INTERVISTA A MICHELE DONNO. “STORIA DEI SOCIALISTI DEMOCRATICI ITALIANI. DALLA SCISSIONE DI PALAZZO BARBERINI ALLA RIUNIFICAZIONE CON IL PSI. 1945-1968”

Professor Donno, Lei è autore del libro Storia dei socialisti democratici italiani. Dalla scissione di Palazzo Barberini alla riunificazione con il PSI. 1945-1968 edito da Rubbettino. «La storia ha dato loro ragione» verrebbe da affermare leggendo il Suo libro. Storia dei socialisti democratici italiani, in realtà, è un cofanetto che racchiude due mei libri (per un totale di quasi 800 pagine) e che ripercorre, con riferimento al primo ventennio di storia repubblicana, le vicende politiche di Giuseppe Saragat e di quei socialisti riformisti i quali, nel 1947, agli albori della guerra fredda, aderirono alla scissione socialista di palazzo Barberini scegliendo il sistema di governo occidentale, accettando gli aiuti americani del piano Marshall, condividendo le posizioni democratiche ed europeiste dei socialisti francesi, dei socialdemocratici tedeschi e dei laburisti inglesi. I socialisti democratici italiani criticavano fortemente l’URSS e i neo-nati regimi comunisti dell’Europa orientale, destinati inevitabilmente – come costantemente denunciato da Saragat e compagni in approfondite analisi sul loro quotidiano ufficiale “L’Umanità” (uscito dal 1947 al 1949) – a degenerare nelle peggiori forme di oppressione e violenza totalitaria. La vera anomalia, quindi, fra i socialisti italiani eletti nel primo Parlamento repubblicano del 1948, non fu rappresentata – come vasta parte della storiografia italiana per decenni ha sostenuto – dagli scissionisti di Saragat, che avevano peraltro il sostegno dei principali partiti socialisti europei, ma da quei socialisti guidati da Pietro Nenni che scelsero il Fronte popolare, la stretta alleanza con i comunisti, la subordinazione al totalitarismo staliniano. Possiamo, quindi, certamente affermare, parlando di Saragat e dei socialisti democratici italiani, che «la storia ha dato loro ragione». E con questa affermazione il mio editore, Florindo Rubbettino, ha voluto aprire la breve presentazione di questo cofanetto, pubblicata sulla quarta di copertina e che ho piacere nel riproporre ai vostri lettori: «La storia ha dato loro ragione», si potrebbe affermare, leggendo i due volumi di Michele Donno, dedicati alla vicenda politica dei Socialisti democratici italiani nel primo ventennio di costruzione della Repubblica, “Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1952)” e “I socialisti democratici italiani e il centro-sinistra. Dall’incontro di Pralognan alla riunificazione con il PSI (1956-1968)”, pubblicati rispettivamente nel 2009 e nel 2014 ed ora riuniti in questo cofanetto. Ed infatti, i motivi allora al centro della visione di Giuseppe Saragat e dei socialisti democratici (europeismo e atlantismo, riformismo socialista e alleanza con i cattolici, americanismo e anticomunismo, economia sociale di mercato per la tutela delle fasce meno abbienti, sostegno ai ceti medi, unità e autonomia dei socialisti), a lungo negletti e criticati dalle maggiori forze politiche, soprattutto di sinistra, hanno mostrato nel tempo validità e fondatezza, a tal punto che oggi si possono riproporre come tematiche centrali nella discussione politica in Italia e per un rinnovamento radicale della visione culturale della sinistra, in crisi di identità e alla ricerca di radici. Come ho detto, la vicenda dei Socialisti democratici italiani, sin dalla costituzione in partito nel gennaio 1947, è stata a lungo trascurata da una storiografia peraltro assai fluente nell’analisi del sistema dei partiti politici italiani nel dopoguerra. Su questa damnatio memoriae ha pesato un insieme di pregiudizi ideologici, luoghi comuni storiografici, strumentale propaganda politica, accomunati in un giudizio liquidatorio, che attribuiva al partito di Saragat la responsabilità di aver favorito la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni dell’aprile 1948 e, da qui, la pluridecennale egemonia democristiana e conservatrice. Secondo questa vulgata, il PSLI (poi PSDI), sostenendo la “scelta di campo occidentale” dell’Italia e collaborando al governo con De Gasperi, avrebbe operato un vero e proprio “tradimento” delle istanze dei ceti operai e popolari, con un asservimento alle politiche democristiane e, sul piano internazionale, statunitensi. Analoga valutazione superficiale e censoria ha riguardato le vicende del PSDI negli anni Cinquanta e Sessanta, dall’incontro di Pralognan tra Saragat e Nenni sino alla partecipazione ai governi di centro-sinistra guidati da Aldo Moro. Nella mia Storia dei socialisti democratici italiani, quindi, viene approfondito l’esame sulle origini del centro-sinistra italiano, in una vicenda politica che cominciò a delinearsi dalla seconda metà degli anni Cinquanta, avendo le sue premesse appunto nella scissione socialista democratica del 1947. Le figure e l’azione politica di Saragat, Roberto Tremelloni e anche di Luigi Preti – gli esponenti più attivi e maggiormente impegnati nell’azione governativa del PSDI, promotori, nel 1962, con l’ingresso del PSI nella maggioranza di governo, di una seconda e decisiva svolta nella politica italiana, dopo quella di palazzo Barberini – vengono riproposte in una più equilibrata attenzione. L’impegno di Saragat, Tremelloni e dei loro colleghi di partito fu volto alla riunificazione del socialismo italiano, con la costruzione di una grande forza socialista democratica, sul modello delle socialdemocrazie europee, che enucleasse il PSI di Nenni dall’inconcludente frontismo con il PCI, facendolo approdare alle rive della cultura occidentale e socialista-liberale, con l’assunzione di responsabilità di governo assieme alla DC. Un impegno di lungo periodo, durato un quindicennio, con l’obiettivo – avviata la Ricostruzione e superata la fase del “centrismo degasperiano” – di condurre il sistema politico italiano verso una nuova e duratura configurazione, con la partecipazione alla gestione della cosa pubblica di quelle forze riformiste, come il PSI, espressione più diretta delle classi lavoratrici messe a dura prova dagli scompensi sociali generati dal “boom economico” e dalla crisi finanziaria internazionale. È la storia, quindi, del successivo formarsi, agli inizi degli anni Sessanta, dell’esperienza politica che portò con Amintore Fanfani e Moro ai primi governi di centro-sinistra “organico”, seguiti dall’elezione di Saragat a Presidente della Repubblica (1964) e dalla riunificazione socialista del 1966. Così, nel biennio 1962-’63, come in quello 1947-‘48, il sistema politico italiano segnò una svolta positiva – verso il consolidamento di libere istituzioni democratiche e di un’economia di mercato, in direzione europeista e atlantista – nella quale i socialisti democratici furono decisivi protagonisti; l’“autonomismo” socialista, affermato infine da Nenni – con il sostegno alla formula del centro-sinistra e alla riunificazione dei socialisti italiani –, era nato e cresciuto da due lustri in casa socialista democratica e il PSI finalmente lo faceva proprio, rompendo il legame di ferro con i comunisti e …

