ODDINO MORGARI (1865-1944). BIOGRAFIA POLITICA DI UN “CITTADINO DEL MONDO”

Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO Nell’Italia nord-occidentale: Giovanni Lerda, Oddino Morgari, Costantino Lazzari, Dino Rondani   1. Il personaggio 2. Nel socialismo torinese del decennio 1890-1900 3. L’elezione nel 1897 e il Novantotto 4. L’ostruzionismo (1899) 5. L’attività all’inizio del Novecento (1900-1905) 6. Il” propagandista” Morgari e il “ciarlatano” Frizzi 7. A Torino agli inizi del secolo. Lo sciopero dei gasisti (1902) 8. Segreteria della Camera del lavoro e lotte del 1906 9. La sezione socialista torinese nel primo decennio del ‘900 10. Alla segreteria del PSI. L’”Integralismo” ( 1906-08) 11. La direzione dell’”Avanti!” (1908) e un primo “dialogo” coi cattolici 12. Attività in Parlamento e nel Paese (1907-11) 13. Con Salvemini per la questione Meridionale 14. Viaggio in Oriente e congresso di Ancona (1911-14) 15. Lo scoppio della guerra 16. L’incontro di Lugano (1915) 17. La «Missione Morgari». Parigi e Berna 18. Nel Paese in guerra (1915-16) 19. Da Zimmerwald a Kienthal 20. La Missione Ford 21. Nel Paese in guerra (1917-18) 22. La Commissione di informazione e di azione internazionale (1918) 23. La Comune di Budapest (1919) 24. I viaggi in Russia e la ricostruzione economica in Russia (1922 e1936) 25. Nell’antifascismo in Italia e in Francia (1922-44)   Il personaggio Nato a Torino il 16 novembre 1865 in una famiglia di pittori (tali furono il padre Paolo Emilio, la madre Clementina Lomassi, la sorella Bice, il fratello Luigi, il più celebre, vissuto dal 1857 al 1935 e autore di numerosi affreschi[1]), questa parentela concorse probabilmente allo stereotipo di “bohemien”. A questa nomea contribuì l’autobiografia di Rinaldo Rigola in cui l’anziano sindacalista racconta che, eletto deputato nel 1904, non essendovi allora indennità per tale carica “l’on. Morgari mi impartiva delle lezioni di economia parlamentaristica:…”risparmio i soldi dell’albergo andando a dormire in treno. Combino il viaggio in modo che tra l’andata e il ritorno ci sia da passare l’intera notte” approfittando  della franchigia ferroviaria che consentiva ai deputati di viaggiare gratuitamente.”Sapevo che Morgari era capace di fare ciò ed altro ma non ero  del suo avviso…non mi sentivo di spingere il mio eroismo a tal punto……non [ero ] tagliato per l’eccentricità”  [2] Più seriamente, c’è sicuramente nella sua vita un lato avventuroso, un  certo gusto per la vita nomade: dal soggiorno in Francia alla fine degli anni ’80 alla presenza in Macedonia nel 1903 dove era accorso in occasione dell’insurrezione al dominio turco, dai due anni trascorsi in Estremo Oriente (1911-13), ai viaggi durante la guerra mondiale per riallacciare i rapporti tra i socialisti, fino alla presenza a Budapest durante la “Comune” e ai viaggi in Russia nel 1922 e alla metà degli anni ’30. Spontaneo il paragone con personaggi del socialismo dell’epoca, come Giacinto Menotti Serrati[3] che trascorse una parte importante della sua vita nell’emigrazione come organizzatore dei lavoratori italiani in Svizzera e negli Stati Uniti, o come il “cittadino del mondo” Edmondo Peluso[4]   che ha suggerito il sottotitolo.  Al di là dell’aspetto pittoresco è importante cogliere lo spessore umano e politico del personaggio che fu una figura non secondaria di un quarantennio del socialismo italiano, e nel periodo della guerra anche internazionale, trovandosi sovente al centro dei più importanti avvenimenti, fino almeno al primo dopoguerra quando verrà superato dai nuovi eventi e da una nuova generazione. Nel sistema di valori fondativi del socia­lismo italiano delle origini, il carattere positivistico-sentimentale della sua adesione è comune alla maggior parte della  generazione, mentre i suoi tratti distintivi sono il disinteresse, che lo portò a subire più che a ricercare le cariche direttive, e la predicazione tra le masse. Nelle cronache delle agitazioni e degli scioperi di tutta Italia, dal 1890 in poi è raro non trovare il suo nome: quando la situazione si faceva critica e occorreva la presenza di qualcuno che sapesse parlare alle masse, le sezioni del Partito e le Camere del Lavoro si rivolgevano a lui.. Nel 1885 durante il  servizio di leva,  che per la sua conoscenza del disegno andava  svolgendo all’Istituto Geografico Militare di Firenze, ebbe luogo la sua iniziazione politica, che così rievocherà in uno scritto dei suoi ultimi anni: “nella mia adolescenza per motivi di natura psicologica ed ereditaria la mia mentalità era come una spugna pronta ad imbeversi di quel qualunque ideale umanitario che le fosse prospettato dal primo idealista in cui si sarebbe imbattuto; e volle il caso che questo fosse un mazziniano andato al par di me  nella Fortezza di Basso di Firenze, ragion per cui in tre giorni fui avvinto e mi diedi a quella fede per metà politica e per metà religiosa con quella stessa ardente passione con cui un giovane vive il suo primo amore” [5] Ma fu trasferito per punizione «quando il Ministero delegò una Commissione disciplinare a giudicare di un rapporto della polizia, che [lo] denunciava come mazziniano»[6]  Espatriato dopo il servizio militare,  raggiunse Parigi e in seguito Marsiglia dove dal settembre al dicembre del 1890 diresse il circolo mazziniano. Per usare le sue parole, scritte però a cinquant’anni dagli avvenimenti e quindi da considerare con cautela:  “Quattr’anni erano passati dopo d’allora durante i quali avevo preso contatto col pensiero socialista traverso scarse ed incomplete battute, cosicchè poco a poco ero venuto a dubitare che il mazzinianesimo fosse un edificio mancante di alcuni muri maestri, ma per passare alla convinzione socialista ero impedito da diverse obiezioni suggeritemi dal buon senso dell’aspetto pratico delle questioni già vivo in me nonostante l’età giovanile. Respingevo con noia certe obiezioni volgari…..ma certi altri dubbi mi ponevano in imbarazzo: per esempio mi stringeva il cuore assistendo alla propaganda di tanti sindacalisti e socialisti che alle masse parlavano soltanto di diritti e mai di doveri…e che si disinteressavano delle sofferenze di tanti altri lavoratori solo perchè non portavano il berretto dell’operaio di fabbrica….Si poteva temere che nel nuovo assetto si scatenasse una nuova forma di sfruttamento, quella degli oziosi e dei cinici sui compagni coscienti e volonterosi…. mi chiedevo se per ottenere un corretto adempimento dei nuovi obblighi sociali non sarebbe stato necessario un regime di …

