LA STORIA DELLA BRIGATA MAIELLA

I Ragazzi della Brigata Maiella con Ettore Troilo di Carlo Troilo IL 5 DICEMBRE DEL 1943, SI COSTITUÌ A CASOLI LA BRIGATA MAIELLA, la sola formazione partigiana, assieme al Corpo Volontari della Libertà, decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare, la prima a conquistarsi la fiducia e le armi degli alleati l’unica che, una volta liberata dai tedeschi la regione di origine, continuò a combattere a fianco degli alleati attraverso le Marche, la Romagna e l’Emilia, liberando Bologna e spingendosi fino agli altipiani di Asiago. Una brigata – è importante ricordarlo dopo i troppi libri di Pansa e dei suoi imitatori sul «sangue dei vinti» – che arrivò ad una forza di 1.500 uomini e che pure non si macchiò mai di un solo episodio di violenza verso i fascisti, al punto che gli alleati (prima gli inglesi e poi i polacchi) affidavano proprio a loro la tutela dell’ordine pubblico nei paesi e nelle città via via liberati. Promotore della sua nascita fu mio padre, Ettore Troilo. Volontario a 18 anni nella Grande Guerra, socialista riformista, allievo di Turati a Milano e poi segretario di Matteotti a Roma, attivo avvocato antifascista durante il ventennio, Troilo raggiunse il natio Abruzzo dopo aver partecipato alla difesa di Roma a Porta San Paolo, fu catturato dalle SS, riuscì a fuggire, radunò una quindicina di uomini, quasi tutti contadini, ed arrivò a Casoli, dove chiese al comando alleato le armi necessarie ai suoi uomini per combattere contro i nazisti. Dopo molti e umilianti rifiuti (gli inglesi vedevano dovunque «communists») Troilo incontrò l’ufficiale che per primo ebbe fiducia nei montanari abruzzesi, il maggiore Lionel Wigram, una figura di straordinario interesse: grande avvocato, baronetto, autore di trattati militari usati per decenni dall’esercito inglese, amante dell’Italia e della sua cultura, Wigram si fidò subito di questo appassionato avvocato abruzzese, come lui non più giovanissimo (entrambi avevano 45 anni e «figli a carico). Purtroppo dopo solo due mesi, il 4 febbraio del ’44, Wigram cadde assieme a 11 patrioti della «Maiella» e a 4 dei suoi uomini nel tentativo di liberare Pizzoferrato ed aprire agli alleati la strada verso gli altipiani di Roccaraso e verso Roma: una impresa arditissima, per la forza della guarnigione tedesca e la posizione del paese, a 1.250 metri di altezza e con due metri di neve. In questa importante ricorrenza, più che ricordare le vicende della «Maiella» (rimando per questo al libro di mio fratello Nicola Storia della Brigata Maledio, editore Mursia, 2011), vorrei affrontare tre temi «di contesto» che penso meritino una riflessione. Il primo riguarda l’importanza, militare e strategica, della guerra in Abruzzo. La maggioranza degli italiani ritiene che la guerra sia semplicemente «passata» nella nostra regione. E invece l’Abruzzo fu uno dei principali terreni della guerra in Italia: alla fine del ’43, in un’area per secoli tagliata fuori dalle grandi vicende della storia, vi si incrociarono i destini di Mussolini, prigioniero al Gran Sasso, del re e del suo governo, in vergognosa fuga dal porto di Ortona, e dei due capi supremi degli opposti eserciti, il maresciallo Montgomery ed il feldmaresciallo Kesselring. Le truppe alleate furono impegnate per otto mesi nel tentativo di sfondare la linea Gustav, incontrando una resistenza dei tedeschi fortissima, agevolata da un inverno molto rigido e dalla conformazione della regione, con montagne impervie e fiumi in piena che rendevano difficile il passaggio dei mezzi corazzati e pesanti. Si parla sempre, e giustamente, della battaglia di Montecassino, ma quasi mai di quella di Ortona, caposaldo della Linea Gustav sull’Adriatico, che durò settimane, provocò la morte di un numero impressionate di civili (1.314, quasi l’intera popolazione) ed una vera ecatombe fra i soldati delle due parti. Ne sono struggente testimonianza il cimitero militare inglese di Torino di Sangro e quello di Ortona, dove riposano – assieme al maggiore Wigram duemila soldati canadesi, che ebbero il ruolo principale nella conquista della città. Non a caso Mongomery intitolò le sue memorie Da El Alamein al Sangro. Il secondo tema riguarda la sorte terribile dei paesi dell’alto chetino, rasi al suolo all’80-90 per cento dai tedeschi per fare «terra bruciata» dinanzi agli Alleati: anche da qui, l’emigrazione di mas-sa che nel dopoguerra caratterizzò l’Abruzzo più di ogni altra regione del centro-sud. E riguarda, soprattutto, le stragi di civili, che in Abruzzo furono tra le più atroci: migliaia di abitanti, per lo più vecchi, donne e bambini, massacrati a Pietransieri, a Sant’Agata di Gessopalena, a Onna, a Filetto, in tante altre sconosciute località, affratellati nella morte ai giovani martiri delle insurrezioni di Lanciano e de L’Aquila. E furono stragi – in particolare quella di Pietransieri, per la prima volta non motivata nemmeno con una ragione di rappresaglia – volute personalmente da Kesselring, che le riteneva il metodo più efficace, e meno «costoso» per le truppe tedesche, per scoraggiare da un lato la nascita di formazioni partigiane, dall’altro il sostegno della popolazione civile agli stessi partigiani ed ai militari alleati. Ed è questo il terzo tema di riflessione, quello di cui maggiormente avverto l’urgenza morale. Forse nessuna popolazione, in Italia, si prodigò come quella abruzzese nell’aiutare non solo i partigiani locali ma i tanti sconosciuti soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre e le migliaia di militari alleati fuggiti dagli affollatissimi campi di prigionia tedeschi. Italiani, inglesi, americani, canadesi, australiani, neozelandesi, sud africani, indiani furono nascosti nelle case e nelle masserie – soprattutto dalle nostre donne, eroiche e silenziose – furono nutriti («si divisero il pane che non c’era», furono aiutati da organizzazioni spontanee a superare d’inverno i valichi nevosi della Maiella per passare le linee e raggiungere l’esercito italiano al Sud o quello alleato al di là del fiume Sangro. In queste organizzazioni di volontari vi erano insegnanti, impiegati e operai, ma soprattutto contadini e pastori, spesso analfabeti: uomini e donne indifferenti alle consistenti taglie in danaro offerte dai tedeschi e pronti invece a sfidare i rastrellamenti e le rappresaglie, e spesso a pagare con la vita dinanzi ai plotoni di esecuzione nazisti. Le stragi furono anche una rabbiosa reazione all’opera di …

CALZOLARI ALFREDO DETTO “FALCO”

