SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE SESTA)

Se un extra terrestre atterrasse sulla terra farebbe fatica a districarsi tra le divergenti opinioni che sono espresse sul coinvolgimento del mondo intero nella guerra di aggressione russa all’Ucraina. Naturalmente dovrebbe trattarsi di un extra terrestre vero, non, secondo la sarcastica definizione di Craxi, di uno pseudo alieno che si professa abitante della luna per nascondersi alla verità del mondo in cui è vissuto. Il nostro autentico extraterrestre, buono per natura, non taccerebbe gli umani bipedi di follia, a causa di analisi sovente conflittualmente illogiche e spesso anacroniste, ma, per districare la matassa, si appellerebbe alla casualità e, poverino, sbaglierebbe anche lui perché non c’è stato niente di casuale, né di diabolico, nella aggressione russa causata da molteplici ragioni, ma sostanzialmente dalle conseguenze della irrisolta crisi evidenziata dalla implosione del comunismo e dalla dissoluzione dell’URSS, che avvennero contemporaneamente alla inarrestabile diffusione della rivoluzione sociale ed economica provocata dallo sviluppo dell’informatica e della telematica. Il tanto dolore, sangue, terrorismo, distruzione, criminalità perpetrati a danno di civili inermi durante l’”operazione speciale” non è stato, o per lo meno non lo è stato soltanto e prioritariamente, uno scontro di civiltà personificabile nella battaglia terminale tra paesi democratici e osservanti del diritto internazionale e paesi autocratici rivendicanti il diritto primordiale della forza e della capacità di esercitare violenza per imporla. Abbiamo sinora cercato di dimostrare che la rivendicazione di identità nazionale dell’Ucraina ha solide basi storiche; che diritto formale, diritto sostanziale. Trattati riconoscono nella sua integrità territoriale l’Ucraina quale Stato sovrano ed indipendente; che pur in presenza ed a causa di errori anche gravi degli Stati Uniti, della Germania, della Francia, in generale della UE, la Russia è stata progressivamente allertata con risoluzioni di condanna di organismi multilaterali- per ultimo la condanna ( per la prima volta) nell’Assemblea dell’ONU, il 26 aprile 2023, anche di Cina, India e Indonesia, Brasile, alla “aggression by the Russian Federation”- e con sanzioni sempre più mirate, legate al traversamento della linea rossa delimitata dalle ripetute violazioni del diritto internazionale e dei principi cardini ed universali regolamentati dalla Carta delle Nazioni Unite. Le sanzioni comminate dagli Stati Uniti, UE, stati occidentali, americani, asiatici, africani, dell’Oceania hanno causato danni alla Russia ben superiori a quelli attesi dal Cremlino ed in un tempo minore da quello immaginato dalle cancellerie occidentali, perché la situazione economica della Russia era ben più fragile di quella che una sapiente propaganda aveva diffuso nel variegato sistema economico e finanziario. Ricordiamo in molti, credo, che lo scorso anno si levarono critiche pesanti al governo Draghi, alla Francia, agli Stati Uniti, contro le sanzioni che sarebbero state o inutili o dannose per chi le avesse messe in pratica. Alla fine dello scorso febbraio il Centre for Economic Policy Research, la principale rete europea di ricercatori di politica economica, ha pubblicato un’analisi (facilmente consultabile sul sito web del Centro) che certifica con la firma di Benjamin Moll, macroeconomista della London School of Economics, che le “sanzioni sono state molto meno costose di quanto previsto da molti” e che “dovremmo fare molto di più”. Fortunatamente come leggeremo in seguito, di più non è stato fatto, ma lo studio incentrato sull’andamento del PIL negli ultimi tre anni tra Germania ( all’epoca energeticamente dipendente da Mosca) e la Russia, dimostra che l’unico grave turbamento dell’economia tedesca si riferisce al 2020 ed è imputabile agli effetti del Covid che provocarono un crollo seguito negli anni successivi da un rialzo, sicché già nel 2022 l’andamento della crescita era paragonabile a quello pre-pandemia, ad eccezione di un lieve -0,2% registrato nel quarto trimestre. Il paese più dipendente dal gas russo ha quindi registrato, nonostante il taglio delle forniture ed un momentaneo aumento del prezzo, un impatto del tutto marginale. Al contrario della Russia che ha subito un crollo nel 2020 per il Covid, altrettanto nel 2022 e sappiamo che sta ancora diminuendo il suo PIL nel 2023. Per essere più specifici, seguendo soltanto i documenti ufficiali russi e senza altrimenti doverose proiezioni nel 2022 per effetto delle sanzioni, il PIL è sceso del 5%, con un crollo della spesa aggregata dei consumatori del 7,5%. Moll ha ragione quando annota che l’approccio prudente del sistema sanzionatorio europeo, con particolare riguardo alle materie energetiche esportate dalla Russia, entrando in vigore in maniere prudenzialmente ritardata, hanno consentito al prezzo del gas russo di aumentare sensibilmente, finanziando