguenti dichiarazioni: ‘la democrazia sociale non ha nulla in comune col cosiddetto socialismo di Stato, il quale, mirando a certe nazionalizzazioni, vuol porre lo stato al posto dei capitalisti privati e dare allo stato il potere di assoggettare il popolo lavoratore al doppio giogo, economico e politico. Nella sua essenza la democrazia sociale è rivoluzionaria, il socialismo di Stato è conservatore. Democrazia sociale e socialismo di Stato sono inconciliabili antitesi ’ …. I socialisti giunti al potere debbono operare non gli espedienti coercitivi dell’autoritarismo oligarchico e dell’accentramento burocratico che pretendono di instaurare la giustizia sociale staccandosi dai principi della libertà e della democrazia, ma i più razionali metodi democratici.” (117) Se quindi la proprietà nazionalizzata e la statizzazione dell’economia testimoniano ulteriormente il carattere totalitario e burocratico dello Stato sovietico, ne segue che l’esperimento russo non consiste in una semplice degenerazione delle sovrastrutture di un paese in cui la struttura economica rimane tutto sommato proletaria ed operaia, come sosteneva Trotskij, ma nella realizzazione storica di un ideale degenerato di socialismo, il cosiddetto ‘socialismo di Stato’. Per gli autori socialdemocratici lo stato sovietico incarna un nuovo tipo di Stato, con una sua specifica base economica e politica simile quasi in tutto ai passati regimi fascisti e nazisti: il totalitarismo statale. È quindi da combattere, a loro parere, il falso e schematico pensiero che ammette per l’epoca moderna l’esistenza di due soli sistemi: capitalista e socialista e che non vuole considerare il fatto che sia possibile abbattere il capitalismo senza creare per questo inevitabilmente il socialismo. Una ‘nuova e terza categoria di sistemi sociali è sorta’ ed essa abbraccia sia il modello bolscevico che quello nazista e fascista. Afferma Raphael Abramovich: “Molti scrittori socialisti considerano il sistema russo come un sistema di transizione. Essi rifiutano di ammettere che lo stato sovietico appartiene ad un’altra categoria. Secondo loro vi sono soltanto due possibili forme di sistemi sociali: il capitalismo e il socialismo. Un paese come la Russia, dove il capitalismo è stato abolito, deve diventare uno stato socialista. Questo ragionamento puramente astratto e teorico non corrisponde purtroppo alla realtà e non è basato sui fatti …. I due ultimi decenni della storia russa hanno veramente segnato una transizione, la transizione non dal capitalismo al socialismo, ma dalla rivoluzione utopistica al totalitarismo. Una nuova e terza categoria di sistemi sociali è sorta, la quale differisce fondamentalmente dai due sistemi classici.” (118) In seguito, l’autore, rispondendo alla domanda se sia possibile che questi regimi possano evolversi per spinte interne in senso democratico, accosta al sistema totalitario russo il fascismo e il nazismo. Il fatto, fa rilevare Abramovitch, che questi due regimi totalitari simili al bolscevismo siano crollati non per forze interne ma grazie all’intervento esterno è significativo del pieno e assoluto controllo che tali sistemi riescono ad imporre all’interno del paese. In questo l’autore socialdemocratico riscontra una legge di funzionamento che potremmo definire strutturale degli stati totalitari, quella della spirale totalitaria: “La legge naturale di un sistema totalitario è espressa nella spirale totalitaria. Nessuna evoluzione verso la democrazia è neppure apparsa possibile in simili stati e nessuno di questi sistemi è neppure stato seriamente minacciato finora da una rivoluzione dall’interno.” (119) Anche Victor Larok, su Critica sociale (120) espone le ragioni …

PIANIFICAZIONE, INDUSTRIALIZZAZIONE E STATO TOTALITARIO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO d) Pianificazione, industrializzazione e stato totalitario La tesi svolta dagli autori socialdemocratici a questo proposito è questa: lo stato sovietico e, attraverso questo la classe che lo controlla, si è impadronito, grazie alla pianificazione, di tutti i meccanismi dell’economia industriale, li controlla e li determina rigidamente. Il 1929, anno in cui entrò in vigore il primo piano quinquennale, è anche da questo punto di vista considerato l’anno cruciale della formazione dello Stato totalitario, dello Stato cioè padrone di tutta la società e di tutti i suoi meccanismi politici ed economici. Mi sembra utile anticipare le tesi centrali ricorrenti in tutti quei contributi che, avendo la caratteristica dell’articolo, si presentano sparsi e settoriali. Sintetizzando: 1) lo stato, grazie alla pianificazione, sottomette al suo controllo e dominio anche l’economia industriale oltre a quella agricola. Per mezzo del piano, infatti, la burocrazia statale determina fin nei minimi particolari quasi tutti gli aspetti della produzione (quando e come si deve produrre, prezzi di vendita, salari, eccetera). Questo porta ad un tipo di economia non più capitalista (in quanto le leggi classiche del mercato non hanno più riscontro) ma di tipo burocratico statale. 2) lo stato si servì della pianificazione per imporre al paese un ritmo alquanto sostenuto di sviluppo industriale. 3) a causa della povertà di beni economici e di capitali disponibili nel paese, chi pagò il prezzo di questa industrializzazione a tappe forzate fu l’operaio, che dovette subire uno sfruttamento uguale o forse anche peggiore a quello subito dal suo fratello occidentale nel periodo iniziale dello sviluppo capitalistico, il periodo dell’accumulazione primitiva. 4) la classe che invece ricavò maggiori benefici dall’industrializzazione del paese e che orientò la pianificazione secondo i propri interessi fu la burocrazia. Produzione di beni di lusso e di armamenti furono gli obiettivi che questa classe impose alla pianificazione, caratterizzando di conseguenza l’intera economia in senso bellico e militarista, cosa che rispondeva ai bisogni di aggressione di conquista della burocrazia statale. 5) il risultato conseguente di questa politica economica fu l’inevitabile e costante compressione dello sviluppo dell’industria leggera a tutto vantaggio dell’industria pesante e degli armamenti. Ne risulta che tutto il popolo lavoratore non è sfruttato solo a livello della produzione (bassi salari per permettere lo sviluppo industriale), ma anche a livello dei consumi (estrema scarsezza dei beni di prima necessità). 