Alfredo Calzolari,”Falco”, da Giuseppe e Maria Accorsi; nato l’11 febbraio 1897 a Molinella; ivi residente nel 1943. Operaio. Iscritto al PSI e al MUP. Durante la dittatura e nei venti mesi della Resistenza fu uno dei principali dirigenti del movimento operaio molinellese. Cresciuto alla scuola di Giuseppe Massarenti, Giuseppe Bentivogli e Paolo Fabbri, non fu solo un dirigente politico e militare molto intelligente e capace, ma anche un uomo d’azione coraggiosissimo. Dotato di grandissima umanità, conosceva come pochi l’animo popolare e le aspirazioni del mondo contadino molinellese. Ancora giovanissimo si era iscritto al PSI e aveva militato nei Falchi rossi, l’organizzazione giovanile socialista esistente prima del fascismo. Nel 1920, quando a Molinella furono organizzate le Guardie rosse — un’organismo militare che aveva il compito di fronteggiare le squadre fasciste — ne divenne uno dei dirigenti. Il 12 giugno 1921, quando i fascisti invasero Molinella per uccidere Massarenti, diresse la resistenza e respinse l’assalto. Come Massarenti, qualche tempo dopo fu costretto a lasciare la sua casa, per sottrarsi alla violenza fascista. Dopo un soggiorno romano, ritornò a Molinella dove visse durante la dittatura, senza mai rinnegare le sue idee. All’inizio del 1941 fu arrestato perché “mantiene idee irriducibilmente antifasciste” e il 31 marzo 1941 fu inviato al confino per 3 anni. Riebbe la libertà il 13 agosto 1941. Nel 1942 aderì al MUP e, ai primi di agosto 1943, partecipò alla riunione che si tenne nello studio di Roberto Vighi nel corso della quale MUP e PSI si unificarono dando vita al PSUP. Con l’inizio della Resistenza, fu uno dei primi a prendere le armi a Molinella e uno dei principali organizzatori della brigata Matteotti Pianura, la 5^ brigata Bonvicini. Si trasferì a Bologna nell’estate 1944, quando pareva che la liberazione della città fosse imminente. Ebbe, tra gli altri, il compito di organizzare la protezione armata delle basi militari socialiste che si trovavano in via de’ Poeti, — il famoso “fondone” di Paolo Fabbri — in via Castiglione 21 e in via Mazzini 23 dove si trovava la tipografia clandestina del partito, nella quale si stampavano giornali, opuscoli di propaganda e volantini. Nell’ottobre 1944 fu inviato a Molinella per assumere il comando della Brigata Matteotti Pianura. La scelta cadde su di lui, in un momento politico e militare molto delicato, perché era un uomo di polso e di grande coraggio, oltre che un profondo conoscitore degli uomini e della zona molinellese. In quel periodo, il fronte della Resistenza era in crisi, perché le truppe alleate si erano fermate alle porte di Bologna e i nazifascisti avevano potuto scatenare una controffensiva generale contro le forze partigiane. Inoltre, a Molinella, socialisti e comunisti erano divisi da un grave contrasto. Calzolari ebbe il merito di riorganizzare la brigata, di sanare i contrasti e di tenere viva per tutto l’inverno la guerriglia contro i nazifascisti. Egli, a Molinella, combatteva a viso aperto. La maggior parte delle riunioni politiche o militari le organizzava nelle case dei fascisti. A chi gli chiedeva se non era troppo rischioso, rispondeva: “Se ci scoprono, vorrà dire che bruceranno la casa di un fascista, non quella di un compagno”. Il 2 marzo 1945 il partito lo incaricò di assumere la direzione politica nella zona di Molinella, per cui dovette lasciare il comando della brigata. Non abbandonò però completamente l’attività militare, essendogli stato affidato il comando del battaglione Bevilacqua, che operava a Molinella. Il 16 aprile 1945, mentre si stava recando in una base partigiana, in località Morgone, si scontrò con una pattuglia tedesca e fu abbattuto a colpi di mitra. Raccolto morente dai compagni, fu trasportato a Molinella dove spirò il 17 aprile 1945, mentre i tedeschi stavano abbandonando la zona e la guerra volgeva ormai alla fine. Gli è stata conferita la medaglia d’oro alla memoria. Riconosciuto partigiano con il grado di comandante di brigata dal 10 settembre 1943 al 17 aprile 1945. Il suo nome fu dato a un battaglione della 5^ brigata Bonvicini Matteotti. Anche una sezione del PSI e una strada di Bologna portano il suo nome. Il suo nome è stato dato ad una strada di Molinella.     Note E’ ricordato nel Sacrario di Piazza Nettuno. Medaglia d’Oro al Valor Militare Eroico combattente, era tra i primi ad entrare nelle formazioni partigiane della sua zona e ad opporsi con le armi alla tracotanza avversaria, dimostrandosi audace e abile comandante. Nel corso di duri combattimenti che precedettero la liberazione di una grande città, attaccava ripetutamente, alla testa del suo battaglione, reparti avversari in ripiegamento, infliggendo loro gravi perdite. Nel generoso tentativo di impedire la esplosione dei bacini idrovori di una bonifica di grande importanza, minati dal nemico, guidava all’assalto i suoi uomini. Rimasto gravemente ferito in un violento corpo a corpo, rifiutava ogni soccorso e sebbene in fin di vita, trovava l’energia per incitare i suoi dipendenti che riuscivano così, con supremo sforzo, a sopraffare l’avversario. Nobilissimo esempio di senso del dovere e amor di Patria. Molinella (Bologna), 8 settembre 1943-17 aprile 1945   Fonte: storiaememoriadibologna.it I funerali di Alfredo Calzolari Fonte fotografica: storiaememoriadibologna.it     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SALVATORE PRINCIPATO

Di anni 52, maestro elementare, coniugato con Marcella Chiorri nel 1923, ebbe una sola figlia, Concettina. Socialista, fu tra i rappresentanti dell’antifascismo milanese per tutto il Ventennio e fu fucilato in Piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944. Nato a Piazza Armerina (Enna) il 29 aprile 1892, vi frequentò le scuole fino al conseguimento del diploma. Già sul finire del 1911 Salvatore fu coinvolto, ma assolto, in un processo per aver animato una protesta popolare contro il monopolio di una locale impresa di trasporti, terminata con l’incendio di alcune carrozze. Due anni dopo lasciò la Sicilia per Milano, spinto dal desiderio di incontrare i massimi rappresentanti del movimento ispirato da Filippo Turati e da Anna Kuliscioff. Incominciò ad insegnare a Vimercate al privato collegio Tommaseo, poi alle scuole comunali, ma fu presto chiamato alle armi. Combatté come semplice soldato e poi caporale sul Carso. Nel maggio 1917, durante la battaglia del monte Vodice, una delle ultime e risolutive offensive sull’Isonzo, l’aver catturato (e quindi salvato) «una quindicina di prigionieri» gli valse la medaglia d’argento al valor militare, ma anche la gratitudine dei soldati austriaci, uno dei quali gli donò la baionetta e un orologio da tasca che Salvatore portò con sé per tutta la vita. Insegnò senza soluzione di continuità alla scuola di via Comasina, alla «Giulio Romano», alla «Tito Speri» e infine alla «Leonardo da Vinci». Attivo in «Giustizia e Libertà» con lo pseudonimo di Socrate, Principato fu in contatto con Carlo Rosselli, con Rodolfo Morandi, e fu tra gli artefici nell’aprile 1931 della fuga di Giuseppe Faravelli in Svizzera, dopo l’arresto del professore belga Léo Moulin. Arrestato il 19 marzo 1933, fu deferito al Tribunale Speciale di Roma, nell’ambito di un’operazione di polizia molto vasta che coinvolse i rami milanese e genovese del movimento. Rilasciato dopo oltre tre mesi di carcere, fu reintegrato nell’insegnamento diurno alla «Leonardo da Vinci», ma gli fu impedito l’insegnamento alle scuole serali, per non essere iscritto al Partito Nazionale Fascista e all’Associazione Fascista della Scuola. Nell’ottobre 1942 fu con l’amico Roberto Veratti tra i fondatori del M.U.P., Movimento di Unità Proletaria, in una riunione clandestina in casa di Ivan Matteo Lombardo, e negli anni della guerra divenne uno dei punti di riferimento del P.S.I.U.P., Partito Socialista di Unità Proletaria. Fece parte della 33ª brigata Matteotti, del secondo e del terzo comitato antifascista di Porta Venezia e del Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola. Tra i suoi più stretti collaboratori negli ultimi tempi furono Dario Barni ed Eraldo Soncini. A Milano, in via Cusani 10, con lo schermo di una piccola officina meccanica, la ditta F.I.A.M.M.A. (Fabbrica Insegne Arredi Mobili Metallo Affini), mascherava e gestiva lo smistamento di stampa socialista e antifascista. Qui, forse tradito dalla delazione di un giovane operaio, venne arrestato dalle S.S. l’8 luglio 1944. Imprigionato nel carcere di Monza, fu torturato dalla polizia nazi-fascista, che gli ruppe anche il braccio sinistro. Ai primi d’agosto fu trasferito nel carcere milanese di San Vittore, 6º raggio, cam. 8, dove fu rinchiuso con Eraldo Soncini e Renzo Del Riccio, fucilati con lui in Piazzale Loreto il 10 agosto. Salvatore era il più anziano dei Quindici martiri. Il 26 maggio 1945 il comune di Vimercate mutò il nome di via del Littorio in via Salvatore Principato; il 10 agosto 1946 con un discorso di Andrea Tacchinardi fu inaugurata la lapide commemorativa posta in viale Gran Sasso 5, dove Salvatore aveva abitato dal settembre 1924. Fu tra le prime lapidi collocate a Milano in memoria della Resistenza, realizzata grazie al concorso privato e spontaneo di amici, inquilini dello stabile, e cittadini della zona. Sulla lapide si legge: «Con animo invitto in questa casa il maestro Salvatore Principato medaglia d’argento al v. m. 1915-1918 cospirò per la libertà e la giustizia piombo nazifascista il 10-8-1944 sul piazzale Loreto abbatté il suo corpo, innalzò la sua fede». In quello stesso giorno la città natale di Piazza Armerina gli intestò il tratto urbano della strada provinciale n. 15 che corre parallelo alla via Giacomo Matteotti; il 25 aprile 1947 Ugo Guido Mondolfo inaugurò un busto in sua memoria, opera dello scultore Alfeo Bedeschi, nell’atrio della scuola elementare «Leonardo da Vinci» (Milano, piazza Leonardo da Vinci 2). Lastra al maestro Salvatore Principato Lastra in marmo situata nell’atrio di Palazzo Trotti, sede del Comune di Vimercate, dedicata a Salvatore Principato, maestro nelle scuole dell’omonimo comune. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RICORDO DI ATTILIO MANGANO