ALMA, IL SOCIALISMO E LE UNIONI CIVILI

di Marco Foroni Era il lontano 1988. E in quell’anno fu presentata per la prima volta una proposta di legge per regolamentare le “Famiglie di fatto”. Sono passati quasi trenta anni da quella preziosa iniziativa di un deputato, e la ricordo ancora bene. E quel deputato era una donna, una socialista, una compagna straordinaria e il suo nome era Agata Alma Cappiello. Dopo un approfondito dibattito con varie associazioni e l’Arcigay, Alma presentò la  Proposita di legge (PdL N. 2340, Disciplina della famiglia di fatto, 12 febbraio 1988) per il riconoscimento delle convivenze tra “persone“. La Proposta di Legge non venne mai calendarizzati tra i lavori del Parlamento. La  proposta di Alma, che ebbe ampia risonanza sulla stampa (che con una semplificazione giornalistica parlò di “matrimonio di serie b”), mirava a riconoscere i diritti della famiglia di fatto anche alle coppie omosessuali. Una Proposta di Legge che nei contenuti anticipava le sentenze della Corte Costituzionale  (Sentenza 138/2010)  e della Corte di Cassazione (Sentenza n. 4184/2012, depositata il 15 marzo 2012) nel  riconoscere “ per formazione sociale (art. 2 Costituzione) ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri“. Brillante avvocato milanese, ma di origini napoletane, Alma non  dimenticò mai  la vera essenza del socialismo, quella fatta dai diritti civili, in particolare per le donne e per le minoranze, come la comunità lgbt. Alma non c’è più ormai da più di dieci anni, ci ha lasciato troppo presto ancora giovane a soli cinquantotto anni, dopo essere transitata nel centrosinistra, dove sperava di poter condurre ancora le sue battaglie per i diritti civili. Nel 1988, quasi trenta anni fa,  c’era una donna nella politica capace di pensare a due uomini che convivono come una “famiglia di fatto“. Una donna di una bellezza stordente, di una bravura e con una passione politica unica, che ho conosciuto e che ricordo con affetto e ammirazione. Agata Alma Cappiello,  pasionaria socialista. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GIUSEPPE FARAVELLI

Giuseppe Faravelli (a sinistra) insieme a Claudio Treves, Giuseppe Modigliani e altri compagni a Parigi Giuseppe Faravelli nasce a Broni, in provincia di Pavia, il 29 maggio 1896. Ancora universitario a Pavia, dove si laurea in Legge, Faravelli si impegna, assieme a Lelio Basso ed altri nei “Gruppi studenti socialisti”. Negli anni successivi diventa segretario della Camera del Lavoro di Pavia e poi della Federazione provinciale del Partito socialista italiano, oltre che direttore del giornale socialista La Plebe. Nel 1922 aderisce al PSU, lo spezzone riformista del partito socialista che si allontana dal PSI dopo la scissione comunista del 1921. In quegli anni, impiegato al Comune di Milano, Faravelli è attivo nel Consiglio delle leghe della Camera del Lavoro di Milano e collabora a La Giustizia di Zibordi. Spirito autonomo e libertario, Faravelli approfitta delle opportunità offerte dal suo impiego in Comune per fornire in più occasioni documenti falsi ad antifascisti, costretti a vivere clandestinamente per sfuggire alla polizia del regime, ma soprattutto si impegna molto per favorire un’intesa tra il Partito socialista italiano e il movimento di “Giustizia e Libertà” in funzione di una più efficace lotta al regime fascista. Per questo, nel 1931, Faravelli si porta da Lugano a Parigi e il 31 luglio di quell’anno raggiunge il suo obiettivo: PSI e GL firmano l’accordo interpartitico. Nel 1933 Faravelli si stabilisce a Lugano e di qui mantiene i collegamenti con le due organizzazioni antifasciste e si adopera per dar vita in Italia ad un centro interno del PSI. Durante un viaggio in Francia, ormai invasa dai tedeschi, nel giugno del 1942 Faravelli è arrestato dalla polizia del governo collaborazionista di Vichy. Consegnato alla polizia italiana, viene deferito al Tribunale Speciale, che per ben quattro volte aveva dovuto rinunciare a processarlo perché latitante. I giudici fascisti pareggiano subito il conto: trent’anni di carcere. Alla caduta del fascismo Faravelli è ancora in una cella del reclusorio di Castelfranco Emilia, ma un provvidenziale bombardamento aereo consente a Faravelli di evadere e di riparare in Svizzera. Dopo la Liberazione è membro della Direzione del PSIUP ed estensore di un Progetto di statuto del Partito che si prefigge di rinnovare la tradizione riformista  e democratica del vecchio PSU. Faravelli è inoltre tra i fautori della scissione del PSLI (poi PSDI) di cui viene nominato, seppur per breve tempo, segretario. Direttore de L’Umanità e condirettore di Critica sociale, nel 1959, col Movimento unitario di iniziativa socialista rientra nel PSI e vi resta fino alla morte avvenuta nel 1974. Fonte: Fondazione Anna Kuliscioff SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

