ETTORE TROILO IL PREFETTO PARTIGIANO

Ettore Troilo nasce il 10 aprile del 1898 a Torricella Peligna, in provincia di Chieti. Si avvicina presto agli ideali del socialismo, che si vanno diffondendo anche in Abruzzo e come altri giovani socialisti, è “interventista”. Infatti, appena presa la licenza liceale, poco più che diciottenne, si arruola volontario, il 9 novembre 1916. Cessate le ostilità, é addetto al recupero materiali sul Piave, ove presta servizio fino al giorno del congedo, avvenuto il 20 aprile 1920. Dopo tre anni e mezzo, in cui ha iniziato a studiare legge, è diventato caporale ed ha ricevuto i suoi piccoli riconoscimenti: la speciale medaglia ricordo della campagna 1917-1918 ed una Croce al Merito di guerra. Nelle trincee alpine Troilo ha conosciuto molti uomini di sinistra, tra gli altri, Emilio Lussu, che diverrà uno dei suoi migliori amici ed ha trasformato la sua istintiva attrazione per il socialismo in una matura coscienza politica. Nel 1922 si laurea a Roma in Giurisprudenza. Nell’aprile del 1923 si trasferisce a Milano, per fare pratica legale con un avvocato abruzzese amico del padre. Quel che è più importante per lui, nei dieci mesi trascorsi a Milano, è la frequentazione assidua, della casa di Filippo Turati, dove si riunisce il fior fiore del socialismo milanese. Ed è Turati, quando Troilo decide di esercitare la professione di avvocato a Roma, che lo presenta a Giacomo Matteotti, presso la cui segreteria lavora intensamente fino al giorno dell’assassinio del leader socialista. Nel 1926, quando l’Avv. Egidio Reale, repubblicano, nota figura di antifascista, é costretto a fuggire dall’Italia e a riparare in Svizzera per sottrarsi all’arresto e al confino cui era stato condannato dal regime, Troilo, si offre, per solidarietà, di occuparsi del suo studio. Antifascista schedato e sorvegliato politico, discriminato nella professione (non gli è consentito difendere in Cassazione) fa parte fin dalla fondazione dell’“Italia Libera”, svolgendo intensa attività contro il regime. Collabora con Giovanni Amendola, Alberto Cianca e Mario Ferrara nella redazione del “Mondo” fino al giorno in cui il giornale deve cessare le pubblicazioni. Per queste attività subisce, durante il regime, numerosi fermi di polizia e perquisizioni domiciliari. Nel 1929 sposa Letizia Piccone nata in Argentina ma originaria di Torricella Peligna, Ettore e Letizia hanno tre figli Nicola, Michele e Carlo. Troilo è un bravo avvocato civilista, guadagna abbastanza bene, malgrado i limiti derivanti dal suo antifascismo e dall’impegno politico. Dopo l’8 settembre del ‘43 con Emilio Lussu ed altri elementi antifascisti dell’Associazione Nazionale Combattenti, collabora alla organizzazione della difesa di Roma e partecipa alla disperata resistenza opposta ai tedeschi alla Cecchignola. Occupata Roma dai tedeschi e attivamente ricercato dai nazifascisti, il 19 settembre 1943 riesce a lasciare la Capitale ed a raggiungere il paese natale in Abruzzo. Nasce la Brigata Maiella Raggiunta Torricella Peligna, inizia subito l’organizzazione del movimento di sabotaggio e di resistenza; catturato dalle S.S. tedesche riesce a fuggire e a raggiungere la masseria di un vecchio compagno socialista. Qui raduna i primi 15 uomini, quasi tutti contadini, e con loro passa avventurosamente le linee, la notte del 4 dicembre, raggiungendo il comando alleato nella vicina Casoli. Intanto Torricella – che rientra nei programmi di “terra bruciata” decisi dai tedeschi per rallentare l’avanzata degli alleati – è minata e praticamente rasa al suolo, come quasi tutti i paesi della zona. A Casoli, impiega alcuni disperanti giorni per superare la diffidenza degli ufficiali inglesi. È il maggiore Lionel Wigram, che comanda un battaglione di paracadutisti del Royal West Kent Regiment a sposare totalmente la causa dei volontari abruzzesi ed ottiene che a loro siano affidati dapprima compiti di guide locali (essenziali, visto che gli inglesi non conoscono affatto il territorio) e, ben presto, ruoli di combattimento. Wigram affianca il piccolo gruppo di volontari nell’ultimo e decisivo colloquio al quartier generale alleato, dove Troilo risponde in modo convincente alle domande degli alti ufficiali inglesi e fissa quelli che saranno i caratteri distintivi della “Maiella”: la apoliticità del gruppo, che sarà organizzato come una formazione militare, senza commissari politici; il volontarismo; l’autonomia, nel senso che sarà alle dipendenze del comando alleato solo per le decisioni militari, riservando agli organi interni l’organizzazione e la disciplina. Dopo solo due mesi di azione il maggiore Wigram spinge i partigiani abruzzesi ad una impresa troppo ardita: espugnare la roccaforte tedesca di Pizzoferrato per aprire la strada verso Roccaraso e gli altipiani, isolando le truppe tedesche dell’alto chietino. Nella notte tra il 3 e il 4 febbraio si svolge – con oltre un metro di neve – una delle più sanguinose battaglie nella storia della ”Maiella”. Colpiti a tradimento dai tedeschi, che hanno simulato la resa e poi hanno mitragliato gli assalitori, muoiono lo stesso maggiore Wigram, quattro dei suoi uomini e undici partigiani. Altri dodici partigiani sono fatti prigionieri, e tre di loro vengono giustiziati nei campi di lavoro. La battaglia ha però inferto un duro colpo ai tedeschi costretti ad abbandonare la loro strategica posizione. L’eco della attività della “Maiella” giunge allo Stato Maggiore dell’Esercito di stanza a Brindisi. Il Maresciallo Messe convoca il suo comandante ed esercita vive pressioni perché la formazione entri come un reparto regolare nell’esercito italiano. Troilo ribadisce il carattere spontaneo e volontario della sua formazione e la sua ispirazione nettamente repubblicana, resistendo ad ogni pressione ed ottenendo una soluzione di compromesso: la “Maiella” entra alle dipendenze dell’esercito ai soli effetti amministrativi ma resta assolutamente autonoma per ogni questione attinente alla sua forza ed alla sua organizzazione militare. Il 28 febbraio, con una lettera ufficiale a Troilo, cui viene assegnato il grado di capitano, la “Maiella” viene riconosciuta come il primo reparto irregolare di volontari italiani nella Resistenza. Ai primi di giugno, dopo aver liberato molti dei paesi della zona, gli uomini della Brigata valicano a piedi la Maiella ed entrano per primi a Sulmona, qui termina il primo ciclo operativo della “Maiella”, che si riorganizza e si rafforza con l’ingresso di uomini delle bande locali: “banda delle bande” è la definizione che uno storico abruzzese, Costantino Felice, ha dato della Brigata. L’alto chietino è ormai liberato e …

