RIZZOTTO ASSASSINATO ANCHE PERCHE’ SOCIALISTA

Il 10 marzo del 1948, a Corleone, il giovane sindacalista della Cgil, nonchè esponente del Partito Socialista, Placido Rizzotto si sta recando ad una riunione del suo partito: è quasi buio, viene aggredito e rapito da un gruppo di mafiosi e sarà poi ucciso brutalmente. Il motivo del suo omicidio è da rintracciare nel suo convinto e coraggioso impegno a favore dei contadini siciliani, penalizzati e ridotti sul lastrico dalla sistematica espropriazione che le cosche mafiose ponevano in essere verso le campagne ed i campi coltivabili. Rizzotto incita i contadini a reagire, ad occupare le terre ed a difenderle, convinto che il lavoro e la giustizia sono due valori assoluti, che devono andare di pari passo e che devono rappresentare il fondamento e l’essenza di ogni vita umana. Da Segretario della locale Camera del Lavoro Placido Rizzotto convince i contadini addirittura ad organizzarsi per occupare le terre già espropriate dai mafiosi: non si limita ad organizzare la reazione ma la guida in prima persona, assumendo su di sè la responsabilità giuridica del gesto e, soprattutto, esponendosi personalmente alla ritorsione dei capi locali. Col suo impegno a favore della gente onesta, Rizzotto infatti si ritrova contro tutte le fazioni mafiose e criminali, ed entra in grave contrasto anche con un giovane di Strasotto che farà una grande carriera in Cosa nostra: Luciano Liggio. La mafia organizza la reazione: nel maggio del 1947 avviene la terrificante strage di Portella della Ginestra, mentre qualche mese dopo, come visto, c’è il rapimento di Rizzotto il cui corpo fu ritrovato solo anni dopo, nelle foibe di Rocca Busanbra, dove fu gettato proprio dall’acerrimo nemico Luciano Liggio. Un bambino (il piccolo pastorello Giuseppe Letizia) assistette al barbaro assassino, ma venne ucciso anche lui: la mafia non tollera occhi indiscreti, anche se giovani. Per l’assassinio del piccolo fu incolpato il boss Michele Navarra. Le indagini, coordinate da un giovane Carabiniere che diventerà poi Prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, portano all’arresto di due mafiosi corleonesi: Vincenzo Collura e Pasquale Criscione. Confessarono per poi ritrattare, e vennero assolti per insufficienza di prove. La stessa sorte processuale toccherà per questo reato a Luciano Liggio, che rimase latitante fino al 1964. UN APPUNTO A CURA DI EMANUELE MACALUSO Caro direttore, io non ho ancora visto il film «Placido Rizzotto» di Pasquale Scimeca e non posso dare un giudizio sull’opera, ma sono uno dei pochi sopravvissuti che ha conosciuto Rizzotto (in quegli anni ero segretario della Cgil siciliana) e con lui ebbi rapporti intensi, a Corleone e a Palermo, fui io a commemorarlo nella sua città. Le scrivo perché mi ha stupito la risposta del regista ad Ottaviano Del Turco (mi riferisco al «Corriere della Sera» 16 ottobre 2000) il quale faceva notare che nel corso del film non si dice mai che Rizzotto era socialista. La risposta di Scimeca è questa: «Non mi sembra così importante chiarire l’appartenenza ad una sigla». Il Psi non era una sigla e per ricostruire una storia l’appartenenza politica non è irrilevante anche perché – ecco il punto – se il regista avesse letto la relazione di minoranza alla commissione antimafia (febbraio 1976) redatta da Pio La Torre, forse non avrebbe risposto così. Infatti La Torre scriveva: «Nel corso della campagna elettorale (1948) furono commessi alcuni dei più efferati delitti di mafia contro esponenti del movimento contadino. Voglio ricordare in modo particolare tre episodi: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia, Calogero Cangelosi a Camporeale, dirigenti contadini di queste 3 zone fondamentali della provincia di Palermo, e socialiste. Perché tra i socialisti? Gli assassini si susseguirono a distanza di giorni. Vi era stata la scissione socialdemocratica e il movimento contadino restava, invece, unito; occorreva dunque dare un colpo al movimento e la mafia sviluppò una campagna di intimidazione verso i dirigenti socialisti». Se l’analisi di La Torre era giusta, l’appartenenza non era irrilevante. Lo stesso La Torre in quella relazione ricorda che nel processo contro gli assassini di Rizzotto l’imputato Luciano Liggio venne difeso da un avvocato del Psdi, Rocco Gullo. E, aggiungo io, la parte civile fu sostenuta da un avvocato socialista turatiano, Francesco Taormina. Un segno dei tempi. Ma la storia è questa. Emanuele Macaluso Video Rai.Tv – TG2 13:00 del 10/03/2018 70 anni fa la mafia uccideva il sindacalista socialista Placido Rizzotto   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ORIANA FALLACI INTERVISTA A LINA MERLIN – L’EUROPEO 1963

ORIANA FALLACI: A Montecitorio, quando mi capitava di andarci e lei era ancora deputata, iscritta al Psi, mi incantavo spesso a guardarla, senatrice Merlin. E non perché il suo nome fosse legato alla chiusura delle case chiuse, ma perché tutto in lei ricordava un mondo che sta per scomparire quello dei vecchi socialisti, sentimentali e un po’ anarchici, galantuomini e puri. Guardavo i suoi capelli bianchi, i suoi occhi accesi, e tornavo a un’epoca che non ho conosciuto: liberale, laica.Pensavo che mi sarebbe piaciuto parlarle, anzi, ascoltarla. Non è mai capitato e mi sembra quasi indiscreto venire a disturbarla ora che non è più senatrice, né deputata, né iscritta al Psi, e siede carica di amarezza (mi dicono), perfino malata (mi dicono), nel salottino borghese di una casa borghese sul mare Adriatico, la finestra aperta su una spiaggia di ombrelloni e turisti. Ma la sua legge sulle case chiuse… LINA MERLIN: Anzitutto io non sono malata, sto benissimo, malata sarà lei; ho un cuore che lei giovane non si sogna nemmeno, e al mare non sto per curarmi, ma perché tutti gli anni vado al mare. Poi non sono carica di amarezza per niente, sono tranquilla, serena, e se mi son ritirata è perché non voglio morire prima di quando mi tocchi; ciascuno ha diritto di morire più tardi possibile. La mia vecchia pelle m’è cara e se restavo un giorno di più fra i mestieranti della politica finivo al cimitero anzitempo. Le racconterò ogni cosa, se vuole: io non faccio misteri. Intanto sappia che quando i non onesti trionfano, gli onesti lasciano. Quanto alla mia legge sulle case… Ne parlanoancora?! OF: Come no, senatrice. E tornato a essere uno degli