FERDINANDO BOSSO

Ferdinando Bosso, figlio di Salvatore Ferdinando Geltrude Bosso e di Rosa Faraone proviene da una famiglia romana emigrata a Napoli, poi trasferitasi a Sanremo. Già all’età di 12 anni prende in fitto dei locali Sanremo per discutere di politica con amici; quando aveva 13 anni, era alle prese a tenere discorsi politici per le strade e nelle campagne. Diventa giornalista politico e scrive articoli su diversi quotidiani regionali tra cui La Parola socialista e anche corrispondente per il Lavoro di Genova e l’Avanti! Definendosi come un rivoluzionario ispirato al mazzinismo, al garibaldismo, milita nel Partito socialista italiano. Incontra in questo periodo Filippo Turati. All’inizio del 1900 entrò nell’amministrazione guidata da Augusto Mombello e divenne consigliere comunale e vice sindaco di Sanremo. Nel 1905, con l’amministrazione di Mombello, lavorò alla costruzione dell’acquedotto, del Casinò di Sanremo e del Corso Imperatrice. Nel 1906 fece una campagna a sostegno dell’avvocato socialista Orazio Raimondo e il partito vinse le elezioni. Rimane nel municipio fino al 1908, quando il partito perde le elezioni. Nel 1910 Ferdinando Bosso sposa a Sanremo Teresa Manassero, che dopo avergli dato un figlio Salvatore detto Tourillo muore nel 1917 di influenza spagnola. Allo scoppio della prima guerra mondiale Ferdinando Bosso condusse un’intensa campagna sul quotidiano La Parola per l’ingresso in guerra dell’Italia a fianco degli alleati. Nel 1916, nonostante la sua età (38 anni), si unì come volontario e fu incorporato nel 69 ° Reggimento di artiglieria. Suo fratello Federico muore al fronte. Di ritorno dalla guerra, il Partito socialista italiano in crisi sulla questione della scissione comunista marxista-leninista, e gli iscritti al Partito socialista italiano sono rapidamente soggetti alla repressione fascista da parte delle Camicie Nere. Tra i primi a farne le spese furono i suoi amici Modigliani, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Filippo Turati e Sandro Pertini. Nel 1919 in un contesto sempre più violento, fu costretto all’esilio e si trasferisce in Francia a vivere con il fratello Alberto e suo padre Salvatore residente dal 1913 a Parigi. Al suo arrivo, nel 1920, creò con i suoi fratelli Alberto, Ernesto e Giovanni una società commerciale denominata “Bosso Brothers” azienda di famiglia che vende piastrelle Halles de Paris. Nel 1921 torna a Sanremo come organizzatore della campagna elettorale a sostegno di Riccardo Raimondo per finanziare l’antifascismo. Nel 1922 con alcuni massoni, fu protagonista di una campagna contro l’ascesa del fascismo in Europa, partecipò con la comunità italiana di Parigi ad organizzare incontri clandestini con i partigiani italiani che entravano in Francia. Con Luigi Campolonghi, la moglie, il primo presidente femminista Ernesta Cassola Mazzini, Aurelio Natoli, Alberto Meschi, Francesco Ciccotti Scozzese, Alceste De Ambris, costituiscono la Lega Italiana per i Diritti Umani. Ne diventa presidente dopo Luigi Campolonghi, e in quella organizzazioni Ferdinando Bosso sarà molto attivo. Nel 1924 dichiara: “Il mio ritorno in Italia sarà quando gli assassini dell’imperatore, Mussolini è morto nel fango e nel sangue. ” Questa dichiarazione causerà sospetti su un suo eventuale coinvolgimento nell’attentato sventato a Mussolini ad opera di Tito Zaniboni nel 1925. L’8 settembre del 1924 muore a Parigi suo padre Salvatore. Ormai segnalato dalle autorità fasciste, viene a conoscenza che lui non può tornare in Italia. Mesi prima c’era stato l’assassinio a Roma da parte degli squadristi fascisti del deputato socialista Giacomo Matteotti, appunto avvenuto il 10 Giugno 1924, dopo aver denunciato i brogli e le violenze avvenute durante le elezioni di aprile dello stesso anno. In seguito vengono introdotte da Mussolini le leggi fasciste per annientare tutte le opposizioni e installare la dittatura. Nel mese di dicembre 1925, Piero Gobetti giovane pensatore italiano fu oggetto di violenze da parte di squadre fasciste inviate personalmente da Mussolini. Gobetti si trasferisce a Parigi, dove è accolto da Francesco Nitti e Aurelio Orioli, in seguito avrà colloqui con LIDU (Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo)  per organizzare un piano di azione per una rivoluzione liberale, ma soffrendo molto per le conseguenze subite durante l’aggressione, si ammalò gravemente e morì il 15 febbraio 1926 in una clinica dove fu trasportato con urgenza. È sepolto a Père-Lachaise, vicino al muro dei Federati. Questo evento segnerà profondamente gli antifascisti italiani in esilio tra cui Aurelio Orioli e Ferdinando Bosso. Nel 1926 è redattore del quotidiano “France” a Nizza e risiede a Juan-les-pins, frequenta l’architetto Armando Buzzi il quale lo aiuta per raggiungere l’Italia. In Italia Mussolini il 5 novembre 1926 scioglie il Partito socialista italiano con un decreto. A seguito di questi eventi, organizza una serie di incontri che nel marzo del 1927 della Concentrazione antifascista (IAC), composto dagli oppositori al fascismo trai quali Luigi Campolonghi, Claudio Treves, Filippo Turati, Cipriano Facchinetti, Francesco Saverio Nitti, Alberto Cianca, Bruno Buozzi. Questa organizzazione mira a raccogliere e coordinare i vari movimenti antifascisti attraverso anche un organo di stampa La Libertà. Nel mese di ottobre 1929, all’assemblea generale della Lega francese dei diritti dell’uomo intervengono Turati, De Ambris di Lussu a Campolonghi, e Victor Basch conclude “L’amicizia franco-italiano è possibile solo con un’Italia libera, non con quella di Mussolini.” Nel 1933 la Lega francese e quella Italiana per i diritti umani organizzano congiuntamente una manifestazione, tra gli oratori sono presenti Ferdinando Bosso, Carlo Rosselli e Mario Pistocchi. Ferdinando Bosso fu arrestato a Parigi e espulso manu-militari in Belgio il 16 marzo 1934, ma fu immediatamente riportato in Francia dal deputato di Dordogne Yvon Delbos. Nel 1936, si unì alle Brigate internazionali e lavorò per l’Agence Spain di Parigi, ne fu parte attiva circa lo spiegamento delle informazioni della resistenza durante la guerra civile spagnola contro Franco con il uno dei suoi figli. Nel 1939, allo scoppiò della seconda guerra mondiale, partecipa alla costituzione di un Comitato nazionale italiano che mira a riunire una lega di combattenti antifascisti, un’iniziativa che venne ritenuta sospetta dalle autorità francesi. Nel 1944 partecipò alla Liberazione di Parigi e tornò a Sanremo. Per l’essersi distinto nelle sue azioni, il 25 gennaio 1956 con un decreto del Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi gli verrà conferita l’onorificenza di Comandante dell’Ordine della Stella d’Italia. Tornò a trascorrere i …

LE “TRE FRECCE”