L’AZIONE DEL VATICANO PER ASSERVIRE L’ITALIA

I documenti segreti della Segreteria di Stato rivelati da un “Libro Bianco” pubblicato in Svizzera La manovra per rompere il C.L.N. e per provocare la scissione nel Partito Socialista Italiano ROMA. Le constatazioni fatte ripetutamente su queste colonne sulle interferenze del Vaticano nella politica italiana trovano la più grave conferma nel libro pubblicato a Lugano di cui abbiamo dato l’annuncio. La raccolta edita dalla “Casa Scoe” col titolo Documenti segreti della diplomazia del Vaticano – il Vaticano contro la Democrazia cristiana, costituisce un formidabile atto di accusa contro le mene del Vaticano. In una serie di documenti impressionanti, che vanno dall’ottobre 1945 alla metà di marzo 1948, si dimostra quali pericoli abbia costituito e costituisca per uno sviluppo di una vera democrazia taliana l’opera personale del Pontefice e dei suoi consiglieri. Ecco la breve prefazione con la quale si apre la serrata documentazione: «I documenti che vengono qui raccolti ed offerti al sereno giudizio della pubblica opinione, eloquentissimi per se stessi, non richiedono una vera e proprie introduzione o illustrazione. Chi voglia addentrarsi un poco nella lettura di queste pagine potrà farsi per suo conto, e senza subire l’influenza di un inopportuno chiosatore, un’idea abbastanza chiara dell’attività diplomatica ed extra-diplomatica della Santa Sede in questo momento delicatissimo e decisivo per le sorti dell’umanità. Questa raccolta è la silloge più completa ed importante che mai sia stata pubblicata nel momento stesso dello svolgimento dei fatti. Essa svela, al grande pubblico la situazione politica dell’Italia e del mondo, cosi come è vista da un osservatorio che — per la ramificazione capillare dell’organizzazione politico-religiosa di cui si serve e per gli inadeguabili mezzi di informazione di cui dispone — è di gran lunga il meglio apparecchiato a registrare nel modo più preciso e sensibile la varia e mutevole realtà della presente vita politica. Avanti! 3 Aprile 1948 E’ ovvio che chi ha raccolto questa straordinaria documentazione non voglia rivelare almeno per il momento la fonte diretta da cui ha attinto. Per ora può essere sufficiente sapere che si tratta di materiale di prima mano, direttamente trascritto dagli archivi della segreteria di Stato per informare segretamente una Nazione o, forse, un gruppo di Nazioni. Questi documenti sono per avventura caduti nelle mani di chi, lungi dal farne strumento di parte, ha creduto suo dovere renderli di pubblica ragione. Ciò che da questa pubblicazione ne viene ormai luminosamente provato è la rete di intrighi, di subdole alleanze, di tacite intese, di necessarie omertà che la segreteria di Stato ha intessuto in Italia ed in tutto il mondo. Invece di sollevarsi al di sopra del conflitto che oggi tormenta il mondo, il Vaticano ha preso netta posizione per un gruppo di Potenze contro uno dei gruppi di Potenze. Invece di svolgere una funzione pecificatrice, il Vaticano al contrario ha contribuito con tutte le sue forze ad esasperare il dissidio, a rinfocolare gli odii, a stimolare gli antagonismi, ad aizzare i contendenti, a rendere più dolorosa la lacerazione, più tormentata la vita dei popoli, più instabile la malsicura pace. Da questi documenti íl lettore rileverà quale sia il carattere e la funzione del presente Governo italiano, quali veri rapporti tra il Presidente del Consiglio e la Santa Sede, quale la crisi che travaglia il partito, democratico-cristiano. Ed egli stesso ne trarrà le sue libere e serene deduzioni. Per nostro conto, non mossi da alcun particolare odio di parte, licenziamo queste bozze con animo sereno perchè siamo sicuri di aver compiuto il nostro dovere al servizio della verità e della giustizia. Noi ci auguriamo che la fosca luce che questa raccolta getta sulla vita politica internazionale del tempo presente apra la coscienza agli uomini, specie a quelli investiti dalle supreme responsabilità del comando e che un argine sia fatto, un isolamento ermetico, una separazione radicale fra poteri religiosi e poteri civili, in modo che sul proprio terreno, positivo e reale, uomini e Stato possano serenamente intendersi, ovviare allo guerra e aprire alla civiltà ed al progresso un’era feconda di pace e di benessere, per tutti i popoli». Avanti!  3 Aprile 1948 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CALOGERO CANGELOSI