così l’invasione e assorbendo al momento il trauma provocato dalle sanzioni. Tuttavia, proprio il metodo prudenziale ha impedito che la brutalità degli ultimi mesi non si dispiegasse anticipatamente, altro che guerra a bassa intensità, impedendo una diversa attenzione sino-indo-brasiliana alla crisi e scavando un fosso irreparabile tra un auspicato cessate il fuoco e il superamento della soglia nucleare, almeno tattica, in un conflitto generale. Le cifre in economia sono sempre interpretabili ed il buon senso invita a non creare con i numeri dei totem per loro natura indiscussi. Michail Vladimirovič Mišustin, il primo ministro del Governo russo, poco conosciuto all’estero perché molto attento a tenersi lontano dai riflettori, è in patria molto apprezzato per la gestione della crisi economica. Mišustin insiste molto per limitare a contingenze non strutturali il peggioramento dell’andamento economico, sottolineando che l’agenzia statistica statale (Rossstat), ha reso pubblico che in Russia il tasso di disoccupazione è sceso ai livelli del 1991, l’anno della dissoluzione dell’URSS. In soldoni, disoccupazione al 3,7% e 72,4 milioni di occupati. È una interpretazione corretta? Ecco le sanzioni applicate dalla UE e sostanzialmente dall’Occidente con l’infografica del Consiglio Europeo: Sanzioni che oggi, dispiegate a pieno regime, fanno comprendere le enormi difficoltà economiche della Russia, le cui riserve valutarie estere sono bloccate. Senza entrare in una elencazione dettagliata, a metà 2021 Mosca poteva contare su bond esteri, oggi inesigibili, pari a 222 miliardi, circa il 38% delle riserve; idem per i 142 miliardi, 24% del totale, in depositi presso controparti estere; 127 miliardi in oro, 21,7% del totale (fonte https:/www.econopoly.ilsole24ore.com 22 marzo 2022). Una cifra apparentemente da capogiro ma essenziale per partecipare in modo fluido al complesso sistema bancario e finanziario mondiale che regola l’import …

SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE QUINTA)

L’attenzione sociale, a tredici mesi dalla deflagrazione della guerra, ha disgraziatamente appannato il senso della tragedia generale, formata da tragedie individuali dei singoli “universi” racchiusi in ogni essere umano, perché si è cristallizzata in congetture su inalterabili identità collettive. Si è stratificata la divisione classica dell’analisi dei fatti con una copiosa immissione di “non” informazioni, sostanzialmente esogene alle ragioni storiche, sociali, economiche, religiose che hanno provocato la “lunga” guerra che si è infine esternata nella invasione russa dell’Ucraina. Viviamo “in diretta” gli effetti della comunicazione immediata e, per la stessa natura dei mezzi usati, forzatamente approssimata e sostanzialmente ambigua, secondo la quale è la comunicazione che produce realtà. Nel caso specifico la stessa comunicazione diventa parte integrante della guerra ibrida perché indirizza la competizione geostrategica. Gli effetti sono immediatamente visibili: Russia, Cina, Stati Uniti e stati membri dell’Unione Europea, Gran Bretagna, nonché Brasile, India, Ucraina ed altri ancora proiettano sui mezzi di comunicazione di massa un racconto che si pretende coerente alla relazione tra eventi, secondo schemi neo-ideologici che, nella loro molteplicità, non aiutano ad imboccare strade razionali per risolvere la crisi. Occorre fare attenzione a non confondere l’effetto dello stallo con il mezzo, considerato causa determinante. Non è responsabilità dei social media, dell’informazione radiotelevisiva continua, della trasformazione dei programmi di approfondimento in talk show frenetici, spasmodicamente alla ricerca di audience con smarriti “esperti” provenienti dalla Diplomazia, dalle Università, dalla riserva delle Forze Armate: generalmente ottimi professionisti chiamati a rispondere in manciate di minuti, spesso di secondi, a questioni complesse bisognose di adeguati riferimenti. Il corto circuito della comunicazione che diventa realtà alla fine incoraggia, secondo i vari punti di vista o interessi, ad una staticità delle opinioni che si congelano nella analisi geopolitica classica dei conflitti. Faccio un esempio. Alla mancata decomposizione critica, tipica della staticità dell’analisi geopolitica classica sul conflitto innestato dall’invasione russa dell’Ucraina, corrisponde la mancata attivazione di una memoria collettiva sui rischi del reiterato mancato rispetto del diritto internazionale. Vengono così generate false aspettative sulla durata del conflitto, sul suo allargamento, sulle future crisi economiche. “Bombardare” le popolazioni del pianeta con informazioni incongrue, inesatte o semplicemente inventate, significa partecipare incoscientemente ai conflitti. Continuare, ad esempio, a declamare con generoso ed indignato stupore, in alcuni editoriali, il vertiginoso aumento della spesa in armamenti quale causa e non effetto di una guerra genericamente definita