argomenti del giorno per gli italiani, che la presero per un dispetto. E si lamentano, s’agitano, s’inquietano; quasi, anziché cinque anni, fossero passati due giorni e non riuscissero a darsene pace. LM: Ah! Questo Paese di viriloni che passan per gli uomini più dotati del mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! Se non gli riesce di conquistare le donne, a questi cretini, peggio per loro. Perché non fanno come i miei compagni di Adria? Un giorno vado ad Adria e dico: com’è, compagni, che voi non mi avete mai chiamato a fare una conferenza sulla mia legge? «Perché non ci interessa, Lina», rispondono. E ora le voglio raccontare una storia, le voglio. Un altro giorno vado a tenere una conferenza in una sede del Psi a Milano e appena entro qualcuno mi infila una busta gialla tra le mani. La apro e c’è scritto: «Compagna, pensa al male che fai con la tua legge: dove può andare un vedovo vecchio e gobbo se non in quelle case?». Io raggiungo il tavolo e dico: m’è stata consegnata una lettera così e così, spero che il compagno sia tra noi per rispondere a una domanda. Compagno, come può fare una vedova vecchia e gobba che non sa dove procurarsi un bel giovanotto? Ma scusate, compagni, chi ve lo ha detto che le donne non hanno i loro problemi? Pressapoco il discorso che feci alla Camera: se voi ritenete che quello sia un servizio sociale, e i cittadini maschi abbiano diritto a quel servizio sociale, allora istituite il servizio obbligatorio per le cittadine dai 20 anni in su. E che anche per le cittadine sia considerato un servizio sociale. Alcuni giornalisti commentarono la mia logica come indecorosa. Indecorosa io, che non ho mai detto una parola volgare e invece dell’espressione prostituta uso sempre l’aforisma “quelle disgraziate”.Volgare io, che dico come quel prete di Londra: «Non chiamatele prostitute; sono donne che amano male perché furono male amate». OF: C’è stato un processo per sfruttamento della prostituzione al tribunale di Firenze e il giudice ha accettato l’eccezione avanzata dal difensore secondo cui la sua legge è incostituzionale perché non tiene conto dell’articolo della Costituzione col quale lo Stato si impegna a difendere la salute del cittadino. L’ordinanza del giudice è ora all’esame della Corte costituzionale e… LM: Oh, sì. Ero sicura che fosse venuta a farmi arrabbiare su questo. E urlo: la mia legge è costituzionalissima e se la Corte costituzionale prende anche solo in considerazione l’ordinanza di quel giudice, allora è il crollo di tutto. Allora vuoi dire che il mio Paese non merita nulla, che il mio Paese è selvaggio, che i giudici ^ del mio Paese non conoscono neanche il significato delle leggi: ma che si rileggano un po’ Montesquieu! Io sono stata uno dei 70 soloni che hanno fatto la Costituzione, sa, la Costituzione io la conosco, e conosco l’articolo sulla salute pubblica perché l’ho voluto. Che dice questo articolo? «La Repubblica ha il dovere di difendere la salute dei cittadini purché ciò non offenda la loro dignità umana». Purché ciò non offenda la loro dignità umana: chiaro? E sottoporre quelle disgraziate a visita coatta non è offendere la loro dignità umana? Tanto più che non sono più schedate. E allora come fanno a sceglierle? Col criterio che avevano prima con le clandestine? Fermare tutte quelle che camminano sole per strada, magari senza documenti o fumando? Le è mai capitato di camminar sola per la strada, la notte, magari fumando? OF: Sì, qualche volta. LM: Bene. Lo sa cosa accadde a una sua collega che all’una e mezzo del mattino, uscita dal giornale, si avviava fumando alla ricerca di un taxi? La fermarono e: «Lei viene in questura». «Nemmeno per sogno, e perché?». «Perché lei viene in questura. Documenti». «Non li ho. Ma sono la Tal dei Tali, quello è il mio giornale». «Non ci interessa. Lei fumava per strada. Venga in questura». Le andò bene, era un tipo deciso e li trattò come meritavano. Ma metta che si fosse lasciata condurre, come si lasciarono condurre altre onestissime donne che esercitavano il loro diritto di camminar sole per strada, che cosa sarebbe successo? L’avrebbero chiusa in guardina e l’indomani avrebbe subito una visita coatta. E avrebbe aspettato otto giorni per il responso. Perché otto …

IL MATTEOTTI DELLA PUGLIA CHE LOTTAVA PER I BRACCIANTI

CENTO ANNI FA IL DEPUTATO SOCIALISTA ASSASSINATO DAI FASCISTI Giuseppe Di Vagno “Il gigante buono”, apparteneva alla piccola borghesia del mezzogiorno che aveva “tradito” per difendere la causa dei contadini di Walter Galbusera – Presidente della Fondazione Anna Kuliscioff di Milano | La Fondazione Giuseppe Di Vagno, che ha recentemente celebrato a Conversano il centenario della morte del martire socialista alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, ci aiuta a fare alcune riflessioni. Eletto il 15 maggio 1921 alla Camera, primo della lista socialista con più di 74.000 voti di preferenza, Giuseppe Di Vagno fu assassinato il 25 settembre successivo a Mola di Bari. Aveva 34 anni ed era già un simbolo della difesa dei diritti dei contadini nella lotta contro gli agrari e nella rivendicazione di quelle terre che erano state promesse ai combattenti. Assieme a lui fu eletto anche Giuseppe Di Vittorio, un sindacalista rivoluzionario di Cerignola che aveva militato tra le file interventiste. La campagna elettorale del 1921 segnò l’acuirsi di una guerra civile. Le aggressioni fasciste, che avevano già preso corpo negli ultimi mesi del 1920 dopo la “svolta moderata” di Mussolini, con il definitivo abbandono del fascismo rivoluzionario della prima ora, dilagarono in tutto il paese impedendo in numerose realtà l’esercizio del libero diritto di voto e fecero della violenza un aspetto permanente della lotta politica. Ciò avvenne anche nel paese natale di Di Vagno, Conversano, dove nonostante la sua grande popolarità riuscirono a votare solo 22 dei suoi numerosi sostenitori. I presunti assassini, (legati a Peppino Caradonna, un ricco agrario a capo del fascio di Cerignola) furono arrestati, ma beneficiarono di una amnistia senza che in sede giudiziaria fosse individuata neppure l’ombra dei mandanti. L’enormità del fatto costituito dall’assassinio politico di un parlamentare dell’opposizione che nel mezzogiorno rappresentava una delle guide più autorevole del proletariato contadino, non suscitò però quella immediata reazione morale