Attilio Mangano nasce a Palermo nel 1945, si laurea in Storia con una tesi sul “Politecnico di Elio Vittorini” nel 1967, presso l’università di Palermo. Il tema vittoriniano del rapporto politica-cultura continuerà a caratterizzare la sua ricerca sull’intellettualità e la sinistra. Si sposa (con Maria Rita, anche lei laureata in Lettere Moderne) e si trasferisce a Milano nel 1968, dopo aver preso parte alla contestazione universitaria, tra i leaders del movimento a Lettere. Militante politico fin da giovanissimo, socialista nei primi anni ’60, passato poi al PSIUP nel 1964, esce da questo partito dopo l’invasione della Cecoslovacchia e a Milano si unisce al gruppo di Avanguardia Operaia. Inizia, come anche sua moglie Maria Rita, la sua attività d’insegnante nelle scuole superiori, prima al ”Bernocchi” di Legnano, poi dopo i corsi abilitanti (di cui organizza la contestazione curando la gestione di un corso alternativo sugli intellettuali del Novecento) all’ITIS ”E. Molinari” di Milano, dove sceglie di insegnare nei corsi serali, sia come scelta didattica che per poter seguire in qualche modo durante la giornata le prime due figlie, Vanessa e Silvia, nate nel 1969 e nel 1974 (il terzo figlio, Fabio Raniero, nascerà nel 1982). Il suo interesse per la figura sociale e culturale del lavoratore-studente lo porta a collaborare con loro e dirigere il movimento cittadino dei serali (Comitato d’Agitazione dei lavoratori studenti) fino al 1975-76. Nella scuola serale insegnerà fino al pensionamento, assumendo per quasi un decennio il ruolo del vice-preside. A partire dal suo impegno coi lavoratori studenti decide dal 1969 di entrare nell’organizzazione politica Avanguardia Operaia, seguendo l’attività di massa del CUB (comitato di base) dell’ATM, in cui inizia la attività redazionale col periodico ”Voci dell’ATM”, iniziando il lavoro di giornalista militante. Diviene dirigente politico cittadino e nazionale di Avanguardia Operaia, inizia una intensa attività pubblicistica, gestendo la pagina culturale del “Quotidiano dei lavoratori” tra il 1974 e il 1977, scrivendo centinaia di recensioni e articoli. Al tempo stesso, inizia a scrivere di Storia (“Le cause della questione meridionale” 1975, “L’Italia del dopoguerra” 1977, “Gli anni del centrismo” 1977). Redattore delle riviste “Avanguardia operaia”, “Unità proletaria”, “Politica comunista” entra a far parte del gruppo dirigente di Democrazia proletaria fino al 1981 su posizioni “movimentiste”, di minoranza rispetto alla maggioranza “partitista”. Il suo travaglio teorico e autocritico emerge nel libro “Autocritica e politica di classe. Diario teorico degli anni ’70″ (1979), che indica una linea di ricerca sulla crisi stessa della nuova sinistra e sul suo rapporto col marxismo. Nei primi anni ’80, insieme all’amico e maestro Stefano Merli, esce da Democrazia proletaria, indicando la prospettiva di una collaborazione fra Nuova Sinistra e Partito Socialista. Da allora si dichiara indipendente e “cane sciolto”. Inizia comunque un ripensamento del suo rapporto con il marxismo e una rivisitazione dell’identità della Nuova Sinistra. Pubblica “Origini della Nuova Sinistra: le riviste degli anni ’60″ (1979). Altri suoi saggi escono in libri collettanei: “Primato della politica e coscienza di classe nella tradizione comunista” (1978), “All’ombra del togliattismo in fiore: memoria e rottura” (1982) “Lelio Basso e il PSIUP. La scissione e la proposta di Partito Nuovo” (1982). I suoi interessi di ricerca si vanno precisando ulteriormente: accanto alla Storia della Nuova Sinistra e dell’”Altra Linea”, studi e ricerche antropologico-filosofiche sulla “cultura del tempo” (vedi in particolare “Il tempo e il suo scarto, culture e politiche del tempo” – 1984). Gli studi sulla Nuova Sinistra lo portano a fondare il bollettino storiografico “Per il ’68″. Intanto intensifica la sua collaborazione con Stefano Merli divenendo “cultore della materia” in Storia dei movimenti sindacali e Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano. Questa collaborazione sfocia in lezioni, seminari, cura di tesi di laurea. Un ulteriore momento di svolta è rappresentato dall’incontro con la grande opera teorica di Cornelius Castoriadis, a partire dall’approfondimento dei temi emersi in “L’istituzione immaginaria della società”. Di questa linea di ricerca è espressione la scelta di dirigere la nuova serie della rivista “Classe” (fondata da Stefano Merli) con il sottotitolo “Il sociale e l’immaginario”. I suoi scritti e ricerche confluiscono nel 1988 nella pubblicazione del volume “Il senso della possibilità. La Sinistra e l’immaginario”. Gli studi sulla Nuova Sinistra sfociano a loro volta nella nuova edizione del libro “Le culture del ’68 e le riviste degli anni Sessanta” (1989) in collaborazione con Antonio Schina e “L’altra linea. Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la Nuova Sinistra” (1992), cui seguirà “Le riviste degli anni Settanta. Gruppi, movimenti e conflitti sociali” (1998). La sua attività pubblicistica prosegue intanto con alcune collaborazioni fisse, una rubrica teorico-politica su ”La tribù”, rivista della Comuna Baires, una lunga collaborazione con decine e decine di recensioni sulla pagina culturale di ”Via Po”, giornale della Cisl, collabora spesso con articoli alla importante rivista ”Alfabeta”, infine di recente in questi anni una rubrica su ”Odissea” e su ”Dalla parte del torto”. Le due istanze della storiografia politica e della ricerca sull’immaginario sono negli anni Novanta compresenti: il bollettino “Per il ’68″ prosegue come rivista (ma esce in volume una antologia), mentre nasce la rivista “La balena bianca (i fantasmi della società contemporanea)” che privilegia la dimensione dell’ immaginario. Il libro “1969, l’anno dell’insurrezione” (2000) vede la presenza delle categorie dell’immaginario nella ricerca storica. Si impegna nell’organizzare un convegno di studio a Piacenza in memoria del suo maestro Stefano Merli, con pubblicazione degli atti sulla rivista ”Studi Piacentini”. In un piccolo volume ripubblica gli articoli scritti a quattro mani insieme a Merli sulla proposta di alleanza tra riformismo socialista e nuova sinistra. Tra la fine degli anni novanta e i primi del duemila collabora come organizzatore culturale con l’amico Ermanno Tritto nella gestione della presentazione di libri e dei dibattiti presso la libreria “Tikkun” di Milano, un impegno quotidiano che favorisce il dibattito culturale cittadino. Inizia infine via web una intensa attività pubblicistica che negli ultimi anni si svolge maggiormente on line, con la creazione prima di un blog e poi di un sito dal titolo “Intellettuali Storia” in cui storia, politica, immaginario, antropologia filosofica sono presenti a …