COSI’ LA MAFIA UCCISE SALVATORE CARNEVALE

Il 16 maggio 1955 all’alba la mafia di Sciara uccise a 31 anni Salvatore Carnevale, socialista e dirigente della Camera del lavoro in quel paesino del Palermitano. A giudicare dalle cronache i funerali, che si svolsero il 17, non ebbero la solennità che l’evento meritava. Non c’era “tutta Sciara”, come con una certa enfasi scrisse l’”Avanti!”, e l’assente non era solo il sindaco democristiano; tuttavia il corteo era affollato e fitto, i braccianti e i cavatori di pietra in gran numero, in prima fila i compagni socialisti e comunisti. In ogni caso la feroce intimidazione sembrava aver funzionato. I mafiosi non si erano limitati all’omicidio, avevano saccheggiato le stie dei contadini prelevando lo scarso pollame e avevano banchettato una notte intera, spargendo le piume per le vie del paese. Tra i più il dolore che accascia e la paura sembravano prevalere sulla volontà di riscossa. Solo la madre della vittima, Francesca Serio, sembrò avere una reazione di orgogliosa sfida nei confronti delle forze del male. Depose con le proprie mani sulla cassa la bandiera rossa e gridò: “Per questa bandiera mio figlio è morto, con questa bandiera deve andarsene”. L’atteggiamento comune a gran parte della stampa era minimizzare. I giornali nazionalmente e localmente più diffusi si definivano “indipendenti” e “di informazione”, ma era più esatto chiamarli “padronali” e “governativi” come facevano i socialcomunisti. “Il Messaggero” aveva dato la notizia del ritrovamento del cadavere appaiandola a quella di un delitto comune. “Il Tempo” aveva scritto: “Quantunque le organizzazioni di sinistra insistano nel ritenere l’uccisione del Carnevale un delitto politico, la Polizia è del parere che allo stato degli atti ogni ipotesi è azzardata”. Il “Giornale d’Italia”, al tempo molto diffuso, arrivava addirittura ad escludere categoricamente il movente politico. Il “Corriere della Sera” espressione della borghesia settentrionale, ostentava un totale distacco, pubblicando due colonnine in settima pagina con la notizia dell’omicidio nuda e cruda . La stampa isolana aveva fatto di peggio. Il “Giornale di Sicilia”, l’unico ad ampia diffusione nel Palermitano, insisteva sulla catena di delitti avvenuti nella zona, in cui l’uccisione di Carnevale veniva quasi annegata. La “Sicilia del popolo”, espressione della Dc isolana guidata da Scelba, al tempo capo del governo italiano, e Restivo, presidente della Giunta regionale, con un corsivo affidato a un “Signor Q”, parlava di strumentalizzazione: “I socialcomunisti cercavano da tempo un cadavere per farne una vittima. La loro attesa non è andata delusa…”; difendeva come “innocenti” e “galantuomini” i mafiosi locali e piazzava alcune oblique allusioni per sporcare l’immagine di Carnevale e dei suoi compagni. Dopo il funerale, il 18 maggio, la segreteria regionale del Psi, guidata da Raniero Panzieri, organizzò la risposta di massa, resa più difficile dallo svolgimento dei comizi per le imminenti elezioni regionali. Psi e Pci, uniti nel movimento di massa, erano infatti in competizione nella campagna elettorale. Esaurito il tempo del frontismo, tutti i socialisti si ponevano il problema di una svolta a sinistra che prevedesse la loro partecipazione al governo. Dal 1953 fu tempo di incontri e di dialoghi. Morandi a Torino si incontrò con Gonella per discutere un possibile incontro tra socialisti e cattolici in nome delle comuni radici popolari, Nenni si incontrò con Saragat a Pralognan muovendo i primi passi per una possibile unificazione del mondo socialista. Alle elezioni regionali i socialisti andarono con il proprio simbolo e in alleanza con il piccolo movimento di Unità popolare di Parri, dopo aver rifiutato una lista unitaria con il Pci, chiedendo l’apertura a sinistra. In queste condizioni l’aiuto del Pci per una iniziativa di massa non sarebbe mancato, ma non sarebbe stato generoso come in altre circostanze. Panzieri convocò comunque una manifestazione a Sciara per lunedì 23 maggio. Per lo stesso giorno il partito socialista sospese i comizi in tutta la Sicilia, mentre nelle sezioni si sarebbero svolte assemblee. La parola d’ordine dichiarata aveva lo stile un po’ greve di quegli anni: “Nel nome del compagno Salvatore Carnevale, rafforziamo il Partito Socialista e creiamo le condizioni per sconfiggere la reazione agraria e feudale e permettere l’apertura a sinistra”. Vennero assunte anche misure organizzative: fu inviato a Sciara stabilmente un dirigente prestigioso come Gaspare Gambino e si prevedeva che altri lo seguissero a Caccamo e in tutta la zona infestata dalla mafia del feudo. Venerdì 20 dalla Direzione Nazionale arrivò a Palermo Sandro Pertini, deputato ed eroe dell’antifascismo, che l’indomani avrebbe accompagnato Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, in tribunale. La donna, convinta dell’incapacità dell’autorità inquirente locale di rompere l’omertà che circondava il delitto, aveva deciso di rivolgersi con un esposto alla Procura generale della Corte d’Appello. La denuncia, spiegò Pertini all’ “Avanti!”, non era solo un circostanziato memoriale che evidenziava il carattere politico mafioso dell’omicidio, ma anche un atto di coraggio e fiducia, un invito a tutti quelli che sapevano qualcosa ad uscire dalla rete del silenzio. Subito dopo, nello stesso giorno di sabato 21, Pertini era in giro nei paesi del palermitano a comiziare per la campagna elettorale, la sera fu già a Sciara a parlare con i compagni, a consolare, confortare e incoraggiare. Vi sarebbe rimasto fino alla sera di lunedì 23, il grande giorno della manifestazione. I resoconti della manifestazione sono unanimi: nel contesto dato la partecipazione fu davvero grande, duemila compagni, forse di più. Erano arrivati dai paesi vicini, Rocca, Partinico, San Giuseppe Jato, San Cipirrello, Cerda, Aliminusa, Piana dei Greci, Corleone, tutte località ove la pressione mafiosa era fortissima. Vi erano delegazioni anche dai centri maggiori della provincia, Termini, Bagheria, la stessa Palermo. Ad organizzare la partecipazione erano state soprattutto le Sezioni socialiste e le Camere del lavoro e la partecipazione più cospicua era dei muratori (Carnevale lavorava alla cava di pietra ed era dirigente della Filea, il sindacato degli edili). C’erano anche molti comunisti con le loro bandiere, intervenuti da ogni parte della provincia. Alle 17 un lunghissimo corteo si mosse verso Cozzi Sicchi, la contrada dell’assassinio, ove si trovava anche la pietraia ove lavorava Turiddu. Lo guidava Pertini, affiancato da Panzieri, per strade impervie e viottoli. Nel luogo del delitto …

“LA LOTTA PER LA VITA” (1894)

Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO Nell’Italia nord-occidentale: Giovanni Lerda, Oddino Morgari, Costantino Lazzari, Dino Rondani   Premessa Tra positivismo e massoneria (1880-1893) Lo sviluppo industriale e le origini del socialismo torinese Giovanni Lerda nel socialismo torinese (1888-93) Il modello socialista genovese Il decennio genovese (1893-1902) La lotta per la vita (1894) Il Congresso di Firenze (luglio 1896) Il socialismo e la sua tattica (ottobre-novembre 1896) La polemica con Bernstein (1897) Esilio svizzero (1898-99) e attività all’estero Il nuovo secolo e il “ferrismo” (1900-1906) La frazione intransigente (1906-11) Da Modena a Reggio Emilia (1911-12) L’impresa libica nel quadro dell’imperialismo italiano ed europeo Il congresso di Ancona, la guerra e il dopoguerra Il suo primo tentativo di un’esposizione elaborata ed organica dei concetti divulgati in modo  frammentario  nei suoi articoli e comizi, fu il saggio “La lotta per la vita”[1] che riprese e allargò una recensione già apparsa nell’ “Archivio di psichiatria”, in polemica al libro di Jacques Novicow[2] “Les Luttes entre les sociétés humaines et leurs phases successives” [3]. Al Novicow, che ap­plicava meccanicamente alla dinamica storico-sociale la metodologia evoluzionista darwiniana, contrappose la funzione nella realtà sociale dell’inizia­tiva umana  come forza organizzata in vista di obiettivi selezionati consapevolmente dai «bisogni» dei  diversi raggruppamenti di classe da cui, essendo contraddittori fra loro, nasceva inevitabilmente la «lotta per la vita». Si trattava di un richia­mo alla funzione determinante dell’iniziativa umana, misconosciuta da chi riteneva che la storia fosse esclusivamente il campo di gioco meccanico di forze uniformi con un loro inevitabile svi­luppo. Lerda cercò di chiarire in che cosa consi­steva la intelligenza organizzatrice dei raggruppamenti sociali, e cioè quali erano le concrete forze storiche nelle quali erano venuti ad articolarsi e a formarsi quei gruppi o classi. Parlando dell’uomo lo definì «una parte minima di un intero ed enorme organismo che gli si impone inconsciamente…che…non può reagire contro l’ambiente che in minima misura, essendone esso stesso saturo, e tanto meno poi egli può trasformarlo». In ogni società Io «sviluppo e l’opera di trasformazione non può prodursi che dalla massa».  Con ciò la funzione dell’iniziativa storica veniva trasferita all’interno della massa: “ora abbiamo degli individui ignoranti, che nulla comprendono, che nulla tentano determinatamente per un ideale elevato; ma i quali però, solo seguendo l’impulso dei bisogni che si fanno vivi nelle diverse classi cui appartengono, gettano lentamente le basi di un nuovo edificio sociale di cui solo più tardi la scienza studierà e determinerà il processo evolutivo».[4] Affermando che «non già dall’individuo si  ha  la forza che deve condurre gli aggregati  umani a migliori  destini, ma sibbene dall’intera società o almeno da quella  parte di  essa che  rappresenta  le tendenze  evolutive,  che  in questo  momento  storico  vanno concentrandosi nel proletariato”[5] poneva l’accento sulle ten­denze evolutive della intera società, la cui forza animatrice finiva per essere non l’inizia­tiva autonoma del proletariato, ma la “scienza che studia e determina il processo evolutivo”  di cui il proletariato era una particolare, provvisoria coagulazione. Gli artefici dell’iniziativa storica non potevano che essere gli «scienziati» socialisti delle leggi evolutive, che avrebbero agito nei confronti dell’organismo sociale così come “il biologo incrocia razze animali o innesta una specie di vegetale sull’altra”. La sua formazione ed esperienza di propagandista lo portava­no a seguire certe valutazioni implicite: che le masse si muovono solo per motivi biologici-utilitaristici e che l’intelligenza e la vita morale possono animare le masse solo se ricevono un costante apporto educativo dalle «élites» pedagogiche del Partito. Nel suo pensiero una cosa era la «rivo­luzione delle idee» e un’altra quella «degli ordinamenti», una cosa l’agitazione ideologica e un’altra il “rinnovamento fatale della società”, per cui si creava un duali­smo tra teoria e prassi, tra «scienza marxista» e «leggi fatali» della vita economica e sociale, colpendo così un  pilastro del pensiero marxista. Sempre nel 1894, nell’intervista “a personalità del mondo letterario, artistico e scientifico“[6] respinse qualsiasi attributo emotivo «al socialismo… che è scienza…[e].. deve per quanto possibile allontanare qualunque elemento perturbatore o deprimente che potrebbe condurlo ad una falsa interpretazione delle leggi che fatalmente si sviluppano nell’attuale momento economico e sociale». Il Congresso di Firenze (luglio 1896) Al quarto Congresso nazionale del PSI, tenuto a Firenze dall’11 al 13 luglio 1896,  facilitato dalla sua compagna Oda Olberg, già corrispondente della Wiener Arbeiterzeitung, iniziò l’attività di corrispondente di riviste socialiste tedesche ed austriache. Sul Sozialistische Akade­miker riportò le sue impressioni sul Congresso e sulla situazione particolare in cui si trovava il movimento operaio italiano dopo la caduta del Crispi[7]. Sul punto all’ordine del giorno “Organizzazione del Partito” relazionò Lazzari che sostenne l’impostazione che si era data il precedente congresso di Parma, basata sull’adesione individuale al posto di quella delle organizzazioni. Questo criterio, che si basava sul modello della socialdemocrazia tedesca, mentre il sistema delle adesioni collettive era caratteristico del laburismo britannico, fu motivato come prova dell’avvenuta maturazione nei singoli militanti di una consapevole coscienza di classe ma era nato da considerazioni di opportunità, come espediente  per sottrarsi alla repressione crispina: separare dalle sezioni di partito le organizzazioni di classe significava consentire a queste un almeno formale agnosticismo politico che le collocava nelle retrovie della battaglia preservandone l’esistenza per tempi migliori. La relazione di Lazzari insisteva sull’organizzazione politica  basata sui collegi elettorali, che era stata valida quando l’infuriare delle leggi eccezionali aveva costretto i lavoratori ad organizzarsi nell’unica forma legalmente riconosciuta, ma ora rivelava la sua incapacità di esprimere a livello più alto le istanze politiche degli strati popolari, e su ciò  si aprì un dibattito. Per Lerda un’involuzione «radico socialista» si profilava nel socialismo italiano determinata da una sempre più grande distanza tra il gruppo dirigente del Partito socialista, che rischiava di diventare una “élite” sempre più orientata verso un «socialismo borghese carrie­ristico» e i settori popolari economicamente più svantaggiati, verso cui non erano sufficienti i discorsi rivoluzionari ma si doveva svolgere una propaganda capillare e farsi interpreti delle loro rivendicazioni ed esigenze per trasferirle a livello politico, cosa che riguardava anche gli emigrati, a favore dei quali Lerda sostenne l’istituzione di un ufficio esecutivo centrale del partito. …

GIOVANNI LERDA NEL SOCIALISMO TORINESE (1880-92)

Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO Nell’Italia nord-occidentale: Giovanni Lerda, Oddino Morgari, Costantino Lazzari, Dino Rondani   Premessa Tra positivismo e massoneria (1880-1893) Lo sviluppo industriale e le origini del socialismo torinese Giovanni Lerda nel socialismo torinese (1888-93) Il modello socialista genovese Il decennio genovese (1893-1902) La lotta per la vita (1894) Il Congresso di Firenze (luglio 1896). Il socialismo e la sua tattica (ottobre-novembre 1896) La polemica con Bernstein (1897) Esilio svizzero (1898-99) e attività all’estero. Il nuovo secolo e il “ferrismo” (1900-1906) La frazione intransigente (1906-11) Da Modena a Reggio Emilia (1911-12) L’impresa libica nel quadro dell’imperialismo italiano ed europeo Il congresso di Ancona, la guerra e il dopoguerra L’esperienza torinese, influenzata dal fenomeno dell’«andata al popolo» degli intellettuali, che ebbe caratteristiche illuministe e umanitario-sentimentali, incise profondamente su di lui, determinando il suo modo di concepire i rapporti tra intellettuali e classe operaia e di intendere la propaganda e l’educazione come mezzi di emancipazione. Compì il suo tirocinio di intellettuale borghese votato alla causa del riscatto della classe lavoratrice negli anni in cui il proletariato torinese stava scrollandosi l’egomonia delle correnti moderate e legalitarie, e finalizzò il lavoro di organizzazione delle masse alla formazione di una coscienza di classe potenzialmente egemonica. Collaborò prima al periodico di tendenza anarchica “Proximus tuus”, poi alla “Questione sociale”, ed infine divenne fondatore del “Secolo XX”, uno dei sostegni più consistenti per la Camera del lavoro. Caratte­ristica comune degli articoli che scrisse per il “Secolo XX”, il cui motto era «agitate, educate, organizzate», furono l’attenzione agli aspetti biologici della questione operaia, la propaganda elementare di impronta positivista e la sottolineatura dell’importanza determinante della organizzazione. Nel primo numero, in occasione della celebrazione del Primo Maggio, rivolgendosi ai borghesi, così si espresse «Non temetela, non credetela una battaglia quella del 1.Maggio, siete troppo forti ancora… troppo grande ancora è l’ignoranza e l’ineducazione delle masse… [ma] … per la forza della nostra educazione, della nostra volontà, del nostro numero, voi ogni giorno più perdete terreno di fronte alla nuova idea rigeneratrice… non è una sommossa, è una grande rivoluzione nelle idee, cui seguirà parallelamente la rivoluzione degli ordinamenti attuali”[1] Sempre sul “Secolo XX”[2] deprecò le decorative e superflue spese di certe società operaie di mutuo soccorso in occasione di cerimonie ed il loro ossequio alla borghesia. Pur non sfuggendogli il valore dell’associazionismo, forma primitiva di organizzazione di classe, ne ripudiò la finalizzazione alla sola ricerca di maggiore benes­sere e ne vide la funzione positiva quando la rivendicazione economica scaturiva da una chiara coscienza della propria condizione, che le masse acquisivano solo in un’organizzazione formatrice di consapevolezza oltre che di unità. Nel 1892 fu tra i propugnatori della partecipazione dei socialisti alle elezioni. Il Piemonte non era nuovo a candidature dell’Estrema: oltre a quella di Costantino Lazzari, nel collegio  di Torino, il 20 aprile 1884 l’anarchico Amilcare Cipriani venne contrapposto a Benedetto Brin, ministro della Marina, seguito il 23 novem­bre 1890 da Andrea Costa, che raccolse 340 preferenze su oltre 10.000 votanti. A Novara il 23 maggio 1886 l’operaista Giuseppe Croce raccolse 239 preferenze su 13.000 votanti. Solo nel Cuneese nessun operaista o socialista contese il terreno alla lista guidata da Giovanni Giolitti, mentre nel collegio di Saluzzo era Andrea Ferrero-Gola, fratello del più famoso Giuseppe, garibaldino, già internazionalista e massone, a raccogliere il voto di protesta contro i candidati governativi. Nelle elezioni del novembre 1892 si presentò una lista socialista con candidati in quattro collegi, con risultati deludenti: Prampolini ottenne 53 voti, Lerda 153. Mentre per Lerda il problema della sconfitta non si poneva, non avendo mai puntato sulle elezioni se non come occasione per far sentire la voce del socialismo, nella nota di commento pubblicata dalla “Squilla” e scritta da Morgari si coglieva una posizione più problematica, espressione di una cultura per la quale lotta economica e lotta politico-parlamentare formavano un tutto unico e che poneva l’esigenza di una tattica di partito integrale. Il periodo genovese (1893-1902) Giovanni Lerda si trasferì nel 1893 a Genova, dove divenne comproprietario con Giovanni Ricci della Libreria Moderna in Galleria Mazzini[3]. Qui curò l’introduzione di opuscoli sociologici e politici e collaborò alle attività editrici della libreria, il cui  catalogo del 1907 comprendeva un volume di Marx-Engels (Pagine scelte), altrettanti di Kautsky e di Wagner, tre di Vandervelde e undici di Tolstoj,[4] e tenne riunioni con studenti e operai che destarono le preoccupazioni e la segnalazione della Questura genovese.[5] Riprese la sua opera di pubblicista militante sull’ “Era Nuova“ di cui fu uno dei fondatori nel 1894 e dove pubblicò una serie di articoli divulgativi sul “Capitale“, già ap­parsi sul “Secolo XX“ di Torino[6] nel 1891-92, e alcuni studi sulle condizioni di lavoro, igieniche e di orario degli operai e su quelle dei con­tadini colpiti dalla crisi agraria. Come aveva parlato “Agli operai socialisti” sul giornale torinese, ammaestrandoli, col medesimo indirizzo si rivolse loro sul settimanale genovese.[7] Collaborò alla costi­tuzione delle Camere del Lavoro di Sampierdarena e Genova e  partecipò ai congressi della Federazione regionale socialista ligure in rappresentanza della federazione collegiale di Voltri. Al primo Congresso, che ebbe luogo a Sampierdarena il 13-14 maggio 1894, nella relazione sull’azione per la conquista dei Comuni[8] sostenne la tesi del  decentramento amministrativo che riprese e approfondì negli studi pubblicati nel 1904 sulla  “Rivista Municipale”[9]  il periodico dell’Associazione nazionale dei comuni d’Italia. Fu spesso colpito da misure di polizia: multato più volte per aver promosso pubbliche conferenze non autorizzate e proposto il 16 settembre 1894 per l’assegnazione al domicilio coatto dalla questura di Genova, ma la Commissione Provinciale, con deliberazione del 15 ottobre respinse la pro­posta, ritenendo che «sebbene il denunciato siasi qualificato socialista evoluzionista, pur nullameno a suo carico non risulta che egli abbia manifestato idee o principi anarchici, e tanto meno che abbia fatto «propaganda in questo senso, e manifestato il deliberato proposito di «commettere vie di fatto contro gli ordinamenti sociali»[10]. Tenta di dimostrare che chi si ubriaca in osteria non è un vero operaio “E’ vero, alcuni disgraziatamente si danno al lusso di ubriacarsi domenica …