Calogero Cangelosi, 41 anni, esponente del Partito Socialista Italiano e segretario della Camera del lavoro di Camporeale, in provincia di Palermo, viene assassinato il 1° aprile 1948. Quella sera si incontra con altri compagni sindacalisti per decidere come agire in vista delle elezioni del 18 aprile seguente: la «povera gente» vuole finalmente dare una lezione ai «lorsignori», i padroni del feudo. Ma proprio per questa e per altre iniziative scomode Calogero è da tempo nel mirino della mafia. Non è infatti per cortesia che Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli, finita la riunione, si offrono di accompagnare a casa il loro dirigente sindacale. Vogliono proteggerlo, ma purtroppo non è sufficiente. Sono quasi arrivati, quando dall’angolo della strada dove Cangelosi abita con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli (Francesca, 11 anni, Giuseppe, 5, Michela, 3 e Vita, appena 2 mesi), si sente un crepitare di mitra. Decine di colpi ad altezza uomo si abbattono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangelosi cade per terra, spirando all’istante. Anche Liotta e Di Salvo vengono feriti gravemente. Rimangono invece illesi Calandra e Natoli. Sono le 22.30. Il corpo di Calogero viene trasportato a casa del suocero e qui i carabinieri usciti per l’emergenza si raccomandano di non spostarlo fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Passano ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degni di mettere piede in paese. Quando è finalmente possibile celebrare i funerali, in mezzo ai contadini del paese e ai familiari c’è anche il segretario nazionale del Psi, Pietro Nenni, venuto a onorare il compagno di partito, trentaseiesimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra. Per quest’omicidio, la giustizia non riesce nemmeno a imbastire un processo. Tutti pensano che a dare l’ordine di morte sia stato il proprietario terriero Serafino Sciortino, e che a sparare ci abbiano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi picciotti, eppure gli inquirenti decidono di procedere contro ignoti. Di lì a poco, sulla vicenda cade il silenzio. Dopo la morte di Calogero Cangelosi alle elezioni del 18 aprile il Fronte democratico popolare, composto dal Psi e dal Pci, viene sconfitto in tutta la Sicilia, tranne a Camporeale, dove ottiene ancora più voti che nelle regionali del 1947. La ricostruzione Era la sera del 1° aprile 1948. Non faceva più freddo e la piazza di Camporeale pullulava di contadini, che discutevano animatamente tra loro. In quei giorni, l’argomento era sempre lo stesso: le elezioni politiche del 18 aprile e la «lezione» che la povera gente avrebbe potuto dare a “lorsignori“, i padroni del feudo. Anche alla Camera del lavoro quella sera si era tanto parlato di questo, insieme alle lotte da organizzare per l’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e 40 e sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e malcoltivate degli agrari. Poi, Calogero Cangelosi, quarantunenne segretario della Cgil, guardò l’orologio, si accorse che si era fatto tardi e salutò i presenti per tornare a casa. «Calogero, aspetta che ti accompagniamo noi», gli dissero Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Il loro non fu un gesto di cortesia, ma un modo per proteggere il dirigente sindacale, che era nel mirino della mafia. L’offerta di una «scorta», insomma. Tutti e cinque uscirono dalla sede della Camera del lavoro, che si trovava in piazza, e si avviarono verso via Perosi, dove Cangelosi abitava con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli: Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. Erano quasi arrivati, quando dalla parte alta di via Minghetti, che faceva angolo con via Perosi, si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione e ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangelosi cadde per terra, spirando all’istante. Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero, invece, Calandra e Natoli. Erano le 22.30. Il rumore degli spari attirò tanta gente. Qualcuno capì quello che era accaduto ed andò di corsa a chiamare i cognati del sindacalista ucciso e i parenti dei due feriti. Questi ultimi furono trasportati all’ospedale, mentre Cangelosi fu portato nella casa del suocero. La moglie Francesca stava allattando la piccola Vita, seduta su una seggiola, quando arrivò un fratello a chiamarla. Immediatamente lasciò la neonata ad una vicina di casa e corse a casa del padre. Calogero era stato sdraiato sul letto, col corpo crivellato dai proiettili. Urla, scene di disperazione. Poi arrivarono i carabinieri, fecero le domande di rito e raccomandarono di non toccare il cadavere fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Allora Camporeale faceva ancora parte della provincia di Trapani e passarono ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degnasse di mettere piede in paese. «Nel mentre mio marito era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile », avrebbe poi raccontato la moglie. Finalmente si poterono svolgere i funerali, a cui parteciparono tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari di Cangelosi c’era anche il segretario nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni, venuto ad onorare il suo compagno di partito, 36esimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra. Il 35esimo era stato Placido Rizzotto a Corleone (10 marzo) e il 34° Epifanio Li Puma a Petralia Sottana (2 marzo). Disperazione e rabbia si toccavano con mano. Erano palpabili. «La sera del 16 aprile ’48 – racconta Nicola Cipolla, uno dei capi contadini siciliani di quel periodo – al comizio di chiusura della campagna elettorale, i mafiosi scomparvero tutti dalla piazza per paura dei contadini». Ed accadde un «miracolo»: il 18 aprile il «Fronte Democratico Popolare», composto dal Psi e dal Pci, fu sconfitto in tutta la Sicilia, ma non a Camporeale, dove ottenne ancora più voti delle regionali del ’47. Fu l’ultimo regalo di Calogero Cangelosi ai suoi contadini. …

UNA RIFLESSIONE STORICA E POLITICA SULLE RADICI DELL’ITALIA MODERNA

di Bettino Craxi Penso innanzitutto che la celebrazione del centenario di Garibaldi non debba risolversi in una pura parata di soli simboli, tutti scontati, freddi ed insignificanti. Essa offre piuttosto l’occasione per una grande riflessione storica e politica, sulle tradizioni e sulle radici dell’italia moderna, dalla quale trarre motivi morali che possano valere per i nostri compiti ed i nostri doveri di oggi… Chi non è capace di trarre insegnamenti dalla storia, difficilmente può avere di fronte a sé un grande avvenire. Una nazione che non conosce o ha dimenticato le proprie radici difficilmente riuscirà ad essere veramente tale e ad esprimere sempre, in ogni circostanza, in ogni momento difficile, la forza necessaria per superare gli ostacoli e per vincere le difficoltà che gli si parano dinanzi. Eppure talvolta sembra che conosciamo meglio e più in dettaglio la storia degli altri Paesi che non la nostra. Ci entusiasmiamo per esempio alle vicende di avventure storiche e di eroi d’Oltralpe e di Oltreoceano e non conosciamo o dimentichiamo i nostri, i loro grandi sacrifici, le loro dolorose esperienze, la grande passione e la genialità che essi seppero infondere alla lotta che condussero per fare dell’Italia una nazione libera e indipendente. Talvolta, quasi come ipnotizzati e colonizzati dalla invadente produzione cinematografica e televisiva di massa di altri Paesi, siamo sospinti a conoscere tutto dei personaggi dell’epopea del West o della Rivoluzione francese, e non sappiamo, faccio un esempio, che dopo l’impresa del Mille, Abramo Lincoln, difettando di grandi generali, si rivolse a Garibaldi per offrirgli il comando delle armate federali americane all’inizio della guerra di secessione, invito al quale Garibaldi rispose: “Non posso andare pel presente negli Stati Uniti. Ma se la guerra dovesse per mala sorte continuare nel vostro Paese, io mi affretterò a venire alla difesa di quel popolo che mi è tanto caro”. O che nella guerra franco-prussiana del 1870 Garibaldi, accorso in difesa della Francia e del governo rivoluzionario della Comune, vinse la sola battaglia vinta dalla Francia in quella guerra e fu poi eletto deputato all’Assemblea nazionale francese in ben sei circoscrizioni di quel Pese. Per non parlare dei tanti personaggi straordinari, famosi ed oscuri, con le loro storie umane, eroi che, dolorose, fantastiche, che riempiono la epopea garibaldina in Italia e nel mondo, e ognuno dei quali meriterebbe una storia ed un racconto a parte. I problemi sono certo oggi di natura diversa, in un contesto che è profondamente mutato ed enormemente progredito, ma – per la loro complessità e gravità – sono anch’essi tali da richiedere egualmente, prima di ogni altra cosa, la qualità degli uomini, ed un alto grado della loro volontà, del loro senso di giustizia, del loro spirito di sacrificio, di lavoro, di solidarietà, di responsabilità e di lotta. Cento anni  fa (2 giugno 1882 ndr.) Garibaldi moriva a Caprera, la piccola isola accostata alla Sardegna, dove aveva trascorso lunghi periodi e poi tutti gli ultimi anni della sua vita. Da tempo ormai egli era all’opposizione della nuova Italia ufficiale di cui disprezzava e denunciava la corruzione pubblica, le ingiustizie sociali, la inconcludenza parolaia del mondo politico. Di fronte al problema dell’unità d’Italia aveva sostenuto la monarchia piemontese dei Savoia. Egli lo ricorda nel suo “testamento politico” quando dice di essersi attenuto “al gran concetto di Dante”: “fare l’Italia anche col diavolo”. Ma ora, di fronte al governo monarchico è tornato repubblicano: “potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquecento dottori, che dopo averla assordata con ciance, la condannano a rovina”. Il legame con la Sicilia Dalla sua morte passeranno ancora 65 anni prima che si realizzi l’ideale della Repubblica mentre ad un secolo di distanza, di quel tipo di dottori di cui egli parlava, politicanti di bassa taglia, ce n’è purtroppo in circolazione ancora un numero eccessivo a rendere più fragile e pericolosamente inquinata la vita delle nostre istituzioni democratiche e repubblicane. L’ultimo viaggio che fece, due mesi prima di morire, vecchio e quasi paralizzato, fu proprio in Sicilia nell’aprile del 1882. Contro il parere di tutti, degli amici e dei medici, Garibaldi decide di partecipare alle celebrazioni dei Vespri Siciliani a Palermo. Tornando nella terra che era stata ventidue anni prima teatro della più grande impresa della sua vita, ritrova un popolo che lo ama, i compagni d’arme, le donne siciliane di cui egli aveva conosciuto il coraggio e lo spirito patriottico. Si rivolge a tutti scrivendo personalmente messaggi di saluto con grande fatica, per la mano rosa dal male. Saluta la Sicilia “terra della grandi iniziative”, “ai miei cari prodi messinesi”, dice “io mi trovo qui in famiglia”; saluta Palermo “maestra nell’arte di cacciare i tiranni” e i palermitani “veri rappresentanti dell’Italia”, si rivolge ai “picciotti”: “Credete forse che io vi abbia dimenticato? lo mi ricordo che coi vostri poveri fucili, ma col cuore da leoni, voi caricavate i borboni e li fugavate”, saluta “di cuore gli operai di Palermo che seppero sempre tenere alta la bandiera della libertà, della indipendenza, della patria”. i “picciotti”, le donne siciliane, i patrioti siciliani in particolare erano stati protagonisti al fianco dei “Mille” nella vittoriosa impresa che da Marsala al Volturno aveva travolto il regno del Borbone, sconfitto uno dei più forti eserciti dell’Europa dell’epoca; realizzata la congiunzione unitaria tra il nord ed il sud dell’Italia. L’impresa dei Mille partì dallo scoglio genovese di Quarto, ma la scintilla politica e rivoluzionaria dell’impresa scaturì qui in Sicilia ad opera dei patrioti siciliani. Come nacque l’impresa dei Mille Senza la scintilla siciliana non ci sarebbe stata né l’idea, né la realizzazione dei progetto di una spedizione di volontari in Sicilia. L’anno è il 1860. Nel principio dell’anno precedente, con la guerra vittoriosa dei franco- piemontesi sull’Austria, e con i plebisciti in Toscana e in Emilia, il regno di Sardegna era arrivato a Milano, a Bologna e a Firenze. Si era formato una specie di stato del nord senza le Venezie, al centro lo Stato pontificio, al sud, il Regno delle due Sicilie. Tutte …