mondiale, esclude le motivazioni materiali ed immateriali effettivamente determinanti nella genesi dei conflitti. Eppure, nella loro mobilità ed eterogeneità le élite centrali e periferiche degli stati interagiscono effettivamente nello sviluppo delle crisi, specialmente laddove il continuo richiamo al post-guerra fredda ed alla scomparsa, assieme alla errata concezione della fine della storia di Fukuyama, dell’“0rdine” globale, espresso dalle interrelazioni finanziarie e commerciali, esclude un realistico approccio geopolitico delle relazioni internazionali ed il perseguimento della pace. L’Ucraina ben dimostra che mal ricordare la Storia e sottovalutare l’evidenza dei singoli e molteplici interessi riduce le possibilità di soluzione dei conflitti ad un rapporto tra stati (magari classificati tra autocrati e democratici) da indirizzare difficoltosamente al compromesso diplomatico, all’appeasement. Ed infatti non si trova soluzione alla guerra, chiamata non guerra ma “operazione speciale”, se non suggerendo- in nome della sopravvivenza fisica degli occupati- che i vessati e la comunità internazionale accettino il dato di fatto che una potenza nucleare, in più “scudata” dal diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è per suo statico ed eterno status esonerata dal rispetto dagli obblighi del diritto internazionale perché portatrice dei benefici della forza. Così non si arriva da nessuna parte. Ricordo che immediatamente prima dell’inizio dell’invasione una inchiesta di Foreign policy rivelò che, contrariamente alla grande maggioranza degli Stati, delle loro diplomazie, degli Stati Maggiori, della Stampa, la maggioranza degli esperti (362) di relazioni internazionali interpellati, il 56% per la precisione, sostenne che l’invasione era probabile. Soltanto quarant’otto ore prima dell’ingresso delle truppe russe sul territorio ucraino l’intelligence anglo-americana notò l’ammassamento alle frontiere e lanciò l’allarme. Gli “esperti” di politica internazionale avevano usato la conoscenza della storia e delle crisi diverse dei due sistemi per leggere correttamente la realtà. A questi esperti “togati” aggiungo volentieri alcuni giornalisti di frontiera, tra i quali, uno per tutti, ricordo Fausto Biloslavo. Eppure, questa guerra durava da più di dieci anni prima dell’invasione. Abbiamo già, seppur sinteticamente, letto come il movimento indipendentista in Ucraina vanti una lunga storia, quanti errori e sottovalutazioni occidentali si siano susseguite dalla indipendenza del 1991 alla denuclearizzazione e al memorandum di Budapest; abbiamo avuto modo di osservare la faticosa desovietizzazione della Russia da Gorbačëv a Él’cin. La crisi dello spazio post sovietico , strettamente connesso a quello russo, trae anche origine dalla difficoltà di superare le contraddizioni ed i limiti del lento sviluppo economico conseguente al fallimento del comunismo, nonostante un’attitudine propositiva del sistema occidentale. Cambiando le usuali lenti potremmo cercare di leggere una progressione degli infausti avvenimenti non limitandoci esclusivamente allo spirito di potenza, al pur vero timore di accerchiamento, al bisogno di navigazione in acque non eternamente fredde, al richiamo identitario della “madre” Russia potenza militare, religiosa, culturale. Potremmo leggere la crisi con la più importante Repubblica ex sovietica, l’Ucraina, attraverso il fallimento della Comunità di stati indipendenti (CSI) ereditata nel 2000 da Putin, come causa importante tra le altre, dei due diversi destini scelti dalle diverse oligarchie sostenitrici dei governi di Mosca e di Kyiv. Sin dal 1994 l’Ucraina firmò, prima tra gli Stati dell’Europa centrorientale, un Accordo di partnership e collaborazione con l’Unione Europea, alla quale voleva legare il proprio sviluppo. La responsabilità della UE è nota: per un decennio, su pressione specialmente della Germania seguita dalla Francia, quell’Accordo fu lettera morta per non aggravare l’evidente crisi della Russia in rapporto ad uno stato che, comunque, si riteneva ancora partecipante all’area di influenza moscovita. I primi presidenti ucraini, Kravčuk e Kučma, appartenenti alla vecchia nomenklatura sovietica, pur barcamenandosi tra le esigenze del potente vicino e il vigoroso movimento nazionalista, preservarono il riconoscimento della inviolabilità dei confini; Kučma agì contro il movimento indipendentista della Crimea, sostenuto dai russi, ma trovò l’accordo sulla dislocazione della …

SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE QUARTA)