Le “Tre Frecce” (“Drei Pfeile” in tedesco, “Trois flèches” in francese), sono un simbolo utilizzato, a partire dal 16 dicembre 1931, dallo “Eiserne Front” (“Fronte di Ferro”), costituito dalla SPD (la socialdemocrazia tedesca), dal “Reichsbanner Schwarz-Rot-Gold” (“Stendardo dello Stato nero-rosso-oro“, ispirato alla bandiera della rivoluzione democratica prussiana del 1848 e contrapposto ai colori della reazione, nero-bianco-rosso, adottati dai nazionalisti), organizzazione paramilitare di reduci della Prima Guerra Mondiale legata alla SPD, con due milioni di iscritti, la Federazione Sportiva dei Lavoratori, i sindacati ADGB (operai) e AFA-Bund (impiegati). Lo “Eiserne Front” aveva lo scopo di combattere i nazisti sul piano in cui avevano dimostrato maggiore efficacia: quello propagandistico. Era necessaria una organizzazione spontanea e di massa, come il Fronte, per rivitalizzare e mobilitare la base socialista. Il logo delle tre frecce fu creato, su richiesta di Karl Höltermann, presidente del “Reichsbanner”, che voleva accentuare il carattere militare di quest’ultimo vista la rapida ascesa dei nazisti, da Carlo Mierendorff, intellettuale e deputato della SPD, e da Sergei Chakhotin (già assistente del fisiologo russo Ivan Pavlov) dopo un suo approfondito studio su base scientifica, storica, psicologica e sociologica (alcuni anni dopo riassunto nel libro “Lo stupro delle masse. La psicologia della propaganda politica totalitaria”, pubblicato in Francia nel 1939 e quasi subito censurato dal governo francese). Chakhotin era stato un militante del partito socialdemocratico (menscevico) russo, ed era fuggito in Germania dopo l’avvento del regime comunista. L’idea delle “Tre frecce” gli venne mentre passeggiava per le strade di Heidelberg; notò su di un muro una svastica nazista sbarrata da una riga di gesso: da qui l’immagine del “cerchio antifascista”, un simbolo composto da una circonferenza che racchiude tre frecce parallele stilizzate, inclinate di 45 gradi e con la punta orientata verso il basso, da destra verso sinistra. Secondo Chakhotin, le tre frecce mostravano la volontà di schiacciare le forze che minacciavano la Repubblica di Weimar, sopratutto il nazismo. Inoltre, il nuovo simbolo era facilmente riproducibile sui muri ed aveva “il vantaggio di non poter essere distrutto: i nostri avversari non possono sovrapporre il loro simbolo al nostro, come invece possiamo fare noi, perché, anche se lo facessero, in questo caso la svastica sembrerebbe ancora cancellata dalle tre frecce”. Sono diverse le interpretazioni del significato delle tre frecce. Una delle ipotesi è che lo “Eiserne Front” avesse voluto rappresentare i tre nemici della democrazia: il comunismo, il nazismo e la reazione monarchica. Altri invece hanno ipotizzato che ogni freccia rappresenti una delle colonne portanti del movimento operaio tedesco: il partito, il sindacato e il “Reichsbanner”, che esprimevano rispettivamente la forza politica, la forza economica e la forza militare dello “Eiserne Front”. Le “Tre Frecce” furono utilizzate negli anni ’30 anche dal Partito Socialdemocratico Austriaco, dalla Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (SFIO), dai socialisti belgi e dai reparti della milizia repubblicana nella guerra civile di Spagna. In Italia furono presenti per qualche anno, assieme alla falce ed al martello, nel simbolo del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, nato dalla scissione di palazzo Barberini (1947). Oggi questo simbolo si è diffuso, in un’accezione differente rispetto all’originale socialdemocratico, in gruppi anticapitalisti, ispirati ad ideologie socialiste rivoluzionarie, comuniste ed anarchiche, portatori di un antagonismo anti-istituzionale dall’origine, mentre il “Fronte di Ferro” era una risposta ad un movimento totalitario emergente, il nazismo, che realizzò esso il rovesciamento delle istituzionali. Lo stesso Chakhotin considerava l’anarchismo tra le eccentricità politiche, ritenendolo un fenomeno estraneo alla normalità sociale e politica delle collettività in tempi di pace. Lo scrittore Fred Uhlman (negli anni ’30 dirigente della SPD) ricordava: “La resistenza dei socialdemocratici contro il nazismo fu tanto più difficile perché dovevamo lottare su due fronti. I comunisti, ciechi e stupidi come in tante altre occasioni, e probabilmente in ossequio a una qualche direttiva proveniente da Mosca, avevano deciso che il principale nemico non erano i nazisti ma i “Sozialfaschisten” [i “socialfascisti”, cioè i socialdemocratici]. Mentre le loro truppe d’assalto paramilitari aggredivano il nostro ‘Reichsbanner’, essi cercavano di impadronirsi non soltanto dei sindacati ma perfino delle associazioni musicali, dei club sportivi, ecc … , usando tutti i trucchi, anche i più sleali”. da una ricerca di Nicolino Corrado   — “Contro Papen [leader dei monarchici], Hitler, Thalmann [leader dei comunisti]: lista 2 Socialdemocratici”. Le “Tre frecce” della socialdemocrazia colpiscono i nemici della democrazia: la reazione monarchica, il nazismo e il comunismo. Manifesto della SPD per le elezioni politiche del 1932 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ALCIDE MALAGUGINI

Alcide Malagugini nacque a Rovigo il 15 ottobre 1887 da Vincenzo, insegnante elementare e poi mastro di posta, e da Adele Salvi. Perduto il padre quando aveva 14 anni, per proseguire gli studi Malagugini dovette trovarsi un impiego come copista presso un’agenzia di assicurazioni. Frequentò il liceo-ginnasio Celio di Rovigo, dove ebbe occasione di incontrare un altro studente destinato ad avere un posto nella storia del socialismo italiano, Giacomo Matteotti. Nel 1907 aderì al Partito socialista italiano, si impegnò nel movimento contadino polesano e collaborò al settimanale La Lotta. L’11 ottobre di quell’anno fu arrestato con l’accusa di aver violato la “libertà di lavoro” e oltraggiato le pubbliche autorità, ma fu prosciolto poco dopo. Nel 1908, grazie a una borsa di studio, Malagugini s’iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Pavia, dove si laureò dedicandosi poi all’insegnamento. Giunse nella città lombarda accompagnato dalla fama di dirigente capace e stimato, tanto che i socialisti pavesi lo nominarono, già nel 1908, segretario della sezione del PSI e della Camera del lavoro. Alla testa dei socialisti di Pavia rimase fino al 1912, mentre la sua esperienza sindacale, pur esauritasi nell’arco di soli due anni, fu caratterizzata da ottimi risultati. La nomina di Malagugini pose fine a un periodo di precarietà della Camera del lavoro, nel quale si erano succeduti ben sei segretari in poco più di due anni. Seppe rilanciarla sia in termini organizzativi (tra il 1908 e il 1910 la Camera del lavoro raggiunse il più alto numero di iscritti) sia sul piano dell’iniziativa politica. Ridotta l’attività puramente rivendicativa, svolta in prevalenza dalle leghe e dalle federazioni di mestiere, la Camera del lavoro venne “affermando sempre più il suo nuovo ruolo di organo di autogoverno dei lavoratori e di istituzione locale interprete delle esigenze complessive del proletariato pavese“. Nel 1913 entrò nel Consiglio provinciale di Pavia, dove sedette fino al 1922. Per quanto fosse stato riformato nel 1907, nel corso del primo conflitto mondiale fu richiamato e arruolato, con il grado di tenente, nel genio zappatori, meritandosi una croce di guerra e una medaglia d’argento al valor militare. Nel dopoguerra Malagugini tornò a coprire, dal 1919 al 1922, la carica di segretario della sezione socialista di Pavia, che si riconosceva nella linea della maggioranza massimalista del partito, nonostante il radicato riformismo dei maggiori esponenti locali come Luigi Montemartini, Emilio Canevari, Antonio De Giovanni. Le polemiche interne furono sopite in occasione della competizione elettorale amministrativa del 31 ottobre – 7 novembre 1920, consentendo al PSI di raccogliere un vistoso successo, in virtù del quale il Malagugini divenne sindaco di Pavia. Oltre al capoluogo i socialisti pavesi conquistarono circa due terzi dei Comuni della zona (nella sola Lomellina 46 su 50) e l’amministrazione provinciale. La presenza sempre più estesa e radicata del movimento socialista pavese fu avvertita come una minaccia dagli agrari, che, in difesa dei propri interessi, armarono le squadre fasciste. Tra il 1921 e il 1922 la provincia di Pavia fu tra le più colpite dalla violenza delle camicie nere, che in una prima fase furono schierate a protezione dei “crumiri” durante gli scioperi bracciantili e poi iniziarono gli assalti e le devastazioni contro le Case del popolo, le sedi delle leghe e delle cooperative, e le aggressioni anche mortali contro gli oppositori politici. L’ultima fase dell’offensiva fascista fu rivolta contro le amministrazioni democratiche. Il giorno della marcia su Roma, il 28 ottobre 1922, una squadra fascista si presentò nell’ufficio di Malagugini nella sede municipale di palazzo Malabarba, intimandogli di abbandonare la carica. Il giorno successivo, dopo aver convocato il Consiglio comunale, indirizzò una lettera al prefetto di Pavia per comunicargli le dimissioni proprie, degli assessori e dei consiglieri di maggioranza per l’”impossibilità di svolgere qualsiasi efficace opera amministrativa sotto il nuovo regime che si è di fatto instaurato nel Paese“. Trasferitosi a Milano, riprese l’insegnamento, presso il ginnasio-liceo Alessandro Manzoni, e partecipò al vivace dibattito interno al Partito socialista, collocandosi sempre sulle tradizionali posizioni del massimalismo intransigente, dalle quali non si era discostato neanche dopo la scissione comunista del 1921 e il successivo abbandono della frazione terzinternazionalista. Candidato senza successo nelle elezioni del 6 aprile 1924 nel collegio di Padova-Rovigo, confermò la propria avversione a ogni collaborazione con le forze della borghesia, e prese le distanze dalla secessione parlamentare dell’Aventino. Il 26 ottobre 1926 fu esonerato dall’insegnamento per la sua incompatibilità con le generali direttive politiche del regime. Sollecitato dal ministro della Pubblica Istruzione, Fedele, a difendersi dall’accusa di “sovversivismo“, Malagugini aveva infatti ribadito la propria fede socialista e l’avversione al fascismo. Sottoposto alla vigilanza di polizia, per guadagnarsi da vivere andò a insegnare presso alcune scuole private di Milano. Mantenne i contatti con alcuni suoi compagni e mise a disposizione la sua casa di montagna, a Courmayeur, come base di transito per l’espatrio di antifascisti. Dopo l’8 settembre 1943 si impegnò nella lotta clandestina e per sfuggire alle ricerche dei militi fascisti della “Muti” e dei nazisti dovette rifugiarsi nel Varesotto. Dopo la Liberazione, tornò per qualche mese a ricoprire la carica di segretario del PSI di Pavia, ma nell’ottobre 1945 fu nominato segretario dell’Unione comunale socialista di Milano e poi anche della federazione provinciale del partito. Come figura di primo piano del socialismo lombardo, fu designato a far parte della Consulta nazionale, in seno alla quale diede un contributo alla stesura del progetto di legge elettorale per l’Assemblea costituente. Nelle elezioni del 2 giugno 1946 risultò eletto per il IV collegio di Milano e nello stesso anno fu eletto anche al Consiglio comunale milanese. Reintegrato nell’insegnamento nel 1945, nel dopoguerra fu preside del liceo Manzoni di Milano. Nel 1948 fu eletto alla Camera per la circoscrizione Milano-Pavia e fu riconfermato nella stessa circoscrizione nelle elezioni del 1953, 1958 e 1963. Fece sempre parte della commissione Istruzione e Belle Arti, della quale fu anche vicepresidente nel corso della II legislatura repubblicana. Nel 1960 fu, insieme con Tristano Codignola e altri, tra i firmatari di una proposta di legge per la sistemazione a ruolo degli insegnanti. Con la sua grande …