PARTIGIANI ED EMIGRANTI QUANTI PUGLIESI UCCISI

di Vito Antonio Leuzzi Riemergono le storie dei coraggiosi 1266 che lottarono in Piemonte contro fascismo. Anche donne: le «primule» Puglia è da scoprire, voglio dire che vi sono cose da noi che meriterebbero maggiore attenzione da parte del resto d’Italia». Era il 1965. Con queste parole Tommaso Fiore, in una conferenza a Torino, in occasione delle celebrazioni nazionali della Resistenza e della fine della guerra, su invito della «Unione meridionale degli immigrati» e del «Centro Gobetti», ricordava ad un folto pubblico di immigrati l’emancipazione culturale e sociale della Puglia al contempo un aspetto meno conosciuto, «l’apporto del Sud alla lotta antifascista ed alla Resistenza». L’«Istoreto» (Istituto storico della resistenza in Piemonte) e il Comitato della Regione Piemonte per l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione, presenta i risultati di una ricerca sul contributo del Sud alla resistenza in Piemonte. Migliaia di pugliesi si distinsero nella lotta di liberazione, in particolare militari di tutte le armi che, dopo l’armistizio del settembre del 1943, opposero un netto rifiuto al nazi-fascista, schierandosi con il movimento partigiano. Quest’ultimo s i caratterizzò anche per una nutrita presenza di giovani esponenti di famiglie emigrate dalla Puglia a Torino negli anni Venti. Gli storici dell’«Istoreto» hanno censito 1266 pugliesi, su oltre 6000, provenienti da tutto il Mezzogiorno e direttamente coinvolti nell’attività resistenziale, tra il settembre del 1943 e il maggio del 1945. La Puglia, subito dopo la Sicilia, fu la regione del Sud con il maggior numero di partigiani caduti in combattimento, fucilati e deportati. Gli aderenti alla lotta di liberazione, originari della Provincia di Bari furono 505 (il numero più alto tra le provincie meridionali), subito dopo ritroviamo Foggia con 338, Brindisi con 146, Lecce con 134 ed infine Taranto con 111. Tra i resistenti della Terra di Bari si contarono circa venti donne operaie, impiegate, casalinghe provenienti da famiglie emigranti tra le due guerre mondiali da Barletta. Santeramo in Colle, Conversano, Canosa, Molfetta. Tra queste ultime tre sorelle: Arcangela De Palma (nome di battaglia Emily), Antonietta (Nucci) e Luisa (Primula), la prima insegnate e le altre impiegate, tutte residenti a Torino, che collaborarono con la «3 divisione Alpi Servizio X». Un gruppo consistente di immigrati ebbe un ruolo rilevante nelle iniziative più rischiose, tra cui, Dante Di Nanni, eroe nazionale e medaglia d’oro al valore militare (nato a Torino nel 1925 subito dopo il trasferimento della sua famiglia da Andria), che dopo una serie di azioni coraggiose nel cuore della capitale piemontese fu sopraffatto ed ucciso il 18 maggio del 1944 nell’alloggio di via S. Berardino (Borgo San paolo): i fratelli Vincenzo ed Antonio Biscotti originari di Peschici, il primo medaglia d’argento al valore militare (nome di battaglia «Mitra 1»). Immigrati nel Biellese che al comando di una brigata «Matteotti» dopo un rastrellamento messo in atto da tedeschi e fascisti furono uccisi in combattimento nel febbraio 1945 presso Pollone (Biella). Molti altri pugliesi, soprattutto militari caddero in combattimento o furono deportati per rappresaglia in Germania, tra cui Giovanni Barbarossa originario di Canosa di Puglia deceduto in campo di concentramento nel marzo del 1944. Tra i giovani immigrati assunti alla Fiat negli anni della guerra e molto attivi negli scioperi del 1943, ritroviamo Vito Damico (Douglas), nato a Barletta il 28 ottobre 1925, ed inquadrato nelle file della Brigata SAP «Eugenio Curiel». Questo coraggioso combattente nel dopoguerra fu responsabile sindacale di fabbrica e deputato in parlamento nelle file del Pci. Nomi, storie, lotte finite nel sangue. In base ai risultati di questa corposa indagine iniziata vent’anni fa, la valutazione complessiva delle vicende della lotta resistenziale assume un nuovo volto sul piano storiografico e politico-civile, rappresentando un notevole contributo al consolidamento dell’identità nazionale. Tra le tante vicende della Resistenza in Piemonte balza all’attenzione il Diario di Michele D’Aniello, nato a Terlizzi il 10 gennaio 1924 che all’età di 19 anni fu assegnato come soldato di leva all’ 84 Reggimento dislocato ad Ivrea nell’Alto canavese. Michele, dopo l’armistizio, con l’aiuto di un terlizzese in servizio nella Guardia di finanza trovò rifugio da alcuni parenti emigrati a Torino ed in seguito assunse la decisione di partecipare alla lotta di liberazione nella 47 Brigata d’assalto «Garibaldi». D’Aniello, descrive con precisione l’attacco nazi-fascista condotto con mezzi pesanti in località «Voira» ed al comune di Pont Canavese, «Il primo carro armato che si avvicinò al paese, a distanza di circa 500 metri in linea diretta, lanciò una sola cannonata che colpì la facciata di una abitazione, come esempio di saluto alla cittadinanza e poi con l’entrata dei nazifascisti s’iniziò l’incendio di una scuola, mentre la popolazione terrorizzata fu sottoposta al coprifuoco». Il reparto del giovane di Terlizzi si spostò più in alto, a Ronco Canavese, dove l’intera popolazione fraternizzò con i partigiani. Durante l’insurrezione di Torino il suo reparto si trovò nella zona di Rivarossa per vigilare e salvaguardare la popolazione per eventuali rappresaglie da parte di repubblichini e nazisti. Michele D’Aniello, nonostante la salute malferma, è uno dei più attivi difensori nel suo paese natale dei valori della democrazia e della Costituzione repubblicana. La Resistenza continua. Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CHI SONO I VERI EREDI DEL FASCISMO? IL PATRIOTTISMO E’ IMBRATTATO DAGLI ODI NAZIONALI ED ETNICI