Nella settimana della Pasqua cattolica e cristiano riformata, della Pesach ebraica, nei giorni della Pasqua ortodossa, giustamente molto, a cominciare da papa Francesco, è stato propriamente detto attorno alla Pacem in terris. Io incontrai l’enciclica tanto tempo fa e continua ad accompagnarmi soprattutto in quest’anno di inusitata e feroce guerra. La Pace è, più che un obbiettivo razionale ed utile, una conquista ed una realizzazione dell’uomo; è anche un dono, urlava l’enciclica di Giovanni XXIII a <<tutti gli uomini di buona volontà>>, credenti e non credenti, a <<tutte le nazioni, tutte le comunità politiche>> invitate ad accettare la condizione spirituale del rinnovamento per cercare <<il dialogo, il negoziato>>, ciò che unisce, non ciò che divide, per scorgere. <<l’evoluzione verso una nuova, migliore umanità>>. Correva l’anno 1963, era aprile quando fu diffusa l’enciclica. Qualche mese prima era iniziato il Concilio Vaticano II; due mesi dopo, a giugno, il Papa morì. L’allora neo-cardinale cileno, il salesiano Raúl Silva Henriquez, arcivescovo di Santiago, gran punto di riferimento dei democratici cileni negli anni settanta ed ottanta del novecento, non nascose ai giovani studenti del convitto salesiano coi quali amava conversare passeggiando nel porticato del cortile della Basilica del Sacro Cuore a Roma, dove alloggiava durante i lavori del Concilio, il timore che nutriva, assieme ad altri padri conciliari, della fine anticipata del Concilio e in , qualche modo, della grande speranza escatologica suscitata dalla Pacem in terris, che tanta opposizione aveva suscitato tra i conservatori, le destre ed all’interno della stessa Chiesa, compresi i gesuiti. Compresi allora che senza essere convinti del bisogno della Pace, questa non si raggiunge, ma che per ottenere, una volta convinti, la Pace è bene conoscere, per trovare soluzioni ai motivi che la impediscono. Mi tornò a mente la lezione della Pacem in terris accompagnando Bettino Craxi a Santiago del Cile, ed organizzando la sua visita all’emerito Arcivescovo Silva Henriquez nel febbraio del 1989. In Cile si era consumata per quasi un ventennio una crudele guerra per la libertà, la democrazia, l’indipendenza. Era giunto il momento storico della soluzione. In quella visita il segretario del PSI e vicepresidente dell’Internazionale discusse anche con il Cardinale la possibilità di costituire una Concertación de Partidos por la Democracia per modificare tramite referendum almeno 59 punti della Costituzione cilena. Era necessario il tacito ma essenziale consenso statunitense (Craxi era molto ascoltato a Washington) e il consenso generale dei partiti democratici dell’America Latina (Craxi che veniva da Caracas, dove aveva partecipato il 2 febbraio all’insediamento del Presidente Carlos Andrés Pérez Rodriguez, aveva sondato tutti leaders dei partiti dell’Internazionale). Faticosamente si stava formando la Concertación nella quale infine si schierarono il Partito Radicale Cileno, membro dell’Internazionale Socialista e la Democrazia Cristiana. Il Partito Socialista, nominalmente erede di Allende, giudicò eccessivamente “riformista” e gradualista la proposta di revisione costituzionale, non aderì alla Concertación e votò per il rechazo. La Concertación stravinse (col 93% di consensi), Pinochet ed i militari non finirono in prigione ma se ne andarono con sostanziali garanzie di immunità personali e il democristiano Patricio Aylwin fu eletto, finalmente con un voto democratico, Presidente del Cile.Mi rafforzai nella convinzione che la Pacem in Terris è un dono che si conquista. Una guerra integrale che sfiora il disastro nucleare La guerra provocata dalla invasione russa dell’Ucraina è particolarmente complessa ed è, in modo drammatico, un unicum. A partire dalla Seconda guerra mondiale la teoria ha permesso una classificazione del sistema bellico, distinguendo la guerra in: e dei tipi di intervento in: Non sfuggirà che in misura diversa tutte le individuate parti classificate sono presenti nella guerra in corso nella martoriata Ucraina. Il che obbliga, per sedersi ad una Conferenza di pace, la necessità di studiare quali siano le questioni che devono essere affrontate e risolte col dialogo, quali siano le forze chiamate a gestire i lavori della Conferenza e quali quelle che ne devono garantire l’esecuzione nei tempi e con le modalità pattuite. Un tema, dopo quello della identità e della legittimità statuale, apertamente messo in discussione, riguarda i confini territoriali. Ed è di frontiere che trattiamo in questo capitolo. I confini deboli Il Soviet Supremo, il 26 dicembre 1991 ratificò la dissoluzione dell’URSS, la nascita di stati indipendenti, fra i quali l’Ucraina. La legge istitutiva divenne definitivamente operativa nella notte di Capodanno tra il 31 dicembre 1991 ed il primo gennaio 1992. Quella ratifica conteneva anche il riconoscimento reciproco tra le nuove sovranità nazionali, compresa quella tra Russia e Ucraina. In questo anno di guerra in corso, mascherata in operazione speciale, sin quando è stato possibile per i governanti russi immaginare che il conflitto si sarebbe concluso in breve tempo, il Cremlino ha giustificato l’invasione addebitandola a varie cause, tra le quali il mancato rispetto degli accordi di Minsk (Minsk II e Minsk III, rispettivamente del 2014 e 2015); dalla indipendenza gli ucraini