e politica dell’Italia democratica che sarebbe stata necessaria. L’uccisione di Di Vagno per molti aspetti avrebbe anticipato il sequestro e il delitto Matteotti, con il quale il deputato pugliese aveva tre elementi importanti in comune: un’origine sociale non proletaria e gli studi universitari di legge, il pacifismo antimilitarista che gli procurò l’internamento negli anni della guerra, l’organizzazione dei braccianti che gli attirava l’avversione profonda da parte degli agrari. Nel partito socialista Di Vagno, che fu affascinato dalla rivoluzione bolscevica, aveva un atteggiamento sinceramente unitario e non fazioso e, pur non aderendo ad essa, considerava l’ala riformista (la “destra”) un elemento essenziale per l’esistenza stessa del PSI. La morte di Di Vagno fu anche il segnale inequivocabile che ogni tentativo di “Pacificazione” come quello tentato da Bonomi e De Nicola (che dopo il crollo del fascismo saranno rispettivamente capo del Governo e Presidente Provvisorio della neonata Repubblica Italiana) e di cui Di Vagno fu un attivo e convinto sostenitore, era impraticabile perché il fascismo in quel momento era rappresentato da Roberto Farinacci più che da un Mussolini incerto e apparentemente incline ad una tregua. L’Italia democratica non capì che l’uccisione del deputato Di Vagno avrebbe costituito, se non affrontato con una decisa e larga risposta politica nazionale, il principio di una involuzione inarrestabile che avrebbe portato altri delitti e infine la soppressione di ogni libertà in tutto il paese. Non è questa la sede per interrogarsi sui limiti e sugli errori dell’opposizione democratica né sulle responsabilità e complicità di molte forze politiche e delle Istituzioni del tempo. E’ importanti però rilevare che il delitto Di Vagno fu purtroppo “politicamente ridimensionato”: in quel tempo il rischio che correvano i difensori dei “proletari” tanto più se braccianti e contadini poveri, faceva parte del mestiere. Mancò allora quella illuminazione politica per farne un forte elemento di allarme morale diretto al paese per costruire un argine solido in difesa della libertà. La sottovalutazione delle conseguenze politiche che il delitto Di Vagno avrebbe avuto in tutto il paese non risparmiò purtroppo gran parte del Partito Socialista (allora un partito a prevalenza operaia) che collocò questo delitto nella tragica contabilità degli assassini e delle violenze di una guerra civile strisciante nella sciagurata convinzione che l’inevitabile rivoluzione proletaria avrebbe prima o poi trionfato. Non è facile trovare riflessioni di dirigenti socialisti nazionali sul delitto Di Vagno, neppure Giacomo Matteotti considerò il delitto un “salto di qualità” , anche se nella sua pubblicazione “Un anno di dominazione fascista”, l’uccisione di Di Vagno è posta in grande rilievo. Nel “Carteggio” con Anna Kuliscioff si trova la lettera di Filippo Turati scritta il 26 settembre 1921 ad Anna: “Hai letto di quel povero Di Vagno? Anche questo spesseggiare di attentati a deputati socialisti è letificante. Ci dovrebbero almeno aumentare l’indennità!” _Ma il giorno seguente la risposta di Anna a Filippo è di tutt’altro tono e dà il segno di una lucidità politica che spicca per la sua lungimiranza: _”Mentre il Partito si balocca e si perde in discussioni astratte, la guerra civile divampa in tutta Italia, e lo spettro della dittatura militare si delinea sempre più minaccioso. L’assassinio del Di Vagno più di migliaia di altri assassinii ora rinnovantisi con una intensità spaventevole, forse potrà essere il punto culminante da cui emergerà o un vero stato d’assedio oppure lo scatenarsi di una vera guerra civile ….I socialisti della maggioranza sono più preoccupati….di conservare i posti che della …soppressione di ogni vita politica e della vita individuale ” Il 10 ottobre del 1921 al XVIII congresso del PSI tenuto a Milano, il deputato di Caltagirone Arturo Vella, uno dei capi della maggioranza massimalista, che di Di Vagno era stato amico e compagno di lotte, non diede una risposta politica e non andò oltre ad un’appassionata commemorazione, accomunandolo a tutte le altre vittime della violenza fascista. Di Vagno era stato _” vilmente assassinato dalla volontà preordinata e preconcetta della borghesia agraria del Mezzogiorno”_. Vella rivolse poi un commosso saluto _”a tutti i martiri, ai prigionieri che soffrono nelle carceri italiane a dimostrazione della corresponsabilità del governo con la violenza dei bianchi”. _E concluse affermando che _”la violenza ci può uccidere, ma non …

IL SOCIALISMO FRIULANO

di Romeo Mattioli – Presidente del Centro Culturale Loris Fortuna di Udine | Il Socialismo friulano 1945-1994. Dalla liberazione alla diaspora, prefazione di Gianni Ortis, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine 2016. RECENSIONE A CURA DI ROMEO MATTIOLI Gianni Ortis nella nitida prefazione al volume di Tiziano Sguazzero sulla storia del socialismo friulano dalla Liberazione allo scioglimento,  nel novembre 1994,  del Partito socialista italiano, una delle formazioni politiche più antiche del nostro Paese, afferma che «costante è stato l’impegno del Psi per i diritti civili e per il ruolo delle donne nella società. Ma il movimento socialista friulano ha inciso anche a livello nazionale con i propri parlamentari». L’esaltante vicenda del socialismo friulano viene efficacemente sintetizzata in questi due enunciati. Per coglierne il senso ci si può limitare a ricordare i contributi determinanti dell’onorevole Umberto Zanfagnini, per il rafforzamento della democrazia contro la «legge truffa», di Loris Fortuna per l’introduzione della legge sul divorzio, di Bruno Lepre per essersi battuto a favore del voto ai diciottenni e di Franco Castiglione per aver avuto un ruolo importante nell’istituzione del giudice di pace e nella riforma del patrocinio legale gratuito per i meno abbienti. A queste importanti conquiste civili si aggiunga anche l’apporto, sempre a livello nazionale, dato dai parlamentari socialisti alla ricostruzione del Friuli terremotato e alla istituzione dell’Università di Udine. L’autore, tuttavia, tramite la consultazione e l’analisi del ricco Archivio della Federazione di Udine del Partito socialista (350 faldoni, 3613 fascicoli), ha ampliato l’orizzonte della ricerca, ricostruendo la storia completa di un grande partito di