“TORINO ’17. CRONACA DI UNA RIVOLTA”, di GIANCARLO CARCANO – Nuova edizione

A cura di Roberto Bamberga (Edizioni del Capricorno, nov 2017) di Maria G. Vitali-Volant Nell’agosto 1917 la Torino operaia dei quartieri popolari si ribello’ contro la guerra e la mancanza di pane, scontrandosi con le forze dell’ordine e costruendo barricate nelle strade: cinque giorni di rivolta spontanea, alimentati dal mito della rivoluzione russa e soffocati dalle mitragliatrici dell’esercito, nell’anno più duro della Grande Guerra. Cinque giorni che sconvolsero Torino, in cui esplose la reazione di una popolazione stanca, affamata e impoverita, che la polizia mise a tacere con una repressione spietata. A cent’anni dai fatti, torna in una nuova edizione questo libro di riferimento «Cronaca di una rivolta. I moti torinesi del ’17» in una nuova veste ampliata e rivista nell’apparato iconografico e storiografico. Ce ne parla Maria Vitali-Volant. ***** Nel 2017 abbiamo assistito a grandi commemorazioni per il centenario della Rivoluzione d’Ottobre in Russia. La prima rivoluzione che è venuta dal basso, una rivoluzione operaia, un miracolo che la storia ancora studia e approfondisce: luci e ombre. Parafrasando il celebre libro di John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, cronaca di un giornalista americano brillante e intelligente, redatta sulla nascente Rivoluzione d’Ottobre e sulla sua epopea, anche Torino ebbe alcuni giorni che la sconvolsero e nello stesso tempo la resero nota in Italia e all’estero. Nell’agosto del 1917 la popolazione operaia di Torino scese in piazza per protestare contro la penuria di pane e di altri generi alimentari ma anche contro la guerra. Due motivi che continuano a spingere intere popolazioni a scendere in piazza ancora oggi: Congo, Americhe, Medio Oriente, Iran… Piazze gremite di uomini e donne in rivolta, a seguito dei fallimenti della politica, delle classi dirigenti impreparate, dell’avidità e della cecità economica dei capitalisti. Da cui povertà e manipolazioni, sofferenze e morte, solitudini, disastri ecologici e spostamenti di popoli. L’Agora greca ancora conserva il suo ruolo di luogo sacro, dedicato alla democrazia. Uno spazio aperto che si carica delle energie popolari che reclamano giustizia. Anche in Italia e nel resto d’Europa tanti lavoratori stanno scendendo in piazza in questo momento per difendere il diritto al lavoro, alla dignità. Sappiamo che dopo il 2007, anno della crisi, la condizione della classe lavoratrice si è aggravata e la povertà sfiora anche da noi cifre da capogiro: secondo le ultime statistiche ISTAT siamo sui 5 milioni. Anche negli altri paesi europei la situazione non è florida per i lavoratori e cosi’ anche per la classe media. Ma forse, per capire, per esplorare la Storia del movimento operaio italiano e esaminare criticamente la situazione attuale, vale la pena tornare al 1917 a Torino: questa città che è sempre stata il teatro di lotte, di manifestazioni e di rivolte per i diritti umani. Tutto il secolo che ci precede ha visto le piazze di Torino riempirsi di lavoratori, studenti, cittadini della società civile decisi a rivendicare condizioni di vita più umane e diritti. A volte pagando col sangue le loro rivendicazioni. A distanza di molti decenni, nel 1977, un giornalista torinese: Giancarlo Carcano redige “Cronaca di una rivolta. I moti torinesi del ’17”, ancora oggi un elemento valido per comprendere quello che successe e le sue derivazioni nel tempo. Un testo che attinge ad un’interessante modalità narrativa, con un taglio di reportage e cronaca e di racconto ispirato al ritmo narrativo del citato capolavoro di Reed. Un impianto narrativo che ha retto nel tempo ma che oggi necessita di un rafforzamento delle fonti e del materiale iconografico, già presente nel primo libro ma scarsamente messo in giusto valore. Il volume, quindi, viene ripubblicato oggi ampliato e rivisto nel suo apparato storiografico tanto da poter ancora servire ai ricercatori, agli studiosi del periodo e al grande pubblico degli Italiani che “vogliono capire” . Un’analisi di cui ancora abbiamo bisogno, dettagliata e ricchissima di spunti utili all’oggi anche dal punto di vista politico e sociale. Il Novecento è carico di storie dimenticate, sospese, rimosse, altamente enfatizzate o ideologicizzate per sottovalutarne la portata. Il senso e il contenuto di questo libro vogliono evocare obiettivamente una di queste storie, emblematica, e il romanzo nazionale che avrebbe potuto scaturirne – citando lo scrittore Maurizio Maggiani che da anni si occupa di questo. Un incipit, una narrazione collettiva che stava nascendo in Italia all’inizio del secolo scorso nelle classi sociali e nelle istituzioni democratiche prima delle due guerre, della dittatura fascista e della fine delle speranze nel dialogo e nella crescita culturale. In questo nostro paese che ancora oggi fatica a vedersi come una comunità in crescita solidale capace di raccontarsi “insieme”. Un secolo, il Novecento, che ha visto anche in Italia la presenza delle masse entrare sulla scena; spinte da ideali, ideologie contraddittorie, dai desideri di dignità e di riscatto. Di quei cinque giorni dell’agosto a Torino non ci resta che qualche immagine sfocata, seppia, elegante e misteriosa. Chi ha scritto di quei giorni ha utilizzato di volta in volta definizioni diverse: moti, rivolta, sciopero…ma fu la reale mancanza del pane, talvolta anche enfatizzata, l’elemento scatenante degli assalti ai forni, alle panetterie, alle pasticcerie del centro di Torino e della periferia operaia. Questo, insieme ad una forte opposizione, più o meno consapevole, alla guerra. L’appello di Papa Benedetto XV contro “L’inutile strage”, gli echi della Rivoluzione d’Ottobre che pervengono nel nostro paese anche attraverso la voce dei delegati dei soviet giunti in treno a Torino in agosto, gli ammutinamenti e gli episodi di diserzione al fronte, insieme alle sempre più dure condizioni di lavoro in fabbrica, fanno da sfondo al progressivo moto di rivolta che coinvolge ampi strati della popolazione: dagli operai alle donne e ai giovani, che furono i veri protagonisti e i martiri di queste giornate. Il 21 agosto a Torino scoppiano alcuni “torbidi di donne” leggiamo sul settimanale dell’Unione Operaia Cattolica “La voce dell’operaio” : “Si deve sapere che da parecchio tempo, le massaie dovevano alzarsi alle 5 per arrivare in tempo a comperare il pane: dopo le 8, erano rare le panetterie le quali avessero ancora un soldo di pane.” …