hanno, invece, costantemente richiesto il rispetto dei confini del 1991. Nasce spontaneo chiedersi: quali sono questi confini, previsti dall’Accordo del 1991, regolato dall’accordo siglato a Minsk l’8 dicembre 1991 e ancora meglio specificato dall’Intesa di Alma Ata del 21 dicembre, come abbiamo visto ratificato dal Soviet Supremo il 26 dicembre? Nel 1991 l’Ucraina, nuovo stato indipendente, ereditò i confini dell’ex Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina. È un dato di fatto, legato alla lunga ricostruzione storica della identità anche territoriale dell’Ucraina sulla quale già ci siamo soffermati, che nel 1991 la linea di confine tra Russia e Ucraina, all’incirca lunga 1900 chilometri, era una linea amministrativa, né tracciata né materialmente indicata. Per il diritto internazionale la fine dell’Urss fu un caso di smembramento, con il quale lo Stato precedente si estingue per dare vita alla formazione di due o più Stati nuovi; infatti, l’ONU ammise Ucraina e Bielorussia, in quanto membri fondatori, in base all’art. 4 della Carta delle Nazioni Unite, mentre gli altri Stati nati dallo smantellamento furono ammessi ex novo. Occorre ricordare che la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1942, infatti, aveva qualificato come “Stati” anche alcune entità che non lo erano, per l’assenza del requisito di indipendenza, come l’Ucraina …

SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE TERZA)

È invalsa una ripetuta opinione sulla supposta irresolutezza e mancanza di determinazione degli Stati Uniti, della UE, genericamente della NATO, a comprendere i messaggi diplomatici e le azioni che hanno condotto il mondo sull’orlo del baratro nucleare, riducendo ai minimi termini la possibilità di iniziativa politica della organizzazione multilaterale per eccellenza le Nazioni Unite, mentre la folle guerra che si combatte in Ucraina spazza quotidianamente vite, offendendo crudelmente l’umanità, il creato, in definitiva il Creatore. È proprio vero, totalmente vero? Offro una cronaca, frutto anche di una vissuta esperienza. Nel 1989 all’ONU si studiava il mondo post-guerra fredda La formazione in Stato della nazione ucraina si è sviluppata tormentatamente nel ‘900, anche per i vincoli della satellizzazione imposta dal PCUS fino alla frattura choccante del comunismo evidenziata il 9 novembre del 1989 dal crollo del Muro di Berlino. Ricordo che in quel periodo lavoravo a New York alle Nazioni Unite per preparare la visita dell’onorevole Craxi al segretario generale Perez de Cuellar il successivo 8 dicembre, assieme al direttore generale dell’Onu, l’ambasciatore francese Antoine Blanca, espressione “diretta” e non mediata di François Mitterrand, ed al direttore dell’UNDP, l’italiano Aldo Aiello, già senatore socialista, valente internazionalista ed esperto dello sviluppo Nord-Sud, che aveva maturato interesse alla proposta di Pannella e Bonino per il partito radicale transazionale. L’incontro – su invito dell’Onu- si concluse con l’affidamento all’ex Presidente del Consiglio, segretario del Partito socialista italiano e vicepresidente dell’Internazionale Socialista, dell’incarico di “Rappresentante personale sui problemi del debito estero dei Paesi in via di sviluppo”, nella lingua onusiana traducibile nella delega per le questioni connesse al debito ai poteri di un vicesegretario generale. In quel giovedì 9 novembre ed il successivo venerdì mattina, prima dello svuotamento del fine settimana, i grandi corridoi, i saloni, addirittura le mense del simbolico Palazzo ideato da Niemeyer, Le Corbusier ed Harrison, furono avvolte dal silenzio, in parte si svuotarono come nei giorni dedicati alle ferie. La sensazione di un cambiamento epocale, i rischi connessi ma anche le prospettive che s’aprivano, in parte inaspettate, invitavano la diplomazia internazionale alla riflessione. L’amministrazione americana era assai prudente. Il presidente Bush (senior ovviamente) ricevette a Washington Bettino Craxi prima del conferimento dell’incarico ONU. L’incontro, che ricordo lungo e cordiale, era stato preparato in modo eccellente da Rinaldo Petrignani, il più longevo ambasciatore italiano (10 anni consecutivi!) a Washington ed era il riconoscimento statunitense del decisivo ruolo nazionale ed internazionale del segretario del Partito socialista, ma anche, ovviamente, il segnale dell’attenzione della Casa Bianca alla questione debito, che dal 10 marzo del 1989 aveva trovato a Washington un interesse politico col piano Nicholas Brady, dal nome dell’allora Segretario al Tesoro che lo aveva presentato al Bretton Wood Committee, e che per la sua valenza politica era da novembre chiamato a dover tenere conto della voragine aperta dal fallimento del comunismo mondiale nei rapporti con tanti paesi africani, sud americani e in parte minore asiatici. A New York, in quell’osservatorio privilegiato sull’East River che è la sede delle Nazioni Unite, la situazione degli stati e delle nazionalità