massa, radicato a livello capillare nel territorio con 156 sezioni e 7600 iscritti nel 1948, dati che nei decenni successivi non subiranno mutamenti significativi. Dopo la Liberazione, a cui i socialisti avevano partecipato attivamente, il primo maggio 1945 l’onorevole Giovanni Cosattini venne nominato sindaco di Udine dal Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale di Udine. Figura prestigiosa del socialismo e dell’antifascismo, Cosattini ricoprì tale carica sino al 3 maggio del 1948, quando divenne senatore di diritto nella I legislatura. Il socialismo friulano seppe interpretare le esigenze e le rivendicazioni della propria comunità dandosi una linea politica chiara ed incisiva: federalismo europeo, superamento dei blocchi internazionali contrapposti, dialogo e confronto con i cattolici, unità a sinistra, valorizzazione delle autonomie locali, tutela delle minoranze presenti in Italia e in Jugoslavia, emancipazione e miglioramento delle condizioni economiche e sociali degli strati popolari attraverso incisive riforme sociali e favorendo comportanti privati e pubblici conformi ai principi del dovere, dell’onestà e della responsabilità. Grazie a ciò e all’impegno di prestigiosi dirigenti, il Psi risultò nel giugno 1946 il secondo partito nella circoscrizione elettorale Udine-Belluno, primo della sinistra, eleggendo ben tre deputati friulani all’Assemblea costituente: Giovanni Cosattini, Gino Pieri ed Ernesto Piemonte. Il Partito comunista friulano, invece, riuscì ad eleggere un solo membro della Costituente, il ministro delle Finanze del I Governo De Gasperi Mauro Scoccimarro. Nel gennaio 1947, a seguito della scissione di Palazzo Barberini, promossa dai socialisti autonomisti di Giuseppe Saragat, gli esponenti più in vista del socialismo friulano e soprattutto Giovanni Cosattini promossero una serie di iniziative per salvare l’unità del partito, ma gli sforzi non diedero i risultati sperati. Questi aspetti politici, analizzati approfonditamente da Sguazzero, furono determinanti per le successive alleanze e le conseguenti scelte programmatiche e di schieramento dei due partiti socialisti: i socialdemocratici si spostarono verso il centro, i socialisti verso il Pci. Fu così che nell’aprile 1948 il Psi si presentò alle elezioni politiche aderendo al Fronte Democratico Popolare, insieme al Pci e ad altre formazioni minori. Il risultato fu disastroso: mentre il Pci (grazie anche alla rigorosa disciplina interna nell’organizzazione delle preferenze) e il partito saragattiano riuscirono ad eleggere alla Camera nella circoscrizione Udine-Belluno-Gorizia due parlamentari friulani a testa, il Psi non ebbe invece a Montecitorio alcun rappresentante. Fu così che il partito iniziò un percorso di autonomia politica, scrollandosi di dosso dopo l’intervento sovietico in Ungheria nel novembre 1956 il patto di unità azione e di consultazione con il Partito comunista e allontanandosi di fatto dalla sfera politica sovietica. Riconquistò in tal modo parte dei consensi ceduti nel 1948: nelle elezioni politiche del 1953 vennero eletti alla Camera Vittorio Marangone e il pordenonese Mario Bettoli; nel 1956, con Umberto Zanfagnini, i consiglieri al Comune di Udine passarono da 3 a 6; nelle elezioni politiche del maggio 1958 vi fu la conferma dei deputati della precedente legislatura e venne inoltre eletto senatore Fermo Solari, figura prestigiosa della Resistenza italiana, che dopo lo scioglimento del Partito d’Azione aveva aderito al Psi insieme ad Alberto Cosattini. Nel partito si delineò una nuova strategia politica, teorizzata soprattutto da Riccardo Lombardi, che propose di superare i limiti delle due tradizioni del socialismo italiano, la riformista e la massimalista, con una impostazione nuova: «la conquista del potere con il metodo democratico e la trasformazione della società in quella socialista dall’interno dello Stato con riforme strutturali». Il Congresso nazionale del febbraio 1957 di Venezia rafforzò la linea autonomista del Partito, favorì l’apertura del dialogo con i cattolici e avviò un confronto con i socialdemocratici per l’unità socialista. Nel 1963, l’appoggio esterno al governo Moro provocò una scissione interna al partito, dando vita, nel 1964, alla fondazione del Psiup da parte della componente di sinistra. Nel Psi friulano, pur essendo la Sinistra in esso maggioritaria, la scissione incise marginalmente. Nel Congresso provinciale successivo il Psi cambiò linea politica: si pronunciò a favore dell’unificazione socialista e della collaborazione con la Democrazia cristiana, anche se solo nel febbraio del 1966 il Psi entrò nella II Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia presieduta da Alfredo Berzanti, con Giansilverio Giacometti vicepresidente e assessore ai Trasporti e turismo. L’autore del volume si sofferma sulle riforme promosse dai socialisti, sulle tesi e i vivaci dibattiti congressuali, sulla rivolta del Midas ad opera degli allora quarantenni socialisti in seguito ai deludenti risultati del Partito socialista alle elezioni politiche del 1976. Fu proprio allora che il Comitato centrale elesse a segretario nazionale Bettino Craxi, carica che ricoprì per ben diciassette anni. Nel volume …

LA COMMEMORAZIONE DELL’ON. LORIS FORTUNA

di Romeo Mattioli | In questi giorni ricorrono due importanti anniversari: il 36^ anniversario della scomparsa dell’on. Loris Fortuna, padre del divorzio, e il cinquantennale dell’approvazione e introduzione del divorzio nel nostro ordinamento giuridico una conquista rivoluzionaria dei secolo scorso nel campo dei diritti civili. Fortuna fu un gigante dei diritti civili quando nell’ottobre 1965 presentò alla Camera dei deputati la proposta di legge per il divorzio fu praticamente solo e isolato. Fu una battaglia sostenuta da pochi: i radicali, i giornalisti dell’Espresso e parte dei socialisti. L’iniziativa era molto osteggiata dalla destra cattolica che la vedeva come una “sciagura nazionale”. Non ottenne neanche il sostegno della maggioranza dei partiti di sinistra. Si stava ripetendo quella scelta di “opportunità politica” che, nel 1947, aveva portato il PCI e il PLI a votare, assieme alla DC, l’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione Italiana, abdicando alla cultura laica. Si rese necessario costituire in Italia la Lega per l’istituzione del divorzio (LID) a cui aderii. La