GIOVANNI LERDA TRA POSITIVISMO E MASSONERIA

Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO Nell’Italia nord-occidentale: Giovanni Lerda, Oddino Morgari, Costantino Lazzari, Dino Rondani   Premessa Tra positivismo e massoneria (1880-1893) Lo sviluppo industriale e le origini del socialismo torinese Giovanni Lerda nel socialismo torinese (1888-93) Il modello socialista genovese Il decennio genovese (1893-1902) La lotta per la vita (1894) Il Congresso di Firenze (luglio 1896). Il socialismo e la sua tattica (ottobre-novembre 1896) La polemica con Bernstein (1897) Esilio svizzero (1898-99) e attività all’estero. Il nuovo secolo e il “ferrismo” (1900-1906) La frazione intransigente (1906-11) Da Modena a Reggio Emilia (1911-12) L’impresa libica nel quadro dell’imperialismo italiano ed europeo Il congresso di Ancona, la guerra e il dopoguerra Premessa «Appartiene alla preistoria del socialismo ligure e del socialismo italiano. Scrivendo così, epigraficamente, di Giovanni Lerda, incido il suo nome tra quelli degli apostoli».[1] Queste solenni parole dedicate alla sua leggendaria figura di pioniere del socialismo in Liguria ritraevano lo stato d’animo di devozione che seppe suscitare attorno alla sua persona[2] per l’attività propagandistica e organizzativa[3] Il movimentato percorso di Giovanni Lerda riflette le complesse e contrastanti esperienze di un trentennio di storia del socialismo italiano. Formatosi nella torinese Editrice Scientifica Bocca, culla del positivismo, iscritto alla massoneria senza condividerne l’anticlericalismo di origine democratico-risorgimentale, il suo avvicinamento al marxismo è simile a quello di molti esponenti socialisti della sua generazione il più illustre dei quali fu Enrico Ferri. I suoi tratti distintivi furono una particolare attenzione alle condizioni materiali di vita dei lavoratori ed un impegno costante sul piano della propaganda elementare. Dalla sua formazione culturale da autodidatta derivò un certo eclettismo, una concezione pedagogica della cultura e un atteggiamento di deferenza nei confronti degli intellettuali provenienti dal mondo accademico. L’occasionalità degli articoli di giornale e dei comizi nascondevano la debolezza dei concetti che divulgava tra le folle, ma quando si trattava di dare un contributo teorico allo sviluppo del marxismo emergeva la mancanza di rigore sistematico e la frammentarietà del suo pensiero. Fu però uno dei pochi socialisti italiani che, per la sua conoscenza del tedesco e i contatti stabiliti grazie alla sua compagna Oda Olberg[4], partecipò ai dibattiti della Seconda Internazionale. Rivolse anche l’attenzione alla religione, considerandola un tramite per la realizzazione di un socialismo inteso moralmente come solidarismo da praticare all’interno della famiglia, negli ambienti del lavoro, nella vita privata. Nella iscrizione che volle sulla lapide: “visse e morì come ateo” la chiave di lettura sta nel «come», che allude al valore strumentale del suo ateismo visto, in un’ottica illuminista, come superamento della religione in nome della “ragione morale”. Tra positivismo e massoneria (1880-1893) Nato il 29 settembre 1853 nel forte di Fenestrelle[5], in una famiglia di militari (un nonno era stato nella Grande Armata napoleonica in Russia), rimasto orfano del padre nell’infanzia, fu costretto a lasciare la scuola nautica[6] per motivi economici. Trovò allora lavoro a Torino presso la Casa editrice Bocca[7], in cui entrò come impiegato subalterno, ma di cui divenne direttore a soli 27 anni nominato nel 1880 dal vecchio proprietario. La Casa curava le “Edizioni Scientifiche”, in cui pubblicavano Max Nordau,[8]  Herbert Spencer, Enrico Ferri, Iakov A.Novicow, Scipio Sighele[9], Giuseppe Sergi, Cesare Lombroso, che dirigeva anche l’ ”Archivio di antropologia criminale, psichiatria, e medicina legale”.[10]  L’attività editoriale  lo mise in contatto con questo ambiente da cui ricevette un’indelebile impronta, ma  anch’egli contribuì alla autodecomposizione del positivismo che avvenne in Italia a cavallo dei due secoli. Torino sul finire dell’800 fu uno dei maggiori centri di diffusione del materialismo evoluzionistico, che nel mondo intellettuale torinese aveva radici lontane. Nel 1860 su invito di Francesco De Sanctis era venuto nell’Ateneo torinese come docente di bio­logia Jacob Moleschott, uno dei grandi maestri del materialismo, che anche dopo il suo trasferimento a Roma nel 1879 non perse i contatti con quell’ambiente, collaborando con la torinese “Rivista di filosofia scientifica“.[11] La frequentazione di questo ambiente culturale permeato di un’etica laica che sconfinava nell’anticlericalismo, ne favorì l’avvicinamento alla massoneria che risale al 1884, quando fu affiliato alla loggia “Dante Alighieri”[12], e diede inizio a una militanza all’interno del Grand’Oriente d’Italia che fu interrotta solo dalla morte. Nel 1892  contese il collegio di Torino 2 al liberale Edoardo Daneo, massone da più lunga data iniziato nella loggia «Pietro Micca-Ausonia». Il duello elettorale, più che una lotta “fratricida”, si inserì nella tensione fra le diverse anime della “famiglia massonica” che vide dislocarsi a favore del «sol dell’avvenire»[13] scrittori, professori, scienziati e imprenditori, fiduciosi nel «fatale cammino» dell’umanità verso un progresso che doveva significare anche redenzione delle plebi. Massone secondo una visione del progresso dell’umanità in cui il proletariato diventava il moderno fattore di elevamento culturale e il principe illuminato, non ritenne incompatibile l’appartenenza alla massoneria e quando questa fu condannata al congresso socialista di Ancona del 1914 si distaccò dal partito, senza cessare di considerarsi socialista. Lo sviluppo industriale e le origini del socialismo torinese La storia di Torino operaia e socialista è stata scritta più volte[14] ma si ritiene utile fornire alcuni dati essenziali di inquadramento. L’Esposizione Universale del 1884 aveva sancito il superamento della crisi legata al trasferimento della capitale. Su una popolazione nel 1880  di 300.000 abitanti gli addetti all’industria (comprendendo anche i lavoratori a domicilio e parte degli artigiani) costituivano una quota del 20-30 %. La maggior parte delle imprese risultava già allora concentrata nei settori metallurgico e tessile con il 40% e il 19% delle imprese cittadine rispettivamente. Accanto al vecchio comparto statale (Arsenale militare, Manifattura tabacchi, Officine ferroviarie) che continuava a rappresentare il più consolidato nucleo produttivo cittadino, cresceva un tessuto di imprese private dotate di grande dinamismo che avevano dato vita a stabilimenti di medie dimensioni con maestranze operaie dalle 100 alle 300 unità e che negli anni tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, nonostante la rottura commerciale con la Francia e la crisi bancaria, riuscirono a consolidare il primo nucleo del capitalismo d’impresa destinato a soppiantare le produzioni governative e a fornire alla città il suo definitivo volto industriale. Questo processo di …

QUELLI CHE LASCIANO TRACCE DELLA LORO ESISTENZA!