incorporate nell’URSS era analizzata ora per ora. Le valutazioni italiane erano non soltanto ascoltate, ma richieste per la solida reputazione che l’Italia aveva consolidato in politica estera nel secondo dopoguerra, traversando nel gruppo delle navi pilota occidentali le burrascose acque della Guerra Fredda; nell’incontro privato con Perez de Cuellar, che seguì quello ufficiale con la delegazione ONU (il segretario generale, Blanca, Aiello) e l’onorevole Craxi da me accompagnato, il neo “Rappresentate personale” mi confermò che era stata svolta anche una analisi della crisi sovietica, alla luce della interpretazione italiana dopo l’incontro alla Casa Bianca. Ebbi nelle settimane a seguire modo di appurare che se per il popolo italiano erano maggiormente interessanti le vicissitudini della Germania, l’allora Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Polonia- anche grazie al Papa, il Santo Giovanni Paolo II-, esperti e diplomatici studiavano già all’epoca la complicata situazione ucraina, anche per l’insito pericolo che già s’intravvedeva per lo sbocco al mar Nero dell’impero russo offerto dalla Crimea, altra terra cruciale nella continua mobilità dei confini spesso, come ho già scritto, ignorante della nazionalità delle popolazioni residenti. La Russia, figurata dall’Orso, che fa paura ai Russi Medved’, in russo Медведь, è il nome con il quale cautelativamente i russi indicano l’Orso, simbolo della sterminata Russia. Medved significa il mangiatore di miele, secondo pochi altri etimologi quello che cerca il miele. Sembra quasi che gli stessi russi preferiscano usare il nomignolo per esorcizzare la fosca violenza accreditata al carnivoro mammifero, secondo una credenza probabilmente ereditata dai tabù dei protogermanici che preferivano definire l’orso con un soprannome, in svedese björn, in inglese antico bear ed angloamericano bear. Sia come sia di Medved’ che fanno paura ce ne sono almeno 120.000 sparsi tra gli undici fusi orari che configurano i 17 milioni di chilometri quadrati dello sterminato territorio russo, lo stato più esteso del mondo, compreso tra la Russia europea ad ovest degli Urali e ad est la Siberia, che si allarga fino al mare di Bering ed all’Oceano Pacifico. Degno di attenzione è il contrasto tra l’enormità del territorio, abitato da “appena” 145 milioni e 600 mila abitanti, ed il PIL di 1776 miliardi di dollari (significativamente inferiore a quello italiano, più vicino a quello spagnolo per intendersi). Ho già scritto che la Russia, come nocciolo dal quale si dirama un germoglio di identità nazionale, si sviluppa a partire dalla prima base di federazione delle tribù scandinave identificata a Kyiv come Rus’ (popolo di navigatori). La Russia embrionale, frutto della forzata emigrazione di tribù mongole che avevano attaccato la regione compresa tra Kyiv e gli insediamenti sul Dpner (l’attuale Ucraina), si sviluppò a partire dal ‘900 a nord-est in un territorio dove attualmente si trova Mosca. Il territorio prescelto, che prenderà nel tempo il nome di Gran Principato di Moscovia, era totalmente pianeggiante, indifeso perché privo di alture e di deserti, ed in più scarseggiante d’acqua, perché traversato da pochi fiumi. Dare definitiva soluzione alla fragilità difensiva del Gran Principato fu il primo obbiettivo, a metà del …

SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE SECONDA)

Il sistema russo è molto complesso e sarebbe sbagliato semplificarlo definendolo in modo sintetico “dittatoriale”; anche la sottolineatura del carattere “autocratico” che anima alcuni comportamenti del presidente Putin devono essere interpretati sotto due aspetti: a) le conseguenze interpretative del mondo prevalentemente occidentale che ha superato schemi e metodi operativi del novecento, grazie anche al mutato sistema informativo universale ed immediato, ed alla oramai maturata convinzione del dovere in capo ai governi di rispondere alle nuove necessità individuali, che per il gran numero di richiedenti diventano di massa; b) gli interessi generali della cultura e dei bisogni del popolo russo. È emblematica l’asserzione del 23 marzo 2023 di Dmitrij Anatol’evič Medvedev, effettivo numero due del potere moscovita, in risposta alla dichiarazione del ministro della Giustizia tedesco Marco Bushmann dell’obbligazione giuridica della Germania Federale ad arrestare Vladimir Putin, se mettesse piede nel suo stato, a seguito del mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale sita a L’Aia: “Le nostre relazioni con l’Occidente sono al punto più basso di sempre. Provate ad immaginare il leader di una potenza nucleare che visiti la Germania e venga arrestato. In quel caso, i nostri mezzi voleranno a colpire Bundestag, ufficio del Cancelliere e così via. Grazie a Dio, abbiamo la parità e persino la superiorità nelle forze nucleari strategiche, altrimenti saremmo stati fatti a pezzi”.Dopo aver assicurato che non soltanto negli armamenti nucleari, ma anche in quelli