IL RUOLO DI PIETRO NENNI

La vita di Nenni, nei suoi aspetti soprattutto pubblici (e vita pubblica è per antonomasia quella dei politici, ma lo è anche perché ben poco spazio resta per quella privata), ben poco concede alla monotonia, tant’essa è fitta di eventi, di colpi di scena, di svolte repentine, di apparenti e reali contraddizioni, da far pensare, alle volte, che quest’uomo nutrisse uno spirito del paradosso ben poco usuale nel mondo della politica. A ripercorrerla, la vita di Nenni appare come una autentica “boite à surprise“. Da repubblicano solidarista a socialista classista; da interventista a internazionalista, da antirevisionista a revisionista; da frontista ad autonomista; da anticlericale e laico ad assertore e tessitore dell’incontro tra socialisti e cattolici. Un capogiro di posizioni ideali e politiche sovente antitetiche, mai assunte con banalità o per motivazioni opportunistiche (che anzi Nenni pagò sempre un prezzo altissimo per le sue scelte), e sempre sorrette, al fondo, da una linea di coerenza e di sincerità. Parafrasando la definizione che Isaac Babel volle dare di Lenin, si potrebbe dire che la coerenza di Nenni fu come “una linea retta tracciata con una spirale“. Mentre la linea di Lenin era ossessivamente proiettata verso l’obiettivo della Rivoluzione, quella di Nenni era più umanamente rivolta a rappresentare e a difendere quelli che egli riteneva, per sensazione o per analisi, gli interessi popolari, i sentimenti legittimi degli uomini e delle classi più deboli. E la frase con cui Tamburrano conclude il suo libro, rievocando la morte di Nenni, “I lavoratori quel giorno hanno pensato e detto, come tu speravi: è morto uno che non ci ha abbandonato mai“, non è affatto un’affermazione retorica, come potrebbe apparire a prima vista, ma risponde in modo calzante all’identità politica e umana di questo leader del socialismo italiano. È in nome di questa fedeltà che Nenni trovò – come ben appare sfogliando il bel libro di Tamburrano – la voglia, il coraggio e anche il gusto delle sue scelte. Quando egli si convinceva della necessità di compiere un determinato passo, non aveva esitazioni, non si tirava mai indietro, costasse quel che doveva costare. Anche, come sovente accadde, a costo dell’impopolarità, di crudeli attacchi personali (come quelli mossigli dai comunisti nell’emigrazione), o dell’accusa di incoerenza. Nella storia di Nenni traspare, a ben guardare, una sorta di “esistenzialismo” del personaggio politico autentico, che deve avere il coraggio di rispondere a se stesso, per verificare la propria coerenza, prima che agli altri. E proprio Nenni fa ricordare, nel senso che abbiamo detto, quello splendido saggio di Baudelaire, troppo spesso dimenticato, che s’intitola L’eroismo nella vita moderna. In questo saggio, il grande poeta francese sostiene che i veri eroi della vita moderna sono gli uomini politici quand’hanno da compiere scelte che possono condurli anche a rinnegare altre scelte, ma dalle quali non possono ritrarsi. E Nenni era in tal senso un “eroe politico” che non indietreggiava, che “si sporcava le mani“, scendendo in polemiche senza esclusione di colpi, quando lo riteneva necessario, o intessendo compromessi diplomatici, quando li considerava opportuni o indispensabili. Sfiorò persino, nella confusione del primo dopoguerra, spiega Tamburrano, il rapporto con il fascismo, come conseguenza della linea di interventismo democratico e di sinistra che aveva assunto nel 1914-15, ma entrò immediatamente in rotta con l’avventurismo mussoliniano e riuscì a smascherarne il carattere di sudditanza alla logica del capitale, specialmente agrario. Un dato che doveva restare costante in Nenni, e contrassegnarne tutta l’esperienza, fu l’importanza che egli intuì avere il socialismo nella storia d’Italia. Anche quand’era repubblicano, e anteponeva ad ogni altra la questione istituzionale, i socialisti furono sempre i suoi interlocutori principali. Fu senza dubbio tale intuizione a guidarlo quando decise di aderire al Partito socialista nel momento in cui questo (non lo si dimentichi) versava nella crisi tremenda che seguiva alla duplice scissione, e a guidarlo nell’azione di difesa contro il tentativo di obbligarne la fusione con il Partito comunista secondo gli ordini di Mosca. Liquidazione sotto costo fu il titolo dell’editoriale con cui dall’”Avanti!” lanciò il rifiuto della fusione, apprestandosi ad assumere quella direzione del PSI che, salvo per brevi tratti, doveva mantenere per oltre quarant’anni. Siamo nei primi mesi del 1923. Tamburrano scrive: “Il 15 aprile si riunisce a Milano il Congresso del PSI per decidere in ordine alla fusione. Ma la decisione è scontata: Nenni ha vinto la sua battaglia. L’autonomia socialista è salva sulle macerie del socialismo italiano; gli iscritti sono poco più di 10.000 e si prepara una nuova scissione“. Serrati e i fusionisti vengono espulsi, ma il PSI è un partito di massimalisti, con i quali Nenni non va d’accordo se non sulla comune difesa dell’autonomia. Questo è un punto nevralgico della storia nenniana. Perché è in questa fase che Nenni tende a definire una sua visione del socialismo diversa da quella del massimalismo, ma anche diversa da quella riformista. Egli pensa, e opera di conseguenza, al superamento tanto del massimalismo come del riformismo. C’è in lui una preoccupazione tattica: volendo riunificare (come riuscirà a fare nell’esilio) i due tronconi in cui si è suddiviso il socialismo italiano, pensa che l’unità socialista non può attuarsi con una prevalenza di una delle due ali sull’altra. Ma la sua non è solo una preoccupazione tattica. Egli in realtà è convinto che tanto la linea massimalistica che quella riformista siano insufficienti alla soluzione dei nuovi problemi posti dalla vittoria del fascismo, e che anzi abbiano rappresentato due modi antitetici, ma altrettanto fallimentari, con cui il socialismo italiano ha affrontato e perduto la battaglia contro la reazione politica che ha condotto al fascismo. Prende corpo in tal modo quell’impostazione che doveva caratterizzare per lungo tempo il pensiero nenniano: la ricerca di una sintesi tra massimalismo e riformismo, una sintesi piuttosto oscura e indefinita. Come tale essa era destinata a creare, nel prosieguo, non poche difficoltà allo stesso Nenni, e, con lui, al Partito socialista. In che modo sarebbe dovuta compiersi questa sintesi, questo superamento dell’antitesi che aveva lacerato e condotto alla scissione il socialismo? Tamburrano ci offre alcuni elementi interessanti a questo proposito. Egli …

LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA DEL 1849

PRINCIPII FONDAMENTALI I. La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato Romano è costituito in repubblica democratica. II. Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta. III. La Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini. IV. La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana. V. I Municipii hanno tutti eguali diritti: la loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato. VI. La piú equa distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia coll’interesse politico dello Stato è la norma del riparto territoriale della Repubblica. VII. Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici. VIII. Il Capo della Chiesa Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale. TITOLO I         DEI DIRITTI E DEI DOVERI DEI CITTADINI ART. 1. – Sono cittadini della Repubblica: Gli originarii della Repubblica; Coloro che hanno acquistata la cittadinanza per effetto delle leggi precedenti; Gli altri Italiani col domicilio di sei mesi; Gli stranieri col domicilio di dieci anni; I naturalizzati con decreto del potere legislativo. ART. 2. – Si perde la cittadinanza: Per naturalizzazione, o per dimora in paese straniero con animo di non piú tornare; Per l’abbandono della patria in caso di guerra, o quando è dichiarata in pericolo; Per accettazione di titoli conferiti dallo straniero; Per accettazione di gradi e cariche, e per servizio militare presso lo straniero, senza autorizzazione del governo della Repubblica; l’autorizzazione è sempre presunta quando si combatte per la libertà d’un popolo; Per condanna giudiziale. ART. 3. – Le persone e le proprietà sono inviolabili. ART. 4. – Nessuno può essere arrestato che in flagrante delitto, o per mandato di giudice, né essere distolto dai suoi giudici naturali. Nessuna Corte o Commissione eccezionale può istituirsi sotto qualsiasi titolo o nome. Nessuno può essere carcerato per debiti. ART. 5. – Le pene di morte e di confisca sono proscritte. ART. 6. – Il domicilio è sacro: non è permesso penetrarvi che nei casi e modi determinati dalla legge. ART. 7. – La manifestazione del pensiero è libera; la legge ne punisce l’abuso senza alcuna censura preventiva. ART. 8. – L’insegnamento è libero. Le condizioni di moralità e capacità, per chi intende professarlo, sono determinate dalla legge. ART. 9. – Il segreto delle lettere è inviolabile. ART. 10. – Il diritto di petizione può esercitarsi individualmente e collettivamente. ART. 11. – L’associazione senz’armi e senza scopo di delitto, è libera. ART. 12. – Tutti i cittadini appartengono alla guardia nazionale nei modi e colle eccezioni fissate dalla legge. ART. 13. – Nessuno può essere astretto a perdere la proprietà delle cose, se non in causa pubblica, e previa giusta indennità. ART. 14. – La legge determina le spese della Repubblica, e il modo di contribuirvi. Nessuna tassa può essere imposta se non per legge, nè percetta per tempo maggiore di quello dalla legge determinato. TITOLO II         DELL’ORDINAMENTO POLITICO ART. 15. – Ogni potere viene dal popolo. Si esercita dall’Assemblea, dal Consolato, dall’Ordine giudiziario. TITOLO III         DELL’ASSEMBLEA ART. 16. – L’Assemblea è costituita da Rappresentanti del popolo. ART. 17. – Ogni cittadino che gode i diritti civili e politici a 21 anno è elettore, a 25 è eleggibile. ART. 18. – Non può essere rappresentante del popolo un pubblico funzionario nominato dai consoli o dai ministri. ART. 19. – Il numero dei rappresentanti è determinato in proporzione di uno ogni ventimila abitanti. ART. 20. – I Comizi generali si radunano ogni tre anni nel 21 aprile. Il popolo vi elegge i suoi rappresentanti con voto universale, diretto e pubblico. ART. 21. – L’Assemblea si riunisce il 15 maggio successivamente all’elezione. Si rinnova ogni tre anni. ART. 22. – L’Assemblea si riunisce in Roma, ove non determini altrimenti, e dispone della forza armata di cui crederà aver bisogno. ART. 23. – L’Assemblea è indissolubile e permanente, salvo il diritto di aggiornarsi per quel tempo che crederà. Nell’intervallo può essere convocata ad urgenza sull’invito del presidente co’ segretari, di trenta membri, o del Consolato. ART. 24. – Non è legale se non riunisce la metà, piú uno dei suoi rappresentanti. Il numero qualunque de’ presenti decreta i provvedimenti per richiamare gli assenti. ART. 25. – Le sedute dell’Assemblea sono pubbliche. Può costituirsi in comitato segreto. ART. 26. – I rappresentanti del popolo sono inviolabili per le opinioni emesse nell’Assemblea, restando inerdetta qualunque inquisizione. ART. 27. – Ogni arresto o inquisizione contro un rappresentante è vietato senza permesso dell’Assemblea, salvo il caso di delitto flagrante. Nel caso di arresto in flagranza di delitto, l’Assemblea che ne sarà immediatamente informata, determina la continuazione o cessazione del processo. Questa disposizione si applica al caso in cui un cittadino carcerato fosse eletto rappresentante. ART. 28. – Ciascun rappresentante del popolo riceve un indennizzo cui non può rinunziare. ART. 29. – L’Assemblea ha il potere legislativo: decide della pace, della guerra, e dei trattati. ART. 30. – La proposta delle leggi appartiene ai rappresentanti e al Consolato. ART. 31. – Nessuna proposta ha forza di legge, se non dopo adottata con due deliberazioni prese all’intervallo non minore di otto giorni, salvo all’Assemblea di abbreviarlo in caso d’urgenza. ART. 32. – Le leggi adottate dall’Assemblea vengono senza ritardo promulgate dal Consolato in nome di Dio e del popolo. Se il Consolato indugia, il presidente dell’Assemblea fa la promulgazione. TITOLO IV         DEL CONSOLATO E DEL MINISTERO ART. 33. – Tre sono i consoli. Vengono nominati dall’Assemblea a maggioranza di due terzi di suffragi. Debbono essere cittadini della repubblica, e dell’età di 30 anni compiti. ART. 34. – L’ufficio dei consoli dura tre anni. Ogni anno uno dei consoli esce d’ufficio. Le due prime volte decide la sorte fra i tre primi eletti. Niun console può essere rieletto se non dopo trascorsi tre anni dacché uscí di carica. ART. 35. – …