di Pasquale Calandra Il 28 maggio 1947, l’Avvocato Francesco Leone, Socialista Nicosiano (Ciccio nella foto), che io ho appena conosciuto e successivamente apprezzato, per le sue battaglie e la sua attività politico-istituzionale di cui ha lasciato tracce nella nostra città, scriveva questo articolo sul periodico “L’Eco dei Monti”, riflettendo sul primo maggio, mi piace riprodurlo nella speranza di fare cosa gradita, augurando una serena domenica! ECCOLO: Primo Maggio: Festa del Lavoro, Festa della Primavera! Sono passati centoventinove anni da quando a Parigi un Congresso Internazionale stabiliva che nella giornata del Primo Maggio i Lavoratori di tutto il mondo sospendessero il lavoro per rivendicare il loro diritto a un domani migliore, in cui lo spirito della sopraffazione e dello sfruttamento cedesse finalmente posto ad uno spirito di solidarietà e di giustizia. Da allora la giornata del primo maggio è stata consacrata a rivendicare i diritti della classe lavoratrice, ad auspicare il graduale miglioramento delle sue condizioni di vita. Per la terza volta in Italia la fine della dittatura, dopo la fine della tragedia immane che ha travolto uomini e cose, essa è tornata ad essere celebrata, e in essa tutti i lavoratori si sono levati: hanno lasciato i campi, le officine, gli uffici, gli studi, contadini, operai, impiegati, professionisti, dicendosi tutti fratelli, di ogni stirpe e di ogni Dio: unendosi tutti a guardare anelanti il sorgere di un’alba migliore a scambiarsi l’augurio dell’ideale: «Salute, o primo maggio! O pace, o libertà, o giustizia!» Nel sole della primavera. Con la gioventù danzante sotto gli alberi in fiore nell’espressione della vita irresistibilmente avanzante: inconscio anticipo di una società a venire. Anche a Portella della Ginestra erano scese dai paesetti vicini le genti, e forse per un giorno anche la ruga di tristezza si sarebbe allentata sulla fronte degli anziani, nella fiducia spirata dal profumo dei fiori, dai canti dei giovani danzanti. Ma Ecco a un tratto dai colli sovrastanti precipitare l’odio armato di pochi contro la festa e il risveglio dei lavoratori, spruzzare le ginestre di macchie vermiglio vivo, fendere le ossa fatto piombo dalla scienza. Giacciono, supini tra i fiori, i corpi falciati dalla mitraglia, cogli occhi a un sogno e a un cielo che hanno trasceso, tra l’Urlo pauroso delle genti in fuga, sotto il sole che triste li accarezza, mentre biechi occhi assassini si chinano su di loro, saturi di bestiale odio inappagato. Contro il primo maggio hanno scagliato la loro rabbia infame, contro le rivendicazioni dei lavoratori, segnate ora da altre gocce di sangue: hanno straziato delle anime e dei corpi, ma il primo maggio non l’hanno ucciso. E non potranno mai ucciderlo…la storia non si ferma! L’uomo conquista ad una ad una le sue libertà, e nessun delitto, alcun massacro, nessun sadismo schiavista e reazionario potrà fermarlo nel suo cammino. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’ECCIDIO DI BASSANO DEL GRAPPA

di Franco Beccari e Federica Magnabosco Lentamente, un frammento alla volta, la memoria storica di questo paese, sbiadisce come una vecchia fotografia e la mistificazione dei fatti è ormai una prassi quotidiana. Discutevo oggi, con un altro “smemorato”, sulla fine del duce, appeso a testa in giù in Piazzale Loreto. È rimasto impresso nella memoria collettiva quel finale grottesco del regime fascista, ma sul perché scelsero di appendere Mussolini pubblicamente pare sia del tutto dimenticato. Condannare l’accanimento del branco sul cadavere di Mussolini mi sembra scontato, ma la motivazione (giusta o sbagliata che sia) che spinse la folla ad appendere il duce non andrebbe mai dimenticata. Solo tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, migliaia di uomini, poco più che ragazzi, furono torturati, fucilati, impiccati (31 furono impiccati solo nell’eccidio di Bassano del Grappa) e lasciati insepolti per giorni e giorni sulle piazzette dei paesi di montagna, in mezzo ai boschi, agli angoli delle grandi città perché la gente vedesse e non osasse ribellarsi all’infamia dell’occupazione nazista e delle violenze sanguinose dei fascisti. Le persone passavano a fianco a quei cadaveri appesi ai lampioni e guardavano dall’altra parte. Facevano finta di non vedere per paura, per indifferenza o semplicemente perché approvavano l’operato dei fascisti. Oggi, è molto più facile guardare altrove, perché questa memoria storica è pressoché sparita. E per chi ama sottolineare che molti partigiani erano “banditi”, ribadisco un concetto semplicismo: potete dipingere TUTTI i partigiani come criminali e TUTTI i repubblichini come bravi ragazzi, ma non avrò mai alcun dubbio da che parte stare. C’è chi combatteva dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata. C’è chi liberò l’Italia dal nazifascismo e chi giurò fedeltà ad Adolf Hitler. Chi non riconosce l’impronta fondamentale della Resistenza Italiana nella nostra libertà odierna, ripercorre le orme di quei passanti che superavano i cadaveri impiccati nelle piazze e nelle strade, senza (voler) accorgersi di nulla. La ricostruzione ll 26 settembre 1944 a Bassano del Grappa 31 giovani partigiani bassanesi, catturati in seguito ad un rastrellamento sul Grappa e sugli altri monti vicini, furono impiccati lungo un viale della cittadina veneta. Questa azione da parte dei militari nazi-fascisti causò la morte di oltre 400 antifascisti e la deportazione di altri 500. Per ogni albero vi era un impiccato: ognuno di essi aveva le mani legate dietro la schiena e portava una targa sul petto, che recitava “briganti”. I nazisti ritenuti responsabili della carneficina non sono mai stati processati dallo Stato Italiano per questo loro crimine. I loro nomi sono Herbert Andorfer, tenente delle SS, processato in Germania per l’uccisione di circa 5000 ebrei nel campo di sterminio del quale era il direttore, e Karl Franz Tausch, conosciuto dalla popolazione locale con la triste fama di “boia tedesco”, che il giorno della strage non aveva nemmeno 22 anni d’età. Nel pomeriggio di quel lontano settembre fu Andorfer a dare l’ordine di uccidere i 31 giovani. Questi, in precedenza, avevano subito delle iniezioni al fine di svigorire le loro capacità reattive. Furono poi caricati su di un camion sotto il controllo di due soldati tedeschi. I cappi con cui vennero impiccati erano fatti con pezzi di cavi telefonici e alla sommità era collegata una fune attaccata all’autocarro. Dei volontari ex appartenenti delle “Fiamme Bianche”, tutti giovani neppure diciottenni (un testimone parlò addirittura di un ragazzino di 12 anni che faceva parte del plotone di esecuzione), annodavano i cappi intorno al collo delle vittime. Su ordine di Tausch, il camion accelerava stringendo il nodo attorno alla gola delle vittime e lasciandole penzoloni. Se il partigiano non moriva subito, veniva preso per le gambe e tirato verso il basso da quei ragazzini. Dopo l’esecuzione, gli assassini e i fascisti di Bassano profanarono i corpi degli impiccati con insulti, sputi e incastrando sigarette nelle bocche dei morti, per poi andare a festeggiare in alcuni locali del posto. I corpi rimasero in mostra per quasi un giorno intero, circa venti ore, per spaventare gli abitanti e dissuaderli dalla volontà di partecipare alle attività di ribellione contro il regime. Oggi, il viale alberato è stato chiamato Viale dei Martiri in ricordo di quei 31 partigiani morti per la libertà dell’Italia.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