convenzionali la Russia primeggia, al punto che l’industria bellica sta producendo altri 1500 carri armati, così continua il vicepresidente del Comitato di Sicurezza (presieduto da Putin):” l’Ucraina, onestamente parlando è parte della Russia, solo per ragioni geopolitiche e storiche noi abbiamo tollerato di vivere separati, costretti molto tempo fa a riconoscere quei confini inventati”. Il vice presidente Medvedev non è certamente uno squilibrato (è stato il terzo Presidente della Federazione Russa- dal 2008 al 2012-, Primo ministro dal 2012 al 2020, vice presidente del Consiglio di Sicurezza dal 2020 a tutt’oggi- né un goffo ventriloquo: nato in una famiglia di docenti universitari, ha conseguito un dottorato di ricerca in diritto privato ed una docenza all’Università statale di San Pietroburgo) e quindi è plausibile sostenere che le sue dichiarazioni sono il frutto di una concertazione dei vari centri di potere, guidati dal Presidente Putin, finora maggioritariamente sostenuto dai russi. Medvedev ha quindi, ancora una volta, minacciato l’uso di armi nucleari; sostenuto che il diritto della forza è superiore a quello dell’ordinamento giuridico; che la Russia non riconosce l’Ucraina nella sua identità di nazione, ma esclusivamente di regione della Russia e disconosce i Trattati internazionali. Sui due primi punti (minaccia nucleare e diritto prioritario della forza) molta parte dell’opinione pubblica italiana e tanta italica “intelligencija” (in russo: интеллигенция) è per diversi motivi o d’accordo o manifesta timori. Lucio Caracciolo, Domenico Quirico, entrambi seri giornalisti esperti conoscitori del sistema internazionale- non sospettabili neppur lontanamente di “intese “con la Russia, sono giunti la scorsa settimana alla stessa conclusione che da un anno a questa parte, con alti e bassi, loro stessi rappresentano, assieme ad altri, in forme diverse ma univoche sulle rispettive testate: nella guerra ucraina si imporrebbe, seppur con dispiacere, l’alternativa diabolica: la scelta per l’Occidente tra il conflitto nucleare e l’abbandono dell’Ucraina al suo destino di servaggio. Io penso che, disgraziatamente a causa dei lutti che il popolo ucraino e l’esercito russo subiscono da questa guerra infame e anacronistica, essa durerà ancora sulla soglia del disastro. Comunque, per tornare al discorso, la grande maggioranza dei russi, compreso il Patriarcato della Chiesa ortodossa moscovita, si dice convinta che la Storia abbia ratificato un verdetto inappellabile: non esiste una nazione Ucraina e per questo motivo “l’operazione speciale” che ha le fattezze di una guerra è necessaria e legittima. Cerchiamo di capire se è proprio così come viene come viene quotidianamente comunicato dal governo russo. La scorsa settimana i nostri lettori sono stati preavvisati che poco è stato scritto, detto, informato sulla storia dell’Ucraina, e ci siamo presi assieme il tempo di sottolineare e cercare di comprendere nella loro portata passaggi tanto poco dibattuti quanto importanti. Cominciamo col grimaldello dialettico sinora usato per aprire le orecchie all’attenzione. Un pochino per sapiente propaganda russa, anche della Chiesa ortodossa, è stato per esempio accettato, senza effettiva contestazione, o per lo meno precisazione del suo significato, che l’unita comunità russo-ucraina trarrebbe origine dalla Rus’ di Kiyv, una entità monarchica la cui fondazione si fa risalire all’882 d.C.. Osserviamo che si tratta di un periodo sostanzialmente coevo alla fondazione dell’impero carolingio, decretata da Carlo Magno, che fu incoronato nella notte di Natale dell’800 Imperator Augustus del Sacro Romano Impero da papa Leone III. Al di là della facile e sfiziosa e inesatta considerazione che sin dall’800/900 d.C. si era costituita un’alternativa geo politica tra Occidente ed Oriente, quello che importa sottolineare è che anche etnie diverse abitanti il lontano est europeo avevano sentito il bisogno, per meglio difendersi ed anche per sviluppare migliori commerci, dare vita ad un potere coinvolgente più popoli, così che la Rus’ di Kiyv occupava un bacino geografico comprendente l’Ucraina, la Russia occidentale, la Bielorussia, la Moldavia, la Polonia, la Lituania l’Estonia orientale. La Rus’ di Kiyv era, diremmo oggi, un importante centro di commercio estero per il suo import-export con la Scandinavia, l’Impero di Bisanzio, il Medio Oriente, l’Europa centrale ed orientale. La frammentazione della Rus’ in numerosi principati iniziò nel 1139 e già un secolo dopo , tra il 1237 e il 1241, in cinque difficili anni di sanguinosi scontri i territori furono ridotti al vassallaggio dai Tatari che li invase e li dominò completamente sino al 1362 , quando il granduca di Lituania, Algirdas, liberò tutta la terrà di Kiyv e la annesse alla Lituania; nel 1386 Polonia e Lituania decisero l’unione dinastica dei due stati ed i polacchi iniziarono una avanzata verso Est in territori di confine (ukraina); la pressione polacca indusse la popolazione “rutena” a spostarsi nella grande regione che si protende nel medio Dpner. La storia della Rutenia è esemplificativa della dinamicità liquida dei confini di …

SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE PRIMA)

È un continuo rimescolio degli stessi ingredienti: Putin è un pazzo, no, è il popolo russo che lo supporta e quindi spinge a soddisfare l’atavico desiderio di potenza eredato dalle antiche tribù slave, i Vjatič, i Krivič, i Severiani e gli slavi dell’Ilmen, nelle regioni dell’odierna Russia europea. Oppure: gli ucraini non esistono come popolo e storia perché vanno identificati con i “russi “, i Rus’ di Kiev (in russo: Русь, /rusʲ/, Русичи, Русь, “uomini che remano” negli antichi dialetti scandinavi) popolazioni medievali scandinave che vivevano nelle regioni che attualmente fanno parte di Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale. Macché: Rus’ di Kiev è una designazione moderna (XIX secolo) e va semplicemente compresa come “terra dei Rus’” intendendola per i discendenti degli slavi orientali del popolo dei Rus’ di Kyiv, non di Kiev nome imposto dagli attuali russi, perché nel corso dei secoli i popoli dei Rus’ ucraini, russi e bielorussi si sono gradualmente evoluti in etnie separate. Ed ancora: esiste una continuità non soltanto per il sangue comune, ma anche per la profonda fede religiosa e cristiana che anima comunemente i due popoli secondo la guida del Patriarcato ortodosso di Mosca. Quando mai? È la risposta. Appena è stato possibile il Patriarcato ortodosso di Kyiv (mai Kiev, retaggio del colonialismo oppressivo di Mosca!) ha rifiutato la cefalia del patriarcato retto dal “chierichetto di Putin” – copyright di Francesco-. Pace subito, anche se i russi hanno invaso uno stato riconosciuto internazionalmente e l’Assemblea delle Nazioni Unite ha due volte condannato l’invasione e l’organismo per i Diritti Umani dell’ONU ha definito “criminale” la condotta di guerra contro inermi civili, perché meglio che l’Ucraina e la Crimea siano divise che polverizzate dalla potenza bellica russa al punto da scatenare la guerra nucleare. Immediata contestazione: ma voi siete matti! Nessuno può ledere il diritto alla difesa di un popolo e l’ammissione che sia legittimato un altro diritto, quello del più forte, è anacronistico, immorale e gravido di conseguenze. La Russia è stata costretta ad invadere l’Ucraina per difendere i diritti delle popolazioni russofone minacciate dagli ucraini che desiderano nullificare la loro storica identità. Si scaldano gli animi: Falso! I Russi, praticando i più svariati sistemi (dalla corruzione alla coercizione all’imbroglio- e giù riferimenti a fatti o informazioni lette da qualche parte-) hanno creato pretesti per nascondere dietro una foglia di fico la nudità delle buone ragioni. Ed ancora: Cina sì e Cina non può; la terza guerra mondiale è in atto in 160 paesi e tutti tacciono perché le guerre le fanno i commercianti e fabbricanti di armi, che si sono peraltro adoperati per spingere a soluzioni conflittuali tra i due paesi (alias due nazioni, alias due stati così non s’offende alcun purista), tutta colpa della NATO che ha trovato la sua ragione per esistere allargandosi minacciosa verso la pacifica Russia; la responsabilità è europea perché allargandosi ad est ha tentato di sconvolgere gli equilibri sociali ed economici che sostengono il sistema russo; pace subito perché le sanzioni sono inutili e la grande Russia è un Orso feroce che sa attendere; sì al multilateralismo, sì al diritto internazionale, ma l’ONU dové? Meglio dimenticarsela e smettendo gli aiuti militari all’Ucraina chiedere a Pechino di organizzare una pace che “fermi” la reazione statunitense, unica super potenza attualmente riconosciuta in attività. Tutte valutazioni a loro volta confutate da valutazioni controverse. Una Babele nella quale non è possibile per i cittadini ascoltare informazioni meditate, non superficiali, per la partecipazione non teorica, ma democraticamente auspicabile, a decisioni che coinvolgono direttamente la loro vita. Per questo motivo ilmondonuovo.club inizia una serie di articoli che appariranno una volta alla settimana per offrire un contributo alla formazione di un’opinione al di fuori della propaganda, del partito preso, delle emozioni, trattando: origine storica, politica e giuridica dell’attuale Ucraina dopo la dissoluzione dell’URSS; i sistemi al governo della Russia e dell’Ucraina ( interessi e prospettive economiche e sociali); la guerra russo-ucraina e le conseguenze mondiali; la NATO protagonista o regista?; ”terza guerra mondiale” e il nuovo sistema di potenza; il ruolo attuale della Cina; la questione religiosa; l’Europa che s’è persa nel mondo inquieto che traversa la crisi della globalizzazione ideologizzata; l’Italia tra le tre crisi conseguenti e concomitanti: bellica, europea e del mediterraneo allargato. Arrivederci alla prossima settimana! … continua Giuseppe Scanni