LE RAGIONI DELLA SCONFITTA DELL’OPPOSIZIONE E DELLA VITTORIA DI MUSSOLINI

di Carlo Rosselli Fino al giugno del 1924 i partiti di opposizione erano vissuti su una situazione falsa, iperbolica, come certi falliti che continuano a godere di credito e a condurre vita lussuosa fino a quando l’iniziativa di uno qualunque dei creditori determina il crollo totale. L’opposizione era stata battuta nelle strade, ma a causa del compromesso iniziale cui Mussolini aveva dovuto piegarsi per salire al potere, aveva conservato a “Palazzo” una situazione di privilegio. La Camera, eletta nel 1921, era in maggioranza antifascista; la stampa, idem; in tutti i corpi dello Stato il fascismo era appena tollerato. Questa situazione maggioritaria doveva riuscire fatale all’opposizione, mentre avvantaggiava singolarmente Mussolini che proprio da questa debolezza formale ricavava il massimo di dinamismo. Mussolini non avendo i valori legali, apparenti, badava ai sostanziali e soprattutto alla forza, alla giovinezza, all’iniziativa, all’attacco; le opposizioni, avendo conservato per concessione del dittatore (“avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia…“) le posizioni legali, si battevano sul terreno formale e morale, contestando la validità giuridica dei decreti mussoliniani, e rivendicando la rappresentanza di un’Italia che viveva ormai solo nelle memorie. Scambiando i reali rapporti di forza sociale con i vecchi risultati elettorali, vedevano nel fascismo un semplice colpo di mano contro il suffragio universale, un’avventura di stile sudamericano destinata a concludersi fatalmente nel giro di qualche mese: e non si preoccupavano di rovesciare il rapporto di forze che aveva permesso al fascismo di spazzare il movimento operaio e non si preparavano in nessun modo a resistere e a contrattaccare nelle piazze. E come avrebbero potuto farlo? Per condurre la lotta con stile offensivo nel paese, avrebbero dovuto essere in posizione di minoranza e di illegalità: ora l’opposizione era la legalità, la vecchia legalità, mentre il governo era l’illegalità. Il governo, non l’opposizione, era rivoluzionario. Il governo era un gruppo deciso, senza scrupoli, che messosi con un colpo di mano al centro della vecchia legalità, la scomponeva a pezzo a pezzo. Quella legalità non era che un residuo sospeso ad un filo, al filo della continuità costituzionale che il sovrano aveva voluto che si rispettasse (violare, ma con le forme). L’opposizione si attaccò disperatamente a quel filo. Il giorno che il filo sarà tagliato, l’opposizione – quella opposizione – sarà liquidata. Essa sconterà così per anni il passivismo mostrato durante la marcia su Roma. Abbiamo preso molto in giro Mussolini perché, mentre i fascisti marciavano allegramente su Roma, se ne stava a Milano. Ma che cosa stavano a fare i deputati della sinistra a Roma? Tra il girare nei corridoi attendendo il decreto di stato d’assedio e l’andare nel paese a organizzare la resistenza, era meglio andare nel paese. E a Roma, oltre Montecitorio, c’era San Lorenzo, dove il popolo si batteva; ma nessuno o quasi se ne ricordò in quei giorni. Come nessuno sentì che l’opporre in parlamento superbi squarci oratori alle parole sprezzanti del “duce“, era fare il suo giuoco. Le elezioni dell’aprile 1924 avevano in parte corretto questo stato di cose. L’opposizione diventava per la prima volta opposizione, minoranza; come minoranza, avrebbe potuto darsi una psicologia virile, d’attacco. Ma aveva troppi ex nelle sue file, era troppo appesantita da uomini che avevano gustato le gioie del potere e della popolarità, che si erano fatti in tutt’altra atmosfera. Gli oratori più celebri, usi al successo in un parlamento in cui si trovavano come in famiglia, non resistevano all’ambiente nuovo e ostile creato dai fascisti. Erano depressi, stanchi, preoccupati; non avevano la psicologia dell’attacco ma della ritirata. Tornando ai collegi dopo dure battaglie parlamentari, si sorprendevano di trovare i giovani (ahimè, i rari giovani) in stato di eccitazione. Matteotti era un isolato. Quando terminò la sua improvvisata requisitoria alla Camera, un suo compagno (Baldesi) – morto poche settimane or sono in dignitoso silenzio – lo interpellò bruscamente: “Sicché tu ci vuoi tutti morti?“. Quando la crisi scoppiò, la depressione era al colmo. La decisione di ritirarsi dai lavori della Camera non fu un atto volontario diretto a portare battaglia nel paese, ma un atto necessario di chi, non potendone più, si ritira. Ma poiché la retorica vuole la sua parte, così l’Aventino fu presentato alle masse come la decisione energica di gente che passa all’attacco. Di questo equivoco morrà l’Aventino. L’appello al re fu un altro riflesso di questo stato depressivo. Solo lui può far traboccare le forze materiali dalla nostra parte, pensavano i deputati aventiniani. Quanto alle masse popolari, che si mostravano nei primi giorni in stato di effervescenza, guai a chi avesse tentato metterle in movimento! Solo i comunisti e le minoranze giovani chiesero lo sciopero generale. Ma le opposizioni non vollero, per non spaventare la borghesia e il sovrano. Fu questo il miracolismo dell’Aventino. Credere di poter vincere con le armi legali l’avversario che ha già vinto sul terreno della forza. Pregustare le gioie del trionfo mentre si riceve la botta più dura. Evitare tutti i problemi (Gobetti diceva: “l’Aventino ha un mito, il mito della cautela“) sperando che la borghesia dimentichi il ’19. Attendere che il re e i generali tolgano le castagne dal fuoco col solo intento di consegnarle, a sei mesi dalla data, a lor signori dell’opposizione non appena scottino meno. Supporre che i valori morali possano da soli rovesciare i “rapporti obiettivi di classe“. Venerdì, 8 giugno 1934 (Brani tratto da un lungo articolo pubblicato su Giustizia e Libertà da Carlo Rosselli tre anni esatti prima del suo assassinio, avvenuto a Bagnoles-de-l’Orne per mano fascista il 9 giugno 1937) SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it