PRESIDENZA, PARTITI E OPINIONE PUBBLICA. TRATTO DA SANDRO PERTINI: DAL FRONTE POPOLARE ALLA PDR

di Fabio Amiranda (..) Già a partire dagli anni ’80, alcune scuole sociologiche denunciarono la divaricazione tra paese legale e paese reale, con il primo schiacciato in riti autoreferenziali finalizzati alla riproduzione del ceto politico, e il secondo composto da quei segmenti sociali che si abituarono presto a trovare da soli la strada della sopravvivenza. Il consenso pubblico del presidente avrebbe perciò avuto un retroterra sociale: il rancore che si era accumulato tra masse ed élites; la radicalizzazione dei sentimenti popolari contro lo Stato e il ceto politico in generale. Suggestioni antipolitiche, quelle dell’opinione pubblica, che sarebbero esplose poi negli anni ’90. Occorre, su questo terreno scivoloso, evitare ogni fraintendimento, e sottolineare un’ovvietà: Pertini fu uno strenuo difensore della Repubblica, del ruolo dei partiti, della democrazia rappresentativa.(…) L’irritualità dei comportamenti di Pertini deve perciò leggersi, non come delegittimazione della politica ma, al contrario, come persuasione autorevole per una politica più alta, più attenta alla legalità, più consapevole delle istituzioni. Una politica fondata sull’etica della responsabilità, mossa da un fondamento metapolitico: l’ideale, una necessità interiore capace di trasfigurare l’uomo e di rappresentarne eroicamente il dramma (..) Pertini non ha avuto il tempo di assistere allo sfascio del sistema politico, con la liquidazione del pentapartito avvenuta attraverso una rivoluzione mediatico-giudiziaria senza precedenti nella storia dei sistemi politici occidentali. A posteriori, precisando che si tratta di un mero esercizio di fantasia, viene da chiedersi se gli appelli costanti alla moralizzazione della vita pubblica, le denuncie ripetute della corruzione, additata a nemica della democrazia in ogni occasione, non debbano essere reinterpretate alla luce di quello che poi è accaduto come monito responsabile che il presidente avrebbe voluto indirizzare ai partiti per indurli ad operare un ricambio dei quadri dirigenti e risparmiare, forse in questo modo, alla società dei partiti ed alla stessa comunità nazionale, un trapasso così traumatico verso i nuovi equilibri politici segnati dal populismo giustizialista e dalla subordinazione mortificante ai grandi gruppi della finanza e dell’editoria (…) SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ALDA COSTA: LA VITA E L’AZIONE POLITICA