6) la conclusione di queste premesse è inevitabile: l’economia pianificata sovietica non può essere il modello di un’economia socialista, ma di un altro tipo di società, diversa da quella capitalista, la società totalitaria, statalista, burocratica; nuovo modello politico economico caratterizzato dall’ onnipotenza statale sia nel campo politico come nel campo economico. Riportiamo ed analizziamo i vari articoli che Critica sociale e il quotidiano del partito dedicarono all’argomento, tenendo sempre presente questa scaletta come strumento d’ordine. Il primo articolo di cui ci occuperemo è quello di Hilferding, scritto nel 1940 (prima della sua morte avvenuta nel 1941 tra le mani della Gestapo) e riproposto da Critica sociale nel 1947 (96), e non senza ragione: l’articolo infatti, oltre ad essere molto acuto e profondo, collima strettamente con quella tesi che noi abbiamo indicato essere il fulcro del pensiero socialdemocratico del periodo, la tesi del ‘totalitarismo statale burocratico’. L’articolo è ricchissimo di temi che cercheremo di indicare con ordine. Innanzitutto, sostiene il socialdemocratico tedesco, il sistema economico sovietico non è di tipo capitalista, ma è caratterizzato dal totalitarismo statale. Lo stato determina e controlla tutti i meccanismi economici: “Soggiogare l’economia alle proprie intenzioni fa parte dell’essenza stessa di uno stato totalitario. L’economia è privata delle sue stesse leggi e diventa un’economia controllata.” (97) Attraverso il piano la commissione pianificatrice esercita il proprio controllo e il proprio dominio sull’economia. L’economia perde quindi le proprie caratteristiche autonome tipiche del sistema capitalista, dove è proprio l’indipendenza dalle leggi del mercato e della libera formazione dei prezzi a determinare il classico ‘cosa, come e in quale quantità si deve produrre’, per diventare strettamente subordinata allo stato per il tramite della pianificazione. La pianificazione sovietica è quindi, per Hilferding, uno strumento indispensabile allo stato totalitario. Dice infatti molto esplicitamente l’autore: Un’economia capitalista è un’economia di mercato. I prezzi che derivano dalla competizione tra i proprietari capitalisti determinano che cosa e in che quantità si è prodotto, qual parte del profitto è stata accumulata e in quali particolari branche della produzione avviene questa accumulazione …. Un’economia capitalista è governata dalle leggi del mercato (che Marx ha analizzato) e l’autonomia di queste leggi costituisce il segno decisivo del sistema capitalistico di produzione. Un’ economia di Stato tuttavia elimina precisamente l’autonomia delle leggi economiche. Essa presenta un’economia non di mercato ma di consumo. Non è più il prezzo, bensì una commissione statale pianificatrice, che in questo caso stabilisce che cosa si deve produrre e come.” (98) E più avanti: L’economia, e con essa gli esponenti dell’attività economica, sono più o meno soggetti allo stato, diventando suoi subordinati. L’economia perde il primato di cui godeva nella società borghese.” (99) L’economia totalitaria di Stato è quindi nella sua struttura ben diversa dall’ economia capitalista. Se anche alcuni termini tipici dell’economia borgese (come prezzo, salario ed accumulazione) persistono nel linguaggio ufficiale sovietico, questi sono però completamente trasformati, fino a perdere le loro caratteristiche tipiche. Salari e prezzi essendo determinati rigidamente dalla commissione pianificatrice statale perdono il loro carattere di funzioni dell’autonomo meccanismo delle leggi di mercato per trasformarsi in mezzi di distribuzione stabiliti dal potere statale. Mentre l’accumulazione sovietica, sostiene ancora Hilferding, non è più accumulazione di capitale (come di necessità in tutte le economie capitalistiche), ma accumulazione di mezzi di produzione e di prodotti. È infatti solo attraverso il meccanismo di mercato, caratterizzato dalla relazione denaro-merce-denaro, che si verifica l’evento proprio dell’economia capitalistica: il capitale che, investito in una determinata quantità …

COLLETTIVIZZAZIONE AGRICOLA E STATO TOTALITARIO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO c) Collettivizzazione agricola e stato totalitario Vediamo ora come si caratterizza il pensiero dei socialdemocratici in riferimento al problema della collettivizzazione delle terre dei contadini. La misura della collettivizzazione forzata, decisa dal governo bolscevico sempre nel fatidico anno 1929, è studiata, analizzata come passo ulteriore e molto significativo dello sviluppo della formazione dello Stato totalitario. Con questa misura politica economica si realizza, secondo i socialdemocratici, nel campo agricolo la completa subordinazione dei contadini al potere e dalla dittatura statale. Questi ultimi persero, infatti, quella seppur debole autonomia e indipendenza che possedevano nel periodo precedente, quello nepiano, e divennero dei servi di Stato. Lo stato infatti, costringendo i contadini a farsi collettivizzare, costituì i kolchoz al solo scopo di servirsene come strumenti per la raccolta dei prodotti agricoli. Perciò, sempre secondo i socialdemocratici, avendo il contadino perso le proprie caratteristiche autonome e indipendenti (la proprietà individuale del terreno dei prodotti e la, seppur parziale, possibilità di commerciare) ed essendo costretto a lavorare in modo forzato per il solo padrone lo stato sovietico, cambia evidentemente la sua natura e da libero coltivatore si trasforma in servo della gleba. Risultato di questo ritorno al servaggio fu una regressione di forme storiche: la società sovietica con la collettivizzazione non avanzò verso una più alta forma di progresso ma regredì verso una passata forma di dominio, il feudalesimo. Lo stato russo si sostituì quindi come unico padrone ai tanti proprietari terrieri esistiti nel passato. Fornito così lo schema sintetico dell’interpretazione socialdemocratica di questa misura politica economica, analizziamo gli articoli più importanti e pertinenti a questo tema. Cominciamo l’esposizione con un articolo di Raphael Abramovitch, ex menscevico russo (76). Questo autore mira a mettere in risalto la feroce opposizione che le masse contadine svilupparono contro la crudele e brutale oppressione totalitaria operata dallo stato sovietico con la collettivizzazione nelle campagne: “Ne seguì una battaglia che fu una guerra civile non dichiarata. Migliaia di piccoli e sparsi contadini si rivoltarono in questo periodo ed avvennero ammutinamenti nell’armata rossa.” (77) I contadini, infatti, ribellandosi a questa misura dispotica e liberticida, distrussero un enorme quantità di merci macellate, un ingente numero