proposta divenne legge a fine novembre del 1970 con il voto favorevole di tutta la sinistra italiana e i partiti laici. La destra integralista non si rassegnò e promosse il referendum per la sua abrogazione, ritenendola “nociva” e voluta da “una minoranza degli italiani”. A Udine ci fu una mobilitazione di intellettuali, professionisti, giovani, donne, al di fuori dei partiti, che, riuniti il 6 aprile 1974 in un Hotel cittadino, costituirono un Comitato per il No all’abrogazione della legge sul divorzio, eleggendo a Presidente il prof. Antonio Celotti, segretario l’avv. Antonio Pacatti e il magistrato Giuseppe Mastellone, Luciano Basadonna ed altri componenti del Comitato direttivo. Il risultato del referendum che si svolse il 12 e 13 maggio 1974, registrò una valanga dì NO all’abrogazione della legge sul divorzio con una differenza di 6 milioni in più e Udine addirittura con il 66,8% rispetto 59,1% della media nazionale. Erano intervenuti nella maggioranza del popolo italiano profondi cambiamenti nel costume e nella cultura che pochi, nella battaglia dei diritti civili, seppero interpretare e portare avanti. La maggioranza degli italiani, prima dei partiti, capì che quella legge aumentava fa loro libertà, trattandosi di libera scelta e non di un obbligo. Si spalancò, dopo questa legge, la strada dei diritti civili: la legge per la legalizzazione dell’aborto, di iniziativa dello stesso Fortuna, ben presto andò in porto. Non arrivò, purtroppo, in tempo a fare approvare la legge sull’eutanasia per una dolce morte, contro gli accanimenti terapeutici.  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ALDO ANIASI SINDACO DI MILANO SOCIALISTA E PARTIGIANO

Nella foto da destra: Aniasi, Artali, Mosca e Colucci | di Oreste Pivetta | Nato a Palmanova (Udine) il 31 maggio 1921, deceduto a Milano il 27 agosto 2005, presidente della FIAP, ex sindaco di Milano ed ex parlamentare socialista, Medaglia d’argento al valor militare. Studente, era sfollato a Lodi quando, nelle settimane successive all’armistizio del 1943, si portò in Valsesia con una ventina di giovani lodigiani e codognesi, che avrebbero dato vita al distaccamento “Fanfulla” (poi battaglione), della XV Brigata d’assalto Garibaldi. Il giovane – che anagrammando, in modo imperfetto, il suo vero nome si faceva chiamare Iso Danali – entrò in contatto con il Comando di Cino Moscatelli e, nella primavera del 1944, passò nell’Ossola, diventando comandante della 2a Divisione Garibaldi “Redi”. In sessant’anni Aniasi non ha mai mancato una celebrazione del 25 aprile a Milano, forse anche per rifarsi del fatto che, nel 1945, in quel giorno stava ancora combattendo con i suoi partigiani contro i tedeschi che volevano attraversare il Ticino. Da socialista “nenniano” entrò nel 1951 nel consiglio comunale di Milano. Nello stesso periodo succedette a Ferruccio Parri nella presidenza – che ha mantenuto sino alla morte – della Federazione Italiana Associazioni Partigiane. Iso a Milano sarebbe rimasto, per cominciare un’altra intensa storia, in una città semidistrutta. Aniasi, socialista, prima nel Psiup e poi nel Psdi e poi socialista nenniano. Consigliere comunale lo divenne nel 1951, assessore fu nel 1954. Infine fu eletto sindaco nel 1967 a capo di una amministrazione di centrosinistra. Che divenne di sinistra, dopo lo straordinario risultato elettorale del Pci nel 1975, ma anche grazie alla sua coraggiosa tenacia: Aniasi voleva i comunisti in giunta. Sindaco Aniasi rimase fino al 1976. Lasciò per entrare in parlamento, cedendo il posto al giovane ex assessore ai lavori pubblici, Carlo Tognoli. Lasciò avendo attraversato un periodo drammatico e tempestoso della storia milanese, tra il Sessantotto operaio e studentesco e il terrorismo. Fu il sindaco di piazza Fontana, fu sindaco di una città ferita che reagì composta e seppe rispondere con dignità. Fu anche merito di Iso quell’unità forte tra i partiti democratici (l’arco costituzionale), che s’intende facilmente leggendo le pagine politiche di quell’epoca. Anche con posizioni coraggiose e «istituzionalmente» anomale. Si trovò spesso a polemizzare con gli eccessi della polizia contro gli studenti. In modo originale sostenne, nel conflitto arabo palestinese, il movimento Sinistra per Israele e in consiglio comunale non ebbe mai timore, magari provocando scontri con i suoi stessi alleati, di sostenere il diritto di Israele di «vivere in pace e in sicurezza all’interno di confini garantiti e sicuri». Parlamentare, passò ministro, prima con Cossiga, poi con Forlani e Spadolini, ministro alla sanità e ministro agli affari regionali. Siamo nei primi anni ottanta quando da Milano cominciava a brillare su Roma la stella di Craxi. Ma Aniasi non avvertì mai grande sintonia con Bettino (che pure aveva a lungo militato nel consiglio comunale milanese): cresceva Craxi e Iso, poco alla volta, sembrò ritrarsi dalla politica attiva, per dedicarsi alla memoria partigiana. Si era schierato prima con Mancini, poi al congresso del Midas con Lombardi e Signorile, infine con De Michelis, favorendo l’elezione a segretario di Craxi. Per Aniasi apparve presto una partita chiusa. Prima che giungesse lo scandalo di Tangentopoli. Aniasi era un socialista unitario, un sindaco di bell’aspetto, autorevole, capace di rappresentare la città e il suo popolo. D’altra parte, buoni o cattivi, furono quelli gli anni più intensi di Milano: la strategia della tensione la colpì, mai come allora si visse però così intensamente di democrazia, di partecipazione, di valori (nell’insegnamento della Resistenza). Milano era una città ferita, ma era anche una città che di fronte a una rivoluzione strutturale (si manifestavano i primi segnali della caduta del lavoro industriale) tentava di reagire progettando il proprio futuro con straordinaria ricchezza di voci e di ideali. Una città che tentava di vivere collettivamente i proprio dolori, le proprie crisi, ma anche il proprio sviluppo, sottratto – per un momento – all’interesse privato e alla speculazione. Questo era riformismo autentico. Aniasi sembrò il regista, conquistando alleati e competenze, e chi viveva a Milano ci viveva con un senso d’appartenenza e di identità. Aniasi è stato un sindaco che ha servito il socialismo e l’Italia, «un simbolo del socialismo riformista, il rappresentante più compiuto di una sinistra alimentata da una radicata cultura di governo». SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA LETTERA DI GRAMSCI NEL ’26