I “LEONI DI BREDA SOLINI”

di Carlo Berini | I Sinti italiani durante il fascismo subirono una violenta persecuzione su base razziale, il Porrajmos. Vennero rinchiusi a partire dal settembre 1940 in appositi campi di concentramento. E’ un pezzo di storia ancora poco conosciuta dagli italiani. Ma con l’8 settembre 1943 molti riuscirono a fuggire con lo sbandamento che porterà alla formazione della Repubblica di Salò. Le famiglie sinte scampate dalla deportazione nei campi di sterminio ma braccate dai repubblichini e dai nazisti furono aiutate da molti italiani anche nella Provincia di Mantova, in particolare dai contadini che li nascondevano nei fienili. I Sinti non solo si nascosero, per non subire la deportazione, ma parteciparono attivamente alla Guerra di Liberazione. Questo pezzo di storia italiana è misconosciuta anche per il disinteresse dimostrato in questi anni dall’ANPI. Nel mantovano si formò il battaglione “I Leoni di Breda Solini” formato unicamente da sinti italiani, fuggiti dal campo di concentramento di Prignano sul Secchia (MO), dove erano stati rinchiusi nel settembre 1940. Lo racconta Giacomo “Gnugo” De Bar nel suo libro “Strada, Patria Sinta”, edito da Fatatrac: “Molti sinti facevano i partigiani. Per esempio mio cugino Lucchesi Fioravante stava con la divisione Armando, ma anche molti di noi che facevano gli spettacoli durante il giorno, di notte andavano a portare via le armi ai tedeschi. Mio padre e lo zio Rus tornarono a casa nel 1945 e anche loro di notte si univano ad altri sinti per fare le azioni contro i tedeschi nella zona del mantovano fra Breda Salini e Rivarolo del Re (oggi Rivarolo Mantovano), dove giravamo con il postone che il nonno aveva attrezzato. Erano quasi una leggenda e la gente dei paesi li aveva soprannominati «I Leoni di Breda Solini», forse anche per quella volta che avevano disarmato una pattuglia dell’avanguardia tedesca.” Racconta ancora Gnugo: “Erano entrati nel cuore della gente come eroi, anche per il fatto che usavano la violenza il minimo necessario, perché fra noi sinti non è mai esistita la volontà della guerra, l’istinto di uccidere un uomo solo perché è un nemico. Questo lo sapeva anche un fascista di Breda Solini che durante la Liberazione si era barricato in casa con un arsenale di armi, minacciando di fare fuoco a chiunque si avvicinasse o di uccidersi a sua volta facendo saltare tutta la casa: «lo mi arrendo solo ai Leoni di Breda Salini». Così andarono i miei, ai quali si arrese, ma venne poi preso in consegna lo stesso da altri partigiani, che lo rinchiusero in una cantina e lo picchiarono.” Quella di Gnugo De Bar è una testimonianza per stimolare le stesse Istituzioni ad attivarsi per far conoscere e offrire spazi ai sinti anche nelle cerimonie ufficiali, perchè troppo spesso viene oscurato più o meno volontariamente l’apporto dato dai sinti alla formazione dell’Italia. In ultimo il mio pensiero va oggi a Walter “Vampa” Catter, Lino Ercole Festini, Silvio Paina e Renato Mastin. Sono i martiri partigiani sinti, trucidati a Vicenza l’11 novembre 1944. Per non dimenticare. Fonte: sucardrom.blogspot.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GLI ANARCHICI NELLA RESISTENZA DALLA CLANDESTINITA’ ALLA LOTTA PARTIGIANA