di capi di bestiame. Ne seguì una terribile carestia che provocò la morte di 4 – 5 milioni uomini. Lo stato, alla fine, la spuntò sui contadini, dimostrando: “come l’irresistibile potere di una moderna dittatura possa essere applicato brutalmente, senza restrizioni, contro un popolo demoralizzato e reso materialmente e politicamente impotente dalla completa mancanza di libertà politica.” (78) Lo stato totalitario dittatoriale, padrone delle leve politiche, si impadronì anche di quelle economiche: “Il governo assoggettò i contadini ribelli alla sua volontà e si fece padrone anche dell’economia rurale.” La collettivizzazione delle terre fu operata a tutto favore dello Stato e della ‘nuova democrazia’ (l’espressione è di Abramovich) che ne detiene i poteri. Anche Pagliari in un suo articolo (79) sottolinea il carattere violento e terroristico dell’operazione: “La collettivizzazione verrà realizzata col terrore puro e semplice, con le deportazioni e le esecuzioni in massa.” (80) E, sostenendo che la collettivizzazione fu la premessa indispensabile per lo sviluppo dell’industria, afferma che il fine di questa operazione nelle campagne fu quello di creare degli strumenti docili alle esigenze del governo, cioè adatti allo scopo della requisizione e consegna obbligatoria dei prodotti agricoli: “Il punto di partenza dell’industrializzazione forzata è infatti la collettivizzazione, nominalmente volontaria, di fatto coatta, dei contadini, falliti anche questa volta tutti i sistemi di requisizione e consegna obbligatoria, gli ammassi obbligatori dei prodotti agrari, difficili da applicare ad un numero sterminato di piccole aziende.” (81) Risultato finale, secondo Pagliari, dell’ordinamento kolkoziano è un ritorno puro e semplice alla situazione precedente, non solo alla Rivoluzione russa, ma allo stesso Stolypin (82). “Coi Kolkhoz si ritorna al punto di partenza, dal quale si era mossa la riforma di Stolypin, ma in senso opposto e riprendendo e potenziando la tradizione nazionale. Anziché far sparire il ‘Mir’ per sostituire la proprietà e la conduzione individuale, lo si trasforma ora col costituirlo in collettività produttiva, in un ‘Artel’ per l’esecuzione dell’agricoltura con mezzi comuni di produzione e con lavoro collettivo.”(83) ‘Ritorno alla situazione precedente’ che può significare tutto sommato due cose: ritorno alle ataviche comunità di villaggio – il Mir – dove il possesso delle terre era comune e il lavoro sui campi si svolgeva pure in comune Ritorno al vecchio sistema feudale delle corvée, con la differenza che ai grandi proprietari feudali si sostituì lo stato. Molto significativa ai fini della tesi che noi stiamo tentando di mostrare (la ripresa e lo sviluppo nel campo socialdemocratico della teoria del collettivismo burocratico) è un’altra idea contenuta nell’articolo di Pagliari: l’affermazione cioè che fu solo a partire dalla collettivizzazione delle terre (e, per converso , come vedremo successivamente, dalla pianificazione del rapido sviluppo industriale del paese) che la burocrazia cresce a dismisura e diventa la dirigente effettiva dell’attività economica dell’intero paese: “Il fenomeno dell’elefantiasi burocratica tanto nell’industria quanto nell’agricoltura si è fatto conseguentemente più generale nel nuovo ciclo … la burocrazia è diventata nel frattempo un fattore molto potente.” (84) Quindi: collettivismo sì, dice Pagliari, ma burocratico. Molto interessanti per le tesi in esse sviluppate sono pure due articoli pubblicati dall’Umanità nel 1948 e firmati con due sigle I.S. e S.Q. (85) Cominciamo l’analisi dell’articolo I.S, ‘Feudalesimo di stato nei kolkhoz sovietici’. L’autore apre la sua analisi con l’affermazione ormai costante che i kolkhoz furono creati per un motivo fondamentale: “essere anzitutto strumenti per la raccolta dei prodotti agricoli “. Lo stato sovietico domina così in modo completo, autoritario e totalitario l’economia contadina anche grazie ad un apparato molto esteso di funzionari che controllano e dispongono affinché gli ordini del governo, in materia di consegna dei prodotti agricoli, siano rispettati ed eseguiti. Che …

LAVORO FORZATO, MILITARIZZAZIONE DEL LAVORO E STATO TOTALITARIO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO b) Lavoro forzato, militarizzazione del lavoro e stato totalitario Il lavoro forzato in Unione Sovietica ha una data di nascita precisa: l’anno 1929, l’anno dell’industrializzazione del paese e della collettivizzazione forzata. Come già abbiamo visto a proposito dei sindacati, quell’anno rappresentò la pietra miliare dello sviluppo dello Stato sovietico in senso totalitario e dittatoriale. L’esistenza del lavoro forzato è per gli autori socialdemocratici uno degli argomenti più adatti alla dimostrazione dell’assoluto e totale controllo statale sulla società civile e del brutale sfruttamento operato ai danni di tutta la classe lavoratrice da parte della ristretta classe di burocrati che controlla le leve di potere dello Stato. Lo stato, che si è già impadronito degli organi di difesa dei lavoratori (i sindacati furono in quegli anni trasformati in strumenti ed organi del dominio statale) si impadronisce ora, attraverso la coazione al lavoro, anche dal singolo lavoratore, privato di qualsiasi possibile libertà: in una parola viene reso schiavo. Ed è questo un motivo costante degli articoli socialdemocratici a questo riguardo: con l’estensione formidabile del lavoro forzato a livelli tali da fare impallidire gli imperatori egiziani ed assiro-babilonesi (58), lo stato russo mostra chiaramente il suo carattere regressivo: non ad una società socialista ha dato origine la Rivoluzione di Ottobre, ma ad una società schiavistica pura in cui lo stato non solo possiede la proprietà dei mezzi di produzione ma anche il lavoro umano. E, per dimostrare che questo non è un giudizio valido solo per i lavoratori dei campi di lavoro forzato, ma estendibile facilmente a tutta la massa dei lavoratori, anche a quelli presunti ‘liberi’, gli autori socialdemocratici si sforzano di dimostrare come solo una leggera linea di demarcazione e non un fossato divida un tipo di lavoro (quello forzato) dall’altro (quello presunto libero), in quanto da una parte il lavoratore ‘libero’ può facilmente e per un nonnulla (semplice ritardo sul lavoro, delle minime rivolte contro i capi e regolamenti, eccetera) cambiare stato e diventare di conseguenza un ‘forzato’; dall’altra non esiste propriamente un tipo di lavoratore ‘libero’, perché questi, anche se non era recluso nei campi di lavoro, deve sottostare