    di  Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |   Mi sono ripromesso di approfondire l’articolo di Tamburrano andandomi a rileggere il secondo volume di Spriano sulla storia del Partito Comunista Italiano; il secondo volume ha come sottotitolo “Gli anni della clandestinità” e il III capitolo a pagina 43 e seguenti parla de “La lotta nel partito russo e la lettera di Gramsci”. La lotta nel partito russo era quella tra Stalin e Bucharin da una parte e Trockij, Zinov’ev e Kamenev dall’altra. Sullo scontro era giunta una direttiva che vietava ai partiti comunisti diversi da quello russo di intervenire sul merito che era sostanzialmente tra “socialismo in un solo stato” e “rivoluzione permanente”. Gramsci nella sua lettera ritiene di sollevare una questione di metodo dialettico fra le parti che conduca ad una unicità di linea e conclude affermando “I compagni Zinoviev, Trotzkij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati fra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili della attuale situazione, perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del CC dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive.” Quindi invita all’unità dialettica e riconosce una “maggior responsabilità” agli oppositori di Stalin, ma non formula una condanna assoluta come invece gli era stato richiesto e auspica che la maggioranza del CC eviti “misure eccessive”. Togliatti rifiutò di diffondere il testo della lettera di Gramsci e rispose che nella lettera “al primo piano è posto il fatto della scissione che ha avuto luogo nel gruppo dirigente del partito comunista dell’Unione e solo in un secondo piano viene posto il problema della giustezza o meno della linea che viene seguita dalla maggioranza del comitato centrale.” Ribadisce cioè che prima di una questione di metodo va risolta la questione di merito condannando senza esitazioni gli oppositori di Stalin. Interessante rilevare che a pagina 58 Spriano, citando la risposta di Gramsci a Togliatti, scrive “Purtroppo il testo della replica gramsciana, che è conservato negli archivi dell’Internazionale comunista, non è ancora reperibile”. Io tuttavia quella lettera datata 26 ottobre, l’ho trovata sul sito www.lavocedellelotte.it dove Gramsci riaffermando le sue posizioni afferma pure, rivolgendosi a Togliatti, che “Questo tuo modo di ragionare perciò mi ha fatto una impressione penosissima.” E che “Tutto il tuo ragionamento è viziato di «burocratismo» Una interessante interpretazione del carteggio, documento che, nella storia del Partito comunista italiano, è stato il più analizzato, commentato, studiato è quella di Giuseppe Vacca, che tenta di “riesaminare tutta la controversia Gramsci-Togliatti facendola uscire dallo schema già consolidato, per ricercare nella posizione del primo gli elementi di quella politica nazionale che il secondo avrebbe portato a realizzazione quasi vent’anni dopo, al suo ritorno in Italia. La lettera allora, lungi dall’essere come qualcuno a Mosca poteva pensare, il segno di una debolezza o di un cedimento del partito italiano nei confronti delle posizioni di sinistra andrebbe letta come un primo tentativo del partito italiano di differenziarsi dalle posizioni del partito russo.”(Miriam Mafai) Significativo il titolo del lavoro di Vacca “Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca” che rileva la distanza spaziale e temporale fra i due, dove la distanza spaziale rileva molto più di quella temporale. Parrebbe quindi che Togliatti abbia realizzato le idee di Gramsci, non tanto vent’anni dopo, ma al suo ritorno in Italia, dove evidentemente le “misure eccessive” incombenti a Mosca e temute da Gramsci, rendevano “burocratiche” le risposte di Togliatti. Riporto queste poche note non osando tentare approfondimenti in un’area che non è di mia stretta competenza, assolutamente impari rispetto a Tamburrano; mi par tuttavia poter riscontrare una certa sana dialettica, di libertà di dibattito all’interno del PCI, certamente più presente in personaggi come Gramsci che superò la romantica concezione della rivoluzione come assalto e presa del palazzo, per forgiare nuovi concetti quali la “guerra di posizione”, la funzione del partito come intellettuale collettivo, il concetto di egemonia, la Costituente.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ANNA KULISCIOFF, LA MADRE DEL FEMMINISMO E DEL SOCIALISMO RIFORMISTA IN ITALIA

di Christian Vannozzi | Probabilmente fu la migliore mente del socialismo italiano, questo perché è riuscita a unire socialismo, femminismo e lotta per i diritti civili in un’unica azione politica, parliamo di Anna Kuliscioff, nome rivoluzionario di  Moiseevna Rozenštejn, giornalista e medico russa, nata in Crimea nel 1857, trasferitasi ben presto in Svizzera per motivi di studio, in quanto la Russia zarista non permetteva alle donne di studiare, mentre la passione di Anna era quella di diventare medico. Mente eccelsa nello studio, scaltra e bellissima, la Kuliscioff attirò fin da subito l’attenzione in Europa, che seppur più liberare della Russia, non era abituata di certo a vedere tanta caparbietà in una donna. Mentre studiava a Berna iniziò a interessarsi di politica e fece un breve ritorno in Russia per avvicinarsi ai movimenti di emancipazione democratica, terribilmente repressi dalla polizia zarista. Per questa ragione tornò in Svizzera, dove conobbe il socialista Andrea Costa, di cui si innamorò e da cui ebbe una figlia, Andreina. Assieme al rivoluzionario italiano condivise l’amore per il socialismo e per la politica. Con Andrea Costa si trasferì in Italia negli anni ’70 dell’800, dove conobbe il rigido regime monarchico dell’epoca, che dava poco spazio ai movimenti operai, arrivando spesso a usare la forza e i cannoni sulla folla e sui manifestanti, periodo che spesso, chi ama i Savoia e la monarchia, tendono a dimenticare. Nel 1882 decide di tornare in Svizzera per dedicarsi all’attività medica, sua grande passione che poteva unire le aspirazioni sociali con il benessere di coloro che non avevano soldi per curarsi (cosa che esiste ancora in diversi luoghi oggigiorno). Avendo contratto la tubercolosi nel suo primo periodo in Italia, il clima svizzero era ormai troppo rigido per lei, tanto che decise di tornare in