di Claudio Magris Alcuni anni fa, a Tolmezzo, in Carnia, un vecchio partigiano, Romano Marchetti, mi aveva regalato la fotocopia di un curioso documento. Marchetti era stato uno dei comandanti della brigata Osoppo, la formazione partigiana democratica che, mentre combatteva contro nazisti e fascisti, era stata proditoriamente aggredita, nell’eccidio fratricida di Malga Porzus, da un gruppo comunista connivente con le mire annessionistiche di Tito sulla Venezia-Giulia. Ma quel documento, che qualche tempo dopo Renzo De Felice mi disse di conoscere ma di non aver pubblicato, risaliva a un’epoca molto più antica. Era la relazione con cui suo padre, Sardo Marchetti, direttore didattico della scuola elementare di Tolmezzo, alla fine dell’anno scolastico 1907 non confermava l’incarico a un maestro supplente che si chiamava Benito Mussolini. Il direttore esprimeva questo giudizio con rammarico, perché riconosceva a quel docente precario indubbie doti, laboriosità, «una notevole disposizione all’arte educativa» e «non comuni risorse intellettuali», vanificate purtroppo da mancanza di metodo, disorganicità, disordine e difficoltà a imporre la disciplina agli scolari della seconda elementare. Quella testimonianza di una vecchia e scomparsa Italia mi aveva indotto, in un articolo sul Corriere , a ricordare con umana simpatia quel supplente pasticcione ma affettuoso con gli scolari, che si guadagnava una vita grama a 75 lire al mese e, nel pieno delle sue scomposte passioni socialiste e anticlericali, si abbandonava a bislacchi ma generosi gesti di protesta rivoluzionaria, a rissosi amori e a vaghi sogni di giustizia sociale. Un insegnante confusionario ma non avaro di sé con i ragazzi; un uomo che, come diceva la scheda del suo direttore, se si fosse applicato con ordine «avrebbe potuto raggiungere un profitto molto migliore», sarebbe potuto diventare qualcosa di meglio di un duce. Se pubblicassi oggi quel vecchio articolo, esso potrebbe suonare ambiguo. Quella simpatia nei confronti del supplente Mussolini potrebbe sembrare succube di quell’insinuante e aberrante falsificazione della storia e della memoria che da qualche anno va prendendo sempre più piede in Italia. L’iniziale revisionismo storico, talora oggettivamente motivato dalla necessità di rivedere o integrare la storiografia dei vincitori e soprattutto di correggere la strumentale retorica antifascista, sta divenendo sempre più sfacciatamente, una riabilitazione o addirittura celebrazione del fascismo e di quello peggiore. C’è, nel clima politico-culturale sempre più dominante, un’aggressiva negazione dei valori della democrazia e della Resistenza che forse ci costringe a ridiventare ciò che speravamo e credevamo di non venire più costretti ad essere, ossia intransigenti antifascisti. Sono cresciuto, come molti miei amici, in una famiglia e in un’atmosfera di tradizione tranquillamente democratica, che mi ha insegnato la fermezza di giudizio unita alla pietà per i vinti e alla comprensione – che non significa giustificazione – delle cause storiche, delle responsabilità generali e delle passioni che possono condurre individui e comunità – che possono condurci – a errori, a scelte disastrose e ad azioni colpevoli. In questa visione, il fascismo sconfitto e finito era un doloroso capitolo di storia d’Italia, un fenomeno che era stato giusto e doveroso combattere. Esso andava compreso nei motivi che lo avevano generato e nei sentimenti che aveva destato, bollato nei suoi aspetti infami (dalla violenza squadrista alle leggi razziali, all’irresponsabile entrata in guerra), valutato con obiettività in alcuni suoi risultati positivi e nei fermenti contraddittori, talora non ignobili, che avevano indotto, specialmente all’inizio, anche alcuni spiriti generosi, spesso divenuti poi suoi avversari, a credere in esso. Bisognava e bisogna capire come e perché uomini quali ad esempio Pietro Iacchia, caduto combattendo contro i franchisti in Spagna, avevano inizialmente creduto nel fascismo e come e perché uomini di retto sentire avevano creduto nella Repubblica di Salò. Il presupposto di questa comprensione era l’inequivocabile condanna del fascismo quale regime democratico e illiberale, quale ideologia sciovinista e talora razzista, quale movimento totalitario. E’ dal mazziniano mio padre Duilio, antifascista del partito d’azione e poi repubblicano, che ho imparato a non dare mai del «fascista» a chi professa opinioni che avverso o anche detesto. Ricordo con tanto affetto un mio carissimo cugino morto a diciott’anni nelle file di Salò e non mi passa per la testa di ritenermi migliore di lui, anche perché la mia età non mi ha dato nemmeno la possibilità di fare quella scelta disastrosa – ma essa resta disastrosa, perché se la causa per la quale egli è morto avesse vinto, il mondo sarebbe divenuto una Auschwitz. Il fascismo era dunque una storia oltre il rogo; proprio perché l’antifascismo era l’indiscusso fondamento della vita civile; ci sembrava inutile – talora fastidioso o truffaldino – professarlo retoricamente o, peggio, usarlo nella nuova, diversa lotta politica del presente. Perfino dalle mie parti, ai confini orientali d’Italia, dove la brutalità fascista doppiamente brutale e stolta aveva esasperato le antiche lacerazioni fra italiani e slavi e innescato bestiali spirali di violenze e vendette, pareva finalmente di poter vivere in una tranquilla normalità democratica che non ha bisogno di sbandierare di continuo la fede nella democrazia e il valore della convivenza armoniosa e del rispetto reciproco. Sì, pensavamo che l’antifascismo fosse finito in quanto non più necessario, nel senso in cui lo auspicava un grande poeta avverso al fascismo e fuoruscito a Parigi, Giacomo Noventa. Ma tutto questo è possibile solo sulla base di una condanna del fascismo così definitiva da non aver bisogno di essere ribadita; è possibile solo se si conviene, come ha detto peraltro tempo fa l’onorevole Fini, che nel ’43 la Resistenza era la parte giusta. È su questa base che si può comprendere e rispettare chi si è trovato dall’altra parte e chiudere per sempre il contenzioso. L’unità di un Paese non è una pappa che amalgama tutto nè una media fra gli opposti – Farinacci più Valiani fratto due – ma è la scelta di un sistema di valori in cui ci si riconosce. Un patriota come de Gaulle non fonda la Francia su una via di mezzo fra la Resistenza e Vichy, ma sui Compagnons de la Libération ; l’inno del patriottismo francese, la Marsigliese non è un’ammucchiata di tutti i contendenti bensì l’espressione di una scelta …