ad una disciplina di lavoro tale (impossibilità di cambiare posto di lavoro, rispetto della norma di produzione, eccetera) che la sua posizione non differisce di molto da quella dei ‘forzati’. A parere, quindi, dei socialdemocratici il concetto di schiavismo non si limita ad abbracciare i rinchiusi dal filo spinato, ma aleggia con le sue tenebrose propaggini su tutta la società civile, sottomessa alla tirannia della classe burocratica statale. Ma vediamo di analizzare e scomporre i vari elementi, prendendo in esame gli articoli dedicati all’argomento (59). L’articolo più completo e quello apparso su Critica sociale del 16 marzo 1948 firmato R.K. (60). Per l’autore l’esistenza, l’estensione, l’importanza del lavoro forzato come uno dei “decisivi fondamenti del sistema del regime economico e politico dell’Unione Sovietica” (61) è la riprova, contro chi ancora osasse negarlo, che dalla rivoluzione del 1917 è nato uno stato dittatoriale e totalitario (62). Seguiamo il percorso dell’articolo. Secondo lo scrittore il lavoro forzato divenne una parte sempre più importante del processo di industrializzazione del paese, a partire dal 1929. La Russia, infatti, per sollevarsi dalle misere condizioni di arretratezza economica e tecnica in cui si trovava e per creare e sviluppare un gigantesco apparato industriale, aveva bisogno, in assenza di capitale disponibile all’interno e a causa dell’impossibilità di contrarre prestiti sul mercato internazionale, di poter disporre di lavoro a buon mercato. In una situazione economica caratterizzata inoltre dall’assenza non solo di capitali ma anche di macchine e in genere di qualsiasi attrezzatura meccanica di avanzata tecnologia, il governo sovietico trovò più facile ricorrere, dice R.K., al lavoro forzato per la costruzione di quelle opere indispensabili allo sviluppo industriale (ponti, canali, ferrovie, strade, eccetera). Il materiale umano necessario ai bisogni del regime dello Stato sovietico fu ritrovato facilmente tra i contadini refrattari alla collettivizzazione che andarono ad alimentare il numero dei prigionieri destinati a diventare dei lavoratori forzati. Il lavoro forzato ha tutte le caratteristiche del lavoro schiavistico, analogo, sostiene l’autore, “all’impiego del lavoro dei servi al tempo di Pietro il grande” per la costruzione di strade, canali o il prosciugamento di paludi. L’analogia tra i due regimi è fondata dall’autore oltre che sull’identità del fine da raggiungere anche su quella dei motivi che spinsero i due regimi a ricorrere al lavoro degli schiavi: la mancanza di macchine che, al posto dell’uomo, avrebbero risolto quei problemi; al tempo di Pietro il grande, infatti, esse non esistevano ancora e al tempo di Stalin non erano ancora a disposizione. Il lavoro forzato è analogo al lavoro schiavistico con una differenza: l’assenza della caratteristica di bassa produttività tipica del lavoro degli schiavi nelle epoche precedenti. Afferma infatti R.K., mentre lo schiavo nei sistemi basati sulla proprietà privata rappresentava un bene patrimoniale, donde derivava la necessità per il padrone di mantenerlo in vita, nella società totalitaria, caratterizzata dalla proprietà statale della nuova classe dominante, lo schiavo reclutato senza costi alcuni non crea il problema del suo mantenimento e non è cioè in poche parole un bene patrimoniale: “Mentre lo schiavo nella proprietà privata rappresentava un bene patrimoniale non altrettanto avviene nello stato schiavistico totalitario che può reclutarlo senza costi e farlo lavorare il più intensamente possibile sino alla morte. Come incentivo serviva la saturazione di una norma, di una prestazione minima che il lavoratore prigioniero deve raggiungere per non essere lasciato morire di fame …. Il livello di vita nei campi di concentramento venne sistematicamente tenuto al di sotto di quel livello che, secondo l’espressione di Marx, è necessario alla riproduzione della forza lavoro.” (63) Al diritto di proprietà sul singolo si è sostituito quello sulla collettività (64). Interessante è anche l’analogia che …

I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO Passiamo ora ad analizzare il pensiero socialdemocratico che si caratterizza per la ripresa integrale della teoria del ‘collettivismo burocratico’. Si invita a leggere questo pensiero in filigrana, alla luce della teoria di Rizzi. Il pensiero socialdemocratico si caratterizza per la definizione del regime sovietico nei termini del totalitarismo statale burocratico. Con questa esposizione voglio mostrare come socialdemocratici abbiamo individuato in tutti gli aspetti della società sovietica, i sindacati, il lavoro forzato, la collettivizzazione agricola, la pianificazione economica, lo stato, la piena realizzazione di quel modello da loro definito totalitario e burocratico. a) Sindacato e stato totalitario Tutti gli articoli dei socialdemocratici inerenti al problema dei sindacati si fondano su un comune denominatore: la dimostrazione che l’assoggettamento brutale dei sindacati allo stato sovietico evidenza la natura assolutamente totalitaria e antidemocratica del regime bolscevico. I sindacati divennero nel tempo non più i rappresentanti degli interessi dei lavoratori i loro portavoce, ma i rappresentanti e portavoce degli interessi della classe burocratica sfruttatrice che si è identificata con lo stato totalitario sovietico. Aumentare la produzione, rafforzare la disciplina del lavoro opprimendo la classe operaia, reprimere ogni tentativo di protesta dei lavoratori stessi: questi sono diventati, a detta dell’autori socialdemocratici, i compiti e le funzioni dei sindacati sovietici. Lo stato totalitario dispotico si fonda sul controllo assoluto di tutti gli aspetti e di tutte le istanze della società civile: ai sindacati non fu permesso di conservare il loro carattere conflittuale classico, loro proprio in tutti gli Stati democratici, essi diventarono una propaggine, un puro meccanismo di trasmissione degli ordini della classe burocratica dittatoriale che sta ai vertici dello Stato. La loro composizione non fu più quindi liberamente scelta dalle assemblee dei lavoratori, ma imposta antidemocraticamente dall’alto e formata da funzionari dello Stato, burocrati anch’essi che difendono il loro interesse e quello della loro classe, imponendo un regime di feroce sfruttamento ai lavoratori superiore senz’altro a quello subito dei loro fratelli occidentali. Analizziamo in modo particolareggiato il pensiero socialdemocratico a questo proposito: cominciamo la nostra analisi con l’autore che più