di Gherardo Pagnoni Alda Costa nacque a Ferrara il 26 gennaio 1876 da Vincenzo e Caterina Zaballi. Studiò fino a conseguire il diploma di maestra elementare e iniziò la sua attività lavorativa nel 1895 con supplenze temporanee a Marrara, Boara, Fondo Reno, Quacchio, Spinazzino. Il 20 marzo 1897 partecipò al concorso magistrale consistente in una prova scritta, una lezione e un esperimento di pratica nei lavori femminili di cucito e ottenne l’idoneità. Il 2 giugno 1899 il Consiglio Comunale di Ferrara la nominò insegnante elementare con effetto dal 1° settembre 1899 e con uno stipendio iniziale di 1.000 lire annue. Alda Costa partecipò intensamente e soffrì per la miseria e la generale denutrizione delle sue prime scolaresche percependo con grande chiarezza che tali miserabili condizioni di vita non potevano non influire negativamente sul profitto degli scolari. Da tale lucida analisi la Costa trasse le conseguenze di impartire da parte sua un insegnamento rigoroso ma anche la necessità di un impegno politico e sindacale a favore delle classi sociali più povere. Fu così che Alda arrivò, nel 1907, ad aderire alla Federazione di Ferrara del Partito socialista italiano e ad impegnarsi nella sua componente riformista. L’attività politica di Alda, oltre a quanto sopra ricordato, fu particolarmente intensa tra le donne, tramite la fondazione di circoli femminili socialisti nelle campagne e la continuazione della lotta femminista-classista iniziata a Ferrara per iniziativa della concittadina Rina Melli, che si era avvalsa del periodico Eva. Nel novembre del 1905 i sindacalisti rivoluzionari diventano maggioranza nella Federazione provinciale di Ferrara e i riformisti reagiscono con una scissione (Ahimè una delle tante che tormenteranno la storia del Partito Socialista italiano) cui aderiscono circoli socialisti e la stessa Costa che fino al riassorbimento della scissione (novembre 1906) collaborò al “Pensiero socialista”, organo ufficiale dell’ala riformista. Nel novembre 1913 i riformisti riconquistarono la maggioranza del movimento sindacale e politico del socialismo ferrarese. Da allora la Costa divenne l’animatrice del nuovo organo socialista ferrarese, fondato da lei con l’avvocato Francesco Baraldi, lo studente universitario Fabio Petrucci e un impiegato postale, “Bandiera socialista”. Nel 1914 la direzione politica e sindacale del movimento socialista fu assunta da Gaetano Zirardini, chiamato da Ravenna dai riformisti ferraresi. I comuni ideali furono alla base di una lunga e sincera amicizia tra Alda e Zirardini. Durante la prima guerra mondiale si rifiutò di accompagnare i suoi scolari alle manifestazioni patriottiche, rifiuto spiegato sulle colonne di “Bandiera socialista”  formulato in nome di una scuola umana e universale. Il 26 novembre 1916 il Congresso regionale del partito tenutosi a Bologna la nominò responsabile, per la provincia di Ferrara, della propaganda per la pace e dell’organizzazione femminile del partito. Nel dicembre 1916, al Congresso delle Amministrazioni socialiste, affermò che la scuola rappresenta il mezzo più adatto per formare le coscienze delle classi lavoratrici, pertanto le amministrazioni comunali devono sviluppare congrue condizioni di vita intorno alla scuola per sottrarla all’influenza dei partiti e conservarla al più assoluto indirizzo laico (quanta attualità in questa presa di posizione!). Al Congresso straordinario provinciale socialista del 23 settembre 1917  l’ ordine del giorno finale, contenente un appello contro la guerra e a favore dell’unità proletaria internazionale, fu presentato dalla Costa e da Zirardini. Nel dopoguerra Alda si sforzò, purtroppo con poco successo, di mettere in guardia i militanti dalle facili illusioni rivoluzionarie e dall’esagerato ottimismo dei massimalisti. Attenta lettrice dell’ “Ordine nuovo”, il 31 luglio 1920 osservò sulla “Scintilla” (organo della Federazione di Ferrara) :”L’unico tentativo, quello di Torino, per la costituzione dei Consigli di fabbrica, ha naufragato fra l’indifferenza dei più e lo scetticismo della stessa direzione del partito”. Intanto il fascismo conquistava proseliti, molti dei quali già assertori di un altro tipo di violenza, quella rivoluzionaria. Lo squadrismo fascista non le risparmiò molestie e umiliazioni. Tra l’altro, per umiliare la sua femminilità, le dipinsero di nerofumo la zona pelvica. In vista del XVIII° Congresso nazionale del Partito che si tenne a Milano dal 10 al 15 ottobre del 1921, coerente  con le sue posizioni di sempre, si schierò con la frazione unitaria di C. Alessandri e E. Musatti. Anche dopo la marcia su Roma continuò la sua battaglia contro il fascismo e, dopo la seconda scissione, quella del 1922, lavorò per entrambi i partiti socialisti organizzando riunioni clandestine e cercando di aiutare i detenuti. Purtroppo, delle divisioni dei socialisti approfittarono i fascisti che in soli tre mesi, nel 1921, distrussero le istituzioni democratiche con la violenza e la demagogia. Le persecuzioni nei confronti della maestra ferrarese aumentano. Viene richiamata dai superiori perché si rifiuta di salutare romanamente, ma si difende scrivendo al Sindaco di Ferrara. Accusata di antipatriottismo perché si era rifiutata di condurre i suoi scolari ad assistere all’esaltazione di episodi sanguinosi della guerra 1915/1918,  Alda risponde all’attacco scrivendo una lettera alla Gazzetta Ferrarese che non la pubblica per cui  deve accontentarsi di farla pubblicare su “Bandiera socialista”, accompagnata da una nota di Zirardini. “Ma proprio che non si possa parlare di Patria senza parlare di guerra? Che ai fanciulli non si possa insegnare ad amare la propria terra, ad apprezzarne le bellezze, a volerla civile e stimata, senza far balenare loro davanti agli occhi, immagini di rovina, di ferocia e di morte? L’amor di Patria dunque sta tutto nell’esaltazione della guerra…Questa povera anima di fanciullo è ormai troppo insidiata da immagini di violenza e di sangue…Dall’articolo del giornale al racconto udito dalla viva voce, dai giochi al cinematografo, dalla cartolina illustrata all’incisione della “Domenica del Corriere”, è un’insidia persistente, che turba la coscienza del fanciullo e ne inclina l’animo alla violenza. C’è, nell’atto da me compiuto, la reazione a tutto questo indirizzo educativo e c’è l’affermazione che la scuola deve essere umana e universale, non suscitatrice di odi e di desideri di vendetta…” Certo, il momento non era il più adatto per sperare che i pescicani arricchiti dalla guerra smettessero di seminare a piene mani il seme della violenza. Un periodo felice per il socialismo ferrarese si registrò dopo il primo dopoguerra, quando il Partito conquistò  le amministrazioni comunali …