Italia, all’Università di Napoli, per continuare i suoi studi universitari sulle malattie infettive. L’ambiente maschilista italiano la relegò subito ai margini del mondo accademico, ma la giovane rivoluzionaria, con la figlia Andreina al seguito, pur vivendo in abitazioni squallide non si arrese e iniziò a dedicarsi alla cura delle donne e dei bambini che venivano decimati dal colera. A Napoli la  Kuliscioff divenne la prima donna a laurearsi in medicina, tanto da superare le diffidenze maschiliste diventando una delle menti più grandi della realtà medica italiana, suscitando l’invidia di diversi colleghi maschi. La sua carriera medica, e i continui spostamenti, minarono i rapporti con Costa, da cui si allontanò per seguire la sua strada professionale e di ascesa sociale. All’apice della sua carriera medica, fu chiamata all’Università di Padova, come ricercatrice onoraria, non pagata, un posto senza dubbio prestigioso per una donna ebrea, non sposata e con una figlia a carico, condizione altamente discutibile nell’Italia dell’epoca. Nella città più famosa per la medicina italiana, Anna allestì anche un ospedale da campo, per curare i più poveri e gli emarginati, mostrando la volontà di non fare della medicina solo una carriera professionale ma anche una missione per migliorare la società della città. Nel frattempo è tra i fondatori del Partito Socialista Italiano, primo partito di massa in Italia, e conosce Filippo Turati, giovane socialista del quale si innamorò. L’attività di medico era particolarmente amata dalla Kuliscioff, ma la passione politica, alimentata anche dal nuovo compagno, non trovava il giusto sbocco nella sua vita attuale. Per Anna aiutare solo gli emarginati non era sufficiente, occorrevano delle leggi che li tutelassero, e per avere delle normative occorreva un’azione politica. Nel 1888 lascia l’Università di Padova per trasferirsi a Milano, base generale del socialismo italiano, allestendo anche lì un ospedale e divenendo la ‘dottora’ dei poveri. Visitava regolarmente la povera gente, specialmente le donne e i bambini, delle case popolari di Milano, portando avanti quello che passerà alla storia come socialismo medico, ovvero offrire assistenza gratuita a coloro che non potevano permettersi un medico. A Milano il movimento medico maschilista rifece però la sua comparsa, tanto da precludere il suo ingresso all’Ospedale Maggiore di quella che all’epoca era la capitale lombarda. Con l’aggravarsi dei suoi problemi fisici decise di dedicarsi principalmente al giornalismo politico, tramite la rivista Critica Sociale, assieme a Filippo Turati. Sulle pagine di Critica Sociale iniziò una vera e propria battaglia mediatica per i diritti lavorativi delle donne e per il diritto di voto femminile, tanto da essere malvista sia dai compagni socialisti che, addirittura, dal movimento femminista italiano che la riteneva rea di togliere alle donne la loro importante funzione domestica. Contro tutto e tutti Anna Kuliscioff continuò la sua battaglia, iniziando a tutelare anche il lavoro minorile, e arrivando alla stipula della Legge Carcano, che limitava il lavoro dei ragazzi sotto i 12 anni e dava ben 4 settimane di congedo alle donne che dovevano partorire. Spesso in contratto anche son lo stesso compagno, di vita e di partito, Turati, giudicato troppo moderato e attendista, Anna continuò la sua politica femminista, liberale e socialista, passando attraverso la scissione di Livorno del partito, il fascismo e l’omicidio di uno dei suoi pupilli, il giovane Matteotti, che poteva rappresentare una svolta nel mondo socialista riformista. Il 29 dicembre 1925 terminò l’avventura di una delle più grandi politiche della storia italiana, colei che può essere considerata la madre del socialismo riformista e del femminismo nella nostra Penisola. Forse troppo avanti per i tempi in cui viveva, ma sicuramente protagonista di un cambiamento radicale nelle mente degli italiani e delle italiane. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA PRIMAVERA DI PRAGA: IL SOCIALISMO DAL VOLTO UMANO

di Christian Vannozzi | La spietata dittatura sovietica iniziava a vedere la reazione delle repubbliche sorelle. Come era capitato a Budapest anche Praga, capitale della Cecoslovacchia, iniziava a mal sopportare la semi occupazione russa, e il suo regime dispotico, tanto che nel 1967, al congresso del partito comunista, il delegato Alexander Dubcek chiede ad alta voce maggiore democrazia e un socialismo dal volto umano. L’intervento di Dubcek scatenò un vero e proprio terremoto politico all’interno del partito comunista cecoslovacco, tanto che proprio lo stesso Alexander fu nominato nuovo segretario politico, con il compito di democratizzare la nazione. Il nuovo leader non mancò le aspettative dei democratici e della popolazione, abolendo la censura, introducendo il voto segreto alle assemblee del partito e ricostituendo il partito socialdemocratico, che era stato la vera spina nel fianco dei comunisti quando si instaurò la dittatura sovietica nella repubblica. Il clou delle riforme socialiste portate avanti da Dubcek si ebbe nella primavera del 1968, che passerà alla storia come Primavera di Praga, una vera e propria rinascita in senso democratico della nazione, che vide la partecipazione attiva della popolazione della capitale alla nascente democrazia. Tutto questo però attirò la prepotente attenzione di Mosca, che intimò a Dubcek di rivedere le sue decisioni libertarie, cosa che fu disattesa da parte dei cecoslovacchi, che nel mese di agosto del 1968 subirono una violenta invasione da parte dell’Armata Rossa, che entrò nella capitale con i suoi carri armati per ristabilire la dittatura. Praga cercò di resistere, con i cittadini che iniziarono a manifestare e a opporsi a tale occupazione. I negozianti si rifiutarono di vendere prodotti agli occupanti sovietici, e alcuni studenti si diedero fuoco in pubblico. Jan Palach, primo protagonista di questo gesto estremo, divenne l’emblema di questa lotta per la libertà, che fu naturalmente repressa nel sangue dai sovietici. La figura di Palach, quasi dimenticata nei successivi anni di dittatura, risalì alla ribalta dopo il crollo del regime a Mosca, ed è ora uno dei simboli della democrazia della Repubblica Ceca. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA REPUBBLICA DI WEIMAR: ESPERIMENTO LIBERALSOCIALISTA?