di tutti gli altri ha dedicato la sua attenzione al problema del sindacato sovietico, Fausto Pagliari (27). Pagliari tratteggia, analizza la storia dei sindacati russi dagli inizi della rivoluzione fino ai piani quinquennali, per ricavare gli elementi che sostengano la sua tesi: il sindacato da organo di difesa degli interessi operai si è trasformato in organo burocratico di oppressione dei lavoratori. Vediamo con ordine: gli inizi (1917-1918). II periodo degli inizi è caratterizzato dalla conquista operaia delle officine e dalla contesa tra i consigli di fabbrica, organi degli operai, e i sindacati. L’argomento della contesa, sostiene Pagliari, era questo: permette la gestione diretta delle officine da parte degli stessi operai e riconosce l’autonomia dei consigli di fabbrica; oppure limitare i compiti dei consigli solo al controllo dell’operato dei direttori e subordinarli alle strutture sindacali, trasformandoli in loro organi periferici. Pagliari parte da lontano, prendendo in esame le posizioni di Lenin prima della Rivoluzione di Ottobre: Lenin allora era assolutamente contrario ad una completa statizzazione di tutte le industrie e alla gestione diretta di queste da parte delle maestranze e dei loro organi, i consigli di fabbrica; era infatti consapevole, da una parte, dei limiti delle conoscenze tecniche ed amministrative dei lavoratori russi e quindi della necessità di un periodo di apprendistato presso tecnici ed esperti borghesi e, dall’altra, della necessità che le industrie fossero dirette ancora da vecchi capitalisti, seppur centralizzate e razionalizzate dello Stato proletario. Gli avvenimenti presero però una piega ben diversa e opposta a quella auspicata dal capo bolscevico: gli operai occuparono le fabbriche, cacciarono i tecnici direttori e rivendicarono la gestione operaia diretta della produzione. In questo frangente si rese necessario un compromesso tra le forze in gioco: i comitati d’impresa, i sindacati che volevano subordinare i comitati, riducendoli a sezioni periferiche dell’organizzazione e lo stato sovietico, o meglio il partito. Nel tratteggiare lo sviluppo delle fasi di questa trattativa, di importanza fondamentale per il futuro della rivoluzione, Pagliari si rifà quasi testualmente ad uno scritto di Didier Limon apparso nell’agosto 1946 su Revue internazionale. (28) Più precisamente il Limon sostiene: “Il socialismo non si creerà grazie a degli ordini piovuti dall’alto. Esso è estraneo all’automatismo ufficiale e burocratico. Il socialismo vivente, creatore, è opera delle masse stesse. E con questo spirito e perfettamente cosciente delle condizioni soggettive dell’insieme del movimento operaio russo come delle possibilità oggettive della situazione economica che Lenin stenderà il suo progetto di decreto sul controllo operaio. “ (29) e più avanti: “Secondo questo progetto, i comitati di fabbrica furono soddisfatti nell’essenziale, soprattutto nell’ottavo punto che lasciava loro tutta l’iniziativa. Questo indicava a sufficienza che Lenin non aveva assolutamente intenzione, contrariamente a quanto avrebbe invece desiderato Riazanov, di imporre loro il controllo del governo. Ma, allo stesso tempo, il quinto punto, conferendo ai sindacati la possibilità di un arbitraggio, offriva a questi un prezioso diritto di controllo sull’attività generale dei comitati. “ (30) Questo progetto di Lenin scontenta sindacati, per cui viene rimodificato e approvato il nuovo testo, ora definitivo, il 15 novembre 1917 (31), ma questo nuovo decreto crea una situazione contraddittoria, di dualismo di poteri, tra sindacati e consigli. Sempre il Limon: “nella misura in cui il decreto legalizzava l’esistenza di un ufficio panrusso dei comitati di fabbrica, si permise che accanto all’organismo piramidale del controllo operaio si erigesse un’altra piramide necessariamente concorrente, quella dei comitati di fabbrica …. Il decreto generò uno stato virtuale di dualità di poteri tra la struttura dei comitati di fabbrica e quella del controllo operaio ufficiale. In verità il decreto del 14 novembre non era stato accettato dai delegati dei comitati di fabbrica che come un fatto puramente formale, e essi non tarderanno a provarlo. Le due parti restarono …

IL COLLETTIVISMO BUROCRATICO

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979   PARTE PRIMA BRUNO RIZZI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO Non ci si può occupare della teoria del collettivismo burocratico elaborata dai socialdemocratici, senza occuparci dell’opera dell’italiano Bruno Rizzi, del suo libro “La bureaucratisation du mond” (1); il libro, anche se datato 1930 – Parigi, rientra nel periodo esaminato per tre ragioni fondamentali. 1 – Rizzi fu, per unanime riconoscimento storico, colui che definì la struttura di quella teoria che col nome di collettivismo burocratico, o con altre espressioni, sarà ripresa in seguito da vari studiosi (Burnham, Gilas, ecc.). 2 – Rizzi ebbe un’influenza, anche se indiretta, sul pensiero socialdemocratico degli anni ’40, come vedremo in seguito. Saragat abbracciò interamente la teoria di Rizzi a partire dal gennaio 1940, cioè solo pochi mesi dopo la data di pubblicazione del libro. L’influenza di Rizzi su Saragat, anche se non è riconosciuta apertamente dal leader socialdemocratico, è, come mostreremo, evidente e profonda, tale da non lasciare alcun dubbio. Non si può nemmeno dubitare che, col tramite di Saragat, la teoria di Rizzi influenzò gran parte di quei pensatori socialisti che dettero vita, dopo la scissione del 1947, al partito socialdemocratico. 3 – L’ultimo motivo che mi ha spinto a collocare il pensiero di Rizzi all’inizio di questa prima parte del lavoro è una ragione di utilità. La conoscenza del suo pensiero e dei punti fondamentali della sua teoria ci permette di ritrovare più facilmente le tematiche riprese dagli autori socialdemocratici, ci permette di leggere in filigrana il pensiero riformista alla luce delle sue argomentazioni, cosa che ci tornerà utile quando ci dedicheremo alla ricerca delle fonti del pensiero socialdemocratico. La teoria di Rizzi parte dalla constatazione che, con la collettivizzazione delle terre e con l’industrializzazione del paese, i funzionari statali di partito scalzarono il potere dei lavoratori e diventarono i monopolizzatori dello Stato. La Russia in tal modo si trovò in una situazione in cui tutta la vita economica e politica del paese era monopolizzata dalla burocrazia; burocrazia i cui componenti erano funzionari statali, tecnici, poliziotti, ufficiali, giornalisti, scrittori, mandarini