BARLETTA RESISTE PER DUE GIORNI AI NAZISTI LA RISPOSTA E’ LA STRAGE

Dodici vigili urbani e postini, insieme ad alcuni militari italiani sono fucilati in piazza Il Colonnello Grasso un eroe che preferì il lager all’adesione ai fascisti e fu incriminato dai generali La battaglia di Barletta è rimasta per tanto tempo un episodio rimasto tra gli episodi minori della lotta di liberazione dal nazifascismo anche perché i generali di Badoglio, quelli che se la squagliarono senza dare ordini ai propri uomini come difendere il nostro paese  e se stessi dalla ferocia nazisti, cercarono di gettare fango proprio su quegli ufficiali e soldati che invece sin dal primo momento si schierarono in armi contro nazisti e fascisti collaborazionisti. Così fu per Bellomo che pagò con la morte la liberazione di Bari, così cercarono di fare col colonnello Grasso che condusse  la battaglia di Barletta contro i paracadutisti tedeschi, della “Goering” l’elite di Hitler e che solo quando rimase senza munizioni e con il paese minacciato di esser messo a fuoco dai nazisti decise di arrendersi.   Dal diario del colonnello Grasso: “31 dicembre – fine dell’anno 43 – Tristezza infinita. Sappiamo che un’altra settantina di Ufficiali Superiori hanno aderito alla Repubblica Fascista. Sono da biasimarsi o da condannarsi, dato che nessuna vera fede ha potutomuoverli, ma solamente un senso di opportunismo e la fame? Quando degli uomini come noi sono stati ridotti, senza alcuna loro colpa, allo stato di esseri inferiori e sottoposti ad ogni specie di umiliazione e di privazione; quando da quattro mesi soffrono la fame i cui stimoli diventano sempre più tormentosi; quando essi hanno dovuto prima recuperare le briciole di patate rimaste attaccate alle bucce e poi divorare le bucce stesse; quando sono stati messi nelle condizioni di frugare nelle immondizie come cani randagi e di precipitarsi sui mastelli del rancio per raccogliere, con le mani o col cucchiaio gli avanzi melmosi della “sbobba”; quando, dopo aver tutto ingerito, sono ancora portati a masticare e ad ingoiare saliva; quando neppure nel sonno possono trovare sollievo; quando a loro testa è permanentemente vuota e la loro mente torpida sì che difficile riesce formulare un pensiero ed esprimerlo in parole; quando ogni minimo loro atto diventa fatica; quando questa miseria, morale e fisica, potrà perpetuarsi ed aggravarsi senza limite di tempo e di misura; quando essi si sentono da tutti abbandonanti e sul loro animo e sul loro cuore premono particolari situazioni di famiglia, un giudizio veramente sereno sulla grave decisione da loro presa, non può essere formulato. Solo chi ha sofferto, soffre e sopporta queste cose può comprendere. Ed io penso che, per questi uomini, indeboliti nel fisico, nel morale e nella volontà, l’accettare il ricatto loro proposto, sia stato solamente considerato come mezzo di liberazione. Ad essi è venuta a mancare la facoltà di discernere gli altri aspetti della cosa. Dio mi conceda la forza per resistere”. LA BATTAGLIA DI BARLETTA Riportiamo quanto descrive la ricercatrice Tarantino in suo interessante lavoro di inchiesta storica. A Barletta si ebbe il primo tentativo di resistenza organizzata, contro l’invasore tedesco, da parte di un Presidio Militare che riuscì a tenere in scacco ed a fermare i mezzi corazzati della Divisione Goering. Con un cannoncino anticarro da 47/32 dotato di un numero limitato di munizioni, ben piazzato ed abilmente manovrato dal tiratore scelto, Sergente Guido Giandiletti, agli ordini delComandante della Compagnia, Tenente Vasco Ventavoli, fu sbarrata la strada all’avanguardia della Divisione Corazzata tedesca proveniente da Andria. Barletta sperimentò per prima, in Italia, la feroce durezza della legge di guerra germanica in fatto di rappresaglia in caso di cruenta offesa, ai suoi soldati, da parte di civili. Durante i vari scontri verificatisi nei giorni 11 e 12, prima che la preponderanza dei mezzi tedeschi avesse il sopravvento, i nostri “soldatini”, armati di moschetto e di qualche mitragliatore, catturarono ed imprigionarono nel Castello un centinaio di soldati germanici. La rabbia teutonica, per lo smacco subito il giorno precedente, si sfogò il 12 settembre, barbaramente, non solo bombardando e sparando alla cieca contro inermi cittadini, ma sfregiando, a cannonate, palazzi, chiese, monumenti e, persino, l’ospedale. ATTACCO ED OCCUPAZIONE DELLA CITTA’ Alle prime luci dell’alba del 12 settembre 1943 il Capo della Stazione FF.SS. di Barletta, Sig. Carrozzini, telefonò al Comando del Presidio per comunicare che un consistente nucleo di tedeschi, aggirandosi lungo la linea ferroviaria per Bari, aveva occupato il casello ferroviario al passaggio a livello di Via Andria e, cioè, alle spalle delle truppe messe a sbarramento di tale strada nella zona delle Casermette. Venne dato immediatamente l’allarme alle truppe di Via Trani, di Via Andria e di Via Canosa. Comunicata la notizia al Comandante delle truppe, Colonnello Aiello, questi inviò immediatamente il Plotone Ciclisti del Comando 546° Battaglione Costiero a sua disposizione, nella zona segnalata. Dopo una breve scaramuccia, vennero catturati una ventina di soldati tedeschi che furono condotti al Castello. Verso le ore 7,30 il Colonnello Aiello comunicò al Comando del Presidio che una colonna tedesca, bene armata, con carri armati, cannoni ed una quarantina di autocarri carichi di truppe, aveva attaccato il caposaldo al Ponte sull’Ofanto e, dopo un aspro combattimento, aveva sopraffatto le truppe colà dislocate. Oltrepassato il Ponte sull’Ofanto che, contrariamente a quanto previsto e disposto, non era stato fatto saltare, la colonna continuava a sua avanzata su Barletta, contrastata solo dalla Compagnia collocata all’altezza del Cimitero. Si vedrà in seguito perché, contrariamente a quanto previsto e disposto, il ponte non era stato fatto saltare al momento opportuno. Contemporaneamente nel cielo di Barletta comparvero tre Stukas che sganciarono sulla città bombe e spezzoni incendiari e mitragliarono il Porto e le Casermette di Via Andria. La contraerea, che entrò in funzione con un certo ritardo, fu debole ed imprecisa nonostante i tre Stukas volassero a quota bassa e le condizioni di visibilità fossero ottimali. Alle ore 8,00 il Comandante delle truppe comunicò al Comando di Presidio che la Compagnia di Via Canosa, attaccata frontalmente ed aggirata sul fianco destro, era stata sopraffatta e che i Tedeschi erano, ormai, in Città. Nello stesso tempo giunse al Comando del Presidio un …

IL PARTIGIANO ROMANO CHE COMANDO’ LE “BRIGATE MATTEOTTI”

di Dario Gracceva Peppino Gracceva in via Tasso non parlò! Giuseppe Gracceva nasce a Roma il 3 febbraio 1906. Sin da giovane partecipa all’attività politica del Paese come corriere della Sezione di Roma del Partito Comunista Italiano. Viene arrestato il 23 maggio 1925 assieme al comunista Giuseppe Alberghi in piazza Esquilino a Roma perché «trovato in possesso di un pacco alquanto voluminoso contenente 3500 manifestini volanti, stampati alla macchia intestati: “Lavoratori di tutti i paesi unitevi” che cominciano con le parole: “Lavoratori di Roma! Una persecuzione metodica” e terminano con le altre “Le persecuzioni della polizia romana devono dare questo frutto. Evviva le vittime della reazione borghese. Evviva l’emancipazione del proletariato opera dei proletari stessi!“. “I Comunisti”». Non riceve la condanna grazie ad una amnistia mentre era in attesa del giudizio del Tribunale (31 luglio 1925) di associazione eversiva (comunista) diretta a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, alla propaganda comunista verbale o tramite la diffusione di opuscoli, giornaletti e manifestini soprattutto nelle zone di Genzano e dei Castelli Romani. Viene arrestato nuovamente, processato e condannato (1937) a 5 anni di reclusione nel carcere di Civitavecchia per “complotto contro i poteri dello Stato“. Viene rilasciato nel 1940 grazie ad un indulto chiesto dalla moglie e accettato dal Principe di Savoia ma con la libertà vigilata senza limite. Dopo il patto Ribbentrop-Molotov, passa dal Partito Comunista al Partito Socialista e diventa comandante militare delle Brigate Matteotti del Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo sotto la direzione di Sandro Pertini e Giuliano Vassalli. Benché vigilato dalla polizia riorganizza clandestinamente il Partito Socialista e l’8 settembre 1943, conquistate le armi, è tra i primi a iniziare la lotta armata contro i tedeschi e i fascisti. Il suo nome di battaglia era “Maresciallo Rosso”. Fu tra i protagonisti dei famosi combattimenti per la difesa di Porta S. Paolo. Riuscì assieme ad altri partigiani (Giuliano Vassalli) nella storica opera di far evadere dal carcere di Regina Coeli i comandanti Pertini e Saragat. Nel febbraio 1944 è il principale artefice di una delle azioni più incisive della Resistenza romana: l’esplosione alla stazione Ostiense di un treno carico di munizioni ad opera di una squadra di partigiani diretta dai fratelli Vurchio. Riesce a collaborare con la “spia americana” Peter Tompkins per inviare sulla stazione gli aerei alleati per la distruzione dei treni. Individuato dalle SS che da tempo lo ricercano per stroncare l’organizzazione delle Formazioni, ferito da un colpo di mitra penetrato nel polmone sinistro, si getta dal 2° piano dello stabile in cui era stato accerchiato per sfuggire alla cattura. Sanguinante e con un braccio spezzato, con l’aiuto del fratello si trascina ad un rifugio dell’organizzazione clandestina. Sottoposto con mezzi di fortuna a doloroso intervento per l’estrazione del proiettile, appreso che le SS hanno individuato e circondato il rifugio, supplica il medico e sua moglie (rispettivamente Dott. Alfredo Monaco e la moglie Marcella) di finirlo per non cadere in mano nemica ed assicurare così la salvezza dei compagni e dell’organizzazione. La moglie del medico e un partigiano lo trascinano invece attraverso i tetti e da questi ad altro rifugio. Rifiuta sdegnosamente il ricovero in luogo protetto da extra-territorialità e, curato e fasciato alla meglio, si preoccupa soltanto di assicurare la fuga dei familiari e la continuità della lotta delle Brigate. Purtroppo, dopo 3 giorni catturato dalle SS e tradotto al tristemente noto carcere tedesco di via Tasso viene segregato in completo isolamento, con la ferita aperta e sanguinante, il braccio spezzato, e privato di qualsiasi cura. Gli propongono il ricovero in clinica a condizione che riveli la dislocazione delle Formazioni, dei depositi di armi e i nomi dei capi della resistenza romana. Oppone uno sdegnoso rifiuto e da quel momento ha inizio il suo doloroso calvario. Per 46 giorni viene sottoposto a crudeli sevizie e interrogatori che molto spesso, come risulta dai verbali originali del carcere, più tardi recuperati, si protraggono fino a 12 ore consecutive. Ridotto al limite della resistenza fisica e psichica, ma consapevole che la vita di molti uomini e la continuità della lotta delle “Brigate Matteotti” è legata al suo silenzio, continua a tacere fino a che gli aguzzini, stupiti e ammirati da tanto coraggio, decidono l’esecuzione, che per fortuna non può essere effettuata per l’arrivo degli Alleati. Il coraggio e l’indomita fierezza del Comandante Giuseppe Gracceva furono di esempio per tutti i detenuti del carcere, che ne trassero sostegno per affrontare le torture fisiche e morali alle quali furono sottoposti, ed è stato ricordato ed esaltato con grata ammirazione in tutti gli scritti del tragico carcere di via Tasso. Una volta terminato il conflitto mondiale, rifiuta la Medaglia d’Oro al Valor Militare, accettando invece la Medaglia d’Argento (la sua idea era che altre persone meritavano quella d’oro). Riceve la pensione di invalidità a seguito delle torture ricevute durante la sua prigionia. Diventa Presidente dell’ANPI di Roma nei primi anni della sua formazione. Quando nel 1947 fu deciso l’esilio per l’ex re Vittorio Emanuele e Umberto di Savoia, gli ex regnanti si rifiutarono di lasciare le loro proprietà. Fu Gracceva, assieme ad un altro ex partigiano, ad andare dall’ex re e a farlo partire per l’esilio. Fu membro attivo della Costituente nel Partito Socialista per l’approvazione della “Carta della Costituzione Italiana”. Riceve anche una medaglia di commemorazione per questa storica impresa. Dopo qualche anno si ritira dall’attività politica perché capisce che la politica è fatta di compromessi e questo va contro ogni sua ideologia e coerenza (soprattutto quando il 25 marzo 1947 vengono riconfermati i famosi “Patti Lateranensi” ossia il rapporto tra Chiesa e Stato). In quegli anni conosce l’ex partigiano Enrico Mattei che nomina Gracceva Presidente dell’ENI nel Sud Italia. Gracceva si trasferisce con tutta la famiglia a Salerno. Consegna le dimissioni di Presidente dell’ENI il giorno della morte di Mattei e ritorna a Roma dove muore nel 1978. Il giorno dei funerali il Presidente della Repubblica Sandro Pertini si presenta con i corazzieri in divisa. Oggi Gracceva è sepolto nel cimitero monumentale del Verano a Roma. …