di Giorgio Sacchetti Nel giugno 1942 un convegno clandestino che si tiene a Genova indica al movimento un percorso di liberazione che esplicitamente prevede una prima tappa intermedia, e infatti così si esprime la mozione che ne scaturisce: “Essendo il fascismo il primo caposaldo da demolire e ogni colpo da chiunque tirato sarebbe sempre desiderato, in questa azione ci troveremo gomito a gomito con l’arma in pugno anche con quegli elementi le cui finalità sono in contrasto con le nostre o sono indefinite […] Ma, caduto il primo caposaldo, cioè il fascismo, ogni corrente rivoluzionaria avanzerà le proprie rivendicazioni […] Perciò nostro preciso compito crediamo sia questo: lavorare contro il fascismo sì, con chiunque: ma esigere da chiunque il diritto all’affermazione dei nostri sacrosanti principi libertari”. Risulta chiaro fin da subito quindi come gli intenti della lotta siano fermamente rivoluzionari, ma anche come si tenga in considerazione e facilmente si profetizzi che molti fra i possibili compagni di strada dell’oggi potranno domani mutarsi in avversari. Per questo stesso periodo le fonti di polizia riferiscono che, da parte di anarchici non meglio precisati residenti in Piemonte, in Lombardia e nelle Marche, viene fondato un movimento antimilitarista denominato “PERDERE PER VINCERE” dedito alla diffusione di stampa clandestina e sovvenzionato dal noto Luigi Bertoni di Ginevra. Ma la spinta decisiva si può dire che giunga dai confinati. E’ un nutrito gruppo di anarchici quello che si trova ancora relegato nelle isole, soprattutto a Ventotene. Si tratta per lo più di militanti ormai temprati dalle battaglie, in molti casi già estradati dalla Francia (dal campo di concentramento di Vernet d’Ariège), paese nel quale erano a suo tempo rientrati dopo aver partecipato alla guerra di Spagna. Nelle famose ‘mense’, strutture logistiche del confino formate secondo criteri di affinità e appartenenza politica, si discute intanto animatamente dei programmi e delle prospettive unitarie della lotta antifascista. Ad esempio il direttivo comunista di Ventotene, alla vigilia della caduta di Mussolini, vota un documento che, mentre prefigura e delimita in modo preciso il campo delle alleanze, indica contemporaneamente gli altri nemici da battere oltre ai fascisti e lancia la parola d’ordine della “Lotta senza quartiere contro i nemici dell’unità proletaria (nel P.S., Modigliani e Tasca) nel massimalismo gli antisovietici e anticomunisti, negli anarchici gli anticomunisti”. Invece fra i componenti della numerosa colonia degli anarchici, seconda per numero in quell’isola popolata da circa ottocento confinati, in una assemblea plenaria si cerca piuttosto di sanare i contrasti annosi fra compagni del movimento, di rilanciare la lotta operaia, di riallacciarsi a quella pratica dell’unità proletaria già sperimentata in epoca prefascista. Intanto nel meridione appare significativo quanto si verifica a Cosenza dove già nell’ottobre 1942 gli anarchici fondano un ‘Comitato provinciale del Fronte unico nazionale per la libertà’. Dopo il convegno clandestino di Genova si infittisce ulteriormente la rete dei contatti fra i piccoli gruppi informali già esistenti un po’ ovunque e le individualità in particolare nell’Italia centrale. L’artefice principale di tutto questo lavorìo è il vecchio Binazzi di Torre del Lago, già redattore a La Spezia del settimanale “Il Libertario”; il primo importante risultato conseguito sul piano organizzativo è la convocazione di una serie di convegni clandestini interregionali che si tengono tutti a Firenze; questo mentre vivi sono gli entusiasmi per le notizie, fornite dalla stampa clandestina, sui primi scioperi operai nelle fabbriche del nord. Il 16 maggio 1943, nell’abitazione del fornaio Augusto Boccone, si tiene la prima di queste riunioni che formalmente costituisce la Federazione Comunista Anarchica Italiana. Sono presenti delegati provenienti da Bologna, Faenza, Genova, La Spezia, Livorno, Firenze, Torre del Lago, mentre avevano inviato la loro adesione i gruppi di Carrara e Pistoia. Vengono così stampate a cura del tipografo Lato Latini, e diffuse nelle varie località, mille copie di un manifestino contenente un appello ai lavoratori ed il programma minimo della neocostituita federazione. In esso si ribadiscono i punti cardine sui quali incentrare la lotta rivoluzionaria: rifiuto della guerra in quanto prodotto del sistema capitalistico; appoggio ad ogni forma di opposizione al regime nell’ambito di un antifascismo intransigente; per la libertà di pensiero, di stampa, di associazione e anche contro ogni forma possibile di dittatura rivoluzionaria transitoria; contro la monarchia e per la costituzione di “libere federazioni di comuni, autonomi, composte di liberi produttori”. Certamente si pone anche la questione dei rapporti con il Pci, la cui organizzazione clandestina dimostra peraltro grande efficienza e penetrazione nelle masse. Così, sempre a Firenze, si tiene, poco dopo l’uscita pubblica di questo programma minimo, un incontro segreto fra una delegazione ristretta di esponenti anarchici e una del Pci. Non si hanno notizie precise sugli argomenti all’odg per questo inusuale rendez-vous, se non che il risultato “fu un fiasco”. La caduta del fascismo, l’avvento della nuova dittatura militare di Pietro Badoglio con il 25 luglio, ed il suo noto proclama agli italiani sulla guerra che continua, con l’avvertenza perentoria alla sinistra rivoluzionaria che “chiunque si illuda di turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito”, fanno ulteriormente surriscaldare il clima di attesa impaziente fra i confinati. La così detta ‘storia dei 45 giorni’, iniziandosi con il coinvolgimento in ambito governativo di un comitato delle opposizioni antifasciste, vede per forza di cose la parziale risoluzione della questione confino. Il capo della polizia Senise invia un dispaccio urgente a tutte le direzioni delle colonie: “Prego disporre subito scarcerazione prevenuti disposizione autorità PS responsabili attività politiche escluse quelle riferentesi comunismo e anarchia”. I primi a partire da Ventotene (dove è direttore Marcello Guida, futuro questore di Milano nel 1969) dopo la compilazione delle liste distinte per gradi di pericolosità politica, sono gli ‘antifascisti democratici’ e quelli di ‘G.L.’, dopo i socialisti, infine i comunisti. Restano alla fine nell’isola circa 200 confinati politici fra anarchici e cittadini italiani di origine slovena o croata. Ma il dispaccio ministeriale che dispone la liberazione anche di questi ultimi coatti giunge quando questi sono già stati ormai avviati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari (Arezzo) – uno dei peggiori d’Italia sia per il numero di internati (in genere prigionieri di …

25 APRILE 1949 A TARANTO: COMIZIO DI SANDRO PERTINI

Congresso Provinciale per la Pace   [avatar user=”Giuseppe Stea” size=”thumbnail” align=”left” /] di Giuseppe Stea Storico e Presidente provinciale ANPI Taranto Il 1949 inizia con una notizia pesantissima per la Città di Taranto: la Presidenza dei Cantieri navali annuncia il licenziamento di 1200 operai e 50 impiegati. Il Comitato per la difesa degli interessi cittadini chiede un incontro urgente al Governo nazionale. Prendono posizione, contro i licenziamenti, i partiti, il sindacato, la Giunta ed il Consiglio comunale, le associazioni di categoria, la Chiesa. Il Corriere del giorno organizza una sottoscrizione a sostegno delle famiglie dei lavoratori. La Presidenza dei Cantieri cerca di giustificare la necessità dei licenziamenti, ma la pressione unitaria della Città porta ad un accordo che permette la ripresa dei lavori. In un comizio a Piazza della Vittoria Giuseppe Di Vittorio evidenzia l’importanza dell’accordo per i Cantieri e si sofferma anche sul nascente Patto Atlantico che fa emergere come i venti della guerra fredda spirino ormai forte. Contro la sua costituzione gli operai dell’Arsenale organizzano una manifestazione che si conclude con un comizio del segretario della Camera del Lavoro, Romolo Mancinelli. Il tema della Pace è al centro dell’iniziativa della Sinistra che in maniera unitaria organizza, tra le altre cose, un incontro di militanti socialisti e comunisti in cui i due segretari provinciali, Paolo Moschelli ed Angelo Conte, ribadiscono la necessità di “maggiore collaborazione nelle lotte contro la politica interna antipopolare e contro la politica estera guerrafondaia del governo reazionario di De Gasperi”. Un comizio unitario, sull’argomento, viene organizzato a Piazza della Vittoria. Nel salone consiliare del Comune si insedia il Comitato provinciale per la Pace: i lavori vengono introdotti da Ada Greco e conclusi da Ave Quaratino che propone di inviare un telegramma ai parlamentari democratici impegnati nella battaglia in difesa della Pace; significativo l’intervento del sacerdote Don Vito Marinuzzi che sottolinea come “Cristo si è fatto annunciare in terra con un messaggio di Pace”. Comizi, riunioni, raccolta di firme: vasta è la mobilitazione, di cui momento significativo sarà il primo Congresso provinciale per la Pace che si terrà il 2 giugno del 1949 al Teatro Fusco con la partecipazione dell’on. Irene Coccoli. La Questura rende noto che “è vietata la raccolta di firme per una petizione popolare contro il Patto Atlantico, tanto in luogo pubblico che aperto al pubblico, quanto presso le abitazioni private”, vieta i manifesti per le manifestazioni indette dal Comitato, spingendo così l’on. Latorre alla presentazione di un’interrogazione rivolta ai Ministri Scelba e Grassi. In questo clima si svolge la Cerimonia del 25 aprile, in occasione del IV anniversario della Liberazione. Il comizio è tenuto da Sandro Pertini, a Piazza della Vittoria, e dà la stura a polemiche tra i diversi schieramenti. Qualche settimana prima del 25 Aprile la federazione del PSIUP era stata messa a soqquadro da sconosciuti che avevano lasciato come loro firma un quadro di Mussolini: immediata la reazione nelle fabbriche dove veniva sospeso il lavoro in segno di protesta. Di fronte al ripetersi di episodi di neofascismo i partiti democratici presentano una formale denuncia alla Prefettura; il Prefetto denuncia Michele Calabrese, direttore del periodico “Avanguardia” di chiaro orientamento fascista.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it