sindacali e tutti i componenti del partito comunista (2). Questa burocrazia aveva ormai costituito una classe nel senso marxista del termine, cioè fondata sulla proprietà dei mezzi di produzione. L’elemento che la distingueva dalla classe capitalista borghese era il carattere di questa proprietà: non più privata, ma collettiva. Questa, in parole povere, l’idea centrale formulata da Rizzi. Rizzi era partito da una critica al pensiero di Trotzki, alle cui teorizzazioni fu peraltro vicino nel periodo che precedette il 1939. Nel suo libro “Dove va l’URSS” del 1937 (3) le argomentazioni sono ancora quasi perfettamente iscrivibili nel quadro teorico tipico del trotskismo: la burocrazia è definita casta e non ancora classe(4); essa viene criticata per la parte del leone giocata nel campo della distribuzione e non ancora in quello della produzione (5); erano giudicati ancora elementi socialisti l’industria nazionalizzata, il monopolio del commercio estero, il funzionamento del commercio interno, i sovkhoz, definiti aziende economiche a carattere socialista (secondo il trotskismo più cristallino). Il carattere di casta della burocrazia, l’enorme parte di reddito nazionale da essa consumato e infine il carattere operaio dalle nazionalizzazioni costituivano gli elementi base del pensiero del trotskismo a proposito dell’Urss. Rizzi, nel 1937, era con lui, se pur con un cruccio, che si rivelerà fondamentale nel 1939. Riportiamo fedelmente: “Le forze produttive si svilupparono incontestabilmente nell‘Urss ma è in gestazione una classe privilegiata che se ne accaparra sempre di più i prodotti. Questo gioco non può durare all’infinito. Dall’appropriazione dei prodotti, per renderla stabile, si dovrà passare ai mezzi di produzione.” (6) Che cosa era in gestazione? Il concetto fondamentale del suo nuovo libro: la burocrazia è una classe che possiede collettivamente i mezzi di produzione: “Negli effetti esiste in Russia una classe sfruttatrice che tiene in mano i mezzi di produzione e si contiene esattamente come una proprietaria di questi. Il suo possesso non è frazionato tra i suoi componenti ma, questi ultimi in blocco, come classe, sono i reali possessori della proprietà ‘nazionalizzata’ ….. La proprietà privata è diventata collettiva, ma di classe; in modo diverso noi non sapremmo definire questa proprietà nazionale che non è di tutti, questa proprietà che non è borgese, né proletaria, che non è privata, ma che non è neanche socialista” (7) Questa tesi rifiuta, com’è evidente, il concerto trozkista di casta, riferito alla burocrazia che basa il suo privilegio sull’appropriazione di una grande fetta del reddito nazionale. I conti con Trotzky vengono chiusi anche in riferimento all’altro problema, quello delle nazionalizzazioni e della pianificazione dell’economia. Esse non sono, come pensa Trotzki, realizzazioni della dittatura del proletariato, ma strumenti del dominio di classe della burocrazia statale. La proprietà statale dei mezzi di produzione, la nazionalizzazione assicurano alla burocrazia, che si è identificata con lo stato proprietario, la proprietà di tali mezzi e la pianificazione diventa quindi lo strumento attraverso il quale questo diritto di proprietà si esercita. Attraverso il piano la burocrazia fissa fin quasi nei minimi particolari tutti gli aspetti della produzione (che cosa si deve produrre, in quali quantità, ecc.) e quelli della distribuzione (salari, prezzi di vendita dei prodotti, ecc.) (8). Ne segue necessariamente che lo sfruttamento non è scomparso, ma si trasforma esso stesso, come la proprietà, da individuale a collettiva: “si tratta di una classe in blocco che ne sfrutta un’altra” (9) per cui il plusvalore che continua ad esistere nella Russia sovietica (10), data la permanenza dello sfruttamento del lavoro umano, non viene accaparrato direttamente, come nel caso del capitalista singolo che incassa i profitti della sua azienda, ma indirettamente cioè attraverso lo stato che incamera tutto il plusvalore nazionale per poi ripartirlo ai suoi stessi funzionari. E questo plusvalore viene estorto “ai produttori diretti con una colossale maggiorazione delle spese generali delle aziende nazionalizzate” …

“IL DIBATTITO SULLA NATURA SOCIALE DELL’UNIONE SOVIETICA ALL’INTERNO DELLA SINISTRA ITALIANA (1943 – 1948)”

IL DIBATTITO SULLA NATURA SOCIALE DELL’UNIONE SOVIETICA ALL’INTERNO DELLA SINISTRA ITALIANA (1943 – 1948) PARTE PRIMA INTRODUZIONE IL COLLETTIVISMO BUROCRATICO I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO LAVORO FORZATO, MILITARIZZAZIONE DEL LAVORO E STATO TOTALITARIO COLLETTIVIZZAZIONE AGRICOLA E STATO TOTALITARIO PIANIFICAZIONE, INDUSTRIALIZZAZIONE E STATO TOTALITARIO NATURA DELLO STATO SOVIETICO, CLASSE DIRIGENTE E STRUMENTI DI DOMINIO FONTI DEL PENSIERO SOCIALDEMOCRATICO (Osservazioni) CONTINUITA’ E SVILUPPI DEL PENSIERO SOCIALDEMOCRATICO SULL’UNIONE SOVIETICA GLI ANARCHICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO ANTICIPAZIONI ANARCHICHE DELLA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO E CONSEGUENZE TEORICHE E PRATICHE NEL CAMPO SOCIALDEMOCRATICO INCIDENZA DEL PENSIERO ANARCHICO SU QUELLO SOCIALDEMOCRATICO CRAXI – MARX – PROUDHON CONCLUSIONI, CRITICHE E VALUTAZIONI COMPLESSIVE DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO IL DIBATTITO SULLA NATURA SOCIALE DELL’UNIONE SOVIETICA ALL’INTERNO DELLA SINISTRA ITALIANA (1943 – 1948) PARTE SECONDA I BORDIGHISTI E LA TEORIA DEL CAPITALISMO DI STATO CRITICHE ALLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’ ORIGINE E FORTUNA DELLA TEORIA DEL ‘CAPITALISMO DI STATO’ IL DIBATTITO SULLA NATURA SOCIALE DELL’UNIONE SOVIETICA ALL’INTERNO DELLA SINISTRA ITALIANA (1943 – 1948) PARTE TERZA SOCIALISMO REALIZZATO 1 – Collettivizzazione agricola e socialismo 2 – Industrializzazione e socialismo 3 – Pianificazione dell’economia e socialismo 4 – Massima democrazia nel sistema socialista sovietico ● OSSERVAZIONI CRITICHE IL DIBATTITO SULLA NATURA SOCIALE DELL’UNIONE SOVIETICA ALL’INTERNO DELLA SINISTRA ITALIANA (1943 – 1948) PARTE QUARTA STATO OPERAIO DEGENERATO e STATO SOCIALISTA IMPERFETTO I TROTZKISTI E LO STATO OPERAIO DEGENERATO IL PENSIERO SOCIALISTA E LO STATO SOCIALISTA IMPERFETTO OSSERVAZIONI CONCLUSIONI SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

“IL DIBATTITO SULLA NATURA SOCIALE DELL’UNIONE SOVIETICA ALL’INTERNO DELLA SINISTRA ITALIANA (1943 – 1948)”