IRMA MARCHIANI LA PARTIGIANA “ANTY”

Irma Marchiani nasce in Toscana, a Firenze, il 6 febbraio del 1911. Il padre Adamberto lavora in ferrovia, la madre Assunta si occupa della casa e dei figli: Irma e Pietro. La famiglia è costretta spesso a cambiare residenza: il padre deve spostarsi per trasferimenti, imposti soprattutto da atteggiamenti “punitivi” dell’Amministrazione ferroviaria nei suoi confronti. Adamberto esprime infatti un dichiarato impegno politico e sociale e animato da forti sentimenti di giustizia, partecipa in quegli anni alle lotte che i ferrovieri e altre categorie di lavoratori conducono per conquistare migliori condizioni di vita e più ampi spazi di libertà politica e civile. Egli aderisce così agli scioperi del 1914 e alle manifestazioni di lotta tese a impedire il coinvolgimento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Nel 1915 il ferroviere Marchiani viene trasferito per punizione da Firenze alla Spezia e la famiglia lo segue. Nel 1916 in casa Marchiani nasce Palmira, l’ultima figlia, quella che Irma chiama affettuosamente “Pally” e verso la quale continuerà negli anni ad avere un affetto particolare. Ed è proprio alla “adorata Pally” che, pochi minuti prima della fucilazione, indirizza l’ultima lettera, affidandole il suo estremo saluto e ricordo. Gli anni in cui Irma frequenta la scuola sono quelli della violenza fascista: nel corso di tale periodo impera lo squadrismo, complici e conniventi monarchia e forze dello Stato. Fascisti armati assaltano, incendiano, distruggono le Camere del lavoro, le Cooperative, i Municipi socialisti, conquista e baluardo di difesa sociale e di emancipazione civile e culturale. Nel 1922 c’è la marcia su Roma, il Fascismo si insedia al governo dello Stato e nel corso di pochi anni vengono soppressi i Sindacati, sciolti e proibiti i Partiti politici, svuotato di funzioni il Parlamento, imbavagliata la stampa e istituito il Tribunale speciale per giudicare e condannare chi è considerato oppositore del regime. Irma, ormai adolescente, vive quel clima, ed è facile intuire come cominci a manifestarsi in lei un sentimento di profonda avversione contro il sopruso, l’attacco e l’offesa ai valori umani e civili in cui, ancora bambina, ha cominciato a credere. Ciò anche nel ricordo del nonno garibaldino, tanto che fin dalla fanciullezza, spesso Irma porta sul petto la stella a cinque punte dei volontari garibaldini. In questo pesante clima il licenziamento del padre costringe Irma, nel 1924, dopo aver conseguito la promozione alla classe VII, a lasciare la scuola e a cercare un’occupazione per contribuire al bilancio familiare. Si impiega presso una modista e impara il lavoro con rapidità. Abilità manuale, fantasia, buon gusto e grande volontà di aiutare la famiglia la spingono a disegnare e confezionare a casa, oltre le ore di impiego, modelli di sua creazione. Licenziata, Irma troverà successivamente lavoro come vetrinista in un grande magazzino di confezioni. Di carattere dolce ed equilibrato, rivela un animo aperto alla bellezza che cerca di cogliere e di tradurre in ogni sfumatura, con l’amore dell’autodidatta. Negli anni Trenta frequenta anche un corso di disegno anatomico all’Accademia di Belle Arti di Carrara. Forte di intelligenza e di animo, Irma non lo è però altrettanto nel fisico. A tale proposito, per motivi di salute, frequenta annualmente Sestola, sull’Appennino modenese, dove si svolge l’ultima, drammatica parte della sua vita. Dopo l’8 settembre 1943 Irma si trova appunto sull’Appennino modenese e in questo periodo, assai importante per la sua maturazione personale, Irma compie una riflessione sugli ideali da perseguire, definiti in una sua lettera «alti e belli», decidendo di essere parte della Resistenza, con il nome di battaglia di Anty. Diventa dapprima staffetta informatrice, poi, distinguendosi e suscitando la fiducia del suo comandante, il quale crede che ella celi nel suo sguardo le doti di un buon comandante, diventa vice comandante del battaglione Matteotti, Brigata Roveda, Divisione Modena. Partecipa alla battaglia di Montefiorino e, mentre tenta di far ricoverare in ospedale un partigiano ferito, viene catturata. Condotta nel campo di concentramento di Corticelli a Bologna, subisce qui tortura e sevizie. Dopo il processo, in cui prima è emessa contro di lei una condanna a morte, poi commutata nella deportazione in Germania, nonostante la difficile situazione, riesce a reagire e fugge per ricongiungersi al proprio battaglione. In questa seconda fase della sua vita partigiana opera in qualità di commissario politico, infermiera e combattente. Infine, l’11 novembre del 1944, nel tentativo di attraversare le linee con i suoi compagni di lotta, senza avere più a disposizione munizioni, è sorpresa, insieme alla staffetta Gaetano Ruggeri, presso Benedello da una pattuglia tedesca. Condotta a Pavullo nel Frignano (Modena), è processata il 26 novembre del ’44 da ufficiali del comando tedesco di Bologna, i quali la condannano a morte. Viene così fucilata alle 17 dello stesso giorno vicino alle carceri di Pavullo con Gaetano Ruggieri, Renzo Costi e Domenico Guidoni. Dopo la Liberazione viene concessa a Irma Marchiani la Medaglia d’oro al V.M. alla memoria. La medaglia è appuntata sul petto del fratello di Irma in una pubblica cerimonia tenuta alla Spezia il 2 giugno 1952. Nella motivazione della Medaglia d’oro, pubblicata il 3 settembre 1951 sulla Gazzetta Ufficiale, sta scritto: «Valorosa partigiana, animata da ardimento, dopo essersi distinta per coraggio e sprezzo del pericolo nella battaglia di Montefiorino, veniva catturata dal nemico nel generoso tentativo di far ricoverare in un luogo di cura un compagno gravemente ferito. Condannata alla deportazione e riuscita audacemente ad evadere, riprendeva il suo posto di lotta e partecipava al combattimento di Benedello, battendosi con indomito coraggio e prodigandosi nell’amorosa assistenza ai feriti. Caduta nuovamente nelle mani del nemico, affrontava impavida la morte offrendo fieramente il petto al piombo che troncava la sua bella esistenza».    *Ebbene, compagne, nel nome di questa nostra compagna sino ad oggi stranamente ignorata; nel nome di tutti i caduti nella guerra di liberazione, voi dovete continuare la lotta che non è terminata il 25 aprile 1945. Dovete continuare questa lotta, perché diventino realtà le finalità della Resistenza. Noi non ci battemmo, allora, solo per cacciare i tedeschi e spazzare via i resti del fascismo; ma anche e soprattutto perché divenissero realtà la libertà, la giustizia sociale, la pace. …