FERNANDO SANTI: UN UOMO, UN’IDEA

di Roberto Spocci Fernando Santi nasce il 13 novembre 1902 a Golese, muore a Parma il 15 settembre 1969. Inizia a militare nelle file socialiste iscrivendosi alla sezione degli adulti nel 1917, ma dopo qualche mese si fa promotore della costituzione del Circolo giovanile socialista del Cornocchio. Lavora alla Federazione delle cooperative, allora in via Cairoli, occupandosi di un po’ di tutto giacché ‘partito, cooperazione e sindacato erano un pasticcio solo’. Inizia a collaborare al quindicinale di Giovanni Faraboli “Per la vita. L’Idea” (1916-1918); quindicenne, nel 1917, partecipò al congresso dei Cooperatori di Reggio Emilia ove incontrò Camillo Prampolini. Nel 1920 è nominato vice segretario della Camera del lavoro e dirigente della Federazione provinciale giovanile. Nello stesso anno in un comizio a Castellina di Soragna svolge una forte propaganda antimilitarista che gli varrà una condanna a due mesi di detenzione ed a 200 lire di multa.(1) Al congresso della Federazione nazionale giovanile di Firenze, del 1921, Santi cerca, vanamente, di parlare in nome della minoranza, ma dopo aver pagato la quota d’adesione si trova fuori in meno di un paio d’ore. Nello stesso giorno si fa promotore della riunione per la ricostituzione della Federazione giovanile socialista ed è nominato segretario nazionale, in questa veste viene ad interessarsi delle varie sezioni locali uscendo dall’ambito cittadino e ricorderà quest’esperienza in un articolo del 1957: “Giravo l’Italia, tra una battuta e l’altra dei fascisti. Conobbi allora molti compagni, tra i quali Sandro Pertini che curava, benché già adulto, il circolo di Savona“. Nel maggio 1921, allorché furono noti i risultati elettorali, Santi ebbe l’incarico di andare a prendere Guido Picelli, che allora si trovava in carcere, ed accompagnarlo nell’Oltretorrente. Nell’estate del 1922 Santi parteciperà agli Arditi del Popolo, di cui stenderà un resoconto sull’”Avanti!”(2), considerando la resistenza parmense un episodio legalitario. Poco dopo si sarebbe svolto il congresso del Partito socialista da cui, con una nuova scissione, ne sarebbero usciti i riformisti di Matteotti per dar vita al Partito socialista unitario dei lavoratori italiani, ma Santi non potrà parteciparvi perché chiamato a prestare il servizio militare, sospenderà l’attività politica. Rientrato a Parma collaborerà, nel 1924, come cronista di nera al quotidiano di Tullio Masotti, “Il Piccolo di Parma“. Fatto segno di numerosi arresti ed aggressioni, fu ferito due volte,(3) finché il 1° novembre del 1924 cadde in un’imboscata ove fu preso a revolverate e si salvò per miracolo. A seguito di quest’ultimo attentato si trasferisce a Torino ove assumerà per un breve periodo la carica di segretario della Camera del lavoro per passare, nel corso dello stesso anno, a dirigere la sezione milanese del PSU. Quel periodo sarà ricordato da Santi in Primi tempi a Milano. Terminato, forzatamente, l’impegno politico, per mantenersi diventa rappresentante di una ditta di profumi francesi, la Niki Kini, approfittando della nuova veste di viaggiatore di commercio per tessere rapporti clandestini fra i compagni. Sarà lo stesso Santi che troverà lavoro a Guido Picelli come rappresentante della libreria antiquaria di Walter Toscanini, il figlio d’Arturo. Sarà arrestato il 5 aprile 1943, durante un incontro clandestino sulla riorganizzazione delle forze socialiste(4), e immediatamente tradotto nelle carceri di San Vittore. Liberato dopo il 25 luglio, nell’autunno, riparerà in Svizzera ove assumerà l’incarico di segretario del Comitato svizzero di soccorso operaio per i rifugiati.(5) Nell’agosto del 1944 rientra in Italia per assumere l’incarico di commissario politico del battaglione partigiano “Matteotti” in Val d’Ossola; in Val d’Ossola Santi lavorò in stretto contatto con Mario Bonfantini alla riorganizzazione del Partito socialista e del movimento sindacale ossolano favorendo la costituzione delle Commissioni interne nei luoghi di lavoro. Riparato nuovamente in Svizzera per sfuggire al rastrellamento tedesco rientrerà a Milano per ricostruire clandestinamente il Partito socialista e per partecipare all’insurrezione del 25 aprile. All’indomani della liberazione, assieme a Guido Mazzali e Renato Carli Ballola, pubblica il primo numero dell’”Avanti!” Diventa segretario della Camera del lavoro di Milano e nel maggio-giugno 1945 firma, con l’Associazione provinciale degli industriali, un accordo incentrato su due punti fondamentali: la proibizione temporanea dei licenziamenti e l’aumento dei salari ed il loro adeguamento alla variazione del costo della vita. Dopo qualche mese Santi lasciava Milano per Roma assumendo la direzione dei rappresentanti di commercio. Al I congresso nazionale unitario della CGIL (Firenze, 1947) Santi sarà eletto segretario nazionale per la corrente socialista, incarico cui sarà riconfermato nei congressi di Genova (1949) e di Napoli (1952). Riconosciuto è il suo impegno, assieme a Di Vittorio, per mantenere all’interno della CGIL la corrente democratico-cristiana che con Pastore darà luogo alla nascita della CISL. “La scissione sindacale – così si esprimerà Santi nel saggio I Sindacati in Italia – fu il prodotto della divisione del mondo in due blocchi, della guerra fredda, della necessità del Dipartimento di Stato di neutralizzare le forze operaie che potevano opporre valida resistenza al dominio politico ed economico americano del mondo”. Dopo la rottura dell’unità sindacale, già sancita dal Patto di Roma, e le scissioni del 1948 e 1949 Santi inizierà a lavorare senza tregua per ritessere un impegno unitario riconoscendo che le colpe non stavano da una parte sola e che l’unità sindacale non si rimpiange, ma si conquista nella concretezza del lavoro quotidiano e nella coscienza comune dei lavoratori. Nel 1948 è eletto deputato nella circoscrizione di Parma Modena Piacenza e Reggio Emilia. Nello stesso anno, al congresso socialista di Genova assieme ad Alberto Jacometti, Vittorio Foa e Riccardo Lombardi si batte per una linea di stretta collaborazione coi comunisti sul piano sociale e sindacale, di totale indipendenza sul piano politico e d’equidistanza o di non allineamento fra America e Russia. Nel 1952 è delegato al Consiglio economico e sociale dell’ONU a New York e dall’esperienza americana trarrà le corrispondenze per l’”Avanti!”, pubblicate come America 1952, taccuino di un viaggio in USA. Alle elezioni politiche del 1953, 1958 e 1963, è riconfermato deputato nella circoscrizione di Parma Modena Piacenza e Reggio Emilia. L’impegno sindacale lo vedrà protagonista e precursore di molte delle tematiche sindacali degli anni successivi; intervenendo al congresso della CGIL del 1956 Santi rileverà come …