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA “Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)” RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343 ANNO ACCADEMICO 1978-1979 INTRODUZIONE L’oggetto di questa ricerca è delimitato nel tempo, nello spazio e nel contenuto. Gli anni 1940 e 1948 aprono e chiudono rispettivamente il tempo e i partiti della sinistra italiana ne occupano lo spazio. I giudizi da questi espressi sulla natura sociale dell’Unione sovietica costituiscono il contenuto delle pagine seguenti. L’esame particolareggiato delle analisi svolte all’interno del campo da sinistra italiana nei primi anni del dopoguerra sul modello sovietico riveste una duplice importanza. In quegli anni le forze della sinistra italiana (soprattutto i partiti maggiori PCI, PSI) erano attraversate da fermenti, da spinte contrastanti e contraddittorie. Accanto alla spinta all’unità condensatasi nel patto di unità d’azione e proseguita poi nella formazione del Fronte Popolare, ritroviamo anche la spinta alla divisione che raggiunse l’acme nel 1947, con la scissione socialista di palazzo Barberini, da cui nacque il partito socialdemocratico, il PSLI. La comprensione di questo periodo è ancora un problema storicamente aperto. Il giudizio che allora i vari partiti pronunciarono sul sistema politico economico sovietico costituisce un interessante argomento di analisi delle differenti posizioni teoriche e dagli abissi che si erano aperti tra le varie forze politiche della sinistra italiana. Il concordare pienamente col sistema sovietico o il criticarlo sottintendeva concezioni del socialismo notevolmente differenti. Il criticarlo in un modo in un altro non generava differenze minori per quanto atteneva al modello di socialismo che si intendeva realizzare. Dobbiamo quindi prestare molta attenzione a quanto allora si disse a favore o contro l’esperimento bolscevico, perché quell’argomento raccoglie, condensandole, le differenti linee politiche e le differenti ideologie che dividevano la sinistra. Molti avvenimenti che siamo stati abituati a considerare da parte di una certa storiografia molto schematica di ‘sinistra’ sotto una determinata luce si trasformano e cambiano quasi del tutto il loro segno. Un esempio: la scissione socialdemocratica del 1947 è stata presentata come preparata, gestita, finanziata e portata a termine da forze che si trovavano al di fuori del socialismo, in particolare da parte del capitalismo americano, dei circoli reazionari e conservatori interni. Anche se non prive di fondamento quelle analisi, a me sembra che il PSLI avesse mille e una ragione per passare allora il Rubicone della scissione. I motivi, le ragioni di quella scissione sono tutti interni alla linea politica, all’ideologia, alla concezione di socialismo che i socialdemocratici allora avevano elaborato. Le pagine seguenti ci mostreranno infatti che la critica socialdemocratica al modello sovietico non si limitava solo ad alcuni aspetti della realtà politico economica, ad alcune degenerazioni o deviazioni dal modello socialista , ma implicava, in sostanza, una critica globale ad una concezione del mondo che aveva i suoi principi base nella statizzazione dei mezzi di produzione, nella sostituzione del mercato con la pianificazione centralizzata dell’economia, nella dittatura del proletariato poggiante sul partito unico, nella collettivizzazione delle terre. Il modello sovietico viene quindi definito totalitario ed antisocialista. Era evidente che l’accettazione o il rifiuto del modello bolscevico implicava, come dicevo, una diversa concezione del socialismo. La scissione si imponeva quindi nel campo socialista senza bisogno di interventi esterni. Ciò che i socialdemocratici dissero in quegli anni sull’Unione Sovietica non era, a mio modo di vedere, una fantasia e non si riduceva ad una pura mossa tattica, utile a creare surrettiziamente delle differenziazioni ideologiche nel campo socialista, al fine di motivare la scissione. Si trattava di qualcosa di molto più profondo: la critica socialdemocratica all’esperienza russa riprendeva infatti una teoria nata verso la fine degli anni ’30 che definiva l’URSS un paese caratterizzato dal collettivismo burocratico e dal totalitarismo statale, la cui paternità può essere attribuita, come vedremo, ai padri del pensiero anarchico dell’Ottocento. Questa teoria ebbe in seguito molta fortuna nel campo socialista, tant’è vero che attualmente anche Craxi la riprende e la sottoscrive. Si tratta quindi di qualcosa di molto profondo, che segna ed ha segnato il campo della sinistra italiana. Ho dedicato tanto spazio all’analisi del pensiero che sosteneva la teoria del collettivismo burocratico anche perché a mio parere è quella che meglio di tutte le altre ha definito e compreso il modello sovietico. I quattro modelli di giudizio espressi allora dalle forze politiche della sinistra italiana non sono stati tuttora abbandonati e costituiscono ancora degli argomenti validi, utili per definire l’esperimento sovietico. Forse l’unica teoria che è stata abbandonata è quella elaborata dai comunisti che esaltava in modo del tutto acritico l’esperimento bolscevico. La prima di queste teorie è quella che giudica l’Unione sovietica un sistema di tipo collettivistico burocratico. Era sostenuta allora dai socialdemocratici e dagli anarchici. La seconda per importanza è quella che definisce il sistema politico economico dell’Urss capitalismo di Stato. È sostenuta dai bordighisti, ossia da parte di quei comunisti che dopo il 1930 costituirono la corrente politica conosciuta con il nome di Sinistra comunista, il cui capo carismatico, anche se involontario, era appunto Amadeo Bordiga. Se lo spazio ad essa dedicato è minore di quello dedicato alla teoria precedente ciò è dovuto a due fattori: il primo oggettivo, essa non ha avuto un impatto profondo sul tessuto dei partiti, non ha cioè avuto quella funzione di polo catalizzatore che al contrario la teoria del collettivismo burocratico aveva svolto. Il secondo motivo più importante è legato alla mancanza di strumenti: riviste, giornali attraverso i quali propagandare il loro pensiero. Prometeo, la rivista mensile del partito comunista internazionalista, è infatti una rivista limitata in quanto a numero di pagine ed esce a scadenza trimestrale. Battaglia comunista, il giornale del partito, interrompe ogni tanto le pubblicazioni ed è a scadenza quindicinale. La scarsa quantità non va certo a detrimento della qualità: in pochi articoli i bordighisti sono riusciti ad esprimere compiutamente ed in modo pregevole il loro pensiero. La terza posizione di cui ci occuperemo è quella che esalta il regime sovietico come la più perfetta ed integrale realizzazione del socialismo. Ci …