“ISO” E IL CAPITANO FINESTRA

Aldo Aniasi muore a Milano il 27 agosto 2005, alla vigilia del 25 aprile 2003 lascia questa testimonianza all’inviato di La Repubblica. di Luca Fazzo Per farsi raccontare cosa fu davvero la Resistenza bisogna salire al primo piano di via De Amicis 17, cercare la strada tra i tavoli delle signore che giocano a canasta e a bridge, e farsi indicare la stanza di Aniasi. L’ex sindaco è nel suo ufficio. Se gli parli di quelli che oggi il 25 Aprile lo vorrebbero cancellare socchiude gli occhi, fruga nei ricordi. E torna con la testa sulle montagne dell´Ossola, un’estate di quasi sessant’anni fa. E dalle labbra gli esce un nome: «Finestra». «Il capitano Finestra». È un nome che arriva dritto dai rastrellamenti nazisti e repubblichini che colpivano le montagne dove Aniasi e i suoi compagni della seconda divisione Garibaldi si erano arrampicati dopo l’8 settembre. «A guidare la milizia nei rastrellamenti era lui, il capitano Finestra. Per chi finiva nelle sue grinfie c’erano il plotone d´esecuzione o il campo di sterminio. E sa dov’è oggi Finestra? Ha fatto per anni il sindaco di Latina. È stato per due legislature senatore della Repubblica Italiana. Stava (ndr) in Alleanza nazionale, sdoganato, legittimato». IL PERSONAGGIO “Dopo l´8 settembre era un assassino della milizia fascista, poi è stato sindaco e senatore” Aniasi: il mio no alla pacificazione si chiama capitano Finestra “La destra in realtà vuole una storia dove i torti e le ragioni diventino uguali” In montagna, Aniasi si chiamava Iso. Il comandante Iso. «E magari qualcuno oggi pensa che questa dei nomi di battaglia fosse un vezzo, come una specie di nome d’arte. Invece era questione semplicemente di salvare la vita ai propri famigliari giù in pianura, evitare le vendette trasversali che sarebbero scattate, inevitabili, se qualcuno di noi, catturato e sotto tortura, avesse fatto l’elenco, “in montagna con me c’è Tizio, c’è Caio”. Di molti dei miei uomini, io il cognome l’ho conosciuto solo a guerra finita. Per me scelsi Iso Danali, che era l’anagramma del mio nome e cognome. Poi Danali si perse per strada, e rimase solo Iso». I primi passi nella Resistenza li aveva fatti a Codogno, dov’era sfollato: «Aiutavamo i nostri soldati a sparire, a liberarsi dalle divise, a passare il Po senza essere beccati dai tedeschi». Poi la montagna, la grande offensiva partigiana dell´estate del 1944, quando – dopo lo sbarco in Normandia e la liberazione di Roma – la vittoria sembra alle porte, e nascono le quattordici repubbliche partigiane, pezzi d’Italia già liberati «dove governavamo come se fossero dovute durare per sempre». Invece arriva l’autunno, la controffensiva di Kesselring, il proclama del generale americano Alexander che invita i partigiani a disarmare e a tornare a casa. «Ci ritrovammo da soli, a millecinquecento metri d’altezza. Molti erano saliti in montagna con i calzoni corti, con scarpe scalcagnate. Non pensavo che ce l’avremmo fatta. Leggevamo La Stampa che ci mandava messaggi tremendi, “finirete braccati di balza in balza con le barbe bianche“. Ma ero il comandante, e ai miei uomini dovevo dire l’esatto contrario. Che avremmo vinto, e vinto in fretta». Sarebbe difficile pretendere dal comandante Iso comprensione verso le complessità dell’oggi, aperture verso chi insieme ai libri di storia vuole riscrivere anche il calendario delle feste nazionali. «Questi tentativi ci sono sempre stati. Ma oggi io ci vedo qualcosa di più organizzato, una manovra i cui tasselli sono stati preparati accuratamente. I Baget Bozzo, i Biondi, i La Russa… Quando sento il nostro presidente del consiglio (Berlusconi ndr) dire che abbiamo una Costituzione di stampo sovietico mi viene in mente un solo pensiero: quest’uomo non sa di cosa sta parlando. E poi me ne viene un altro: è valsa la pena di combattere quella guerra per arrivare all’oggi, per conquistare una libertà che garantisse ai tanti capitani Finestra, ai loro figliocci e nipotini, di insultare i morti?». E cosa si risponde? «Mi rispondo che ne è valsa la pena. Nonostante tutto. Ne è valsa la pena anche se oggi vengono a parlare di pacificazione avendo in mente e progettando una cosa ben diversa. Che è la parificazione: scrivere una storia dove i torti e le ragioni erano uguali, da una parte e dall’altra. Dove chi combatteva per liberare il paese finisce sullo stesso piano degli alleati dei nazisti». Quando Aniasi pensa ai morti, gli viene istintivo snocciolare le cifre del macello: i tot deportati, i tot mai tornati, i tot caduti in battaglia. Però poi esce vivida una immagine, una sola. Fondotoce, nell’Ossola, il 20 giugno 1944. Quarantatré partigiani della divisione Garibaldi rastrellati da repubblichini e nazisti vengono caricati su un camion, portati su uno spiazzo, fucilati a gruppi di tre. Quarantatré fucilati, ma solo quarantadue morti. Uno viene colpito di striscio gettato nella fossa comune, sul volto ha il cervello di un compagno. Dopo cinque ore, quando scende la notte, si muove, chiede aiuto, si mette in salvo. «Oggi vive in Thailandia, ogni anno quando c’è la celebrazione del massacro ci manda una cartolina. Si chiama Carlo Suzzi, ma per noi ha un altro nome: “Quarantatrè”». La Resistenza la fecero dei ragazzini. «Il giorno della Liberazione io, che ero il comandante della mia divisione, avevo appena venticinque anni. Il mio commissario politico aveva trentott’anni, e mi sembrava un vecchio». Oggi quei ragazzi sono vecchi davvero, e ogni anno ai raduni c’è qualcuno che manca all’appello, «il nostro giornale – sorride Aniasi – a volte sembra una raccolta di necrologi». Oggi dicono che quella storia va riscritta anche per colpa di chi della Resistenza ha fatto l’oleografia, di chi l´ha gonfiata di retorica monocroma. «Certo, c’è stata anche una agiografia della Resistenza, come era stato per il Risorgimento. Ma questo era inevitabile, credo. A volte è stata raccontata come un mito, certo. Ma io penso che un paese per crescere ha bisogno di conoscere la sua storia, per alcuni aspetti anche di mitizzarla. E poi, insomma, poche chiacchiere: il 25 Aprile è stato lo spartiacque tra la dittatura e la libertà, c’è poco da fare». …