RODOLFO MONDOLFO, IL FILOSOFO DEL SOCIALISMO DI TURATI

di Nicolino Corrado Rodolfo Mondolfo nacque a Senigallia il 20 agosto 1877 da un’agiata famiglia di origine ebraica. Dopo gli studi liceali si trasferì a Firenze dove, dal 1895 al 1899, frequentò la sezione di filosofia e filologia dell’Istituto di studi superiori e pratici. Gli anni fiorentini furono fondamentali nella formazione politica di Mondolfo; tramite il fratello maggiore Ugo Guido entrò nel gruppo di intellettuali socialisti che si riunivano nella casa di Ernesta Bittanti, futura moglie di Cesare Battisti, tra i quali Gaetano Salvemini e lo stesso Battisti. Agli inizi del ‘900, iniziò la collaborazione con Critica sociale di Filippo Turati, la più importante rivista del socialismo italiano, interrotta solo dalla chiusura del periodico da parte del regime fascista, nel 1926, ma ripresa nel secondo dopoguerra; i suoi articoli ebbero per oggetto, perlopiù, i temi politici e quelli dell’educazione e della laicità della scuola. Dopo alcuni anni di insegnamento nei licei, Mondolfo approdò a quello universitario fino ad ottenere,  nel 1914, la cattedra di storia della filosofia a Bologna. Mondolfo divenne un protagonista del dibattito sulla fine del socialismo (Croce, 1911) e sulla messa “in soffitta” del marxismo (Giolitti, 1911), operando una “ricostruzione” del marxismo come “filosofia del socialismo”, resa urgente dalle lotte politiche nel PSI alla vigilia della guerra italo-turca; ricostruzione che lo portò ad affrontare il chiarimento teorico delle posizioni di Ludwig Feuerbach, Karl Marx, Friedrich Engels e Ferdinand Lassalle. La “filosofia del socialismo” Per Mondolfo, nel socialismo si riscontra “l’assenza di un’anima teorica, di una direttiva filosofica”, c’è dunque “bisogno di un orientamento filosofico” (R. Mondolfo, Rovistando in soffitta in Critica sociale, 1911). L’”orientamento filosofico”, secondo il filosofo socialista, è necessario tanto ai riformisti quanto ai rivoluzionari. I primi hanno ritenuto “la teoria superata nella pratica” e quindi hanno rifiutato di rifare i conti con la filosofia, mentre i secondi non hanno mai davvero riflettuto su quella “filosofia volontaristica” alla quale pure dicevano d’ispirarsi. Infatti, “nessuna tendenza, vecchia o nuova, che sorga nel partito socialista, potrà mai prescindere da quella necessità preliminare che Marx ed Engels per i primi sentirono: la necessità di fare i conti con la filosofia”, senza la quale non si danno né “chiara consapevolezza delle premesse”, né “netta visione del fine, [che] sono le due condizioni della coerenza nel pensiero e della sicurezza nell’azione” (Socialismo e filosofia, in L’Unità, 1913). Il “peccato di origine” del socialismo in tutte le sue versioni, per Mondolfo, è stato d’affidarsi al cosiddetto “socialismo scientifico“, responsabile di aver separato “la celebre frase di Marx, che non la coscienza determini l’essere dell’uomo, ma il suo essere sociale determini la sua coscienza […] da quella filosofia della prassi che le conferiva il giusto valore”. Questa scissione è all’origine del determinismo, dell’economicismo e del materialismo meccanicistico che annullano l’ispirazione volontaristica e umanistica nell’insegnamento di Marx: “se esaminiamo senza prevenzioni il materialismo storico, quale ci risulta dai testi di Marx ed Engels, dobbiamo riconoscere che non si tratta di un materialismo ma di un vero umanismo, che al centro di ogni considerazione e discussione pone il concetto dell’uomo.” (La concezione dell’uomo in Marx, 1962,  in Umanismo di Marx). Mondolfo arriva a queste conclusioni dopo aver approfondito, negli anni precedenti, il pensiero politico dell’età moderna, una ricerca analoga a quella del leader del socialismo francese Jean Jaurès, che cercava di rendere compatibili con il materialismo storico il giusnaturalismo e la dottrina dei diritti dell’uomo. Per Mondolfo, la libertà dell’agire degli uomini è il motore della storia, ma non si tratta di una libertà assoluta, poiché l’uomo trasforma con la sua azione la natura e la storia sempre a partire da condizioni date, e l’ambiente da lui trasformato reagisce, a sua volta, sull’uomo: è il concetto di “rovesciamento della prassi”. In Marx ogni momento della storia è legato alle condizioni reali esistenti. Cosicché il passato condiziona il presente e questo l’avvenire; ma al tempo stesso è anche stimolo e impulso all’azione ulteriore modificatrice, sicché lo sviluppo storico risulta dalla confluenza e dal contrasto insieme di due elementi: le condizioni reali e la volontà umana (Feuerbach e Marx, 1909, in Umanismo di Marx). Pertanto, come ribadirà successivamente, “non possono darsi leggi ineluttabili che s’impongano all’uomo; non può esserci una fatalità nella storia, come quella che attribuivano a Marx ed Engels i loro avversari ed attribuiscono loro anche ora molti che parlano del marxismo come di una teoria che crede nei processi automatici della concentrazione delle ricchezze, della formazione del proletariato sempre più esteso, della miseria crescente, della legge di bronzo dei salari – tutti processi contro i quali l’uomo non potrebbe lottare, tutte leggi fatali, ineluttabili. Per Marx ed Engels, invece, sono unicamente leggi di tendenza; vale a dire: le cose avrebbero ognuna in sé la tendenza a svilupparsi in una certa forma determinata; ma questa stessa tendenza produce la reazione dell’uomo; e la reazione umana può giungere a deviar la tendenza, ad annullarla o a modificarla in qualsiasi senso.” (La concezione dell’uomo in Marx, 1962, in Umanismo di Marx). Filippo Turati e il socialismo italiano Mondolfo vede le sue concezioni tradotte nella storia attraverso l’azione politica di Filippo Turati e dell’ala riformista del PSI. Con il congresso di Roma (1900), il partito, sotto la spinta di Turati, aggiorna il “programma minimo”, elaborato dal Consiglio nazionale nel 1895 e indicativo di obiettivi concreti perseguibili nell’immediato. Per Turati, il “programma massimo”, ovvero la socializzazione dei mezzi di produzione, stabilito dal congresso di fondazione a Genova (1892) è “una previsione e una bussola di orientamento; il portato delle cose, lo sbocco dell’evoluzione. La vita effettiva del partito è nel movimento volontario, nel cosciente assiduo divenire. E il programma [minimo] non ne è che la rapida e mutevole espressione o formulazione teorica. Inoltre, “ognuna delle riforme indicate, presa per sé, può non essere peculiarmente socialista; generalmente anzi, esse non lo sono. Ma lo spirito socialista, il valore socialista di ciascuna è nella connessione con le altre, è nella connessione di tutte con lo scopo generale comune; è nel carattere di materialismo economico che generalmente le informa; è nel metodo sopratutto …

LA LETTERA NUMERO 12 DAL “CARCERE DEL POPOLO”

Caro Craxi, poiché ho colto, pur tra le notizie frammentarie che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo Partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare ed anzi accentuare la tua importante iniziativa. E’ da mettere in chiaro che non si tratta di inviti rivolti agli altri a compiere atti di umanità, inviti del tutto inutili, ma di dar luogo con la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di prigionieri politici. Ho l’impressione che questo o non si sia capito o si abbia l’aria di non capirlo. La realtà è però questa, urgente, con un respiro minimo. Ogni ora che passa potrebbe renderla vana ed allora io ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile sull’unica direzione giusta che non è quella della declamazione. Anche la D.C. sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi anche tu con l’urgenza che si richiede. Credi, non c’è un minuto da perdere. E io spero che o al San Rafael o al Partito questo mio scritto ti trovi. Mi pare tutto un po’ assurdo, ma quello che conta non è spiegare, ma, se si può fare qualcosa, di farlo. Grazie infinite ed affettuosi saluti Aldo Moro SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