IL RAPPORTO CON RONALD REAGAN

LUISS GUIDO CALVI – LIBERA UNIVERSITA’ INTERNAZIONALE DEGLI STUDI SOCIALI DIPARTIMENTO di Scienze Politiche Cattedra di Teoria e storia dei movimenti e dei partiti politici LA POLITICA ESTERA DI BETTINO CRAXI NEL MEDITERRANEO: DALLA SEGRETERIA AL GOVERNO Tesi di: Benedetta Bassetti Matr. n. 068302 Relatore Prof. Vera Capperucci ANNO ACCADEMICO 2012-2013   CAPITOLO QUINTO Il rapporto con Ronald Reagan Lo “strappo” di Sigonella non creò conseguenza nel rapporto con Ronald Reagan che inviò una lettera al leader italiano per assicurarlo che la sua decisione era stata compresa e che gli Stati Uniti erano pronti a cooperare per una soluzione di pace per la causa palestinese. La lettera conteneva un invito. La sera del 4 Marzo1985 Craxi era sul DC9 della presidenza USA diretto a Washington, dopo una breve intensa tappa a New York. Il viaggio doveva consacrare la definitiva accettazione americana della “specificità socialista” del Presidente del Consiglio. Washington era pronta ad accordare fiducia a un capo di governo, inizialmente accolta con curiosità, pur se accompagnata da una sia pur celata riserva. Egli veniva visto come la guida più affidabile per un alleato stretto anche se esso continuava a essere considerato, a un tempo, un Paese importante ma anche fragile. Il primo colloquio fu con Henry Kissinger che non desistette dal pronunciare la sua famosa battuta sui mille volti dell’Europa, tornando a sottolineare l’imbarazzo dei responsabili americani di fronte alla necessità di scegliere a chi telefonare per condividere una valutazione o addirittura prendere una decisione importante. Craxi riconobbe le titubanze europee a condividere i rischi di ordine militare ma non rinunciò a restituire il colpo osservando che in qualche occasione gli Stati Uniti si comportavano non da “risk takers” ma piuttosto da “trouble makers”. E aggiunse che in tema di sicurezza le colpe non stavano solo da una parte, giacché, nelle analisi, spesso venivano sottovalutati gli strumenti del soft power cui egli era particolarmente sensibile perché più congeniali all’interessi dell’Italia e ai suoi strumenti di interventi. Sui temi economici, in un vivace dialogo con i grandi della finanza mondiale lì presenti, le cose andarono meglio e la visione di Craxi in tema di condivisione della responsabilità collettiva apparve più facilmente recepita. Egli, in sintesi affermò che nessuno poteva sottrarsi ai doveri di solidarietà, nel sostegno all’economia americana, poiché l’Europa non poteva negare di essersi rialzata dalle devastazioni della seconda guerra mondiale grazie al generoso aiuto degli Stati Uniti, e tuttavia, questo doveva avvenire in un clima di solidarietà attiva e ben equilibrata, poiché era importante che tutti partecipassero agli sforzi per salvaguardare la stabilità del sistema in proporzione al ruolo svolto nel contesto mondiale ma anche ai benefici tratti. La posizione di cui Craxi intendeva farsi portatore anche in considerazione del ruolo di Presidente di turno della CEE era quello dei Governi Europei che giudicavano ci fosse da parte americana una sottovalutazione dei rischi che le forti oscillazioni del dollaro, e in particolare il suo ribasso costante, provocavano nel mercato dei cambi e di conseguenza nella realtà della finanza e dell’economia. Craxi aveva approfondito, da tempo e con ampiezza, questo argomento in particolare da quando aveva iniziato a seguire il problema del misconoscimento europeo, e francese, in particolare, circa l’ampiezza e la continuità degli interventi garantisti della Banca d’Italia a sostegno del corso del dollaro. La visita proseguì bene, da numerose personalità americane giunsero giudizi positivi su quel Presidente del Consiglio “così poco simile allo standard dei politici italiani”. Il giorno seguente Craxi avrebbe parlato di fronte al Congresso americano. 5.1 La questione cilena Nel pomeriggio, l’Ambasciatore italiano a Washington, Rinaldo Petrignani, avvicinò i consiglieri di Craxi: aveva letto in via confidenziale, per farlo tradurre, il discorso che Craxi avrebbe pronunciato di fronte al congresso. E, deciso a prevenire qualsiasi turbativa all’atmosfera di grande condivisione che Washington aveva riservato alla visita di Craxi, ammonì i due consiglieri confidando che al Dipartimento di Stato non era piaciuto il passaggio dell’invocazione della democrazia per il Cile. Craxi non prese neanche in considerazione l’ipotesi di cambiare il suo discorso.49 Era amico degli Stati Uniti e li  voleva vedere a fianco della risorgente democrazia in America Latina. Craxi fu il primo democratico europeo, inviato dell’Internazionale Socialista, a volare in Cile, nei giorni immediatamente successivi al golpe messo in atto da Pinochet e che portò all’assassinio di Allende. Poteva Craxi che si era sempre battuto per l’affermazione della libertà di tutti i popoli dimenticare a mettere in un cassetto i principi di una vita? Craxi parlò di fronte al Congresso degli Stati Uniti, dopo De Gasperi era il secondo Presidente del Consiglio italiano a cui era dato l’onore di parlare di fronte al congresso degli Stati Uniti; non dimenticò in quell’occasione di parlare delle tragedie del popolo cileno. Ricorda Antonio Ghirelli: << Il pensiero della dittatura di Pinochet è stato costante nella politica estera di Craxi. Quando siamo andati da Reagan per la prima volta, a un certo punto il Presidente Craxi gli chiese “Ma che intenzione avete di fare con Pinochet?” e Reagan disse: “Perché secondo le si potrebbero fare le elezioni?”; Craxi rispose “Le elezioni politiche no, ma c’è un uomo, che è l’uomo del Cardinale, si chiama Frei, a cui il Generale Pinochet non può dire di no.” Reagan chiese a Craxi: “E allora?” e Craxi disse “E allora se si fanno le elezioni presidenziali, Frei vince ed è un primo passo verso la fine di Pinochet.” Reagan non rispose nulla, ma pochi anni dopo Frei era Presidente del Cile.>>50 5.2 Reagan I colloqui con il presidente Reagan, seguiti da una colazione, andarono per il verso giusto. Craxi pose l’accento sul fatto che l’Europa e l’Italia potevano svolgere un ruolo utile per contrastare il clima di ostilità nelle relazioni Est-Ovest e che forse era giunto il momento di provare, attraverso forme accresciute di cooperazione economica, a incrinare la saldezza del legame tra l’URSS e i paesi satelliti. Craxi, poi chiese con franchezza a Reagan di convincere Peres a guardare con meno pregiudizi l’azione dell’OLP, premiando in qualche modo Arafat per i …