di Christian Vannozzi | Nel 1919, alla fine dei trattati di pace che avevano attribuito alla Germania il pagamento della quasi totalità delle spese militari e il crollo del Secondo Reich, costituito meno di 50 anni prima dal Cancelliere Bismarck , i socialdemocratici vinsero le libere elezioni politiche e si iniziarono i lavori dell’Assemblea Costituente che avrebbe scritto una costituzione liberale, democratica e socialista in un Paese che era stato tra i più conservatori d’Europa. La sconfitta in Guerra della Germania la stava trasformando in uno Stato democratico, tra i più avanzati d’Europa. La nuova costituzione fu promulgata l’11 agosto 1919 nella cittadina di Weimar nella Turingia, che darà appunto il nome storico di tale Repubblica, che seppur avrà una vita breve, rimarrà nella Storia come esempio. Seguendo i principi espressi nell’ Esprit Des Lois del filosofo francese Montesquieu, il nuovo Stato vedeva la divisione dei poteri, con il Parlamento (reichstag) che deteneva il potere legislativo, ed era eletto direttamente dai cittadini, sia uomini che donne, come anche il Presidente della Repubblica, eletto anch’egli dai cittadini che aveva il potere di controllo tra i vari poteri e quello di nomina del Capo del Governo a cui spettava il potere esecutivo. Il potere giudiziario era infine esercitato dai giudici, come oggi (almeno sulla carta) nelle moderne democrazie. Si trattava di una repubblica semi presidenziale come l’attuale Francia, che vedeva nel popolo il vero centro del potere, cosa senza dubbio lodevole ma che poteva rappresentare un problema in uno Stato all’epoca debole e che era appena uscito da una Guerra logorante che l’aveva indebitato fino al midollo. L’esercito e la burocrazia erano rimasti nelle mani dei dirigenti e degli ufficiali che avevano servito sotto il Kaiser Guglielmo II, che non mancarono di criticare aspramente il trattato di pace, giudicato umiliante, che la nuova repubblica aveva sottoscritto con le potenze vincitrici, condannando di fatto la nazione alla povertà, cosa che sarà pagata, a caro prezzo, soprattutto dalle classi più basse, cioè dagli operai e dai contadini, che invece di vedere migliorate le loro condizioni, le videro peggiorare rispetto agli anni dell’Impero. Ironia della sorte, invece di appoggiare il Governo, che stava costruendo qualcosa di importante, la popolazione tedesca si divise tra gli operai che iniziarono ad avvicinarsi sempre di più alle idee comuniste, abbondando quelle socialdemocratiche che vedevano ormai inutili, mentre impiegati e militari auspicavano l’avvento di un uomo forte, come lo era stato il cancelliere Bismarck, che avrebbe saputo riorganizzare attivamente la burocrazie e l’esercito senza farsi schiacciare dai vincitori. Nel 1920 non mancò un colpo di stato portato avanti da un alto funzionario prussiano che fu fortunatamente sventato dall’esercito repubblicano, mentre le associazioni operaie iniziarono scioperi su scioperi avvicinandosi pericolosamente alle idee comuniste, che non facevano altro che spaventare ulteriormente la borghesia, la burocrazie e l’esercito, sancendo un forte solco tra operai e borghesia. Nel 1923 la situazione precipitò ulteriormente, quando la Francia e il Belgio, a causa della morosità tedesca, occuparono la zona industriale della Ruhr, che diede il colpo di grazia all’economia tedesca nonché un fortissima perdita di valore del marco che veniva stampato con sempre maggiore velocità tanto che a livello internazionale non contava quasi più nulla. Chi aveva investito nei Titoli di Stato perse praticamente tutto, mentre gli stipendi pubblici venivano adeguati giornalmente verso il ribasso. Il Primo Ministro Stresemann formò un nuovo Governo moderato con tutte le forze costituzionali, cercando di unire i liberali e i democratici moderati e isolando, di fatto i comunisti e i nazionalisti, che iniziavano ad avere la simpatia di larghe fasce della popolazione. La crisi vedeva però i militari sul piede di guerra, tanto che alcune frange, guidate dal generale Ludendorff, a Monaco, si allearono con il piccolo partito nazionalsocialista guidato dal giovane Adolf Hitler, e tentarono un colpo di stato che fu però facilmente sventato dall’esercito fedele alla Repubblica che aveva deciso di non schierarsi con il generale Ludendorff. In quell’occasione il giovane Hitler fu imprigionato, iniziando a covare la sua vendetta. Stresemann riuscì, grazie ad abili accordi diplomatici con Inghilterra, Francia e Stati Uniti, a risollevare le sorti economiche della Germania, riducendo l’inflazione e rimanendo al Governo fino al 1929, nonostante la vittoria elettorale dei socialdemocratici nel 1928, Stressmann mantenne infatti il Ministero degli Affari Esteri, fino alla sua morte avvenuta nell’ottobre dello stesso anno. La caduta della borsa del ’29 e la morte dell’abile statista, fecero ripiombare la Germania nel caos, dal quale si liberò la figura di Adolf Hitler e del partito nazista, che nel 1933, tramite le elezioni, prese legittimamente il potere, cancellando in pochi mesi la Repubblica. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it