AUTONOMIA E LIBERTA’ NEL MOVIMENTO FEMMINILE SOCIALISTA DEL ’900

di Fiorenza Taricone* Una sfida impegnativa Parlare di autonomia e libertà per le donne nel movimento femminile socialista delle origini implica di per sé presupporre in loro una concezione mentale basata sul progressismo, una disponibilità all’eresia, l’accettazione della riprovazione sociale. La condizione femminile, infatti, tratteggiata nel Codice Civile Italiano del 1865, antecedente all’Unità definitiva dopo la presa di Porta Pia del 1870, è quella di una paria e di una minus habens. Sottoposta all’autorità del capo famiglia, anche all’esterno, poiché per ogni atto pubblico aveva bisogno dell’autorizzazione maritale, testimone nei tribunali solo a partire dal 1877, impedita a svolgere le professioni liberali, anche se dal 1874 poteva accedere a qualunque laurea, condannata a non rivedere i figli se si separava anche con giusta causa, priva di una autonomia economica perché non poteva in prima persona affittare un immobile, contrarre mutui, avere un deposito postale, e infine priva del diritto di voto anche se tale limitazione non era espressamente citata nel Codice Civile, parlare di cittadinanza femminile era veramente un eufemismo. Anna Kuliscioff giocò un ruolo fondamentale nell’evoluzione della condizione femminile per il suo “venire da lontano”, e proporsi come modello, sprovincializzando la cultura politica e sociale italiana, per l’essere dentro e fuori la mentalità arcaica che regnava nei rapporti fra i sessi e per il suo rappresentare anche personalmente un modello di vita anticonformista1. Il Programma della Lega socialista milanese, in cui la Kuliscioff figura fra i fondatori,  con  Turati  e  Anna  Maria   Mozzoni,   poi   distaccatasi dal, socialismo, apparso nel 1891 su «Critica Sociale», la vecchia «Cuore e Critica» di Arcangelo Ghisleri, rilevata da Turati e Kuliscioff, si pone come un obiettivo avanzato per i due sessi. Il Socialismo- si legge agli inizi del programma- considera la convivenza civile come una serie di rapporti per i quali il godimento delle ricchezze, la cultura, la giustizia e la libertà, elementi costitutivi del sociale benessere siano assicurati a tutti gli esseri umani. Si propone di combattere e demolire i privilegi della civiltà capitalista risolvendo cosi la questione sociale (…). L’ideale politico del Socialismo, antipatriottico e antiautoritario, era per la fusione delle razze, nell’attenuarsi degli odi religiosi, nella libertà degli scambi, nell’autonomia delle popolazioni, nella tendenza al decentramento, all’autogoverno, al suffragio universale, all’abolizione degli eserciti. Le forme politiche non erano che un corollario dei rapporti economici. Era quindi necessario combattere il principio di autorità in tutte le sue forme (…) il sistema familiare con l’assoluta indissolubilità delle nozze, con i privilegi autocratici del padre di famiglia [che] garantisce in realtà solo il principio individuale della proprietà e non garantisce alla prole i diritti elementari di un’educazione civile. “Il matrimonio diventa una combinazione d’interessi più che una combinazione d’affetti e quindi una forma consacrata di prostituzione (…) con manifesto detrimento del carattere in un sesso e nell’altro, condannando all’onta e al disonore l’amore non legalizzato o la maternità non approvata dalla legge”. Il Socialismo proponeva quindi di sostituire a questo tipo di famiglia l’unione libera fra i due sessi, in piena uguaglianza di diritti e poteri, elettiva, dove tutti conservavano la libera disposizione di sé e dei propri affetti nell’interesse della felicità individuale, dell’armonia sociale e del progressivo perfezionamento della specie”2. Il socialismo proclamava dunque l’autonomia e l’uguaglianza in diritto dei due sessi, tanto sul terreno economico, (a lavoro uguale, uguale mercede), quanto sul terreno dei diritti civili e politici (ammissione illimitata della donna all’amministrazione dei propri beni, al voto, alle funzioni professionali e politiche). Riguardo all’istruzione e all’educazione, esse dovevano essere integrali per tutti, ispirate unicamente alla scienza, con il generalizzarsi di un’educazione civile: istruzione obbligatoria, laica e razionale, il miglioramento dell’educazione e l’autonomia dei maestri, la cura delle scuole d’arti e mestieri e professionali operaie. Donne al lavoro nello stabilimento ceramico Saime negli anni venti. Fotomuseo Giuseppe Panini, Modena “Le religioni erano, invece, detronizzate dalla scienza positiva. Il socialismo vuole abolire le religioni; alla morale religiosa della rassegnazione, a quella metafisica del libero arbitrio, contrappone la morale utilitaristica e sociale basata sull’utilità di tutti gli uomini. Infine, il socialismo scientifico non crede a un rinnovamento miracoloso dell’organismo sociale per effetto di decreti dall’alto o sommosse dal basso. Lascia impregiudicata la questione se il conseguimento dei grandi fini renderà necessario il ‘cozzo violento e sanguinoso’. Perciò l’azione dei socialisti pur avendo come scopo principale l’organizzazione del proletariato nelle sue rivendicazioni economiche, non deve trascurare dal mescolarsi a tutte le manifestazioni della vita pubblica, non escluse le agitazioni elettorali e l’accesso alle pubbliche funzioni, cercando di attuare anche nella vita privata i principi della coerenza3”. Il movimento e l’associazionismo femminile socialista, sia quello più direttamente legato al partito, sia quello di area, furono interpreti più o meno tenaci e fedeli del Programma, fino alla scissione del ‘21, quando molte donne divennero, come dissero di se stesse allora, ‘comuniste secessioniste’. “Siamo comuniste secessioniste- affermano nel ‘21- non per asservimento al verbo di Lenin, ma perché riteniamo che i 21 punti di Mosca non solo siano applicabili al movimento socialista italiano ma anche perché rappresentano l’unico mezzo per togliere il nostro partito dal caos in cui si è dibattuto da qualche anno”4. Come è noto, dal Programma della Lega Socialista Milanese alla costituzione del partito il passo fu breve. Il Congresso di Genova si aprì il 14 agosto 1892 alla Sala Sivori, con circa duecento delegati, di cui una decina di donne, fra cui la stessa Mozzoni, in rappresentanza di 324 associazioni: organizzazioni economiche, come società di mutuo soccorso, società e leghe di resistenza bracciantili e contadine, cooperative; organizzazioni politiche come circoli, comitati elettorali, unioni democratico- sociali, leghe socialiste5. Le vicende sono risapute: in seguito a dissensi con gli operaisti e gli anarchici, Turati, Kuliscioff, Prampolini e altri delegati della maggioranza decisero di invitare i delegati che li condividevano a proseguire il congresso nella Sala dei carabinieri genovesi, una società democratica che ricordava nel nome il famoso reparto dei Mille. Alla Sala Sivori rimasero i delegati di 97 società. I delegati riuniti con Turati procedevano all’approvazione del programma e dello Statuto che sanciva la nascita …